Posts written by schopena

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    Kritche auguroni!!!!!!!!
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    si reck hai ragione, io sono arrivata sul tramonto dei grandi ricordo gli ultimi post di miroslav e condorfly

    Per spiritolibero: ho pure ricontrollato perchè mi pareva strano che non t'avessi risposto, ho la prova di un ultimo scambio di battute su fb il 2 settembre 2016!!!!

    Qua mi fate andare in galera!!!
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    terza generazione?
    ma le tre generazioni come vengono computate?
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    hai ragione ahahahah
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    ti credo! e chi non ci tornerebbe a Bologna?!
    ora dove lavori (se si può dire)?
    io sono ancora in Sicily: lontana, lontana, lontana!
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    sì anche io mi ricordo un lupo!!

    reck ma ora quindi vivi a Bologna?
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    ciao silu, mi ricordo di te!
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    Ci provo, mi mette un po' di amarezza guardare indietro :((

    1) ho superato il concorso in magistratura, e so di essere stata fortunatissima: il lavoro è bellissimo, cerco sempre di dare il mio massimo, di riorganizzare qualcosa se c'è da riorganizzare, non mi tiro mai indietro di fronte ai progetti collaterali che servono al mio ufficio anche per quando non ci sarò più io (spero presto) in quell'ufficio, ma non è più IL concorso, tante cose non sono e/o non erano e/o non sono andate come me le aspettavo
    2) anche io quindi ho iniziato a lavorare e questo, invece, posso dirlo, è bellissimissimissimo
    3) sono diventata una cuoca provetta: medito di andare a Masterchef
    4) ho iniziato la piscina: vado tre volte a settimana e, nonostante la vicinanza agli Anta, sto in formissima!
    5) a un passo dal matrimonio, io e il mio fidanzato storico ci siamo lasciati
    6) ho incontrato la persona per me giusta
    7) vivo a 900 km da casa e giro l'Italia come una trottola
    8) il mio papà da qualche anno è completamente allettato, lo alziamo col sollevatore, non ha nessuno stimolo cognitivo, aspetto ogni giorno con tristezza e con speranza il giorno in cui sarà libero :)
    9) nel tragitto, ho perso l'Amicizia di due persone importanti: una è proprio Mt
    10) ho visto New York, in un'altra vita medito di andarci a vivere

    comunque gisk è più affascinante maturo! :P :P :P :P :P :P :P :P
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    che forza!!!
    per me gisk ora ha fascino!
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    Ragazzi del corso online....ho appena letto la traccia estratta e vi ho pensato. Negli schemi che vi avevo postato in quella sulla proprieta' c' era proprio una parte sulla proprieta' temporanea. Spero che, almeno per rompere il ghiaccio da "pagina vuota" l' aveste letto. Ma siete bravi! So che siete bravi! Forzaaaaa
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    Tema migliore sulla traccia: "Premessi adeguati cenni sui regimi della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, tratti il candidato della responsabilità dello stato per violazione del diritto comunitario"


    Ho scelto due temi, entrambi hanno preso 13 e 1/2. Il primo è più ricco di contenuti, ma organizzato meno bene, l'autore rischia anche con qualche digressione di perdere un po' di vista la traccia; l'altro meno ricco di contenuti, ma organizzato molto meglio.


