Tracce corso 2013/2014

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    Dall'isola dei bimbi sperduti. Qualcuno ha visto mt?

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    Tracce civile per settembre (POTETE SCEGLIERNE SOLO UNA)
    1. Delineata la differenza tra eccesso ed abuso del diritto, tratti il candidato dell'abuso del diritto con particolare riferimento agli atti emulativi e ai contratti bancari, precisando quali possono essere le conseguenze a cui va incontro l'atto abusivo.
    2. Amministrazione di sostegno e regime degli atti personali dell'amministrato.
    3. Capacità giuridica e concepito, con particolare riferimento ai casi di malpractice sanitaria e di diritto a non nascere se non sano.
     
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  2. RaveRod80
     
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    Ecco qui, come promesso, con la mia traccia di diritto amministrativo...
    Buon divertimento

    "Premessi adeguati cenni sulla natura giuridica della Autorità Amministrative indipendenti tratti il candidato del fondamento del potere di regolazione di tali Autorità e delle problematiche connesse ai c.d. poteri impliciti."
     
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    Tracce civile per ottobre (POTETE SCEGLIERNE SOLO UNA).
    1. Premessi adeguati cenni sulla tipicità dei diritti reali, tratti il candidato della multiproprietà, con particolare riferimento a cosa accada laddove uno dei proprietari non intenda rispettare il periodo di godimento concordato.
    2. Il condominio. Il candidato tratti in particolare della natura delle obbligazioni dei condomini, della disciplina del lastrico solare e dell’impugnazione delle delibere condominiali.
    3. Patrimoni separati e trust, con particolare riguardo al trust interno.
     
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    QUAGLIA

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    Temi migliori sulla traccia di Settembre n. 1 "Delineata la differenza tra eccesso ed abuso del diritto, tratti il candidato dell'abuso del diritto con particolare riferimento agli atti emulativi e ai contratti bancari, precisando quali possono essere le conseguenze a cui va incontro l'atto abusivo.

    In generale posso dire che i temi sono stati quasi tutti ben fatti e sono molto contenta. Significa che è una traccia su cui vi siete tutti soffermati nel vostro studio, segnale che è proprio un tema probabile. Bravi! Ho scelto questo tema, sebbene ve ne fossero anche altri ottimi, solo per ragioni di completezza. Buono studio a tutti!


    Tema
    L’ordinamento giuridico conferisce e riconosce agli individui che ne fanno parte una molteplicità di diritti soggettivi in vista della realizzazione degli interessi dei titolari di tali situazioni giuridiche.
    Una delle problematiche, che è emersa nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, è costituita proprio dall’esistenza o meno di limiti all’esercizio dei diritti attribuiti dalla legge.
    L’analisi dei limiti ha consentito, gradualmente, di scalfire l’impostazione, in virtù della quale, una volta che i diritti soggettivi vengono riconosciuti ai consociati, possono essere esercitati in modo assoluto e incondizionato, con le più ampie facoltà e poteri previsti dalla legge.
    L’abbandono di tale concezione ha conseguentemente permesso alla giurisprudenza di legittimità e alla dottrina dominante di enucleare due principi di carattere generale rappresentati dall’abuso e dall’eccesso del diritto.
    L’abuso del diritto, nella cultura giuridica degli anni ’30, era considerato un concetto etico-morale, con la conseguenza che l’autore dell’abuso era ritenuto meritevole di biasimo ma non di una “sanzione” dal punto di vista giuridico.
    Ciò che veniva considerato abusivo era l’esercizio di un diritto, formalmente attribuito al soggetto, per finalità o interessi diversi da quelli perseguiti dal legislatore.
    Una nozione precisa di abuso del diritto non è riscontrabile in alcuna disposizione di legge, anche se l’art 7 del Progetto definitivo del codice civile del 1942 prevedeva che nessuno può esercitare un diritto in contrasto con lo scopo per cui il diritto è riconosciuto.
    Questo tentativo di positivizzare il divieto di abuso del diritto fallì per la diffidenza della cultura giuridica dell’epoca nei confronti di un penetrante sindacato del giudice sull’esercizio dei diritti attribuiti dalla legge o dal contratto, in tal modo creando un evidente “vulnus” alla certezza del diritto.
    La figura dell’abuso del diritto deve essere tenuta distinta dall’eccesso del diritto in quanto mentre la prima presuppone un atto che formalmente rientra nei limiti del diritto conferito, la seconda presuppone un comportamento che fuoriesce totalmente dal novero dei diritti attribuiti.
    L’eccesso del diritto risulta percepibile con una maggiore facilità in quanto l’atto realizzato dal soggetto travalica i limiti posti alle prerogative del titolare.
    Le ipotesi che vengono tradizionalmente ricondotte, anche se non con uniformità di vedute, all’eccesso del diritto sono quelle di cui all’art 1015 c.c. e quelle di cui all’art 2793 c.c.
    L’art 1015 c.c. prevede la cessazione dell’usufrutto se l’usufruttuario abusa del suo diritto alienando beni o lasciando che i medesimi si deteriorino o periscano per mancanza di riparazione.
    L’art 2793 c.c. prevede l’ipotesi in cui il creditore abusi della cosa data in pegno, con la conseguenza il costituente può domandarne il sequestro.
    In entrambe le ipotesi vi è un netto superamento delle prerogative attribuite al titolare del diritto che in un caso non rispetta il contenuto del diritto di usufrutto, rappresentato dal godimento della cosa da cui ne trae i frutti, nel rispetto della destinazione economica mentre nell’altro non tiene conto del contenuto del diritto reale di garanzia che obbliga il creditore a custodire la cosa e a non usarla, salvo l’uso necessario per la conservazione di essa.
    L’accertamento dell’eccesso del diritto è frutto di una valutazione statica a differenza dell’abuso del diritto che presuppone, invece, un accertamento “a posteriori” e in concreto, di tipo dinamico, che consenta di individuare quale sia l’interesse perseguito dal titolare del diritto rispetto a quello previsto dalla fattispecie normativa, in modo da comprendere se sia stata tenuta una condotta abusiva.
    Pur non essendo presente nel nostro ordinamento una disposizione di carattere generale che preveda e sanzioni l’abuso del diritto, vi sono diverse disposizioni che evocano condotte abusive tra le quali risultano degne di nota il divieto di atti emulativi di cui all’art 330 c.c., l’abuso di potestà genitoriale di cui all’art 330 c.c., l’art 1059 c.c. in materia di servitù nonché le disposizioni che in materia di obbligazioni e contratti richiamano la buona fede e la correttezza (artt. 1175, 1337, 1366, 1375 c.c.).
    Alla luce dell’esistenza di tali disposizioni normative si discute circa l’esistenza e il conseguente riconoscimento nel nostro ordinamento di un principio generale che vieti l’abuso del diritto.
    Una prima impostazione dogmatica, in ossequio al brocardo latino “qui suo iure utitur, neminem laedit”, riteneva che l’abuso del diritto è espressamente previsto e sanzionato solo in alcuni casi tassativamente indicati dalla legge, mancando un principio di carattere generale, che renderebbe, d’altro canto, incerta e insicura la realizzazione del diritto.
    La disposizione da cui autorevole dottrina riteneva di ricavare un principio di carattere generale è stato individuato nell’art 833 c.c. che, nel prevedere il divieto degli atti emulativi, vieta al proprietario di fare atti che non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri.
    Tale disposizione evocativa della clausola generale dell’abuso del diritto è limitata, secondo l’impostazione dottrinale richiamata, al settore dei diritti reali e non è suscettibile di esprimere un principio generale applicabile in tutto l’ordinamento.
    L’ambito di operatività di tale disposizione, limitato ai diritti reali, veniva giustificato sull’assunto che in tale materia si sentiva la necessità di tutelare il proprietario che poteva esercitare in modo pieno il suo diritto dominicale, con il solo limite rappresentato dal divieto di recare molestia o nocumento all’esercizio del diritto reale di un altro soggetto.
    In conseguenza di ciò il proprietario non ha il potere di compiere atti lesivi di un interesse altrui laddove non siano giustificati da alcun interesse o motivo valido, ma con l’unica finalità evidente di recare pregiudizi a terzi.
    Una condotta, alla luce di tali considerazioni, risulta abusiva ai sensi dell’art 833 c.c. quando venivano in rilievo due requisiti uno di carattere oggettivo, consistente nell’assenza di utilità dell’atto compiuto per il proprietario e uno di carattere soggettivo, rappresentato dall’ “animus nocendi (o aemulandi”) ovvero l’intenzione di arrecare pregiudizio o molestia a terzi.
    Tale impostazione risultava assai rigida dovendosi accertare da un lato l’intenzione del proprietario di recare pregiudizio ai terzi nonché l’assenza di utilità, con la conseguenza paradossale che, se il soggetto proprietario riceveva un vantaggio seppur minimo dal suo comportamento, pur se in contrasto con l’ordinamento, non integrava un atto abusivo.
    Per rimediare a tali conseguenze la giurisprudenza di legittimità qualificò diversamente gli atti emulativi, considerando tali solo quei comportamenti che implichino una sproporzione tra il pregiudizio altrui e l’utilità percepita dal proprietario.
    Non era più necessario l’”animus nocendi” e l’indice sintomatico dell’abuso del diritto era costituito dalla sproporzione tra l’utilità percepita e il sacrificio del terzo.
    Secondo un diverso e consolidato orientamento giurisprudenziale l’abuso del diritto costituisce principio di carattere generale dell’ordinamento, all’interno del quale si fanno rientrare tutte le ipotesi in cui il soggetto esercita un diritto, apparentemente conforme alla situazione giuridica soggettiva, ma in contrasto con l’interesse per il perseguimento del quale il potere è stato attribuito.
    L’abuso del diritto, per la giurisprudenza e la dottrina dominanti, viene per l’effetto ricondotto non unicamente alle ipotesi di cui all’art 833 c.c. ma alla tematica della buona fede in senso oggettivo prevista dalle disposizioni in materia di obbligazioni e contratti dagli artt. 1175, 1337, 1375 c.c.
    La buona fede oggettiva intesa quale reciproca lealtà, correttezza tra le parti contraenti deve accompagnare la fase della formazione, dell’interpretazione e della esecuzione del contratto con la conseguenza che è vietato ai contraenti esercitare diritti attribuiti dalla legge o dal contratto, per uno scopo diverso da quello per cui tali diritti sono preordinati.
    La buona fede in senso oggettivo, integrata dai doveri di correttezza e di lealtà, risulta espressione di quel generale dovere di solidarietà sociale costituzionalizzato dall’art 2 della Carta Fondamentale.
    Come è stato rilevato nella giurisprudenza di legittimità la buona fede, più che assumere un ruolo integrativo o modificativo del rapporto contrattuale, rappresenta un limite interno all’esercizio del diritto, in particolare alle pretese del creditore e più in generale al titolare del diritto, in un ottica di contemperamento e bilanciamento degli interessi dei contraenti, che porta i medesimi a tutelare ognuno le sfere reciproche, con evidente interesse degli stessi alla salvaguardia e alla conservazione del contratto, specialmente nella fase patologica dello stesso.
    Criterio rivelatore della violazione degli obblighi di correttezza e lealtà, integranti la buona fede, è l’abuso del diritto, i cui elementi costitutivi sono stati individuati in modo analitico dalla giurisprudenza.
    E’ necessario in primo luogo che un soggetto sia titolare di un diritto soggettivo che possa essere concretamente esercitato in diverse modalità.
    Inoltre il titolare del diritto, nel caso concreto, deve aver esercitato il diritto, pur se formalmente rispettoso della cornice normativa attributiva di quel diritto, in contrasto con un criterio di valutazione giuridico o extragiuridico con la conseguenza di creare una sproporzione ingiustificata tra l’utilità del titolare e il sacrificio della controparte.
    L’abuso del diritto si concreta conseguentemente nell’utilizzo di uno schema formale per il conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore.
    Il principio dell’abuso del diritto, vietato in materia contrattuale, alla luce dei principi di buona fede e correttezza è stato applicato ai contratti bancari, con riferimento ad alcuni comportamenti della banca che sono stati stigmatizzati e selezionati come abusivi, in particolare nell’ambito dell’apertura di credito, del conto corrente e nella concessione abusiva di credito.
    Nell’ambito dei contratti bancari si parte da una premessa, rappresentata dal fatto che i contraenti, nell’esecuzione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede ai sensi dell’art 1375 c.c.