    Tema numero 1

    Ai sensi dell’art. 1218 c.c “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante a causa a lui non imputabile”.
    Sebbene tale norma venga comunemente intesa come il fondamento normativo della responsabilità contrattuale, in realtà il disposto normativo de quo, non si riferisce al solo inadempimento contrattuale ma alla violazione di una qualsiasi precedente obbligazione intercorsa tra debitore e creditore.
    Da una interpretazione letterale del disposto normativo sembrerebbe che la norma voglia statuire una sorta di responsabilità oggettiva del debitore alla quale lo stesso si può liberare solo dimostrando l’impossibilità materiale della sua prestazione, derivante da caso fortuito o forza maggiore. In realtà l’art 1218 c.c deve essere interpretato sistematicamente in combinato disposto con l’obbligo di diligenza previsto a carico del debitore dall’art 1176 c.c., per il soddisfacimento dell’interesse del creditore. La diligenza, in tale prospettiva, deve considerarsi quindi come parametro per verificare l’avvenuto adempimento in quanto il debitore deve ritenersi adempiente nella misura in cui abbia ottemperato all’obbligo di diligenza di cui all’art 1176, 1 comma, c.c.
    La diligenza può però essere anche oggetto della prestazione dovuta e non solo parametro di valutazione in ordine all’adempimento del debitore.
    A tale riguardo la dottrina distingue tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi.
    Nelle prime il debitore garantisce un dato risultato e quindi la diligenza costituisce il parametro sulla base del quale si deve verificare se il debitore debba essere considerato inadempiente nel caso in cui il creditore non consegua tale risultato. Nelle seconde invece la diligenza costituisce l’oggetto stesso della prestazione dovuta dal creditore. Cosi nel caso della professione medica ove il medico non si obbliga a guarire il paziente ma a prestare la dovuta diligenza nelle cure dello stesso.
    In giurisprudenza, sulla base di tale distinzione, si è diversamente imputato l’onere della prova. Mentre per le obbligazioni di risultato sarebbe in capo al creditore l’onere di dimostrare che l’inadempimento non è dovuto a sua colpa. Nel caso delle obbligazioni di mezzi sarebbe invece a carico del debitore l’onere di dimostrare che l’inadempimento è dovuto all’inosservanza dell’obbligo di diligenza. La giurisprudenza ha fatto applicazione di tale distinzione in materia di colpa medica distinguendo tra interventi “routinari”, ciclici e di non particolare difficoltà ( obbligazione di risultato), per i quali spettava al medico dimostrare di avere adempiuto diligentemente, e interventi complessi ( obbligazione di mezzi) , per i quali invece spetta al debitore dimostrare l’errore e la negligenza in cui è incorso il medico.
    Tale impostazione è stata poi abbandonata dalla giurisprudenza successiva che è ormai consolidata nel ritenere che in caso di responsabilità contrattuale, anche in caso di obbligazione di mezzi, il debitore si debba limitare ad indicare la fonte della precedente obbligazione ed allegare l’inadempimento, mentre spetti al creditore dimostrare che l’inadempimento non è dovuto a sua negligenza o imperizia. Tale orientamento si basa sulla considerazione che la distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato sia artificiale in quanto l’obbligazione di risultato comporta comunque l’adempimento dell’obbligo di diligenza e , in alcuni casi, il debitore si obbliga ad un risultato anche nell’ipotesi di obbligazione di mezzi. Si è poi fatta applicazione al “principio di vicinanza della prova” in virtù del quale l’onere della prova deve essere imputato a chi può facilmente sostenerlo. In sostanza è più semplice per il medico dimostrare che il danno non è stato causato al paziente da proprio errore o negligenza piuttosto che per il paziente dimostrare l’errore in cui sia incorso il medico.
    Il regime della responsabilità contrattuale è definito dagli artt. 1223 ss c.c.
    In particolare gli artt 1223 e 1227 disciplinano il nesso di causalità.
    L’art 1223 c.c richiede che il danno sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento e prevede la regola della integralità del risarcimento che deve comprendere sia il danno emergente che il lucro cessante. In virtù del disposto di cui all’art 1223 c.c si è in passato negato il risarcimento ai c.d danni riflessi che non fossero conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento. Così si negava il risarcimento del danno al padre per la malformazione del figlio dovuta ad errore medico dato che il danno da lui patito non poteva considerarsi conseguenza immediata dell’inadempimento del medico. Ormai è acquisita la considerazione che l’art 1223 c.c permetta il risarcimento non solo dei danni immediati e diretti ma anche di quelli mediati e diretti c.d danni da “rimbalzo” o “danni riflessi”.
    L’art 1227 c.c disciplina invece il concorso del fatto colposo del creditore prevedendo che il risarcimento sia diminuito nel caso in cui il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare l’inadempimento ( causalità materiale) mentre il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza ( causalità giuridica) .
    Gli artt 1225 c.c e 1226 c.c si riferiscono invece alla liquidazione del risarcimento.
    L’art. 1225 limita il risarcimento ai danni che sono prevedibili al momento dell’obbligazione in modo che il debitore non sia chiamato a rispondere dei danni che non poteva prevedere nel momento in cui si è obbligato. Parte della dottrina, nonostante il chiaro tenore letterale della norma, ha sostento che sia più corretto rapportare il tempo della prevedibilità del danno non al momento in cui il debitore si obbliga ma al momento in cui decide di essere inadempiente perché solo in tale momento il debitore assume la condotta illecita che lo obbliga al risarcimento.
    L’art 1226 c.c invece prevede la liquidazione equitativa del danno nell’ipotesi in cui non sia possibile determinare il suo preciso ammontare.
    Se l’art. 1218 c.c disciplina la responsabilità per l’inadempimento di una precedente obbligazione , l’art 2043ss c.c disciplina invece la nozione di responsabilità extracontrattuale per violazione del divieto di “neminem ledere”. Tra le due fattispecie sussiste una evidente diversità. Il primo caso si riferisce alla responsabilità per inadempimento di una precedente obbligazione. Il secondo al principio secondo cui chi, al d fuori di un precedente rapporto obbligatorio, comporti una danno a un terzo, debba risarcirlo..
    Sussistono delle importanti differenze tra il regime giuridico della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
    Nella responsabilità extracontrattuale l’imputazione dell’onere della prova è in capo al danneggiato al contrario della responsabilità contrattuale, per la quale, in forza di un orientamento della Cassazione risalente al 2001, il debitore deve solo allegare l’inadempimento, spetta invece al creditore dimostrare che l’inadempimento non è dovuto a sua colpa.
    Con riguardo all’elemento oggettivo della responsabilità nella extracontrattuale l’ingiustizia del danno da responsabilità extracontrattuale è oggetto di un giudizio comparativo tra il danno patito dal danneggiato ed il beneficio del danneggiante attraverso il quale il giudice, comunque alla luce dell’ordinamento, valuta quale dei due debba soccombere. Al contrario nella responsabilità contrattuale è ex se illecito il danno quale conseguenza dell’inadempimento del debitore.
    Altra importante differenza è poi data dall’elemento soggettivo della responsabilità in quanto in caso di responsabilità extracontrattuale il danneggiato deve dimostrare il dolo e la colpa del danneggiante che rilevano invece in caso di responsabilità contrattuale solo in via mediata quale parametro per valutare l’adempimento dell’obbligo di diligenza del debitore.
    In tema di prescrizione poi mentre per la responsabilità contrattuale è decennale, in caso di responsabilità extracontrattuale il termine è quinquennale.
    Tra le due forme di responsabilità sussistono però anche delle rilevanti affinità nel regime applicabile. L’art 2056 c.c prevede infatti l’applicazione anche in materia di responsabilità extracontrattuale degli artt 1223, 1226 e 1227 c.c. Non si applica invece l’art 1225 c.c che limita il risarcimento del danno ai danni prevedibili.
    Emerge quindi che la qualificazione di un illecito, come contrattuale o extracontrattuale, ha degli importanti effetti in termini di disciplina applicabile e di tutela del danneggiato.
    Non sempre però è chiaro se si tratti di responsabilità contrattuale o extracontrattuale. Basti pensare alla responsabilità della P.a per lesione dell’interesse legittimo. Sebbene l’orientamento maggioritario la qualifichi come responsabilità extracontrattuale è stata anche sostenuta la sua qualificazione come responsabilità da contatto sociale, responsabilità precontrattuale, e responsabilità “speciale” rispetto a quella contrattuale ed extracontrattuale, in forza delle sue particolarità sopratutto in merito all’ elemento soggettivo per cui la pubblica amministrazione deve dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile per escludere la sussistenza del dolo e della colpa in capo alla stessa.
    Occorre poi rilevare che la contrapposizione tra le due forme di responsabilità è poi posta in discussione da alcuni orientamenti dottrinali e giurisprudenziali.
    Prima di tutto è pacifico che un medesimo comportamento possa essere perseguibile sia a titolo di responsabilità contrattuale che extracontrattuale. Ok, qui si potevano spendere due parole sul concorso delle due responsbailità
    In giurisprudenza poi si riconosce la responsabilità da contatto sociale per cui l’insorgere di alcuni rapporti sociali, anche in mancanza di una precedente obbligazione tra le parti, instaura degli “obblighi di protezione” diversi dagli “obblighi di prestazione”che comportano, se inadempiuti, la responsabilità contrattuale. La giurisprudenza ha fatto applicazione della responsabilità da contatto sociale in varie ipotesi in genere relative a c.d “contratti protettivi” che comportano degli obblighi di protezione nei confronti di terzi, in specie in campo medico. Si pensi all’obbligo di protezione sul figlio che incombe sul medico che prende in cura la gestante. Ma anche nel caso di “autolesioni” dell’alunno per stabilire la responsabilità dell’insegnate non attribuibile ai sensi dell’art 2048 c.c in quanto l’atto lesivo è rivolto nei confronti dello stesso danneggiante e non rispetto a terzi danneggiati. Ancora poi in caso di responsabilità della P.A per comportamenti scorretti a danno del privato nell’attività amministrativa.
    La previsione di obblighi di protezione distinti dagli obblighi di prestazione è il frutto di una nuova considerazione della clausola generale di buona fede volta non solo ad integrare il rapporto contrattuale, in modo di far sorgere obblighi non previsti espressamente nel contratto ma che soddisfano l’interesse del creditore , ma anche comportare la sussistenza di obblighi di protezione a prescindere della presenza di un rapporto obbligatorio tra le parti.
    La responsabilità da contatto sociale è criticata da quella dottrina che sottolinea come possa essere oggetto dell’obbligazione la sola prestazione ai sensi dell’art 1174 c.c e non inesistenti obblighi di protezione a cui poi non si può conferire la natura di obbligazioni in quanto non può darsi esecuzione nelle forme di legge.
    La responsabilità da contatto sociale interessa in questa sede come forma di contaminazione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale in quanto per suo tramite la giurisprudenza ha previsto una forma di responsabilità contrattuale anche in caso di soggetti non legati da una precedente obbligazione.
    A tale proposito occorre richiamare anche la riconosciuta possibilità di un risarcimento del danno non patrimoniale in materia contrattuale. Attenta al fuori traccia, ok digressioni, ma contenute 
    In passato la previsione dell’art. 2059 c.c in materia di responsabilità extracontrattuale aveva fatto ritenere che non fosse possibile il risarcimento del danno non patrimoniale con l’azione di responsabilità contrattuale. Per cui nell’ipotesi in cui l’inadempimento contrattuale comportasse anche dei danni non patrimoniali era onere del debitore proporre due separate azioni, contrattuale ed extracontrattuale ( per il risarcimento del danno non patrimoniale), con le relative limitazioni in materia di responsabilità extracontrattuale soprattutto in relazione al più breve termine di prescrizione e all’onere della prova. In giurisprudenza si và (va senza accento!!, salvo che lo usi per dire “vai”, ma allora è un apostrofo) ormai affermando il principio per cui il debitore può richiedere il risarcimento del danno con patrimoniale usufruendo quindi del più favorevole regime di responsabilità contrattuale qualora dall’inadempimento dell’obbligazione comporti un danno non patrimoniale. Pensiamo all’ipotesi del rapporto contrattuale medico-paziente. Orbene in tal modo si esonera il paziente di intraprendere due distinte azioni ne caso voglia richiedere il risarcimento per il danno non patrimoniale. Tale orientamento si basa sul fatto che ai sensi dell’art 1174 c.c l’interesse del creditore per il quale è funzionale l’obbligazione del debitore può essere anche “non patrimoniale”.
    La questione della qualificazione giuridica dell’illecito come contrattuale o extracontrattuale risulta preliminare ai fini della tutela del danneggiato.
    Un campo in cui si è posta tale questione concerne la responsabilità della p.a per la violazione del diritto comunitario.
    In estrema sintesi si deve rilevare che in un primo momento l’ordinamento nazionale non ha accordato alcuna preferenza alla normativa comunitaria tanto che la norma comunitaria poteva essere abrogata dalla norma statale successiva sulla base del criterio cronologico. Si è poi in un secondo momento affermata la possibilità per il giudice di sollevare questione di legittimità costituzionale in caso di contrasto tra la norma nazionale e comunitaria utilizzando le limitazioni alla sovranità nazionale previste dall’art 11 Cost , a dire il vero previste dalla partecipazione dell’Italia alle Nazioni unite. In caso di contrasto quindi il giudice doveva sollevare questione di legittimità costituzionale per verificare se la norma nazionale contrastante con quella comunitaria fosse per tale motivo in contrasto con l’art. 11 Cost.