    Alla luce di tale premessa indispensabile la giurisprudenza ha concentrato la sua analisi sulla valutazione del diritto di recesso, diritto potestativo riconosciuto alla banca dall’art 1845 c.c. nell’ambito del contratto di apertura di credito.
    La banca ai sensi dell’art 1845 c.c. non può recedere dall’apertura di credito prima della scadenza del termine, se non per giusta causa, a meno che non sia diversamente stabilito dalle parti contraenti, precisando che se il contratto è stato stipulato a tempo indeterminato ciascuna delle parti può recedere dando idoneo preavviso nel termine stabilito dal contratto, dagli usi o in mancanza in quello di quindici giorni.
    La disciplina del diritto di recesso, nell’ambito dell’apertura di credito, risulta derogabile dalle parti che possono prevedere una diversa regolamentazione dei propri interessi, stabilendo che il recesso possa essere esercitato anche in difetto di giusta causa, consentendosi per l’effetto modifiche unilaterali del contratto.
    La giurisprudenza ha ritenuto che l’esercizio del diritto di recesso da parte della banca, benché pattiziamente attribuito dal contratto di apertura di credito, anche in difetto di giusta causa, risulta contrario a buona fede e può integrare un abuso del diritto laddove assuma i connotati della arbitrarietà e della imprevedibilità.
    Il diritto di recesso, riconosciuto pattiziamente alla banca anche in deroga delle previsioni di cui all’art 1845 c.c., può essere considerato abusivo secondo la giurisprudenza in quanto il contraente non può esercitare un diritto che gli proviene dal contratto, per realizzare uno scopo diverso da quello riconosciuto dalla legge, con un evidente pregiudizio nei confronti del cliente al quale viene revocato il c.d. “fido”.
    Altro contratto in cui si è fatta applicazione dei principi enucleati in materia di abuso del diritto è il conto corrente bancario disciplinato dagli artt. 1852-1857 c.c.
    La questione problematica, posta all’attenzione della giurisprudenza, ha riguardato il diritto di compensazione del saldo attivo e passivo di diversi conti correnti intestati al medesimo correntista, previsto pattiziamente ed eseguito dalla banca senza congruo e idoneo preavviso e senza formalità particolari, cagionando un pregiudizio al cliente.
    Nel caso in esame, come nel precedente, le parti devono agire reciprocamente in modo leale, in modo che ognuna di esse non arrechi pregiudizio alla controparte, al fine di contemperare gli opposti interessi esistenti nel caso in esame: da un lato l’interesse della banca ad avere la liquidità attraverso operazioni di compensazione di conti e dall’altro l’interesse del cliente che confidava nella disponibilità del denaro sul proprio conto corrente.
    La mancata informazione del cliente da parte della banca in relazione ad operazioni di compensazione dalla medesima eseguite, costituisce violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto e di per se integra un abuso del diritto da parte della banca, avendo arrecato il comportamento un pregiudizio al cliente, con un evidente sproporzione in relazione all’utilità perseguita dal contraente più forte.
    Un ultima ipotesi che integra un abuso del diritto è la c.d. “concessione abusiva del credito” consistente nell’erogazione di finanziamento da parte di una banca ad un imprenditore, del quale conosce l’insolvenza, ingenerando nei terzi la convinzione della solidità dell’impresa finanziata.
    L’erogazione del finanziamento può costituire abuso del diritto, anche se, va valutato in concreto il comportamento tenuto dalla banca che risulterà abusivo qualora l’impresa si trovi in condizioni tali da non poter più adempiere alle proprie obbligazioni e versi quindi in uno stato di dissesto che si palesa come irreversibile.
    La mancata previsione di una disposizione di carattere generale in tema di abuso del diritto non consente all’interprete di delineare uno statuto unitario di quelle che potrebbero essere le conseguenze dell’atto abusivo, il quale va incontro a differenti regimi applicabili a seconda dell’ipotesi che viene in rilievo. In primo luogo il soggetto che ha ricevuto un pregiudizio può azionare una tutela di tipo risarcitorio ai sensi dell’art 2043 c.c. provando che vi è stato un fatto doloso o colposo che ha cagionato un danno ingiusto.
    La tutela risarcitoria ha trovato ad esempio applicazione con riferimento alla prelazione e al fenomeno della c.d. doppia alienazione immobiliare.
    La prelazione, che consiste nel diritto di un soggetto ad essere preferito ad un altro nell’ambito di successivi trasferimenti di un bene immobile, richiede al venditore l’”obbligo di denuntiatio” in relazione all’alienazione immobiliare.
    La mancata denuntiatio da parte del venditore e il conseguente trasferimento del bene costituiscono abuso del diritto, con la conseguenza di riconoscere al soggetto prelazionario una tutela di carattere risarcitorio ma non reale.
    Il fenomeno della c.d. “doppia alienazione immobiliare” individua invece il fenomeno attraverso il quale un proprietario di un immobile trasferisce un bene immobile a due diversi acquirenti e il secondo di essi, abusando del mezzo della trascrizione, registra per primo l’alienazione, in tal modo pregiudicando il primo acquirente al quale non viene trasferita la proprietà, con la conseguenza che a quest’ultimo viene riconosciuta una tutela risarcitoria.
    Il legislatore prevede, oltre ad una tutela di carattere risarcitorio, anche l’eventuale nullità o inefficacia delle clausole in caso di abuso della forza contrattuale di un contraente nei confronti di un altro più debole.
    Il codice civile nell’art 1341 c.c., nel disciplinare le condizioni generali del contratto, predisposte da un contraente nei confronti dell’altro, prevede che sono inefficaci una serie di clausole che determinano uno squilibrio di diritti e di obblighi: clausole limitative di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione per il predisponente mentre per l’altro clausole che implicano decadenze, limitazioni di facoltà di proporre eccezioni etc..
    In altre ipotesi il legislatore sanziona con la nullità di protezione, ai sensi dell’art 36 Cod. Consumo (Dlgs. 206/2005) le clausole c.d. vessatorie che determinano uno squilibrio di diritti e di obblighi tra il consumatore e il professionista.
    Ulteriore ipotesi da prendere in considerazione attiene all’art 9 della legge 192 del 1998 regolante la subfornitura che sanziona con la nullità l’abuso di dipendenza economica, fattispecie da molti autori, alla figura dell’abuso del diritto.
    Una tutela particolare viene riconosciuta nell’ipotesi in cui il comportamento abusivo di un contraente nei confronti dell’altro cagioni il mancato avveramento di una condizione, quale elemento accidentale del contratto e di conseguenza la mancata produzione degli effetti derivanti da esso.
    L’art 1359 c.c. prevede, per rimediare a tale situazione pregiudizievole per uno dei contraenti, una c.d. “fictio iuris” stabilendo che la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa.
    La tutela maggiore che viene riconosciuta nell’ipotesi di abuso del diritto, ovvero nel caso in cui un soggetto eserciti un diritto per uno scopo diverso da quello perseguito dal legislatore è la perdita di tutela, la c.d. “mancanza di tutela”, come stato sottolineato dalla giurisprudenza.
    Infatti nel caso contemplato dall’art 330 c.c. il legislatore ha sanzionato con la decadenza dalla potestà genitoriale, riconosciuta dall’art 316 c.c., il genitore che abbia abusato dei relativi poteri con pregiudizio nei confronti dei figli.
    Altro caso emblematico del mancato riconoscimento e conseguente perdita di tutela è presente nel caso di cui all’art 1015 c.c. ai sensi del quale l’usufrutto può cessare per l’abuso che ne faccia l’usufruttuario del suo diritto alienando i beni o deteriorandoli o lasciandoli andare in perimento o per mancanza di ordinarie riparazioni.
    Il diniego della protezione, riconosciuta astrattamente nell’ordinamento, nel caso di abuso del diritto è prevista anche in materia contrattuale dall’art 1426 c.c. che non rende annullabile il contratto stipulato a seguito dei raggiri del minore, che ha occultato la sua maggiore età.
    Infine un’altra conseguenza che può derivare dall’abuso del diritto è la proposizione della c.d. “exceptio doli generalis”, che si può ricondurread esempio all’art 1993 c.c. in materia di titoli di credito.
    L’art 1993 c.c. non consente al debitore di opporre al portatore del titolo le eccezioni fondate sui rapporti personali con i precedenti possessori, a meno che nell’acquistare il titolo, il possessore abbia agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo.
    Se il possessore del titolo, esercitando il proprio diritto derivante dall’acquisto del tiolo di credito, pone in essere una condotta abusiva, agendo intenzionalmente a danno del debitore, quest’ultimo può paralizzare l’esercizio sleale e fraudolento del diritto conferito di volta in volta dall’ordinamento.
    Le conseguenze a cui va incontro l’atto abusivo mostrano la varietà di rimedi esperibili e denotano la frammentarietà di regimi applicabili alle varie ipotesi, esistenti a causa di una mancata introduzione di una nozione di abuso del diritto nel nostro ordinamento.
    La strada da percorrere per la progressiva positivizzazione di un principio generale deve iniziare dall’art 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, vincolante in tutti i paesi dell’Unione Europea, la quale richiama il contenuto dell’art 16 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, che rubricato “divieto dell’abuso del diritto” stabilisce che “nesuuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri a distruggere diritti o libertà riconosciuti nella presente carta o imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta”.
    Il divieto di abuso del diritto, così come ricostruito nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale richiamato, viene riconosciuto a livello europeo nella Carta dei diritti fondamentali nell’ultima disposizione, quasi a significare che l’ordinamento rifiuta di tutelare diritti che sono esercitati in violazione delle finalità per le quali sono attribuiti.
    La sanzione che per l’effetto dovrebbe essere riconosciuta nei casi di abuso del diritto è la c.d. mancanza di tutela da parte dell’ordinamento nei confronti di soggetti che esercitano diritti, apparentemente conformi alla realtà normativa, per ottenere vantaggi e utilità in violazione di una regola generale di correttezza e di lealtà fissata dall’ordinamento, avente copertura costituzionale nell’art 2.