    Alla fine ha però prevalso l’opzione monista secondo cui l’ordinamento comunitario e nazionale non sono due ordinamenti separati ma integrati e coordinati. Con riguardo ai caratteri del’ordinamento comunitario la dottrina ha utilizzato la contrapposizione tra ordinamento sovranazionale , quello comunitario, ed internazionale. Mentre infatti nell’ordinamento comunitario le norme hanno una efficacia pervasiva nell’ordinamento degli Stati membri, nell’ordinamento internazionale i soggetti sono solo gli stessi Stati e le norme non rilevano direttamente nei confronti dei privati. Si è così affermato il principio di primazia del diritto comunitario rispetto a quello nazionale salvo la sussistenza di due limiti a tale principio: la teoria dei controlimiti ed il limite del giudicato. La c.d teoria dei “contro limiti” costituisce una acquisizione propria della Corte costituzionale italiana, per cui il giudice costituzionale mantiene una riserva di giurisdizione in materia di diritti della persona di modo che i pronunciamenti della Corte non possono in tale materie essere travolti dalle Corti europee, la cui interpretazione dei diritti della persona è sottoposta al vaglio del giudice costituzionale italiano . Il limite del giudicato nazionale è dovuto al fatto chela giurisprudenza comunitaria ha ritenuto che il giudicato , anche se in contrasto con l’interpretazione data ad una norma comunitaria dalle Corti europee, non può essere dalla stessa travolto se non nei modi e nelle forme in cui è consentito nell’ordinamento nazionale in forza del superiore principio di certezza del diritto riconosciuto anch’esso a livello comunitario. Non vi è quindi un obbligo di agire in autotutela in merito ad un provvedimento ritenuto legittimo in via definitiva dal giudice nazionale che sia in contrasto con l’interpretazione di una norma comunitaria data dalle corti europee. Anche qui attenta al fuori traccia
    Il principio di primazia del diritto comunitario è espresso dalla disapplicazione del diritto nazionale in contrasto con il diritto comunitario e dalla efficacia verticale delle direttive self executing. L’istituto della disapplicazione obbliga il giudice nazionale a disapplicare nel caso posto alla sua attenzione la norma nazionale che sia in contrasto con quella comunitaria immediatamente applicabile intendendosi come tali non solo i regolamenti comunitari ma le c.d direttive self executing che prevedono quindi dei diritti chiari e precisi a prescindere che richiedano una attività di recepimento da parte dello stato nazionale. Al fine poi di dare piena attuazione al c.d “principio di utilità” per cui gli Stati membri sono tenuti ad assumere tutte le iniziative necessarie per dare attuazione all’ordinamento comunitario tale potere di disapplicazione è stato ritenuto doveroso anche in caso di disapplicazione in “malam partem” che ha quindi degli effetti negativi nei confronti del privato che abbia fatto affidamento su una norma nazionale favorevole. Così in caso di intese tra imprese conformi alla normativa nazionale ma contrarie alla disciplina comunitaria per la tutela della concorrenza per le quali il giudice comunitario ha comunque ritenuta doverosa la disapplicazione della norma nazionale della Autorità di concorrenza nazionale
    La giurisprudenza ha poi statuito la responsabilità dello Stato per mancata attuazione delle direttive self-executing prevedendo la possibilità del privato di richiedere il risarcimento del danno allo Stato inadempiente. Si tratta della c.d efficacia verticale delle direttive self-executing per cui le stesse, qualora prevedoano un diritto chiaro e preciso, possano essere fatte valere nei rapporti con tra il privato e lo Stato ma non nei rapporti tra i privati. La Corte di giustizia ha poi chiarito che spetta alla Stato nazionale determinare il procedimento per il dovuto risarcimento del danno nel rispetto del principio di equiparazione per cui non può essere riservata alle posizioni giuridiche comunitarie una tutela inferiori a quella delle corrispondenti posizioni giuridiche nazionale.
    L’efficacia solo orizzontale delle direttive self executing è stata spiegata dalla dottrina con la funzione sanzionatoria della responsabilità statale oltre che con l’ esigenza di assicurare il principio di certezza del diritto che sarebbe minacciato dalla possibilità di far valere nei rapporti tra i privati delle direttive comunitarie soggette a forme di pubblicità difficilmente raggiungibili dal comune cittadino, in genere costituita nella pubblicazione nel G.U.C.E,
    La giurisprudenza comunitaria ha poi chiarito poi che la responsabilità dello Stato sussiste non solo in caso di mancata attuazione della direttiva comunitaria ma anche in caso di suo inesatto recepimento da parte dello Stato. In merito si è posta la questione se basti la sola inesatta esecuzione della direttiva per dar luogo alla responsabilità statale o sia necessario dimostrare il dolo e la colpa della P.A. . E’ prevalso l’orientamento in virtù del quale in tali casi sussiste la responsabilità dello Stato qualora si tratti di “violazione significativa”. In sostanza quindi, applicando un concetto di colpa in senso oggettivo, determinata quindi dalla sola violazione di regole cautelari per negligenza o imperizia, a prescindere dalla sussistenza dell’elemento soggettivo. Colpa che potrà quindi ravvisarsi specialmente nel caso in cui il recepimento della direttiva sia vincolato non essendoci margini particolari di discrezionalità anche se la discrezionalità nelle modalità di recepimento non esclude di per se la “violazione significativa” ma costituisce un parametro in tal senso.
    Date le rimarcate differenze in tema di regime applicabile tra responsabilità contrattuale o extracontrattuale si è sviluppato un vivace dibattito in dottrina e in giurisprudenza in merito alla natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità dello Stato legislatore.
    Le posizioni sono sostanzialmente due.
    Secondo un primo orientamento non si potrebbe ravvisare una responsabilità extracontrattuale della P.a in quanto l’esercizio del potere legislativo sarebbe insindacabile in quanto valutazione di merito e la responsabilità dello Stato nazionale rileverebbe quindi solo nei rapporti tra Stati nell’ambito dell’ordinamento comunitario. Il comportamento dello Stato inadempiente sarebbe quindi illecito nel diritto comunitario ma non nell’ordinamento nazionale. Il risarcimento previsto a favore del privato in sede comunitaria sarebbe quindi una forma di indennizzo ex lege , possibile in forza della clausola aperta dell’art 1173 c.c in ordine alle fonti dell’obbligazione. Un responsabilità quindi contrattuale e non extracontrattuale. Corollari di tale impostazione, secondo quanto già rilevato in precedenza, sono quindi che il privato non dovrebbe dimostrare il dolo e la colpa dello Stato ma solo allegare il suo inadempimento. La prescrizione sarebbe poi decennale e non quinquennale.
    Un secondo orientamento invece sostiene la natura extracontrattuale della responsabilità dello Stato. In particolare tale orientamento rileva l’impossibilità di considerare la medesima condotta illecita solo per l’ordinamento comunitario e non per quello nazionale. L’integrazione tra i due ordinamenti e la primazia del diritto comunitario esclude tale eventualità per cui se l’inadempimento dello Stato legislatore è illecito per l’ordinamento comunitario deve parimenti ritenersi illecito per il diritto nazionale. Tanto più che a seguito della riforma del titolo V della Costituzione la legge cost n 3/ 2001 ha modificato l’art. 117 Cost. prevedendo espressamente l’obbligo del rispetto del legislatore nazione dei vincoli dell’ordinamento comunitario.
    I corollari di tale impostazione sono diametralmente opposti rispetto a quelli del primo orientamento. Diventa necessario dimostrare il dolo e la colpa della P.a e il termine di prescrizione è più breve perché quinquennale. Regime quindi meno favorevole al privato anche se i sostenitori di tale teoria rilevano come, in ottemperanza all’orientamento maggioritario in tema di responsabilità della P.a per lesione di interesse legittimo , il dolo e la colpa si possano presumere facendo ricorso alle presunzioni e la P.a possa escludere la sussistenza del’elemento soggettivo solo facendo ricorso all’errore scusabile.
    La giurisprudenza sembra aver preferito la prima tesi sostenendo la natura contrattuale della responsabilità anche al fine di garantire il termine di prescrizione più lungo di 10 anni. In sostanza si sostiene che si tratti di illecito permanente per cui il termine di prescrizione scatti solo quando, in applicazione dell’art 2934 c.c, il privato possa essere certo che la direttiva non sarà più applicata a suo favore. Solo in tal momento infatti si può addebitare allo stesso l’inerzia per non aver fatto valere il proprio diritto. In sostanza si tratta di dare applicazione al principio per cui, per ragioni di certezza del diritto, il termine di prescrizione scatti nel momento in cui si ha contezza della lesione subita e non ci si attivi per tutelarsi in via giurisdizionale.
    In una recente pronuncia la Cassazione ha poi analiticamente individuato il dies ad quo del termine di prescrizione differenziando le ipotesi di parziale adempimento oggettivo e soggettivo. in tema di obbligo di retribuzione dei medici specializzandi previsto da una direttiva comunitaria e attuato tardivamente e solo parzialmente dal legislatore italiano.
    La Corte distingue tra adempimento parziale oggettivo e soggettivo.
    In caso di parziale adempimento oggettivo, ad esempio di provvedimento con cui si riconosca meno di quanto previsto dalla direttiva, tale provvedimento rende edotto il beneficiario che lo Stato non riconoscerà mai quanto previsto dalla direttiva stessa per cui scatta il decorso della prescrizione. Diversa è invece l’ipotesi in cui lo Stato riconosca il diritto previsto dalla direttiva ad alcuni soggetti e non ad altri. Il parziale adempimento soggettivo non può far scattare il termine di prescrizione in quanto rimane la possibilità per lo Stato di riconoscere il diritto anche agli altri soggetti il diritto che in prima battuta ha escluso per loro. In questo caso non decorre il termine di prescrizione in quanto il privato non può essere certo che lo stato non riconoscerà il proprio diritto.
    Diversa cosa ancora è se lo Stato, come nel caso in specie, oltre a riconoscere ad alcuni soggetti e non ad altri il diritto previsto da una direttiva comunitaria lo conceda ai primi in forza di requisiti soggettivi che possono essere propri solo degli stessi. In tale ipotesi, pur trattandosi di adempimento soggettivo parziale, la presenza di requisiti soggettivi escludenti rende sicuro il beneficiario che lo Stato non riconoscerà il proprio diritto per cui scatta il termine di prescrizione decennale.
    Quando sembrava che la giurisprudenza si fosse ormai consolidata nel riconoscere la natura contrattuale della responsabilità dello Stato legislatore ed il conseguente termine di prescrizione decennale il quadro normativo si è ulteriormente complicato attraverso un recente intervento del legislatore che pare più mosso da ragioni di contenimento della spesa pubblica a fronte di uno straripante contenzioso più che da valutazioni giuridiche. E’ stata così prevista la responsabilità dello Stato per la mancata attuazione delle direttive in caso di dolo e colpa , con un periodo di prescrizione quinquennale. La dottrina maggioritaria ha inteso in genere tale disposizione come volta a stabilire la natura extracontrattuale della responsabilità dello Stato. Un altro orientamento ritiene invece che l’intervento legislativo si riferisca al solo termine di prescrizione e non modifichi la natura contrattuale della responsabilità.
    Occorre rilevare che la previsione della necessaria sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo e colpa potrebbe comportare u conflitto con le norme comunitarie e l’interpretazione di questa data dalle corti europee come di recente avvenuto a proposito della risarcibilità di errori giudiziari in ordine quindi alla responsabilità dello “Stato giurisdizione” . E’ stato infatti rilevato in sede comunitaria il contrasto della normativa nazionale in merito alla responsabilità dei magistrati che viene limitata ai casi di dolo e colpa grave, non in quanto tale dato che astrattamente compatibile con la colpa “oggettiva” comunitaria, ma in quanto interpretata in senso restrittivo dalla Cassazione escludendo la risarcibilità , ad esempio, in caso di errori derivanti da errate interpretazioni giuridiche.
    Si tratta di una problematica ben conosciuta in materia di appalti in cui la Corte di Giustizia ha cassato la normativa nazionale che prevede l’obbligo di provare il dolo e la cola della P.a per ottenere il risarcimento del danno anche quando, come nel caso dell’ordinamento nazionale, gli stessi siano presunti e la P.a si possa liberare solo dimostrando un errore scusabile.
    A nostro avviso la primazia del diritto comunitario rispetto a quello nazionale pone la questione al legislatore se non sia il caso di non prevedere una responsabilità “speciale” della P.A con propri caratteri diversi da quelli previsti per la responsabilità del privato. Si tratta poi di un indirizzo che, anche se minoritario, è sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa secondo cui, in mancanza di una qualificazione del legislatore debba essere il giudice ha qualificare la responsabilità della P.a per lesione di interessi legittimi che ha dei caratteri sia della responsabilità contrattuale che extracontrattuale e delle proprie caratteristiche. Basti pensare alla necessità di dimostrare l’errore scusabile per escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo a carico della P.a , oppure l’esigenza di valorizzare il ruolo del comportamento del danneggiato sia con riguardo al nesso di causalità che alla liquidazione dl danno.
    In mancanza di un intervento legislativo che individui una nuova forma di responsabilità per lo Stato vi è il rischio che lo Stato nazionale sia sostituito dalla giurisprudenza comunitaria in questo ruolo per tramite del principio di primazia del diritto comunitario e la conseguente disapplicazione della norma nazionale contrastante con lo stesso.
    E’ forse il momento di prevede una forma di responsabilità “speciale” dello Stato e della Pubblica amministrazione , come d’altronde previsto in altri stati dell’unione europea che hanno scelto una via diversa da quella del legislatore italiano che in merito alla responsabilità della P.a., ha scelto di non scegliere lasciando all’interprete l’onere di qualificare tale responsabilità.