    Voto: 15, tema aderente alla traccia, approfondito, denota una solida conoscenza anche di altri istituti del diritto civile, cui l'autore si ricollega.



    Temi migliori sulla traccia di Settembre n. 2: "Amministrazione di sostegno e regime degli atti personali dell'amministrato"
    Sono stati due i temi migliori. Entrambi hanno preso 13, sono stati tra i pochi temi a prendere la sufficienza, credo sia utile in generale che rivediate bene questo argomento in vista dei futuri scritti, perché in moltissimi non avete descritto in modo sufficiente la disciplina degli atti personali. :(
    Il primo ha meglio approfondito la parte iniziale e quella relativa al diritto alla salute. Il secondo è più carente nella parte iniziale, ma l'autore si è sforzato di individuare tutti i casi di atti personali, sforzo che personalmente ho apprezzato moltissimo.

    a) Tema numero uno
    L’amministrazione di sostegno è un istituto a protezione dei soggetti deboli, in virtù del quale una persona che per effetto di una menomazione fisica o psichica si trova nell’impossibilità anche parziale di provvedere ai propri interessi può essere assistita dall’amministratore di sostegno (art. 404 c.c.)
    Occorre preliminarmente rilevare che si tratta di un istituto di recente introduzione legislativa. Infatti, la L. 6/2004 ha inserito nel Codice gli articoli 404 ss. in materia di amministrazione di sostegno.
    Prima di allora, gli unici istituti a tutela degli incapaci affetti da patologie psichiche o fisiche erano l’interdizione e l’inabilitazione. Entrambi, spesso considerati dalla dottrina inadeguati alla tutela effettiva dell’incapace poiché aventi una disciplina spesso lunga e complessa, non sono venuti meno a seguito dell’introduzione dell’amministrazione di sostegno, ma senza dubbio hanno visto notevolmente ridimensionato il loro ambito applicativo, anche a causa della ratio ispiratrice dell’amministrazione di sostegno. Infatti, la protezione degli incapaci deve essere funzionale alla tutela della persona prima e più che del patrimonio e deve essere approntata mediante strumenti che producano la minore compressione possibile della capacità d’agire nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana. L’amministrazione di sostegno introduce, infatti, un sistema di protezione flessibile, fondato su un progetto personalizzato, aderente alle concrete esigenze del beneficiario e sempre modificabile.
    L’ambito di applicazione è molto vasto, poiché ai sensi dell’art. 404 c.c. possono beneficiarne coloro i quali sono affetti da infermità o menomazione fisica o psichica che non possono provvedere ai loro interessi. Possono allora beneficiarne: a) i soggetti non autonomi, come ad esempio coloro i quali versano in stato di come, sono stati colpiti da demenza senile ovvero da ictus; b) i soggetti affetti da gravi patologie di ordine fisico sensoriale, come ad esempio i ciechi, i sordi, i sordomuti; c) i soggetti affetti da patologie psichiche, ricomprendendo in tale categoria anche coloro che vengono colpiti da forme più o meno gravi di depressione.
    La disciplina dell’amministrazione di sostegno prevede ai sensi dell’art. 405 c.c. che la nomina dell’amministratore debba avvenire con decreto che indicherà in maniera espressa l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del destinatario, nonché gli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore. Per tutti gli atti non indicati nel decreto il beneficiario conserva la piena capacità d’agire ai sensi dell’art. 409 c.c.
    Emerge chiaramente da quanto detto un’ulteriore peculiarità dell’istituto: in relazione al tipo di atto da compiere potrà profilarsi o un fenomeno sostitutivo, al pari di quanto avviene nella tutela, ovvero assistenziale come nella curatela.
    La scelta dell’amministratore rientra negli ampi poteri spettanti al giudice ai sensi dell’art. 408 c.c. ed è improntata alla cura degli interessi della persona. Così, il giudice potrà nominare la persona indicata dallo stesso beneficiario, ovvero in mancanza o in presenza di gravi motivi il coniuge, il convivente, il padre, la madre, il figlio, il fratello, la sorella, il parente entro il quarto grado ovvero il soggetto designato dal genitore superstite.
    Nello svolgimento dei suoi compiti l’amministratore ha il dovere di tenere conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario (art. 410 comma 1 c.c.)
    Può anche verificarsi l’ipotesi in cui l’amministratore o il beneficiario compiano atti in violazione di legge o delle disposizioni contenute nel decreto di nomina. Il legislatore ha previsto quale sanzione l’annullabilità di tali atti e legittimati a proporre l’azione sono l’amministratore, il beneficiario, i suoi eredi o aventi causa, nonché il P.M. per i soli atti illegittimi compiuti dall’amministratore di sostegno (art. 412 c.c.). E’ prevista anche la revoca dell’amministratore allorché vengano meno i presupposti dell’amministrazione ovvero la sua sostituzione quando necessario (art. 413 c.c.).
    Illustrata la disciplina dell’istituto è possibile rintracciare le differenze con le figure affini dell’interdizione e dell’inabilitazione.
    Come è noto, possono essere interdette le persone che versano in condizione di abituale infermità di mente, che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi (art. 414 c.c.). Invece, possono essere inabilitate le persone che si trovano in uno stato non talmente grave da essere interdette (art. 415 comma 1 c.c.), coloro i quali facciano abuso di sostanze stupefacenti o alcoliche (art. 415 comma 2 c.c.), nonché il sordo o il cieco dalla nascita se non abbiano avuto un’educazione sufficiente (art. 415 comma 3 c.c.).
    Dalla lettura delle norme si potrebbe desumere prima facie che l’interdizione è la misura a protezione degli incapaci cui ricorrere nei casi più gravi, l’inabilitazione quella meno grave dell’interdizione e l’amministrazione di sostegno la misura residuale. A ciò sarebbe, poi, commisurata la graduazione della capacità d’agire: assente nell’interdetto, parziale nell’inabilitato e parziale o piena a seconda del tipo di atto nel beneficiario dell’amministrazione di sostegno.
    Tuttavia una tale interpretazione è ormai superata anche alla luce dei recenti interventi della Corte di Cassazione, la quale ha recentemente statuito che la differenza tra l’amministrazione di sostegno e le altre misure a protezione degli incapaci non è il dato quantitativo, bensì funzionale. Infatti, per scegliere la misura più adeguata alla protezione dell’incapace bisognerà guardare all’esigenza che di volta in volta sarà necessario perseguire ed il tipo di attività da compiere.
    In materia di amministrazione di sostegno, poi, sono state rilevate talune questioni problematiche, concernenti la scelta dell’amministratore, la necessità di difesa tecnica, nonché gli atti personalissimi.
    Tralasciando le prime due questioni, menzionate per mere esigenze di completezza, occorre occuparsi delle problematiche derivanti dal compimento degli atti personalissimi da parte di un soggetto beneficiario dell’amministrazione di sostegno.
    In particolare, si rammenta che gli atti personalissimi sono quegli atti per i quali è inconcepibile una sostituzione nell’attività, si pensi al testamento, alla donazione, al matrimonio e vanno tenuti distinti dai diritti personalissimi, i quali caratterizzano così tanto l’individuo che sarebbe addirittura impossibile concepire il predetto privo di essi. Per tale ragione si tratta di diritti ritenuti tradizionalmente assoluti, indisponibili ed imprescrittibili.
    A mero titolo esemplificativo si indicano quali diritti personalissimi il diritto all’integrità fisica, il diritto alla vita, il diritto al nome, il diritto all’immagine, nonché il diritto alla salute.
    Ci si è domandati se l’amministratore di sostegno possa compiere al posto del beneficiario atti personalissimi e soprattutto se egli possa effettuare scelte riguardanti le cure sanitarie.
    Tradizionalmente si è sempre ritenuto che il rappresentante legale potesse agire per l’incapace con il solo limite degli atti personalissimi. Data, infatti, la natura di tali atti, come già sopra affermato, non possono che essere compiuti dal titolare della situazione giuridica che sottendono. Recentemente, però, taluni hanno ipotizzato con particolare riguardo al testamento ed alla donazione che il beneficiario dell’amministrazione possa essere affiancato dall’amministratore, in modo che l’atto sia da una parte direttamente imputabile al primo, poiché è egli stesso a compierlo, e dall’altro comunque la presenza dell’amministratore garantisce la protezione e l’assistenza del soggetto debole.
    In relazione, invece, alle cure sanitarie la questione si pone in termini diversi, poiché affinché un soggetto si sottoponga a un qualsiasi trattamento sanitario deve prestare il consenso, il quale deve essere libero, ossia privo di qualsiasi ingerenza da parte di terzi e quindi reale manifestazione di autodeterminazione del prestatore effettivamente capace, completo, poiché deve riguardare tutti i trattamenti cui deve sottoporsi il soggetto, ed infine informato, in quanto il paziente deve avere consapevolezza delle conseguenze possibili sia in caso di sottoposizione a quelle cure sia in caso contrario, nonché egli deve conoscere anche le eventuali e possibili controindicazioni.
    Alla luce di ciò, il consenso può essere prestato dal beneficiario dell’amministrazione di sostegno, poiché questi non perde, anzi conserva la capacità d’agire seppur nei limiti sopra enunciati.
    Tuttavia, non sempre il soggetto debole si trova in uno stato fisico che gli consenta di poter prestare il consenso, così ci si è chiesti se possa provvedere a ciò l’amministratore di sostegno.
    Pare, però, necessario distinguere l’ipotesi in cui esistano delle direttive anticipate di trattamento da quella inversa. Infatti, le direttive anticipate di trattamento in quanto manifestazione di volontà di un soggetto ancora capace non possono essere disattese e quindi devono essere rispettate sia dall’amministratore di sostegno sia dai sanitari. La Suprema Corte ha, infatti, recentemente statuito che “l’intervento dell’amministratore di sostegno, pur nei limiti operanti in materia di diritti personalissimi è vincolato alle indicazioni manifestate in condizioni di capacità dal soggetto ed ha il potere / dovere di esternarle, senza che si ponga il problema di ricostruire la volontà del soggetto”.
    Nel caso, invece, di assenza di direttive anticipate di trattamento, sorgono maggiori problemi, i quali però sono stati recentemente superati dalla giurisprudenza. Infatti, partendo dal presupposto che il consenso costituisce una manifestazione di volontà esercizio di un diritto personalissimo e non anche un atto personalissimo, è possibile ricorrere alla rappresentanza sia legale sia volontaria, la quale, però, incontra dei limiti: a) l’amministratore di sostegno deve sempre agire nell’esclusivo interesse del soggetto debole e b) nella ricerca del migliore interesse deve decidere non al posto ma “con” il soggetto debole. Ciò significa che l’amministratore deve ricostruire la volontà del beneficiario, considerando i desideri, espressi prima della perdita di coscienza, nonché il suo stile di vita, le inclinazioni ed i valori. L’amministratore deve, inoltre, considerare l’idea di dignità della persona manifestata dall’incapace in precedenza, in modo da rispettare quanto più possibile il suo diritto di autodeterminarsi.