    Tema numero 2

    La responsabilità è, in linea generale, la sanzione per l’inosservanza di un dovere giuridico. Nell’ambito della generale categoria della responsabilità civile si è soliti individuare due distinte figure: la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale o aquiliana, dal nome della Lex Aquilia che disciplinava nel diritto romano tale tipo di responsabilità.
    Nel sistema di derivazione romanistica i confini tra responsabilità contrattuale e aquiliana erano semplici e ben definiti perché si fondavano sulla linea discretiva della sussistenza o meno del vincolo contrattuale. Era configurabile una responsabilità contrattuale nel caso in cui il debitore avesse posto in essere un comportamento inadempitivo di un obbligo di prestazione derivante dalla precedente stipulazione contrattuale, mentre, all’opposto ricorrevano gli estremi della responsabilità aquiliana nell’ipotesi di illecito di matrice penalistica. Si faceva così riferimento ai delicta, di carattere penale, e ai quasi delicta, fatti senza rilevanza penale ma a questi assimilabili dal punto di vista sanzionatorio. Anche il sistema del codice civile del 1865 faceva riferimento a quest’idea, distinguendo una responsabilità da delitto e una da quasi delitto. Nel codice civile del 1942 questa distinzione concettuale rimane nella lettera dell’art. 1173 laddove si prevede che le obbligazioni nascano da contratto, fatto illecito o qualsiasi altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico.
    Si evince pertanto un evidente discrimen tra responsabilità contrattuale, nascente dal contratto, e responsabilità extracontrattuale, che nasce dalla violazione del generico dovere di neminem laedere, cioè di non ledere l’altrui sfera giuridica, dovere che ciascuno è tenuto a rispettare nei confronti della generalità dei consociati. Sono dunque assai diverse le ragioni dell’antigiuridicità: mentre nella responsabilità contrattuale si crea un vincolo obbligatorio per il risarcimento del danno che discende dalla violazione di un obbligo preesistente, la cd. perpetuatio obligationis, la responsabilità aquiliana sanziona i comportamenti illeciti che incidono sulla sfera giuridica di soggetti cui l’agente non è legato da alcun rapporto specifico. Tale forma di responsabilità ha una funzione non solo riparatoria, ma anche preventiva e sanzionatoria.
    L’etichetta dottrinale di responsabilità contrattuale (di cui non è fatta menzione espressa nel codice) è, ad onor del vero, impropria, atteso che l’area della responsabilità del debitore regolata dall’art. 1218 c.c. eccede l’inadempimento delle obbligazioni contrattuali. Il riferimento al concetto di contratto opera in questo caso come una sineddoche, cioè indicando una parte per il tutto, sicché la responsabilità contrattuale sussiste ogni qual volta si individui inattuazione di una pretesa creditoria, anche se non abbia fonte contrattuale.
    Il profilo strutturale della distinzione in esame è strettamente connesso a quello funzionale: la responsabilità extracontrattuale integra la reazione dell’ordinamento al danno ingiusto, inteso quale lesione di un interesse protetto, e svolge una funzione di ripristino dello status quo ante; quella contrattuale assolve invece una finalità di attuazione, seppure per equivalente, della pretesa creditoria rimasta inattuata o non completamente attuata.
    La distinzione tra i due istituti individua due poli: da un lato, quello costituito dalle lesione del bene oggetto del diritto assoluto, che reclama, quale conseguenza, l’intervento riparatore, cioè il risarcimento; dall’altro, quello costituito dall’obbligazione inadempiuta, che reclama, in alternativa all’esecuzione in forma specifica, l’attuazione per equivalente, cioè, ancora una volta ma sotto un’altra prospettiva, il risarcimento del danno.
    Questa distinzione così rigorosa in tempi recenti comincia progressivamente ad ammorbidirsi grazie all’elaborazione della teoria dei contratti di fatto e con l’affermazione in giurisprudenza del principio secondo cui la responsabilità contrattuale non necessita sempre della sussistenza di un contratto nel senso stretto del termine, ma si possa far riferimento alla responsabilità contrattuale anche in sua mancanza laddove tra le parti intercorra quello che viene definito contatto sociale specifico considerato nell’ordinamento giuridico fonte di obblighi e doveri puntuali. Si sostiene infatti che il contatto qualificato che si instaura con un soggetto professionale, anche se svincolato da uno specifico obbligo di prestazione, genera affidamento in comportamenti protettivi, da adempiersi alla stregua di canoni di diligenza professionale, e determina in caso di inadempimento conseguenze risarcitorie di tipo contrattuale.
    Oppure si pensi al caso della responsabilità precontrattuale, sulla cui collocazione la dottrina è divisa: alcuni autori la riconducono nell’area della responsabilità extracontrattuale, altri in quella contrattuale, e c’è addirittura chi parla a tal proposito di tertium genus.
    La distinzione di cui si tratta non ha un valore meramente teorico: la disciplina cui é assoggettata ciascuna sua forma presenta infatti connotati differenti, benché sussistano norme comuni quali l’articolo 2056 c.c. che, in ordine alla determinazione del risarcimento, rinvia ai criteri dettati in tema di responsabilità contrattuale ex artt. 1223,1226 e 1227 c.c.
    Una prima diversità attiene all’onere della prova. Mentre nella responsabilità extracontrattuale esso è a carico del danneggiato per la dimostrazione del fatto illecito in tutti i suoi elementi, incluso l’atteggiamento soggettivo dell’autore (colpa o dolo), in quella contrattuale l’onere della prova è invertito: in ogni caso di inadempimento il legislatore presume la colpa del debitore esonerando il danneggiato dal relativo onere probatorio. Al danneggiato spetterà provare solo il danno e il nesso di causalità che collega il danno all’inadempimento. Si tratta certamente di una presunzione relativa e da ciò deriva che il debitore può liberarsi da ogni responsabilità provando l’assenza di colpa e cioè che l’impossibilità di adempiere è derivata da causa a lui non imputabile. Questo avviene perché, secondo alcuni, diverso sarebbe l’elemento soggettivo richiesto ai fini della configurazione della responsabilità. Mentre per la responsabilità aquiliana è pacifico che il soggetto autore dell’illecito risponde non solo per il dato obiettivo, cioè in base al nesso causale tra condotta non autorizzata e danno ingiusto, ma anche, salve ipotesi eccezionali, per il dato subiettivo del dolo o della colpa, per la responsabilità contrattuale sarebbe invece, secondo alcuni Autori, sufficiente il dato oggettivo (anche se questa tesi non è prevalente e si scontra con altra tesi che ritiene che la responsabilità da inadempimento sia fondata sulla colpa).
    Ulteriore diversità è nella valutazione del danno. Nella responsabilità extracontrattuale, infatti, vanno risarciti tutti i danni siano essi prevedibili o non prevedibili; in quella contrattuale, quando non si ravvisi il dolo, sono da risarcire solo i danni prevedibili al momento in cui è sorta l’obbligazione.
    Altra differenza poi concerne l’istituto della mora che, mentre nella responsabilità contrattuale non opera mai automaticamente al ritardo, potendosi configurare una tolleranza del creditore al ritardo, in quella extracontrattuale invece essa opera ex re in quanto non è possibile al contrario ammettere alcuna tolleranza.
    Occorre infine soffermarsi sul diverso modo di atteggiarsi della prescrizione. L’articolo 2947 c.c. introduce una prescrizione breve di cinque anni per il risarcimento del danno da illecito extracontrattuale riducendolo a due anni per i danni da circolazione di veicoli. Viceversa in campo contrattuale, stante l’esplicito riferimento dell’articolo 2947 c.c. al fatto illecito, si applica la regola generale dell’articolo 2946 c.c. che prevede il termine di decorrenza decennale, salvi termini più brevi per alcuni tipi di contratti.
    La tematica della responsabilità civile non si esaurisce nel ristretto ambito del rapporto tra privati, ma va ben oltre: è molto dibattuta, infatti, la tematica della responsabilità dello Stato per la violazione del diritto comunitario, e in particolare per la mancata attuazione di direttive comunitarie.
    L’appartenenza all’UE, com’è noto, fa nascere in capo a ciascuno Stato un obbligo di leale cooperazione, ex art 4, par. 3, TUE, che si traduce nella necessità di assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o dagli atti emanati dalle istituzioni dell’Unione attraverso l’adozione di ogni misura, sia di carattere generale che particolare, adatta allo scopo. Gli obblighi che gravano sui singoli Stati in virtù dell’appartenenza all’Unione, dunque, non concernono soltanto la partecipazione alle istituzioni comunitarie mediante propri rappresentanti, ma anche e soprattutto l’attuazione delle norme contenute nei trattati istitutivi e del diritto comunitario derivato. Alla luce di questo, gli aspetti più problematici concernono le ipotesi di mancato recepimento di direttive da parte di uno Stato membro.
    Diversamente dai regolamenti, infatti, esse necessitano di un atto di recepimento da parte degli organi nazionali e vincolano gli Stati membri cui sono dirette sotto il profilo del risultato da conseguire, ferma restando l’autonomia degli stessi nella scelta della forma e dei mezzi necessari per raggiungerlo. Il mancato recepimento di una direttiva costituisce un’evidente violazione degli obblighi comunitari e genera una responsabilità del medesimo sotto due diversi profili: nei confronti dell’Unione per violazione del diritto comunitario e nei confronti del singolo cittadino che sia stato leso dalla mancata attuazione della direttiva.
    Per quanto concerne il primo aspetto, si potrà attivare, da parte della Comunità o degli altri Stati, nei confronti dello Stato inadempiente, la procedura d’infrazione ex artt. 258 ss TFUE, volta ad ottenere dalla Corte di giustizia una sentenza attestante l’esistenza della violazione, priva però di ulteriori statuizioni in merito al risarcimento del danno eventualmente cagionato dallo Stato.
    Per quanto concerne il secondo aspetto, invece, si tratta di un principio che non è sancito a livello normativo, ma che trova il suo riconoscimento a livello giurisprudenziale, in virtù del’esigenza di assicurare piena efficacia alle norme comunitarie attraverso la tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche create da quelle stesse norme.
    Il problema della configurabilità di una siffatta responsabilità dello Stato è stato risolto positivamente a partire dalla nota sentenza Francovich del 1991, con cui la Corte di giustizia ha sancito la possibilità che i singoli cittadini ottengano il risarcimento del danno subito attraverso l’esperimento di un’azione davanti al giudice nazionale nei confronti dello Stato inadempiente. A fondamento di tale decisione la Corte ha posto l’obbligo di leale collaborazione che grava su ciascuno Stato membro e ha evidenziato che, in caso contrario, sarebbe messa in pericolo la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe inficiata la tutela dei diritti da esse riconosciuti. Nello specifico, la sentenza Francovich individua le condizioni al ricorrere delle quali tale responsabilità è configurabile: deve trattarsi di direttiva che attribuisca diritti a favore dei singoli in modo sufficientemente chiaro e preciso; il contenuto di tale diritto deve poter essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva stessa; deve sussistere un nesso di causalità fra la violazione perpetrata dallo Stato e il danno subito da parte del soggetto leso. In sostanza, la Corte esporta in questo settore gli stessi criteri che concernono la responsabilità delle istituzioni comunitarie. Infatti, la tutela dei diritti che il diritto comunitario attribuisce ai singoli non può cambiare in funzione della natura, nazionale o comunitaria, dell’organo che ha cagionato il danno. La responsabilità in questione, dunque, trova il suo fondamento a livello comunitario: attraverso successivi interventi giurisprudenziali si è colmato il vuoto di tutela in capo al singolo e si è riconosciuto, in maniera pacifica, il suo diritto ad essere risarcito dei danni derivanti da inadempimento degli obblighi comunitari da parte di uno Stato membro.
    La Corte di giustizia ha precisato, però, che le modalità di esercizio dell’azione risarcitoria e la quantificazione del danno devono essere disciplinati dal legislatore nazionale, ferma restando l’esistenza di due limiti nell’adozione di tali previsioni: da un lato, le modalità previste dal singolo Stato per ottenere il risarcimento non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi reclami di diritto interno; dall’altro, il giudizio non deve essere tale da rendere impossibile o estremamente difficile il risarcimento. La posizione assunta in questa sede dalla Corte di giustizia è stata successivamente sviluppata in altre sue pronunce, che hanno fatto luce su alcuni dubbi emersi, a livello interpetativo, a seguito della sentenza stessa, in primo luogo chiarendo che il principio della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario ha carattere generale e, pertanto, opera indipendentemente dalla circostanza che il diritto sia attribuito da una norma non immediatamente esecutiva. Essa trova applicazione in tutti i casi in cui l’autorità nazionale, a qualsiasi livello, abbia cagionato un danno al singolo cittadino per effetto della violazione delle norme comunitarie. In aggiunta, la Corte ha specificato che l’unico interlocutore della Comunità e degli altri Stati in ambito comunitario è lo Stato, su cui grava l’obbligo di risarcire il danno eventualmente cagionato ai singoli, indipendentemente dalla singola istituzione interna a cui la condotta sia concretamente attribuibile e, quindi, a prescindere dalla ripartizione di competenze interne allo Stato medesimo. Si chiarisce, inoltre, la portata dei requisiti richiesti dalla sentenza Francovich e si evidenzia che essi costituiscono una garanzia minima, che non preclude la possibilità di delineare la fattispecie in termini più estensivi, a livello di legislazione nazionale. Inoltre, la violazione deve essere grave e manifesta.
    A livello nazionale, a seguito della sentenza Francovich, l’Italia ha emanato il DLgs 80/92, che ha individuato le modalità attraverso cui i singoli possono ottenere il risarcimento del danno cagionato dall’omessa trasposizione della direttiva medesima. L’adozione di tale provvedimento ha determinato il sorgere di alcune questioni interpretative, soprattutto in relazione alla natura giuridica della responsabilità da individuare in capo allo Stato inadempiente. In merito, le posizioni assunte dalla Cassazione sono state contrastanti. In alcune sentenze, infatti, essa ha escluso in radice la possibilità di configurare un’ipotesi di responsabilità da illecito del legislatore ed ha sostenuto la natura indennitaria del ristoro de quo, sulla scorta del principio dell’insindacabilità delle scelte del legislatore e, quindi, dell’impossibilità di qualificare tali scelte in termini di illecito aquiliano e il ristoro che ne deriva in termini di risarcimento. La stessa impostazione è stata confermata, in tempi più recenti, dalla Cassazione medesima, che ha ribadito che la funzione legislativa è regolata dalla Costituzione, che la ripartisce tra governo e parlamento, quale espressione del potere politico, libera nei fini e sottratta a qualsiasi sindacato giurisdizionale. Nell’esercizio di tale potere, di conseguenza, non sono configurabili situazioni soggettive protette dei singoli, per cui deve escludersi che dalle norme dell’ordinamento comunitario possa farsi derivare, nell’ordinamento italiano, il diritto soggettivo del singolo all’esercizio del potere legislativo, e che una determinata conformazione dello Stato-ordinamento possa essere qualificata come illecito da imputare allo Stato-persona, ai sensi dell’art. 2043 c.c..
    Con altro indirizzo, invece, la Cassazione ha superato il dogma dell’irresponsabilità dello Stato nella sua sovranità ed ha riconosciuto la possibilità di individuare, in siffatte condotte, un fatto illecito dal quale sorge un obbligo risarcitorio a carico del legislatore inadempiente. In particolare, essa ha ripreso la posizione assunta dalla Corte di giustizia nella sentenza Francovich ed ha affermato che deve riconoscersi il diritto del privato al risarcimento del danno, a prescindere se si tratti di diritto soggettivo o di interesse legittimo, nel caso in cui lo Stato membro non abbia adottato i provvedimenti attuativi, purché la direttiva in questione preveda l’attribuzione di diritti, ben individuabili nella direttiva stessa, in capo ai singoli e sussista il nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo in capo allo Stato e il pregiudizio subito dal soggetto leso. Questo secondo indirizzo è quello ad oggi prevalente ed è stato confermato anche in successive pronunce rese dalla Cassazione sull’annoso tema della tardiva trasposizione della direttiva concernente l’adeguata remunerazione dei medici specializzandi.
    Ulteriori profili di problematicità hanno riguardato l’individuazione del fondamento giuridico di tale responsabilità e, dunque, l’inquadramento della medesima nell’ambito della responsabilità aquiliana o della responsabilità contrattuale. Sul tema si sono pronunciate le Sezioni Unite della Cassazione nel 2009, che hanno evidenziato come, fino a quel momento, le decisioni della Corte riconducevano con assoluta prevalenza il cd. illecito del legislatore alla fattispecie di cui all’art. 2043 c.c., ma senza particolari approfondimenti del problema di qualificazione. A fronte dell’orientamento riconosciuto come prevalente, però, le Sezioni Unite hanno aderito all’indirizzo rimasto, fino a quel momento, minoritario, secondo cui la responsabilità dello Stato deve essere definita sul terreno contrattuale e non extracontrattuale, in quanto il suo fondamento sarebbe da ravvisare in una obbligazione ex lege avente natura indennitaria, come tale svincolata dai comuni presupposti della responsabilità civile-extracontrattuale. La sentenza si basa sulla considerazione che, poiché l’ordinamento comunitario e quello interno son ben distinti e separati, è possibile che un comportamento del legislatore possa essere qualificato come illecito nell’ordinamento comunitario e lecito per quello interno, secondo principi fondamentali che risultano evidenti nella stessa Costituzione. Non si tratterebbe dunque di un risarcimento del danno da fatto illecito, ma piuttosto di una indennità dovuta per obbligazione ex lege dello Stato, con le necessarie conseguenze in termini di onere della prova e di termine di prescrizione. In particolare, secondo le Sezioni Unite, deve essere riconosciuto al danneggiato un credito alla riparazione del pregiudizio subito per effetto del cd. fatto illecito del legislatore di natura idennitaria. Pertanto, la pretesa risarcitoria è assoggettata al termine di prescrizione ordinaria decennale perché diretta all’adempimento di un’obbligazione ex lege di natura indennitaria, riconducibile come tale all’area della responsabilità contrattuale. Il relativo risarcimento, avente natura di credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato, attraverso i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato una idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile. La Cassazione, quindi, riconduce la fattispecie in questione nei confini della responsabilità da inadempimento contrattuale, non già però nel senso di una responsabilità da contratto, il che sarebbe nella specie fuori luogo, ma nel senso in cui di responsabilità contrattuale si è sempre parlato tradizionalmente, per significare che l’obbligazione risarcitoria non nasce da fatto illecito alla stregua dell’art 2043 c.c., ma è dall’ordinamento ricollegata direttamente alla violazione di un obbligo precedente, che ne costituisce direttamente la fonte, secondo la prospettiva scritta nell’art 1173 c.c..
    Questo inadempimento riguarda solo i rapporti tra lo Stato e il privato, non già quelli fra Stato e Unione Europea.
    Proprio quando sembrava ormai ricomposto il dibattito interpretativo relativo alla natura della responsabilità dello Stato per omessa o tardiva recezione delle direttive comunitarie, è intervenuto il legislatore nazionale, che con la legge di stabilità del 2012 ha introdotto alcune previsioni che rimescolano le carte.
    L'art. 4, comma 43, della l.183/2011 (Legge di stabilità 2012) ha introdotto nell'ordinamento la disposizione secondo cui la prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell'ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari soggiace, in ogni caso, alla disciplina di cui all'articolo 2947 c.c. e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato. La norma richiama l’art 2947 c.c. che disciplina la prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito e dispone, al 1° comma, la prescrizione in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato. Il generico richiamo all’articolo in questione, però, potrebbe essere oggetto di contrapposte interpretazioni. Letteralmente, esso deve intendersi come un rinvio al disposto del 1° comma dello stesso e, quindi, finalizzato a rendere applicabile alla fattispecie de qua la prescrizione quinquennale. Non è escluso, però, che il rinvio possa essere interpretato in maniera più ampia e che si possa giungere alla conclusione che esso valga a ricondurre la responsabilità dello Stato per mancato recepimento nell’ordinamento di direttive nell’ambito della responsabilità aquiliana ex art 2043 c.c.. Tale disposizione, infatti, sembrerebbe essere espressione della volontà del legislatore di ricondurre siffatte fattispecie nella categoria della responsabilità extracontrattuale, con la conseguenza di superare le posizioni assunte dalla Cassazione e riportare la responsabilità dello Stato per inadempimento di direttive comunitarie sotto l’alveo del 2043 c.c..
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    Tema migliore sulla traccia: L'azione di arricchimento senza causa: sussidiarietà e rapporti con l'azione di adempimento.