    b) Tema numero due

    Nel disciplinare i soggetti che ne fanno parte, l’ordinamento individua coloro che hanno attitudine ad essere centro di imputazione di situazioni giuridiche, essendo muniti della capacità giuridica, e coloro che, oltre a ciò, sono altresì dotati della capacità di agire, cioè idonei a curare i propri interessi personali e patrimoniali, interagendo in vari modi con altri soggetti di diritto.
    Mentre la prima, in ogni caso, si acquista con la nascita e si perde con la morte (art. 1 c.c. ed art. 22 Cost.), la seconda si consegue al compimento del diciottesimo anno d’età (art. 2 c.c.), con il quale il soggetto matura, presuntivamente, la capacità di compiere tutti gli atti per i quali la legge non stabilisce un’età diversa.
    Realisticamente, il legislatore prende atto che al formale raggiungimento dell’età fissata dal codice civile può non corrispondere una effettiva maturazione psicologica e sociale ed altresì che questa, pur conseguita, può occasionalmente difettare anche in un individuo adulto.
    Per evitare che, nelle predette ipotesi, il soggetto formalmente maggiorenne ma sostanzialmente incapace, sia comunque vincolato dagli atti giuridici compiuti, il codice civile appronta alcuni rimedi, più o meno invasivi della capacità d’agire del soggetto, a seconda della causa dell’incapacità e del suo carattere permanente o temporaneo.
    Nel caso di un soggetto normalmente dotato della capacità d’agire, che abbia compiuto un atto o concluso un negozio in stato di incapacità di intendere o di volere, comunque causato ed anche transitorio, il legislatore interviene non già sulla capacità d’agire dell’individuo, bensì sullo specifico atto o negozio da questi compiuto, consentendone l’annullamento alle condizioni previste dall’art. 428 c.c.
    Qualora, però, il soggetto, pur maggiorenne, manifesti una inidoneità cronica alla cura dei propri interessi personali e patrimoniali, l’ordinamento appresta altri più pregnanti istituti, che incidono direttamente, in misura più o meno ampia, sulla capacità legale del soggetto.
    Due di essi, già disciplinati nella codificazione del 1865 e conservati nel codice civile del 1942, “revocano”, in tutto o in parte, per così dire, la capacità d’agire automaticamente raggiunta al diciottesimo anno d’età: si tratta dell’interdizione e dell’inabilitazione.
    Mentre la prima presuppone nell’individuo una abituale infermità di mente e lo equipara ad un minore d’età, la seconda assimila al minore non emancipato il soggetto infermo di mente, ma in misura meno grave rispetto a quella che darebbe luogo a interdizione, o dipendente da alcool o stupefacenti o affetto da minorazioni fisiche non sopperite da un’adeguata istruzione. L’interdetto, pertanto, viene integralmente sostituito dal tutore nel compimento di ogni attività giuridica patrimoniale, tanto di ordinaria, quanto di straordinaria amministrazione; l’inabilitato, al contrario, è affiancato dal curatore nei soli atti di straordinaria amministrazione, conservando la capacità di compiere autonomamente gli atti di ordinaria amministrazione.
    L’esposto sistema di tutele dell’incapace, in origine ritenuto esaustivo ed idoneo, è entrato progressivamente in crisi, in linea con l’affermazione di nuove istanze di protezione, più sensibili alla dimensione personalistica, ripetutamente avanzate dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
    Nello spirito originario della codificazione, infatti, i due istituti erano previsti non tanto a tutela della persona dell’incapace, quanto del suo patrimonio e, in ultima analisi, preordinati ad assicurare la famiglia di appartenenza del soggetto dal pericolo di iniziative giuridico-patrimoniali insipienti e dannose.
    E’ stato, inoltre, osservato che entrambi gli istituti risultano particolarmente invasivi della sfera giuridica dell’individuo, comprimendone in modo rilevante la capacità d’agire e, rivelandosi, così, ultronei rispetto a soggetti colpiti da lievi infermità fisiche o psichiche.
    Per tali soggetti, non incapaci legalmente e tuttavia bisognosi di sostegno, il tradizionale sistema di protezione si è rivelato del tutto inefficace, causando un sostanziale vuoto di tutela.
    Allo scopo di rimediare al deficit normativo, il legislatore è perciò intervenuto sul libro I del codice civile con la l. 6/2004, ridisegnando il complessivo quadro giuridico di riferimento ed introducendo il nuovo istituto dell’amministrazione di sostegno.
    Emblematica è già la modifica della rubrica del Titolo XII, in origine “Dell’infermità, dell’interdizione e dell’inabilitazione” ed oggi “Delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia”. Non scevra di significative implicazioni è, poi, la stessa articolazione della nuova disciplina: in ossequio al principio di proporzionalità e di gradualità nell’applicazione di misure di protezione, il Capo I è dedicato all’amministrazione di sostegno, che acquista così carattere generale, mentre il Capo II, relativo ad interdizione ed inabilitazione, relega i due tradizionali istituti ad una funzione residuale, di “chiusura” del sistema.
    Benché la nuova misura di protezione presenti notevoli affinità con le preesistenti quanto ai soggetti legittimati a proporre l’istanza, al procedimento di nomina ed ai criteri di scelta del soggetto incaricato di occuparsi dell’incapace, profondamente diversi sono i presupposti dell’amministrazione di sostegno ed i poteri dell’amministratore.
    Come chiarito dall’art. 404 c.c., può essere assistita da un amministratore di sostegno la persona che versi nell’impossibilità, totale o parziale, di provvedere ai propri interessi per effetto di una infermità o di una minorazione fisica o psichica. Il legislatore, dunque, rinuncia a quantificare il grado e la natura dell’infermità rilevante ai fini dell’applicazione della misura de qua.
    Analogamente, l’art. 405 c.c. rimette al giudice tutelare la determinazione dell’“oggetto dell’incarico” e degli atti che l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario, nonché di quelli che l’amministrato può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno.
    Se il discrimen tra poteri del tutore e poteri del curatore è nella natura dell’atto (di ordinaria o di straordinaria amministrazione), i poteri dell’amministratore non sono così nettamente definiti, in linea con l’intento riformatore di apprestare uno strumento di tutela duttile ed efficace, il più possibile idoneo a modellarsi sulle specifiche esigenze del soggetto bisognoso di volta in volta considerato.
    Lo statuto dei poteri dell’amministratore di sostegno, che si rinviene nel decreto di nomina di quest’ultimo, trova però un limite invalicabile nella disposizione di cui all’art. 409 c.c., ove si stabilisce che il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno e che egli può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana.
    Da quanto precede si evince che il sostenuto, da un lato, può vedere ridotta la propria capacità di agire, specie allorché sia affetto da un’infermità psichica; dall’altro, egli rimane legalmente capace per tutti gli atti in cui, secondo quanto disposto nel decreto di nomina, non deve essere assistito o rappresentato dall’amministratore.
    La disciplina, che non pone particolari difficoltà rispetto agli atti patrimoniali, non chiarisce, tuttavia, il regime giuridico degli atti personali dell’amministrato, cioè di quegli atti che, per il loro carattere di stretta inerenza alla persona, il soggetto deve compiere direttamente, in quanto non tollerano rappresentanza. Tali sono determinati negozi afferenti al diritto di famiglia (matrimonio, riconoscimento di figlio naturale, adozione), nonché alcuni particolari negozi a contenuto patrimoniale, ma a spiccato carattere personale (testamento, donazione) ed infine gli atti relativi all’esercizio di diritti fondamentali della persona, quali il diritto alla salute (consenso informato a trattamenti sanitari).
    Nel silenzio della legge in merito alle suddette categorie di atti, gli interpreti sono stati impegnati a svolgere un minuzioso lavoro di indagine, per stabilire se il beneficiario dell’amministrazione di sostegno conservi il diritto di porli in essere o se l’eventuale limitazione della sua capacità legale gliene precluda il compimento.
    Per ciò che concerne i negozi afferenti al diritto di famiglia, sembra non sussistano ostacoli a ritenere l’amministrato in grado di compierli, soprattutto se è stato sottoposto ad amministrazione di sostegno per un’infermità o una menomazione fisica, che dunque non incide sulla formazione della sua volontà.
    In particolare, per quanto concerne il matrimonio, giova ricordare che l’art. 119 c.c. prescrive la nullità del matrimonio qualora uno dei coniugi sia interdetto e non anche qualora sia inabilitato, cioè solo in caso di grave ed abituale infermità di mente. Non pare, quindi, che la validità del matrimonio contratto dal beneficiario di amministrazione di sostegno possa essere inficiata, pur quando la misura si basi su una deficienza psichica dell’amministrato, visto che la legge non prevede tale grave conseguenza neppure per l’inabilitato.
    Il beneficiario potrà, però, secondo la generale previsione dell’art. 120 c.c., far valere la propria eventuale incapacità naturale ed ottenere così l’annullamento del matrimonio.
    Analoghe considerazioni possono essere svolte per il caso di riconoscimento del figlio naturale, che non può dirsi ex se preclusa all’amministrato e che, secondo la previsione testuale dell’art. 266 c.c., è impugnabile dal solo interdetto giudiziale.
    Anche i rapporti tra beneficiario ed adozione, in particolare di minori d’età (c.d. legittimante), possono destare dubbi, ma in senso positivo può osservarsi che l’infermità, fisica o psichica, di cui all’art. 404 c.c. non pare escludere automaticamente che l’amministrato abbia i requisiti necessari per adottare il minore, cioè sia affettivamente idoneo e capace di educare, istruire e mantenere l’adottando. Naturalmente, tale questione presuppone la positiva soluzione del problema del matrimonio dell’amministrato, poiché nel nostro ordinamento, com’è noto, l’adozione di minori d’età è consentita solo a coniugi (art. 6 l.184/1983).
    Per ciò che concerne i negozi afferenti all’area del diritto di famiglia, quindi, pare senz’altro sostenibile che l’amministrato possa validamente concluderli, pur quando il giudice tutelare ne abbia compresso la capacità d’agire, stabilendo che l’amministratore di sostegno debba sostituirlo in uno o più negozi giuridici. Non può dimenticarsi, infatti, che la Costituzione tutela l’individuo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2), in primis la famiglia; pertanto, precludere al beneficiario il compimento di tali atti si tradurrebbe in una limitazione ingiustificata della sua libertà, poiché i suddetti atti personali sono strettamente correlati a diritti costituzionalmente garantiti.
    Discorso in parte diverso può svolgersi per la seconda categoria di negozi citati, il testamento e la donazione, entrambi a contenuto senz’altro patrimoniale, ma dalla connotazione marcatamente personalistica.
    Il testamento è, infatti, secondo l’art. 587 c.c., l’atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie “sostanze” o di parte di esse; si tratta dell’atto unipersonale per antonomasia, posto che l’art. 589 c.c. vieta espressamente il testamento congiuntivo e che, dunque, non tollera la collaborazione di terzi nella determinazione della volizione del soggetto (salvi i limitati casi in cui si ammette la relatio sostanziale).
    Rispetto a tale tipo di negozio giuridico, le alternative sono due: o si ammette che il beneficiario possa fare testamento, o si ritiene che, per effetto dell’applicazione dell’amministrazione di sostegno egli abbia perduto la capacità di testare. Anche in tal caso, deve ricordarsi che, innanzi tutto, occorre verificare quanto disposto nel decreto di nomina, poiché il beneficiario non potrà testare qualora il giudice tutelare abbia così disposto.
    Il problema permane, però, qualora il provvedimento giudiziario taccia sul punto. In tal caso, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, deve ritenersi che l’amministrato conservi la capacità di testare, posto che l’art. 591 c.c. la esclude testualmente in soli tre casi: interdetto giudiziale, minore d’età ed incapace di intendere e di volere. Salva l’ipotesi in cui il beneficiario rediga testamento in stato di incapacità naturale, può quindi ritenersi che egli sia in grado di confezionare un testamento non impugnabile.
    Per quanto attiene alla donazione, invece, la stessa disciplina positiva non fornisce dati univoci. Da un lato, infatti, l’art. 774 c.c. stabilisce che non sono capaci di donare i soggetti che non hanno la “piena capacità d’agire”. Tale sarebbe anche l’amministrato, qualora il decreto di nomina abbia previsto come necessaria la rappresentanza o l’assistenza dell’amministratore per uno o più atti.
    Dall’altro, però, l’art. 411 c.c. richiama l’art. 779 c.c., che sancisce la nullità della donazione a favore del tutore o protutore del donante prima dell’approvazione del conto o dell’estinzione dell’azione per il rendimento del conto stesso. Non si comprende come tale norma sia applicabile al beneficiario dell’amministrazione di sostegno, se non ammettendo che questi possa avere la capacità di donare.
    Dal combinato disposto delle norme richiamate sembra prudente concludere che, in linea di principio, l’amministrato non goda della capacità richiesta per la donazione, salva l’ipotesi di legittimazione concorrente dell’amministratore, cioè salvo il caso in cui il decreto di nomina non abbia inciso sulla capacità di agire del soggetto (che conserva, così, la “piena capacità” richiesta dall’art. 774 c.c.) e l’amministratore sia stato nominato solo a causa, ad esempio, di un mero impedimento fisico del beneficiario.
    Più complesso ed articolato è il regime giuridico degli atti personali dell’amministrato che attengono direttamente ad alcuni suoi diritti personalissimi, quali la vita, la salute, l’integrità fisica, che la giurisprudenza ha dovuto ripetutamente esaminare sub specie di consenso informato ai trattamenti medici o alla cessazione degli stessi.
    Com’è noto, numerose pronunce hanno contribuito a chiarire, nel corso degli anni, quali sono i requisiti necessari affinché il consenso del paziente possa dirsi informato. Occorre che questi esprima una volontà attuale, autentica, libera, formatasi in seguito all’acquisizione di ogni informazione relativa alle tipologie ed ai possibili esiti dei trattamenti terapeutici cui potrebbe sottoporsi.
    In ragione di ciò, la volontà manifestata direttamente dal paziente, anche se sottoposto ad amministrazione di sostegno, è senza dubbio l’unica cui avere riguardo, in tutti i casi in cui sia possibile acquisirla.
    Non di rado, tuttavia, la giurisprudenza ha dovuto esaminare la questione proprio nella situazione opposta, allorché il paziente versi in uno stato di incoscienza irreversibile e si renda necessario manifestare una decisione per l’una o l’altra opzione terapeutica. In tal caso, secondo l’orientamento pretorio ormai consolidato, avallato anche dalla Suprema Corte, l’amministratore di sostegno dovrà farsi portavoce di quella che sarebbe stata la volontà presunta del beneficiario, desumibile dalle sue convinzioni etiche, culturali, sociali e religiose, nonché dalle volontà eventualmente manifestate in precedenza e dall’insieme delle sue scelte e del suo stile di vita.
    Si tratta, evidentemente, di una questione estremamente delicata, in cui si ammette eccezionalmente che la volontà di un soggetto possa essere manifestata da un altro in relazione all’esercizio di un diritto personalissimo.
    Da tutto quanto precede può comprendersi come il tema del regime giuridico degli atti personali dell’amministrato sia alquanto complesso e non offra soluzioni sicure.
    Nel silenzio del legislatore e del decreto di nomina, l’interpretazione costituzionalmente orientata del diritto positivo vigente induce a ritenere che, in linea di principio, il beneficiario rimanga pienamente capace di autodeterminarsi e di compiere tutti gli atti afferenti alla sua sfera personale. Solo qualora il soggetto si trovi in stato di incapacità naturale le sue decisioni potranno essere impugnate, nei casi ed alle condizioni previsti dalle specifiche disposizioni codicistiche.
    Questa ricostruzione pare, in ultima analisi, la più convincente, anche perché più rispondente allo spirito della l. 6/2004, informata al principio della predisposizione di misure di tutela del soggetto debole con la minore limitazione possibile della sua capacità legale.
     