    L'azione di arricchimento senza giusta causa, “actio de in rem verso”, è disciplinata nel codice civile all'art. 2041 c.c. e viene classificata da dottrina e giurisprudenza costanti quale fonte atipica delle obbligazioni ex art. 1173 c.c.
    Secondo il dettato dellart. 1173 c.c. sono fonti delle obbligazioni, in ossequio alla tripartizione di matrice gaiana cui il nostro sistema si ispira, non solo il contratto ed il fatto illecito, ma anche “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle secondo l'ordinamento giuridico”. Gli interpreti inquadrano in questa categoria, abbastanza ampia a fronte del rimando all'intero ordinamento giuridico (e al mancato utilizzo del termine legge), gli atti leciti, le promesse unilaterali ex art. 1988 c.c., le ipotesi di contatto sociale, azione di indebito, e l'azione di arricchimento senza giusta causa.
    L'art. 2041 del codice civile, rubricato “azione generale di arricchimento”, prevede il riconoscimento di una azione volta al ripristino delle condizioni economiche del soggetto agente, mutate a seguito dell'intervento di un altro soggetto: l'impoverimento del primo trova la sua causa nella locupletatio del secondo, di cui costituisce conseguenza a livello eziologico.
    Il fatto causativo dello spostamento patrimoniale deve essere il medesimo che ha provocato contestualmente sia l'arricchimento che l'impoverimento, e non deve essere possibile ricavare una causa fondante lo spostamento patrimoniale (scambio, restituzione, risarcimento, indennizzo, solvendi, donandi).
    Nel nostro ordinamento infatti, in ossequio al principio della giustificazione causale degli spostamenti patrimoniali, qualsiasi relazione giuridica intercorrente fra soggetti deve essere eziologicamente collegata, a fronte del fatto che il rapporto intersoggettivo deve comunque, aldilà delle concrete motivazioni individuali (irrilevanti per il diritto, almeno che non venga loro riconosciuta esplicita validità dalle parti stesse: condizione e presupposizione), superare il vaglio della meritevolezza di tutela cui l'ordinamento riconduce la validità e l'efficacia dell'atto stesso. La causa d'altronde costituisce requisito essenziale del contratto e la sua mancanza postula la nullità del contratto, a norma degli artt. 1325 e 1418 co. 1 del codice civile.
    Oltre alla sussistenza dei requisiti specificati – impoverimento, arricchimento, assenza di giustificazione causale – occorre precisare la natura sussidiaria dell'azione de qua.
    L'art. 2041 costituisce rimedio di extrema ratio, qualificato non a caso “generale” dal legislatore, riconosciuto al privato solo qualora non siano previste dall'ordinamento specifiche tutele, maggiormente atte a garantire il ripristino della situazione giuridica che si assuma lesa a vario titolo. Si pensi in ambito contrattuale alle azioni di nullità e annullabilità; alle azioni di rivendicazione e restituzione dei diritti reali; alle azioni a tutela dei diritti reali su cosa altrui; alle azioni che tutelano il possesso; all'azione di indebito e gestione di affari altrui.
    La giurisprudenza ha peraltro specificato che la sussidiarietà va intesa nel senso che l'actio de in rem verso non può esercitarsi nemmeno in caso di prescrizione delle azioni esperibili dal soggetto, o eventualmente esperite ma rigettate nel merito in sede giurisdizionale: la possibilità contraria permetterebbe infatti di utilizzare l'azione di ingiustificato arricchimento quale modalità sì sussidiaria, ma al contempo si aggirerebbe il sistema normativo e si svuoterebbe la funzione di norma di chiusura del sistema, atta a garantire un rimedio anche nei casi in cui non sussistano le condizioni di legge per esperirne altri.
    E' pertanto chiaro che nell'analisi dell'actio de in rem verso assume particolare rilevanza l'ambito dei rapporti che possano instaurarsi con gli altri rimedi predisposti dall'ordinamento, atteso che può essere esperita unicamente in mancanza di alternative.
    Per comprendere l'operatività dell'istituto, la sua sussidiarietà, e le conseguenze applicative nell'intero sistema, possono citarsi brevemente a titolo esemplificativo i rapporti fattuali in ambito familiare. Dottrina e giurisprudenza costante ritengono infatti che, in relazione ai rapporti creatisi all'interno della famiglia di fatto -come tali non sottoponibili alla normativa civilistica circa la famiglia legittima Non puoi più scrivere legittima!! Devi scrivere: famiglia instaurata a seguito di matrimonio o cose così – occorra rifarsi al binomio obbligazione naturale-azione di ingiustificato arricchimento. Laddove lo spostamento patrimoniale fatto in costanza di convivenza more uxorio assuma caratteri di sproporzionalità in favore di un solo convivente, e non sia equilibrato da una reciprocità, anche se non totale, non potrà ritenersi applicabile l'art. 2034 c.c. sulle obbligazioni naturali che sancisce l'irripetibilità delle prestazioni effettuate in adempimento di un dovere morale o sociale. Non essendo esperibili a monte i rimedi approntati dal codice civile rimarrà pertanto esercitabile, per evitare anche presunzioni di gratuità non ricavabili dal dettato normativo, l'actio de in rem verso, atteso che lo squilibrio patrimoniale a favore di un solo partner non trova giustificazione nella convivenza stessa.
    Le problematiche connesse all'operatività quale come rimedio estremo sono state oggetto di analisi giurisprudenziale in particolar modo in relazione ai rapporti con le azioni a tutela dell'inadempimento contrattuale, ex art. 1453 c.c. La disposizione prevede l'esperimento per il creditore, a sua scelta, dell'azione di risoluzione, di esatto adempimento, e di risarcimento del danno. In relazione a quanto esposto, assunto che l'art. 2041 c.c. opera solo in assenza di disciplina, la regolamentazione sancita dal codice civile dovrebbe ritenersi condizione sufficiente ad escludere l'applicazione dell'actio de in rem verso.
    In realtà, in ambito ermeneutico, si sono posti particolari profili di incertezza in relazione all'ipotesi dell'azione di esatto adempimento, che hanno dato luogo ad un acceso dibattito circa gli effettivi contorni di operatività dell'art. 2041 c.c.
    Occorre anzitutto esaminare preliminarmente l'azione di esatto adempimento, in modo da poterla poi mettere in relazione con l'azione di ingiustificato arricchimento secondo le modalità enucleate in ambito giurisprudenziale.
    L'art. 1453 c.c., nel disciplinare i rimedi in caso di inadempimento contrattuale, non definisce l'azione de qua, in quanto si limita a regolarne i rapporti con l'azione di risoluzione, sancendo che l'esatto adempimento può domandarsi solo qualora non sia già stata chiesta la risoluzione, mentre è possibile l'ipotesi contraria. Tale scelta deriva dal fatto che è evidente come la richiesta di risolvere il contratto presuppone che sia venuto meno l'interesse della parte non inadempiente alla prestazione contrattuale, interesse che pertanto non può in un secondo momento “ripresentarsi”, pena anche il contrasto col principio di certezza dei rapporti giuridici e dato il divieto di mutatio libelli sancito dagli artt. 183 e 437 del codice di procedura civile. Diverso per l'ipotesi opposta, atteso che ben possono profilarsi casi in cui il soggetto, nonostante l'inadempimento o l'inesatto adempimento, sia ancora interessato alla prestazione; ma se, in corso di causa, si verificassero circostanze tali da rendere oggettivamente o soggettivamene non soddisfabile l'interesse del creditore – che costituisce elemento fondamentale di qualsiasi rapporto obbligatorio - , o che lo vanificassero completamente (si pensi alla distruzione o al perimento della res), verrebbe meno la stessa giustificazione del ricorso giurisdizionale. In tal modo è giustificabile la deroga al divieto di mutatio libelli, sancita infatti all'art. 1453 comma 2 c.c., ed è possibile in tal modo chiedere in subordine la risoluzione, qualora l'adempimento non sia possibile. Rimane salva la richiesta di risarcimento danni, atteso che per opinione unanime viene considerata azione autonoma (mutuando come argomento decisivo la disciplina ex art. 1553 c.c.).
    A differenza dell'azione di risoluzione, quella di esatto adempimento, secondo dottrina e giurisprudenza costanti, avrebbe un raggio di azione maggiore, non essendo circoscritta come la risoluzione ai soli contratti a prestazioni corrispettive. La sua valenza omnicomprensiva emerge anche nella disciplina speciale, come nel caso dei rimedi della sostituzione e riparazione del bene previsti dal codice del consumo, considerati da dottrina maggioritaria come azioni di esatto adempimento.
    L'azione si prescrive, ex art. 2946 c.c., in dieci anni, e pur rappresentando espressione di tutela specifica, va distinta dal risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. (applicabile anche in ambito contrattuale giusta il rimando dell'art. 2056 c.c.), che presuppone la verificazione di un danno.
    ok, ma la differenza non è tanto questa, anche nell’azione di esatto adempimento di fatto c’è un danno (il mancato adempimento), è quello che chiedi che è diverso: in azione esatto adempimento io ti chiedo proprio la prestazione, invece nel risarcimento in forma specifica chiedo al giudice che ti condanni ad una prestazione che per me è uguale a quella che tu non mi hai adempiuto, una sorta di “surrogato” (in senso atecnico, tanto per capirci) che mi soddisfa “come” la prestazione iniziale, ma non è la prestazione iniziale e che consente a me di essere messo nella stessa situazione in cui mi sarei trovato al momento della sentenza se tu non mi avessi leso. C'è da dire che taluni (mi pare proprio Caringella) ritengono che di fatto in ambito contrattuale esatto adempimento e risarcimento in fs si equivalgano. Spero sia chiaro 
    Essendo in ambito contrattuale, la responsabilità ha natura soggettiva ex combinato disposto artt. 1218 e 1176 c.c., con presunzione di colpa in capo al debitore nel rispetto dei principi di persistenza presuntiva del diritto e prossimità della prova. L'onus probandi dunque, in seguito all'intervento delle sezioni unite (sent. 13553 del 2001) è ripartito come segue: come nell'azione di risoluzione, rispetto alla quale non sussistono differenze, il creditore dovrà provare il titolo contrattuale, e limitarsi ad allegare l'inadempimento; spetterà al debitore, che si presume in colpa, dimostrare che l'inadempimento è dovuto ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile.
    Alla luce di quanto esposto, appare prima facie come la possibilità per il creditore di esperire l'esatto adempimento comporti al contempo l'impossibilità di ricorrere all'ingiustificato arricchimento.
    Le due azioni si differenziano per una molteplicità di aspetti. Hanno anzitutto causa e petitum differenti: l'adempimento della prestazione ancora possibile ex art. 1453 c.c., e la restituzione del quantum perso dal soggetto che ha subito il depauperamento privo di giustificazione ex art. 2041 c.c. L'actio ex 1453 c.c. presuppone poi un rapporto obbligatorio sussistente fra le parti, che costituisca il titolo della pretesa creditoria, ed in quanto tale sia ancorato ad una giustificazione causale concreta, nel rispetto del principio della regolarità causale quale funzione economico individuale dell' obbligazione/contratto; l'actio de in rem verso, al contrario, trova la propria ratio proprio nella mancanza di tale causa, che comportando un arricchimento non giustificato contestuale all'impoverimento legittima il depauperato ad avere accesso ad uno strumento di tutela effettivo a garanzia delle sue pretese.
    Date le differenze ontologiche, in generale nel panorama ermeneutico si qualificano come autonome le due azioni, con conseguente sussidiarietà dell'art. 2041 c.c. rispetto all'art. 1453 c.c.
    Parte della dottrina e della giurisprudenza hanno tuttavia posto una attenzione particolare ad una ipotesi problematica, che si verifica nel caso in cui il creditore chieda l'esatto adempimento mediante decreto ingiuntivo, ex art. 633 c.p.c.
    Tale scelta dell'attore può infatti comportare due differenti conseguenze.
    La prima si verifica nel caso in cui il debitore non si opponga alla pretesa creditoria, con conseguente proseguimento del processo secondo il rito ordinario. In simile ipotesi, gli interpreti concordano che non ci siano profili dubbi circa l'impossibilità per il creditore di modificare in corso di causa la propria pretesa, cristallizatasi con l'esperimento dell'azione di adempimento nella proposizione del decreto.
    Differentemente si configurerebbe la questione nel caso in cui il debitore, a seguito del decreto ingiuntivo, decidesse di proporre opposizione.
    ?? In realtà è con l’opposizione che si instaura il rito ordinario. Forse non ho capito che vuoi dire.
    Anche in questa ipotesi, i casi su cui si sono concentrate le attenzioni della giurisprudenza sono stati due, con l'intento di delineare con precisione i contorni fra le due azioni de quibus; il profilo analizzato concerne nello specifico la situazione in cui il creditore, attore nella proposizione del decreto ingiuntivo ma convenuto nell'opposizione al decreto ingiuntivo, esperisca nella comparsa di risposta l'azione di ingiustificato arricchimento. In tal modo l'attore, divenuto convenuto opposto nel procedimento di opposizione, modificherebbe la propria azione, passando dal chiedere l'adempimento all'opporre un ingiustificato arricchimento dell'opponente debitore.
    Parte della giurisprudenza considerava non percorribile questa via, attesa la natura autonoma delle due azioni ed il divieto di mutatio libelli sancito nel processo civile ex artt. 183 e 437 c.p.c. Altri interpreti ritenevano invece possibile la scelta dell'opposto, in quanto configurerebbe la normale facoltà riconosciutagli di reconventio reconventionis, volta a garantirgli la possibilità di ricorrere allo strumento ritenuto più idoneo a garantirgli il soddisfacimento delle sue pretese; si verterebbe pertanto non in un caso di mutatio libelli non consentito, bensì di emendatio libelli, in quanto tale permessa.
    A dirimere il contrasto è intervenuta la cassazione, che a sezioni unite nel 2010 ha anzitutto disatteso entrambe le posizioni, operando poi una distinzione fra due ipotesi differenti.
    In primo luogo, ha ritenuto non condivisibile né l'orientamento che qualificava la scelta dell'opposto come mutatio libelli vietata, né l'opinione contraria che identificava una mera ipotesi di emendatio. Secondo la ricostruzione della suprema corte, occorre verificare con attenzione l'opposizione al decreto ingiuntivo, vagliando le motivazioni addotte dal debitore convenuto, ora opponente, alle istanze presentate dal creditore attore, ora opposto.
    Nel caso in cui ci si opponga argomentando a contrario rispetto al decreto ingiuntivo, nulla quaestio: non essendo stato modificato nessun elemento di causa, l'opposto non può cambiare la propria azione da quella di adempimento a quella di arricchimento senza causa, a fronte della condivisa natura autonoma delle due azioni ed in particolare della sussidiarietà dell'actio de in rem verso. Non occorrerebbe nemmeno entrare nel merito della diatriba mutatio-emendatio libelli, atteso che la sola natura autonoma delle actiones, in quanto regolamentanti diritti eterodeterminati, con causa e petitum diversi, basterebbe ad impedire la modifica operata dall'opposto.
    Diversa sarebbe invece l'ipotesi in cui l'opponente nell'opposizione al decreto ingiuntivo introducesse, per contrastare le pretese creditorie, elementi nuovi rispetto alla ricostruzione prospettata ab origine dal creditore stesso. In simili situazioni, ritiene la cassazione, la questione non potrebbe più risolversi in senso sfavorevole al creditore, negando validità all'azione ex 2041 c.c. argomentando sulla base della sua sussidiarietà, pena una lesione della tutela del convenuto opposto. La corte, in particolare, fa riferimento a “nuovi temi d'indagine”, per inquadrare le ipotesi in cui si ritenga giustificabile il ricorso all'actio de in rem verso, da proporsi nella comparsa di costituzione e risposta. La scelta dell'opposto non integra né una mutatio libelli, né una emendatio, né una reconventio reconventionis: il mutamento del petitum - da adempimento a reintegrazione dello status patrimoniale precedente al depauperamento – è consequenziale alla nuova prospettazione introdotta dall'opponente, e costituisce pertanto esercizio legittimo del diritto di difesa dell'opposto in relazione alle nuove questioni addotte. Tale cambiamento postula l'inizio di un procedimento autonomo, con elementi di novità da vagliare nella loro completezza, e legittima pertanto l'eccezione alla regola generale nei rapporti tra le due azioni, fermo restando che la conclusione cui è addivenuta la corte non modifica comunque in alcun modo la natura sostanzialmente autonoma delle due azioni e la sussidiarietà dell'art. 2041 c.c.