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    Temi migliori sulla traccia di Settembre n. 3: "Capacità giuridica e concepito, con particolare riferimento ai casi di malpractice sanitaria e di diritto a non nascere se non sano"
    Questa traccia è andata molto bene, quasi tutte sufficienze. Bravi!


    Tema numero uno
    Per soggetti di diritto l’ordinamento intende persone fisiche ed enti in grado di elevarsi a centri di imputazione di diritti soggettivi e di obblighi, sottraendosi così a quell’atteggiamento di indifferenza che il diritto riserva agli interessi non rilevanti per la società.
    La soggettività giuridica implica dunque una astratta idoneità a porre in essere atti giuridicamente rilevanti, in grado cioè di produrre effetti modificativi, costitutivi o estintivi nella propria sfera giuridica.
    Il codice civile non descrive presupposti e condizioni per l’acquisto della soggettività giuridica, ma sub art. 1 tratta della capacità giuridica, che la persona fisica acquista al momento della nascita, ovvero della separazione dall’utero materno con conseguente autonoma attività cardio-respiratoria.
    Si tratta di concetti avvinti da un nesso di pregiudizialità logica, dal momento che per poter essere considerati giuridicamente capaci occorre essere preventivamente individuabili quali potenziali destinatari di norme giuridiche e dunque soggetti di diritto.
    L’evento della nascita rappresenta dunque quel fatto naturale cui l’ordinamento attribuisce rilevanza per la attribuzione della capacità giuridica.
    Dato il carattere futuro e incerto della stessa, essa assolve al ruolo di condicio iuris sospensiva, in questo caso prevista dal legislatore medesimo.
    Non è peraltro richiesto che la persona nasca sana ed è sufficiente anche un solo istante vita autonoma per determinare l’acquisto della capacità giuridica e dunque l’apertura della successione, ad esempio.
    Da un punto di vista concreto rileva invece la cd capacità di agire, che consiste nella concreta idoneità a compiere atti giuridicamente rilevanti, la quale si raggiunge con il compimento del diciottesimo anno di età, salvo sia stabilita un’età diversa (art. 2 cc).
    Dalla nascita e fino alla morte – cioè la irreversibile cessazione delle funzioni vitali - la persona sarà dunque presente nel mondo giuridico, acquisendo diritti patrimoniali e personali, e non potrà essere privata della capacità giuridica se non nei casi previsti dalla legge (art. 22 Cost.).
    Ciò premesso, occorre considerare se e a quali condizioni un soggetto non ancora nato possa essere oggetto di attenzione da parte dell’ordinamento ed a quali fini.
    Da quanto detto sinora discende che il concepito, e a maggior ragione il concepturus, non goda della capacità giuridica, essendo un potenziale soggetto di diritto.
    Tuttavia, dall’esame di talune disposizioni presenti nel codice civile risulta che il concepito e talvolta anche il concepturus siano destinatari di determinati effetti giuridici.
    In particolare ai sensi dell’art. 462 cc il concepito è capace di succedere al pari della persona nata al momento della apertura della successione. Al comma secondo - per esigenze di certezza - la norma si premura di stabilire una presunzione iuris tantum di concepimento al tempo della successione, soddisfatta qualora la nascita avvenga entro trecento giorni dalla morte della persona della cui successione si tratta.
    L’art. 642 uc cc prevede altresì che possa essere chiamato a succedere anche il concepturus, purché figlio di una persona vivente al momento dell’apertura della successione. Tale precisazione consente di evitare la declaratoria di nullità della disposizione per indeterminatezza del beneficiario ex art. 1346 cc, ampliando così la libertà del testatore.
    Non solo. Simmetricamente la legge ammette poi che il concepito, o il figlio di determinata persona vivente al tempo della disposizione, sebbene non ancora concepito, possa essere beneficiario di una liberalità (art. 784 co 1 cc).
    Ciò considerato occorre quindi interrogarsi sulla soggettività giuridica e capacità dei destinatari di tali norme, nonché sulla efficacia di simili disposizioni, tutte a rilevanza patrimoniale.
    Dal tenore dell’art. 1 cc sembra infatti potersi escludere che il concepito, e a maggior ragione il concepturus, sia dotato di soggettività giuridica, ovvero della astratta capacità di acquisire diritti ed obblighi. Ciò in quanto è come detto la nascita a costituire l’elemento perfezionativo della fattispecie de qua.
    Tuttavia, poiché l’ordinamento non è indifferente a tali soggetti, limitatamente alle disposizioni esaminate sembra corretto ritenere che si tratti di un’aspettativa giuridicamente tutelata ad acquisire i diritti patrimoniali indicati.
    Essa in particolare si atteggia a fattispecie a formazione progressiva, scandita da una serie di fatti temporalmente susseguentisi l’ultimo dei quali perfeziona l’acquisto del diritto.
    Nell’attesa che si verifichi l’evento perfezionativo (nascita) il concepito non ha dunque titolo per vantare alcunché e solo con l’avveramento della condizione la disposizione produrrà effetti nel suo patrimonio.
    La posizione tutelata ha pertanto rilevanza meramente strumentale e non finale.
    Si coglie così una importante differenza con il diritto soggettivo che l’ordinamento accorda solamente alla nascita (ad es. diritto di proprietà, di credito), quale situazione finale che esprime forza e libertà in quanto il titolare è libero di esercitarlo o meno, ma se decide di farlo dispone di strumenti coercitivi in grado di dare piena attuazione agli interessi patrimoniali o non patrimoniali sottesi.
    In quanto aspettativa giuridicamente tutelata e non di mero fatto, la posizione del concepito rispetto ai diritti patrimoniali indicati gode dunque di una tutela strumentale rimessa ai legali rappresentanti.
    L’art. 784 cc in punto di donazione rinvia agli artt. 320 e 321 cc secondo cui saranno i genitori di regola congiuntamente a rappresentare i figli nascituri in tutti gli atti civili e ad amministrarne i beni, salvo che per gli atti di ordinaria amministrazione, che possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore.
    Essi saranno quindi legittimati ad agire in giudizio qualora il mancato perfezionamento della fattispecie dipenda ad es. dal fatto doloso o colposo altrui ex art. 2043 cc (ad es. morte del concepito avvenuta a causa di un sinistro stradale con addebito colposo).
    Trattandosi di una aspettativa e non di un diritto perfetto è lecito domandarsi quale sia l’entità del danno risarcibile.
    Non l’intero danno dal momento che la nascita rappresenta un evento futuro e incerto, dipendente da molteplici variabili.
    Piuttosto sembra preferibile fare riferimento al cd danno da perdita di chances, e dunque alla probabilità che, rebus sic stantibus, aveva il concepito di nascere, seppure resta una stima alquanto incerta.
    Rispetto al soggetto non ancora concepito non sembra possibile ipotizzare una forma di tutela ulteriore rispetto a quella di tipo conservativo in pendenza della condizione, secondo il disposto degli artt. 320, 321 cc.
    Qualora la nascita non si verifichi, si ritiene che la quota ereditaria debba essere ripartita tra gli ulteriori eredi secondo il cd accrescimento (art. 674 cc).
    Per le ragioni esposte non pare infatti ipotizzabile un fenomeno successorio rispetto ai genitori.
    In caso di donazione invece, dato il carattere strettamente personale della stessa, la disposizione sarà inefficace.
    Da quanto detto l’interesse del legislatore del 1942 nei confronti del nascituro si arresta all’ambito delle disposizioni patrimoniali.
    Questo rappresenta il retaggio di un’epoca incentrata precipuamente sulla tutela dei diritti reali, in cui ad acquisire preminente rilevanza sono i beni a carattere produttivo. La salvaguardia di detti interessi patrimoniali si spinge oltre le stesse regole creando finzioni di soggettività giuridica, mentre medesime considerazioni non possono essere spese per la tutela dei diritti della persona.
    Infatti gli 6 e ss cc, che concernono i diritti della personalità (nome, immagine) – i quali si sono poi evoluti attraverso successive elaborazioni confluite in norme giuridiche contenute in altri testi (ad es. Cod Privacy Dlgs 196/2003) – fanno riferimento al concetto di “persona”, sinonimo di soggetto di diritto, giuridicamente capace quale come detto il nascituro non è, né sarebbe peraltro logicamente ipotizzabile un pregiudizio alla privacy di un soggetto non ancora nato, con la conseguenza che un eventuale “diritto” sarebbe adespota.
    A diversa ratio risponde la tutela dei diritti patrimoniali, anche se non ancora realmente maturati nella sfera giuridica del destinatario, proprio in ragione della loro dimensione concreta e tangibile, in quanto riferiti a beni, ovvero “cose” che possono formare oggetto di diritti (art. 810 cc).
    Oggi questa impostazione non può dirsi ancora valida.
    La Carta Costituzionale del 1948 e i fondamenti della CEDU, unitamente a taluni principi che permeano il diritto penale, l’apporto della giurisprudenza che interpreta il diritto vivente, le disposizioni della legislazione speciale presentano un panorama del tutto diverso.
    La Repubblica riconosce e garantisce infatti i diritti inviolabili dell’uomo, tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e riconosce i diritti della famiglia (artt. 2, 32, 29 Cost.).
    Il diritto alla vita è espressamente difeso e promosso dall’art. 2 CEDU, la sua distruzione è sanzionata dal codice penale attraverso il delitto di omicidio (art. 575 cp), anche del consenziente(art. 579 cp)– attesa la indisponibilità della vita al di fuori dei parametri ricavabili dall’art. 32 co2 Cost. – e di quello di infanticidio (art. 578 cp- reato proprio che fa espresso riferimento al feto).