    Tema sufficiente, qualche imprecisione
    12 e 1/2
  13. .
    Tracce migliori sul tema: "L’azione di arricchimento senza causa, con particolare riferimento all’azione di arricchimento nei confronti della PA e ai criteri di calcolo dell’indennizzo".


    Ho selezionato due tracce, entrambe hanno preso 15.
    La prima è più "densa" di concetti e approfondimento, ma ha preso ugualmente 15 perchè ho ritenuto la premessa troppo lunga e...l'autore non andava mai a capo! Si fa una fatica a leggere temi in cui i periodi non vengono spezzati dal capoverso!!
    La seconda ben fatta, ben scritta, ha preso anch'ella 15. Ho apprezzato molto il cappello introduttivo.

    Bravissimi :)

    Tema 1
    L’ordinamento giuridico tutela la libertà di iniziativa economica purché finalizzata a perseguire interessi meritevoli. Questo dato emerge chiaramente dall’art. 41 Cost, il quale afferma che l’iniziativa economica privata è libera e non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Il concetto di meritevolezza non si esaurisce nell’assenza di dannosità sociale / illiceità, ma implica altresì una valutazione di rilevanza, ovvero la non indifferenza dell’ordinamento giuridico. Attraverso le norme (la legge o il contratto a seconda della fonte) gli interessi entrano dunque nella realtà giuridica plasmandola. Gli scopi egoistici (cd lucro soggettivo), che le transazioni commerciali perseguono, per risultare meritevoli di tutela devono essere contemperati con esigenze di solidarietà economica e sociale. Tale valutazione è compiuta dallo stesso legislatore rispetto ai contratti tipizzati e dall’interprete nelle ipotesi di contratti atipici ex art. 1322 cc, alla luce dell’ordinamento giuridico complessivamente considerato. L’elemento strutturalmente deputato a rilevare la sintesi degli interessi sottesi al rapporto è la causa, che l’art. 1325 cc n. 2) colloca tra l’accordo e l’oggetto. Infatti la causa, o funzione economico - sociale del contratto, individua quel regolamento di interessi economicamente rilevante che il programma negoziale intende realizzare.
    Casia, devi andare a capo!!!!!
    In quanto elemento strutturale la causa non può mai mancare, pena la nullità del contratto per violazione di norme imperative ex art. 1418 e salva la previsione di promesse unilaterali acausali, eccezionalmente tipizzate dalla legge (art. 1987 e ss cc). La nullità produce in capo alle parti l’obbligo di restituzione della prestazione eventualmente eseguita (art. 2033 cc), così riallineando la situazione materiale successiva allo spostamento patrimoniale a quella preesistente. Secondo la lettera della legge l’azione di nullità è imprescrittibile, mentre sono fatti salvi gli effetti dell’usucapione e anche quelli dell’azione di ripetizione (art. 1422 cc). Può dunque verificarsi l’ipotesi in cui la parte, che in base ad un contratto invalido abbia compiuto un atto di disposizione del patrimonio a vantaggio dell’altra, non possa agire in restituzione, ad es. perché il vizio viene scoperto dopo più di dieci anni dalla stipulazione del contratto. A rigore l’interessato sarebbe privo di azione. Tuttavia, proprio per evitare spostamenti patrimoniali non giustificati e dunque indebiti arricchimenti, l’art. 2041 cc prevede una norma generale e di chiusura del sistema. Questa premessa è troppo lunga  Essa si colloca infatti subito prima del Titolo IX “Dei fatti illeciti” ponendosi in limine tra il contratto e l’illecito aquiliano e disciplina la fattispecie dell’arricchimento senza causa, esperibile in via sussidiaria ovvero in assenza di altri rimedi. I presupposti delineati consistono nell’arricchimento di un soggetto in danno di un altro che, specularmente, si impoverisce. Ciò genera un obbligo di indennizzo in relazione alla diminuzione patrimoniale non assistita da “giusta causa”. Sul concetto di giusta causa vale la pena soffermarsi. Si tratta di una locuzione generica e ricorrente anche in altre norme, ad es in relazione al licenziamento del lavoratore subordinato/ dipendente pubblico. Proprio il carattere indeterminato chiama l’interprete ad un compito di eterodeterminazione attraverso l’impiego dei principi generali. Essa può essere intesa con riferimento alla singola pattuizione (causa presente e lecita) di cui si è detto, oppure in confronto con l’intero ordinamento giuridico, onde ricercare aliunde rispetto al contratto una ratio giustificatrice dello spostamento patrimoniale. In questo secondo significato la “giusta causa” di cui all’art. 2041 cc rivela la portata sussidiaria e residuale della norma applicabile quando, al di là delle sorti del contratto, secondo i principi generali l’attribuzione patrimoniale non possa essere ritenuta meritevole di tutela e per questo debba essere restituita in parte qua. La giurisprudenza ha a lungo dibattuto sulla natura del fatto generatore dell’obbligo di indennizzo. A tal fine occorre dare atto che l’arricchimento ingiustificato è annoverato tra le fonti del diritto ex art. 1173 cc, in particolare tra quegli atti o fatti idonei a produrre obbligazioni secondo l’ordinamento giuridico. Accanto alla tesi secondo cui il titolo (fatto/atto generatore) debba essere unico si colloca quella secondo cui invece la perdita e l’arricchimento possono derivare anche da fatti diversi e dunque correlarsi a diversi rapporti giuridici (se esistenti). La prima tesi, poi accolta dal Supremo Collegio a SU, muove dalla portata residuale della norma della quale andrebbe data una lettura restrittiva. Inoltre il tenore dell’art. 2041 cc non sembra aprire a diversi rapporti e, anzi, prevedendo l’indennizzo in funzione della diminuzione patrimoniale in quanto “correlativa” all’arricchimento, postula esattamente un rapporto di derivazione causale diretto e immediato tra i due termini. La seconda invece tende ad ampliare la portata dell’art. 2041 cc, estendendola anche alle ipotesi di cd arricchimento mediato, in cui ad arricchirsi in maniera ingiustificata sia un soggetto diverso dalla controparte del rapporto. Questa interpretazione, seppure più favorevole per il disponente, espone tuttavia la parte avvantaggiata a rischi non meglio precisati con conseguenti ricadute sulla certezza dei rapporti giuridici. Per questi motivi è stata ritenuta ammissibile in casi limitati di arricchimento ingiustificato conseguito tramite alienazioni a titolo gratuito (art. 2038 co 2 cc) e della PA. Quanto alle conseguenze, l’ingiustificato arricchimento obbliga la parte avvantaggiata ad indennizzare l’altra della correlativa perdita patrimoniale. La norma parla di indennizzo, elemento che denota la liceità del fatto generatore dell’obbligo ex art. 1173 cc. Infatti presupposto dell’obbligo è la mancanza di una giusta causa e non la presenza di una causa illecita o di un fatto illecito. Di indennità il codice tratta in altre disposizioni, quale ad es. l’art. 1151 che afferma il relativo diritto in capo al possessore di buona o mala fede, l’art. 1127 cc che ne afferma l’obbligo in capo al proprietario dell’ultimo piano del condominio il quale eserciti la facoltà di sopraelevazione e ancora l’art. 2045 cc in punto di danni procurati dal soccorso di necessità. Dunque la natura dell’indennizzo è diversa da quella del risarcimento, che presuppone un fatto illecito, contrattuale o extra contrattuale. Questo aspetto riverbera i suoi effetti anche in punto di quantum. Infatti, mentre il risarcimento del danno deve corrispondere ex artt. 1223 e 2056 cc sia alla perdita sia al mancato guadagno in quanto conseguenza immediata e diretta, l’indennizzo viene commisurato alla diminuzione patrimoniale correlata all’assenza di giusta causa. La liceità del pregiudizio di cui all’art. 2041 cc rileva poi anche sotto il profilo soggettivo. L’art. 2041 cc infatti non allude al dolo o alla colpa, diversamente dall’art. 2043 cc dove l’addebito risarcitorio è possibile solo se il danneggiante oltre ad essere capace di intendere e volere al momento del fatto abbia agito con dolo o colpa. La colpa poi si presume anche nell’illecito contrattuale ex art. 1218 cc, aspetto che determina una inversione dell’onere della prova. Circa il carattere sussidiario dell’azione rispetto a quelle previste ex lege a tutela del rapporto, si osserva come l’art. 2042 cc stabilisca che l’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione (…). Secondo un orientamento la norma andrebbe intesa in senso astratto, con la conseguenza che l’art. 2041 cc potrebbe impiegarsi solo in mancanza previsione di altra azione specifica. Se accolto, esso relegherebbe l’art. 2041 cc ad un ruolo di scarsissima importanza atteso il carattere assolutamente marginale dei casi in cui l’ordinamento non preveda alcun rimedio, quali ad es le obbligazioni naturali (art. 2034 cc) o la prestazione contraria al buon costume (art. 2035 cc). In questi casi però mancano invero interessi meritevoli di tutela, o perché irrilevanti per l’ordinamento giuridico (esecuzione di doveri morali o sociali) o perché contrari al buon costume e per questo sanzionati con la irripetibilità della prestazione. Secondo un’altra tesi l’assenza di azione andrebbe invece intesa in senso concreto, rendendosi praticabile il rimedio dell’ingiustificato arricchimento laddove ad es. la specifica azione accordata dall’ordinamento sia prescritta (art. 1422 e 2033 cc). Questa interpretazione consente un impiego più flessibile dell’art. 2041 cc, consentendo al giudice di modularlo alla luce di esigenze di equità del caso singolo, evitando che una stretta interpretazione del diritto si risolva in una giustizia ingiusta. Essa inoltre appare invero può aderente al tenore della norma che al riguardo fa riferimento all’esercizio di un’altra e diversa azione. Per completezza si dà conto di un ultimo orientamento secondo il quale la sussidiarietà andrebbe riconosciuta rispettivamente in astratto o in concreto a seconda che si tratti di arricchimento diretto o mediato. Ciò al fine di consentire chances di tutela al soggetto pregiudicato nella seconda ipotesi. Tra i casi di ingiustificato arricchimento mediato più spesso sottoposti all’attenzione della giurisprudenza vi è quello della PA. La PA, in quanto soggetto di diritto pubblico esponenziale degli interessi dell’intera collettività stanziata sul territorio nazionale, è solita avvalersi dell’apporto di imprese private per la realizzazione di opere, servizi e lavori pubblici. L’agire pubblico è finalizzato al perseguimento di interessi generali in modo che siano realizzati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. A tal fine la PA agisce come soggetto di diritto pubblico secondo la disciplina del Codice degli Appalti qualora debba stipulare contratti passivi, che cioè importano esborsi di denaro pubblico. In questi casi la procedura dell’evidenza pubblica costituisce garanzia di pubblicità e trasparenza delle operazioni e dunque di ottimale allocazione delle risorse. Invece qualora debba stipulare contratti che comportano un’entrata o comunque un vantaggio, la PA si comporta come un normale soggetto privato agendo con la capacità giuridica di diritto privato, ma sempre con il vincolo della realizzazione di pubblici interessi. La disciplina di siffatti rapporti è contenuta nel RD 1054/1924 sulla Contabilità di Stato e si presenta invero più semplificata prevedendo anche l’affidamento diretto e in ogni caso il rispetto di precisi obblighi formali (art. 16). Può darsi l’ipotesi in cui detti requisiti formali non siano osservati, con conseguente invalidità del contratto, oppure che l’incarico venga conferito a terzi anche senza previa stipulazione di un accordo scritto. Questo è il panorama che spesso la prassi offre, anche in ragione del fatto che qualora si attendesse il completamento di tutto l’iter burocratico l’efficienza dell’agire amministrativo ne risulterebbe compromessa con evidenti ricadute sulla collettività dei cittadini. Accade pertanto che funzionari deputati a formare la volontà della PA stipulino contratti d’opera o di somministrazione ex artt. 2222, 2229 e 1559 cc senza l’osservanza delle richieste formalità il che vale a considerare il contratto tanquam non esset, non ritenendosi a tal fine sufficiente una delibera dell’organo esecutivo (ad es Giunta Comunale) di approvazione della spesa. Inoltre è anche possibile che la prestazione venga richiesta, autorizzata e quindi eseguita senza accurata verifica di adeguate coperture economiche in bilancio o che l’esecuzione della prestazione preceda la stipula di un regolare contratto il cui corrispettivo venga corrisposto solo successivamente secondo le regole di bilancio della PA. La questione che si pone dunque è se il privato professionista sia titolare di legittimazione ad agire e con quali strumenti in caso di ingiustificato arricchimento della PA. Formalmente l’accordo è intercorso con il funzionario della PA e dunque il libero professionista potrebbe esperire azione di indebito oggettivo ex art. 2033 cc nei confronti di questi, il quale però in virtù del nesso di immedesimazione organica ha speso il nome della PA imputando alla stessa attività ed effetti. La PA del resto sarebbe il soggetto effettivamente avvantaggiato dall’operazione che ha come detto comportato un’entrata di beni, servizi, forniture, ecc. Potrebbe soccorrere in proposito l’art. 28 Cost il quale, nell’affermare la responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato secondo le leggi civili, penali e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti, estende detta responsabilità anche allo Stato in funzione, diremo sussidiaria. Tuttavia nel caso di specie non sembra che l’art. 28 Cost possa essere richiamato. Infatti non si tratta di un atto illecito, ovvero contra ius, ma di un vantaggio di cui la PA ha approfittato senza giusta causa, ovvero senza remunerare la controparte per la prestazione eseguita. Né come detto il funzionario ha agito in nome proprio, imputando l’affare alla PA medesima. In ogni caso, qualora il privato si rivalesse verso il funzionario persona fisica, è ragionevole ritenere che l’escussione si rivelerebbe infruttuosa. Il patrimonio del debitore costituisce garanzia generica verso il creditore (art. 2740 cc), ma quello della persona fisica potrebbe non essere sufficiente a soddisfare il credito vantato nei confronti di un ente pubblico. Con la conseguenza che l’iniziativa, per cui in ogni caso difetterebbe la legittimazione passiva del funzionario, sarebbe destinata al fallimento. In casi simili la giurisprudenza e anche il legislatore sono intervenuti in modo da arginare il fenomeno e riconoscendo al privato la legittimazione ad agire ex art. 2041 nei confronti della PA quale soggetto mediato, in quanto concretamente avvantaggiato dalla prestazione del privato ma diverso dalla controparte del rapporto. In questo caso la giurisprudenza è dunque giunta ad ammettere che la PA possa essere legittimata passiva ex art. 2041 e che presupposto dell’azione de qua non sia più l’unicità del fatto generatore di ingiustificato arricchimento. Esso nel caso di specie si scompone nella diminuzione del patrimonio del privato da una parte e nell’incremento del patrimonio pubblico dall’altra, volto a beneficio di un soggetto terzo rispetto al rapporto. Adattando la fattispecie generale agli interessi sottesi al caso di specie si aggiunge un ulteriore elemento. Infatti affinché la PA possa essere condannata all’indennizzo occorre il previo riconoscimento dell’utiliter coeptum, ovvero dell’utilità della prestazione stessa. Ciò in quanto esborsi pur dovuti ma inutili e non rispondenti a finalità di pubblico interesse si risolverebbero in un costo distribuito sull’intera collettività in violazione del principio di buon andamento. Il vantaggio in questione può essere riconosciuto apertis verbis attraverso una formale dichiarazione ma anche per fatti concludenti ovvero impiegando l’opera o sfruttando il servizio offerto. Il giudice, nel verificare la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2041 cc come reinterpretati dalla giurisprudenza, dovrà limitarsi ad un sindacato estrinseco, senza interferire con la discrezionalità amministrativa pena la violazione del principio della separazione dei poteri e dell’art. 101 co 2 cc secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge. In negativo dovrà poi accertarsi che sull’attività svolta non gravi un divieto (cd prohibitio domini), il che impedisce al privato di interferire con aspetti pubblicistici con la conseguenza che un eventuale vantaggio arrecato alla PA sarà considerato tanquam non esset. Dal punto di vista del contenuto il vantaggio non deriva necessariamente da un atto di disposizione del soggetto depauperato, ma può altresì essere correlato ad un atto della stessa PA. Ad es. nel caso in cui la PA sponsorizzi attività e servizi pubblici impiegando il nome di una nota azienda privata non preventivamente coinvolta e dunque senza il suo consenso. La stessa ne risulterebbe avvantaggiata, anche attraverso il cd “ritorno di immagine” tradotto in un maggior peso economico sul mercato, ma a monte vi sarebbe un atto di disposizione della sfera giuridica altrui senza il consenso dell’interessato e in quanto tale vietato. Qui si è però al di fuori del perimetro dell’art. 2041 cc in quanto l’atto de quo configura un illecito in violazione del principio del neminem laedere, a prescindere dall’esito vantaggioso o meno. La giurisprudenza, su modello dei sistemi anglosassoni, è giunta ad estrarre dall’art. 2041 cc una clausola generale secondo cui qualunque profitto illecitamente accumulato andrebbe restituito (cd overcompensation), configurando una sorta di danno punitivo estraneo al sistema che concepisce invece il risarcimento del danno come strumento di riparazione integrale, non oltre la misura della lesione subita (SU 2008). L’azione di ingiustificato arricchimento mediato nei confronti della PA è dunque subordinata in ultima istanza ad un atto di riconoscimento della stessa, ciò che evita di esporla ad oneri improvvisi e non controllabili, rischio oggi ancora meno accettabile dopo la costituzionalizzazione del cd pareggio di bilancio (equilibrio di bilancio) ex artt. 81, 97, 117 e 119 Cost. Per completezza si segnala che la disciplina approntata per gli enti locali si presenta sul punto assai rigorosa. Infatti ex art. 191 TUEL (Dlgs 267/2000) sussiste una perfetta corrispondenza tra impegno giuridico ed impegno contabile, potendo gli enti locali effettuare spese solo previa registrazione in bilancio del relativo impegno di spesa con indicazione dell’importo, della causa e del creditore, a garanzia del rispetto dei principi contabili tra cui pareggio di bilancio (art. 119 Cost, art. 162 TUEL), integrità e universalità, il quale ultimo implica che tutte le entrate e le uscite debbano figurare in bilancio. Ai fini che qui interessano l’art. 191 co 1, ultima parte, prevede che al terzo interessato sia data comunicazione del provvedimento di spesa esecutivo, in mancanza della quale questi ha facoltà di non eseguire la prestazione sino a quando i dati non gli saranno comunicati. Trattasi di norme imperative la violazione delle quali determina nullità del contratto ed espone il pubblico funzionario a responsabilità amministrativa e disciplinare. Inoltre la chiara formulazione della norma in punto di avviso al privato evita il rischio di errori ed affidamenti, sollevando la PA da qualunque obbligo di indennizzo. Quanto ai criteri di commisurazione dell’indennizzo si osserva che il giudice, il quale è soggetto soltanto alla legge, non dispone nel caso di precisi parametri, nemmeno attraverso altre norme che all’indennizzo facciano rinvio. L’art. 2041 cc parla di indennizzo in ordine alla “correlativa diminuzione patrimoniale”. Ci si chiede pertanto se esso debba corrispondere all’esatto valore della prestazione svolta come scambiata sul mercato di beni e servizi. In tal caso verrebbe ad essere restituita la perdita secca. Questa tesi è criticata da coloro che vi colgono un incentivo alla assunzione di impegni di spesa senza previo controllo e iscrizione in bilancio. Infatti consentirebbe al privato di ottenere lo stesso valore che avrebbe perseguito in una normale contrattazione di mercato, facendo coincidere l’indennizzo con il danno emergente ex art. 1223 cc al quale tecnicamente l’art. 2041 cc non rinvia a differenza ad es. di altre norme (art. 21 quinquies co 1bis L 241/90). Giusta la natura forfettaria dell’indennizzo, in quanto derivante da atto lecito e non corrispondente a quella del prezzo, è preferibile l’orientamento che lo equipara alla differenza tra le condizioni patrimoniali del terzo prima e dopo l’atto di disposizione. Tuttavia, nel caso di specie la ratio dell’indennizzo deve essere contemperata con la natura pubblicistica degli interessi che la prestazione del privato era tesa a perseguire, evitando che oneri non previsti siano distribuiti sulla collettività chiamata a contribuire alla spesa pubblica ex art. 53 Cost. Non sembra infine essere compatibile con l’ingiustificato arricchimento della PA la tesi della cd overcomprension. Infatti anche in questo caso la sanzione (restituzione del profitto) si risolverebbe a detrimento dell’intera collettività, motivo per cui può essere impiegata solamente nei confronti di soggetti privati come alcuni casi documentano. In particolare si tratta dell’art. 1148 cc che obbliga il possessore di buona fede a restituire al rivendicante tutti i frutti percepiti dalla domanda giudiziale e quelli percepibili dopo tale data, così assimilati all’utile. A seguire l’art. 158 Dlgs 633/1941 prevede che chi venga leso nell’esercizio di un diritto di utilizzazione economica a lui spettante può chiedere il risarcimento del danno il cui lucro cessante sia determinato tenuto altresì conto degli utili realizzati in violazione del diritto e da ultimo l’art. 18 L 349/86, ora abrogato dall’art. 318 Dlgs 152/2006, il quale - in alternativa al risarcimento in forma specifica ex art. 2058 ove impossibile od eccessivamente oneroso - prevedeva la restituzione del profitto realizzato dal danneggiante. In conclusione sarà il giudice attraverso criteri di equità e proporzionalità a individuare l’indennizzo in concreto spettante al privato contemperando le ragioni dell’affidamento con l’interesse generale.


    Tema numero 2
    L’azione di ingiustificato arricchimento, disciplinata dagli articoli 2041 e 2042 c.c., consente al soggetto che, senza giusta causa, abbia subito un impoverimento con correlativo arricchimento da parte di altri, di ottenere da questi un indennizzo nei limiti della diminuzione patrimoniale subita, laddove non esista altra azione esperibile.
    Secondo la teoria maggioritaria, la regola posta per l’arricchimento senza causa è volta a garantire la necessaria causalità degli spostamenti patrimoniali. Il nostro ordinamento, infatti, non ammette in linea di principio che vicende aventi ricadute economiche per coloro che le pongono in essere possano mancare di idonea ragione giustificatrice. Ciò in ragione del fatto che una causa deve essere sempre riscontrabile: essa potrà essere insita nell’obbligazione assunta o nel negozio posto in essere, ma dovrà comunque esistere e permanere. Se, infatti, la ragione giustificatrice manca ab origine o viene meno successivamente, sarà possibile ottenere la restituzione di quanto prestato.
    Altra parte della dottrina rileva come una simile spiegazione colga solo in parte il senso della disciplina sull’azione di ingiustificato arricchimento: si osserva, infatti, che la causalità degli spostamenti patrimoniali è tutelata, per lo più, dalle regole sulla ripetizione dell’indebito, per cui, salvo casi espressamente previsti (2034 e 2035 c.c.), chi esegue una prestazione non dovuta può ripetere l’indebito. Muovendo da tale considerazione, si valorizza il carattere sussidiario dell’azione di ingiustificato arricchimento, espressamente contemplato nell’art. 2042 c.c.: la funzione della norma è, infatti, quella di evitare che, nelle ipotesi più disparate, sia possibile che un soggetto si impoverisca a vantaggio di un altro, senza che sia rintracciabile nell’ordinamento una giustificazione. Alla base della norma, si dice, vi è un’esigenza anche equitativa: si garantisce, infatti, un’azione (residuale) a chi comunque, in conseguenza di un fatto naturale o umano, si sia trovato a subire uno svantaggio patrimoniale di cui altri abbia beneficiato.
    Ciò spiega perché la norma abbia attentamente definito i casi in cui l’azione risulta proponibile: l’accento è posto, infatti, non solo sulla mancanza di una giusta causa ma soprattutto sull’esistenza di un fatto di impoverimento per un soggentto e di arricchimento per l’altro, da cui sorge l’obbligo di indennizzo.
    Come è stato rilevato, il riferimento all’indennizzo non è casuale, anzi consente di definire meglio la casistica sottesa all’art. 2041 c.c.: infatti, il fatto generatore dello scompenso fra i patrimoni dovrà essere comunque un fatto lecito. Laddove, infatti, la condotta che cagioni la diminuzione patrimoniale sia contra ius e non iure, si ricadrà nell’ambito della clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., con conseguente obbligo di risarcire il danno.
    È chiaro, dunque, che la norma opera solo e soltanto quando vi sia un accadimento, un fatto, una condotta consentita dall’ordinamento che, pur astrattamente lecita, finisca per provocare squilibri patrimoniali non sorretti da una valida giustificazione.
    È evidente, altresì, che non si dovrà trattare di un caso ascrivibile nell’area dell’indebito: laddove, infatti, sia data al soggetto tale azione per ottenere la restituzione della prestazione effettuata, non sarà invocabile l’azione di cui all’art. 2041 c.c.
    La sussidiarietà dell’azione, infatti, impone di ritenere che il ricorso al rimedio sia consentito per fronteggiare solo situazioni sui generis, che non possano essere ricondotte ad altre azioni tipiche codicistiche. La dottrina maggioritaria dubita, pertanto, che l’azione sia esperibile quando in linea astratta esista un altro strumento di tutela, ancorché questo sia precluso in via concreta (ad esempio per l’intervenuta decadenza o per prescrizione).
    L’individuazione dell’ambito applicativo dell’art . 2041 c.c. ruota, pertanto, intorno alla delimitazione del fatto lecito capace di generare al tempo stesso l’arricchimento di un soggetto e l’impoverimento dell’altro.
    Si tratta, in realtà, di una casistica molto eterogenea, difficilmente identificabili a priori.
    È frequente ad esempio che l’azione venga invocata in seno ai rapporti familiari o in vista della loro costituzione, laddove si generino spostamenti patrimoniali che hanno ragione nell’affectio ma finiscono poi per ripercuotersi su di un soggetto, senza che si possa parlare a stretto rigore di indebito, non esistendo a monte un carattere di obbligatorietà, neanche sul piano sociale, circa la tenuta di determinate condotte.
    Un esempio può trarsi dal caso, affrontato dalla giurisprudenza di merito, in cui i genitori di un soggetto decidano di effettuare dei lavori di ristrutturazione sull’immobile del futuro coniuge del figlio, sostenendo spese per la sistemazione della futura casa coniugale, quando poi il matrimonio non sarà più celebrato.
    È indubbio che in un’ipotesi siffatta si generi uno spostamento patrimoniale che, inizialmente sostenuto dall’affectio, finisca poi per essere privo di giustificazione: infatti, mentre i genitori di uno dei futuri sposi si impoveriscono, l’altro futuro sposo acquisisce delle utilità sull’immobile di cui è proprietario. È evidente altresì che non esiste né l’animus donandi né l’animus solvendi, con la conseguenza che l’attività si connota sul piano meramente fattuale.
    In tal caso, inoltre, non è possibile neanche invocare l’art. 81 c.c. per il caso della rottura della promessa di matrimonio in forma solenne: infatti, l’azione apposita ivi contemplata è data ad un promittente nei confronti dell’altro e non è estensibile analogicamente a terzi, in ragione del suo carattere eccezionale.
    La stessa giurisprudenza di legittimità ha, altresì, sostenuto che l’azione ex 2041 c.c. è invocabile anche con riguardo agli spostamenti patrimoniali in ragione dell’instaurazione di una futura convivenza.
    Si pensi all’ipotesi di quel soggetto che, in vista della futura convivenza, arredi l’appartamento del soggetto con cui intende andare a vivere stabilmente, nel caso in cui un simile proposito venga successivamente meno per rottura della relazione amorosa.
    La giurisprudenza riconosce, infatti, che l’acquisto del mobilio, lasciato nell’appartamento del futuro convivente, assurge a fatto generatore di ingiustificato arricchimento. Si osserva, cioè, che un simile spostamento patrimoniale finisce per obbligare colui che ha comunque beneficiato di quegli arredi a dover corrispondere all’altro soggetto un quantum, parametrato al godimento che abbia tratto dall’uso per un certo periodo, ferma la possibilità di procedere, per il futuro, alla restituzione del mobilio, in modo da porre termine alla situazione di arricchimento.
    Vi è, invece, contrasto in dottrina e giurisprudenza circa l’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento di un convivente nei confronti dell’altro quando, in seguito alla rottura della convivenza, si chieda di essere indennizzati per gli impoverimenti patiti a causa della convivenza.
    In realtà, in una simile ipotesi il dato ostativo è rappresentato dal fatto che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che le prestazioni effettuate nella convivenza rientrino nel novero delle obbligazioni naturali e siano come tali irripetibili.
    Una maggiore apertura si riscontra però laddove si dimostri che gli oneri sostenuti siano stati molto più gravosi rispetto alla normale contribuzione al menage familiare o che uno dei conviventi abbia perso qualsiasi introito da attività lavorativa in ragione dell’esigenza di liberare le energie dell’altro convivente.
    Al di fuori di tali ipotesi, la casistica più corposa in materia di ingiustificato arricchimento è senza dubbio rappresentata dalle pretese accampate avanzate (accampate suona male!) dai liberi professionisti nei confronti della pubblica amministrazione, con riguardo all’attività svolta di fatto e in assenza di un titolo contrattuale.
    La pubblica amministrazione, infatti, dovrebbe procedere all’affidamento di incarichi libero professionali attraverso contratto, stipulato all’esito di una procedura più o meno complessa di selezione del soggetto più idoneo allo svolgimento del servizio, con conseguente obbligo di corrispondere al privato l’importo pattuito.
    Il problema si pone, invece, con riguardo a tutti quei casi in cui l’amministrazione, nonostante contatti il privato per lo svolgimento di un’attività o di un servizio, non regolarizzi un simile rapporto, pur beneficiando, di fatto, delle prestazioni rese da questo.
    Un simile agere ha esposto la pubblica amministrazione a tutta una serie di azioni per l’ottenimento del compenso per l’attività prestata, il cui fondamento è stato ravvisato proprio nell’art. 2041 c.c.
    Mentre, infatti, nei casi in cui l’attività svolta sia resa con caratteri di subordinazione, la pretesa economica può trovare suffragio nell’art. 2126 c.c., l’attività svolta a favore della pubblica amministrazione dall’avvocato, dal progettista ect. , con evidenti caratteri di autonomia, se non resa in base ad un contratto, può fondare la sola richiesta dell’impoverimento subito, nei limiti dell’ingiustificato arricchimento conseguito dal soggetto pubblico.
    Non è data cioè l’azione contrattuale per il pagamento dei compensi dovuti, mancando a monte il titolo negoziale, né può parlarsi in senso proprio di indebito, essendovi alla base una richiesta che rende l’esecuzione della prestazione se non doverosa quanto meno autorizzata e lecita. Vi è, però, senza dubbio un’ipotesi in cui entra in gioco il binomio deminutio/locupletatio, cioè contestualità fra l’impoverimento e l’arricchimento.
    Inizialmente la giurisprudenza si è mostrata alquanto restia ad ammettere un simile utilizzo dell’art. 2041 c.c., accogliendo una lettura restrittiva della norma. A mo’ di quanto avvenuto per la gestione di affari altrui, ritenuta preclusa nell’attività pubblicistica in ragione dell’esistenza di una prohibitio domini, si è affermato che il privato non potesse dimostrare che effettivamente la sua attività avesse portato beneficio al soggetto pubblico, salvo l’ipotesi in cui questa avesse riconosciuto espressamente l’utilità dei risultati raggiunti.
    Una simile lettura, critica dalla dottrina in quanto considerata come ulteriore espressione del favor riconosciuto alla pubblica amministrazione, è successivamente stata superata: l’azione di ingiustificato arricchimento, infatti, richiede la mera verifica oggettiva del fatto che vi sia stata un’incidenza patrimonialmente valutabile nella sfera di due soggetti, laddove uno ne esca arricchito e l’altro impoverito. È chiaro, dunque, che una simile ipotesi è riscontrabile anche quando la Pubblica amministrazione si avvantaggi dell’attività del libero professionista: ciò essenzialmente perché essa ottiene una prestazione senza pagare un corrispettivo, mentre il privato viene impoverito del lavoro, delle energie spese per l’attività.
    Riconosciuta l’applicabilità in astratto dell’ingiustificato arricchimento, si è posto anche il problema di determinare quando esso giustifichi il diritto all’indennizzo, soprattutto con riguardo ai casi in cui dell’attività di un soggetto, che genera impoverimento, finiscano per beneficiare in via indiretta altri soggetti, diversi da quello nei cui confronti si è posto il fatto che dà avvio alla vicenda.
    Il quesito, di taglio più generale, ha infatti una ricaduta peculiare quando protagoniste della vicenda sono pubbliche amministrazioni.
    In linea teorica, infatti, la dottrina tradizionale ha sempre limitato la portata dell’arricchimento senza causa ai casi in cui da un unico fatto discendano contestualmente due vicende patrimoniali antitetiche cioè l’incremento della sfera patrimoniale di un soggetto e la diminuzione di quella di un altro. Si è sempre, cioè, negato che attraverso l’azione ex art. 2041 c.c. possano vantarsi pretese indennitarie discendenti da arricchimenti mediati, cioè in cui gli spostamenti patrimoniali non siano contestuali. Questo sia per evitare che l’indennizzo sia dovuto per conseguenze molto distanti dal fatto causativo dell’impoverimento sia per impedire che l’azione sia usata come meccanismo (improprio) di garanzia per ricevere ristoro di prestazioni eseguite in base ad un titolo (di regola contrattuale) ma magari non adempiute dall’obbligato.
    Il caso classico usato per illustrare il concetto dell’arricchimento mediato è infatti quello del meccanico che, dopo aver riparato l’autoveicolo portato in officina da un soggetto, non ricevendo il pagamento da colui che gli ha commissionato la riparazione, intenda far valere la pretesa nei confronti del diverso soggetto che risulti proprietario del veicolo, in ragione del fatto che questi, per effetto della riparazione voluta da altri, abbia conseguito comunque un arricchimento.
    La giurisprudenza, infatti, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha sempre sostenuto che un simile esito non è accettabile, necessitando l’azione ex art. 2041 c.c. dell’unicità del fatto generatore dello scompenso patrimoniale.
    Un simile principio, nella sua rigidità, è stato però mitigato in due casi e cioè quando la prestazione, che genera impoverimento per uno e resa a favore di un altro, vada a produrre un beneficio (mediato) nella sfera di un terzo quando questi lo acquisisca in maniera totalmente gratuita e, altra ipotesi, quando l’arricchimento sia conseguito da un soggetto pubblico, magari diverso da quella per cui si intendesse operare, ma comunque appartenente al novero delle pubbliche amministrazioni.
    Mentre nel primo caso, la ratio seguita dalla giurisprudenza risponde ad un evidente canone equitativo, in ragione del fatto che comunque vi è gratuità nell’acquisizione del beneficio da parte del terzo e quindi pare equo chiamarlo a indennizzare la perdita subita da altri, nel caso delle amministrazioni pubbliche l’argomento addotto è quello della fungibilità o indifferenza soggettiva del soggetto pubblico che beneficia della condotta di altrui impoverimento.
    Una simile ipotesi, elaborata in via pretoria, si correla comunque ad esigenze pratiche, legate al fatto che molto spesso le prestazioni rese per una amministrazione, in rapporti di fatto, finivano per spiegare effetti favorevoli per altri soggetti sempre pubblici.
    Si pensi al caso dell’attività di progettazione svolta, in assenza di specifico contratto, a favore dell’ente comunale, quando questa successivamente, mutata la competenza a realizzare l’opera, venga acquisita e usata da altra pubblica amministrazione oppure al caso dell’attività difensiva svolta in favore di un ente che finisca, in ragione delle eccezioni sollevate, per far conseguire vantaggi a altro soggetto pubblico.
    Sarebbe, in tali casi, incongruo non consentire al privato l’azione proprio nei confronti di chi ha tratto effettivo beneficio dal suo operare, trattandosi comunque di un vantaggio che va a implementare il patrimonio dell’amministrazione pubblica intesa nel suo complesso.
    Ulteriore questione di carattere generale che si è posta soprattutto con riguardo agli arricchimenti della pubblica amministrazione è stata quella relativa al quantum dell’indennizzo.
    Nel momento in cui, infatti, la giurisprudenza ha iniziato a riconoscere che le pretese professionali non fondate sul contratto potevano legittimare l’azione ex 2041 c.c. nei confronti dell’amministrazione, essa si è trovata a dover fronteggiare richieste di liquidazione estese sia agli importi dovuti per l’attività effettivamente espletata sia al guadagno che il professionista avrebbe ragionevolmente tratto dallo svolgimento di quelle attività in favore di altri clienti.
    Si è così ritenuto di dover liquidare essenzialmente il corrispettivo che il professionista avrebbe tratto dalla sua attività ove svolta in base ad un normale rapporto contrattuale, non essendovi stato solo un costo, ma essendo venuti a mancare anche gli introiti, gli incrementi di fatturato che questi avrebbe conseguito se non fosse stato impiegato in simili attività in favore del soggetto pubblico.
    Una simile prospettiva, che tendeva a riconoscere essenzialmente al professionista un importo corrispondente al valore della sua prestazione sul mercato, talora considerando anche i criteri tabellari previsti per alcune professioni regolamentate, è stata tuttavia sottoposta a revisione critica in ragione di due considerazioni.
    Sotto un primo profilo, di carattere spiccatamente pratico, si verificava una situazione paradossale tale per cui quei professionisti che avevano svolto le attività di fatto ricevevano un importo anche superiore a quello che l’amministrazione avrebbe corrisposto ove avesse provveduto regolarmente ad un affidamento del servizio in base alle regole di evidenza pubblica e alla successiva stipula del contratto; sotto un profilo teorico, invece, una simile giurisprudenza finiva per sconfessare la logica dell’indennizzo che sta alla base dell’art. 2041 c.c.
    È chiaro, cioè, che la norma prevede una responsabilità da atto lecito, la quale si concretizza, anche per esigenze equitative, nell’esigenza di indennizzare l’altro nei limiti della diminuzione patrimoniale subita.
    L’indennizzo, pertanto, non può che essere limitato al danno emergente, cioè a quella perdita che effettivamente si sia subita nel proprio patrimonio e comunque nei limiti dell’arricchimento che altri ne abbia tratto.
    Naturalmente la valutazione del danno emergente sarà diversa a seconda dei casi: così nelle ipotesi citate in materia familiare, in linea generale, si farà riferimento alle spese sostenute, alle obbligazioni assunte naturalmente in rapporto ai benefici che altri abbia tratto (il godimento del bene ristrutturato, del mobilio ect.), mentre esulerà qualsivoglia valutazione sui maggiori guadagni che il soggetto avrebbe tratto da un diverso uso di quelle risorse.
    Poiché cioè quel che rileva è la correlazione impoverimento-arricchimento, è soltanto a questi criteri che si dovrà agganciare l’indennizzo e ciò anche nel caso in cui l’oggetto dell’arricchimento sia una prestazione professionale.
    Pertanto, si dovranno sicuramente computare le spese vive che il professionista ha sostenuto per la sua attività nonché le energie intellettuali e il tempo che egli ha speso per realizzare la stessa, ma non la maggiore remunerazione che avrebbe tratto se avesse pattuito appositamente un corrispettivo.
    Fermi tali principi, la liquidazione dell’indennizzo potrebbe, in tali casi, non apparire agevole. Ad esempio nelle spese vive si potranno computare i costi del materiale usato, le trasferte e gli spostamenti sostenuti, mentre più difficoltoso sarà stimare il valore delle energie e del tempo impiegato per l’attività. Sicuramente si potranno individuare le ore di lavoro stimate per la redazioni di atti, delle planimetrie, per recarsi sui luoghi o alle udienze, ma è chiaro che una simile valutazione sconterà maggiori ambiti di aleatorietà. Si dovrà ritenere comunque che, in ossequio ai canoni generali, per liquidare queste voci non si possa tener conto dei corrispettivi abitualmente pattuiti dei professionisti (normalmente comprensivi del guadagno) ma solo e soltanto del valore che a quelle prestazioni sarebbe stato attribuito se svolte da un soggetto con identiche professionalità (e quindi con valorizzazione della qualifica che sarebbe stata necessaria), magari in regime di lavoro dipendente.
    Ciò muovendo dalla considerazione che la retribuzione, in linea generale, remunera il soggetto delle energie che spende a favore di altri, cioè della qualità e quantità di lavoro di cui il datore di lavoro finisce per beneficiare.
    A questa valutazione potrebbe aggiungersi il rilievo che un simile indennizzo è in realtà la misura massima di cui si potrà ottenere il ristoro. Un indizio in tal senso si trae dal riferimento, contenuto proprio nella norma, al limite dell’arricchimento conseguito. Laddove, infatti, si dimostri che l’attività svolta ha comunque prodotto un arricchimento più limitato, sarà ammissibile limitare ulteriormente il quantum dovuto.
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    entro il fine sett invio tutto :)
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    Ragazzi, entro il fine settimana conto di inviarvi tutti i temi rimasti indietro. So che c'ho messo un sacco, scusatemi. Magari tenete d'occhio il sito, così se quando pubblico il migliore vedete che non vi è arrivata la correzione del vostro nella casella di posta (può darsi che nell0invio alcuni temi mi siano sfuggiti), se me lo dite subito ve li invio immediatamente
1658 replies since 16/4/2008
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