    La stessa L. 194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza è volta a contemperare tra loro l’interesse alla tutela della salute della madre con quello alla salvaguardia del feto, precisando l’art. 1 co 2 come l’aborto non costituisca mezzo per il controllo delle nascite e giustifichi la soppressione del nascituro solamente per esigenze di cura.
    In epoca più recente la giurisprudenza, attraverso le note pronunce del Supremo Collegio a SU (2003 e 2008), ha poi contribuito ad un rinnovato atteggiamento rispetto alle prerogative della personalità, reinterpretando in chiave costituzionalmente orientata l’art. 2059 cc. e aprendo così ad una valutazione matura e composita del danno non patrimoniale, comprensiva della lesione ai valori fondamentali dell’individuo, del danno biologico e del danno morale tout court, la cui tutela è assicurata dallo strumento risarcitorio.
    Dal panorama delineato emerge come, a dispetto di un mancato coordinamento con le disposizioni del codice civile, non possa più essere disconosciuto in capo al concepito il diritto alla vita e più in generale la tutela dei fondamentali valori della persona quale ad es. l’integrità psico-fisica, pena un manifesto contrasto con i principi dell’ordinamento nazionale e con quelli comunemente accolti dalla comunità internazionale (art. 10 Cost).
    Ad oggi però lo sforzo maggiore in tal senso è sostenuto dalla giurisprudenza attraverso la elaborazione di nuove fattispecie giuridiche.
    Si fa in particolare riferimento al cd contratto ad effetti protettivi verso i terzi, con cui si è inteso estendere una tutela latu sensu contrattuale a quei soggetti formalmente estranei al contratto, ma comunque destinatari di importanti effetti riflessi.
    Tale fattispecie ha trovato in particolare riconoscimento nell’ambito del rapporto tra medico e gestante, quest’ultima formalmente parte di un rapporto contrattuale con la struttura medica ospedaliera (cd contratto atipico di spedalità) ed avvinta altresì da un rapporto ad oggi ritenuto latamente contrattuale (art. 1218 cc) con il medico (cd contatto sociale qualificato), sul quale in virtù della presa in carico della paziente gravano specifici obblighi di protezione a contenuto sia positivo sia negativo.
    Attraverso il cd contratto ad effetti protettivi verso i terzi si intende in particolare riferirsi alla efficacia del rapporto contrattuale, rimarcando come in deroga all’art. 1372 cc il contratto possa produrre effetti anche verso soggetti non contraenti.
    C’è chi però ha criticato la tesi del cd “danno riflesso”, evidenziando come ex art. 185 cp ogni reato obbliga al risarcimento di tutti i danni prodotti, alla vittima quanto ai danneggiati i quali, essendo direttamente attinti dall’illecito, soffrirebbero pregiudizi propri e non riflessi.
    La fattispecie del contratto ad effetti protettivi verso terzi è stata indubbiamente osteggiata da quella giurisprudenza più attenta al dato formale che, in base ad una lettura di stretto diritto dell’art. 1372 cc, ha escluso che il contratto possa produrre efficacia ultra partes al di fuori dei casi previsti dalla legge (ad es. art. 1411 cc).
    Il contratto a favore di terzo di cui all’art. 1411 cc infatti, se costituisce una eccezione legalmente tipizzata e dunque un’ipotesi facilmente percorribile, presenta però il limite di subordinare la tutela alla accettazione del terzo - che resta estraneo all’accordo tra promittente e stipulante - di cui presuppone la capacità giuridica, oltre al fatto di impedire un’estensione della protezione agli altri membri del nucleo familiare danneggiati nelle loro fondamentali prerogative, il cui riconoscimento implica il ricorso alla tutela risarcitoria.
    Partendo dalle medesime argomentazioni che hanno supportato la tesi del contatto sociale qualificato (tra cui il fatto che l’art. 1218 cc non richiede la stipula di un contratto ai fini di una responsabilità contrattuale) e nell’ottica di valorizzare la tutela dei diritti fondamentali della persona, alcuni orientamenti hanno supportato la tesi del contratto ad effetti protettivi verso i terzi proprio per estendere la tutela delle prerogative fondamentali al nascituro, così come al padre ed agli stessi fratelli, i quali subiscano pregiudizi patrimoniali e non da episodi di malpractice sanitaria in danno del primo, così come della gestante.
    Con “malpractice sanitaria” si fa riferimento a casi di colpa medica, in cui cioè il sanitario si renda contrattualmente inadempiente violando i propri obblighi professionali da cui derivino pregiudizi alla madre così come al nascituro.
    Laddove il sanitario con la propria imprudente, imperita o negligente attività (ad es. somministrando una errata/dannosa terapia o omettendo le cure necessarie) abbia procurato al nascituro pregiudizi irreversibili, legittimata attiva ai fini della proposizione della richiesta risarcitoria non sarebbe esclusivamente la madre – parte del contratto con la struttura ospedaliera o comunque avvinta da contatto sociale qualificato con il medico negligente - ma il padre e più in generale tutti i membri del nucleo familiare primario in quanto danneggiati, compreso il nascituro.
    Ciò in virtù della forte intensità delle relazioni familiari che la stessa Carta costituzionale protegge (art. 29), le quali verrebbero ad essere seriamente compromesse nel loro equilibrio dalla perdita o da seri pregiudizi psico-fisici arrecati al nascituro.
    L’orientamento in questione considera il nascituro quale soggetto autonomo, titolare di una aspettativa giuridicamente tutelata ad una vita sana e in quanto tale dotato di una propria legittimazione ad agire, subordinata alla nascita e che eserciterà prima della maggiore età attraverso i genitori in quanto rappresentanti legali, per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, ex art. 1223-2059 cc (ad es. danno alla capacità lavorativa, rimborso delle spese mediche sostenute, danno biologico, alla vita di relazione, ecc.).
    A seguito della nota pronuncia a Sezioni Unite del 2008, ormai pacificamente la giurisprudenza ammette che anche da una violazione contrattuale possano derivare danni non patrimoniali risarcibili, atteso che lo strumento risarcitorio si atteggia a presidio posto a garanzia della effettività della tutela.
    Qualora i danni riportati dal neonato incidano sulla sua aspettativa di vita, il risarcimento andrà commisurato al differenziale tra una vita sana, in salute e le deteriori condizioni cui lo stesso si accinge a trascorrere la propria esistenza in conseguenza della negligenza medica.
    Dunque il concepito, già prima della nascita matura un vero e proprio diritto al risarcimento del danno a seguito della lesione di un valore fondamentale, azionabile successivamente alla nascita medesima, momento in cui anche i danni cagionati saranno attentamente ponderabili.
    E’ tuttavia possibile che da episodi di malpractice medica derivi nondimeno la morte del nascituro, caso in cui occorre distinguere a seconda che la stessa intervenga prima della nascita o successivamente.
    Nel primo caso, manca ancora una soggettività giuridica completa in capo al nascituro e il diritto al risarcimento del danno, non potendo maturare iure hereditatis, sarebbe acquisito ex contractu, e cioè in capo alla gestante a seguito del contatto sociale qualificato intercorso con il sanitario, nonché al padre o ai fratelli attraverso la copertura ultra partes che il contratto ad effetti protettivi verso i terzi consente.
    Nell’ipotesi in cui invece la morte sopraggiunga dopo la nascita, la pretesa risarcitoria maturerebbe direttamente nella sfera giuridica del soggetto ormai nato e sarebbe acquisita iure hereditatis in capo agli eredi, i quali farebbero pertanto valere un pregiudizio proprio, da perdita del rapporto parentale, oltre alla pretesa creditoria ereditata.
    Sul punto la giurisprudenza dibatte in quanto a fronte dell’orientamento che ritiene sufficiente anche un solo istante di vita per maturare l’acquisto del diritto che cadrà poi in successione, ve n’è un altro secondo cui sarebbe invece necessario un tempo sufficientemente lungo da poter presumere una sofferenza psico-fisica.
    Trattasi di una tesi fortemente discutibile in quanto conduce a stimare il bene della vita in misura inferiore rispetto a quello della integrità psico-fisica, oltre ad essere foriera di numerose incertezze circa ad es. il tempo occorrente per ritenere acquisita la pretesa creditoria.
    In tal caso il risarcimento del danno andrà commisurato alla intera perdita subita, valutata l’incidenza causale dell’errore medico sulla vita del neonato.
    Sotto il profilo dell’onere della prova, trattandosi di una responsabilità latu sensu contrattuale, sarà il sanitario a dover fornire la dimostrazione della esecuzione dell’intervento a regola d’arte e dell’assenza di profili di negligenza, imprudenza o imperizia, così recidendo il nesso eziologico tra la propria condotta e il danno.
    Sempre che l’obbligazione assunta non implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà ex art. 2236 cc, caso in cui la responsabilità medica sarebbe limitata al dolo o alla colpa grave.
    In proposito occorre però dare atto della recente modifica legislativa che ha alleggerito fortemente la responsabilità medica ed il relativo onere probatorio.
    Si fa riferimento al cd Decreto Balduzzi (convertito in legge n. 189/2012), che ha espressamente qualificato la responsabilità del sanitario come extracontrattuale ex art. 2043 cc, codificando quell’orientamento che a partire dal 1999 era stato superato dalla tesi del contatto sociale qualificato cui il Supremo Collegio aveva aderito.
    Ciò che introduce un significativo filtro al contenzioso in materia di malpractice medica, con inversione dell’onere probatorio che trasla in capo al danneggiato, gravato della prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie ai sensi dell’art. 2043 cc..
    Ciò nonostante la giurisprudenza non sembra però avere del tutto abbandonato la tesi del contatto sociale qualificato e dunque l’ipotesi di una responsabilità latu sensu contrattuale in capo al medico.
    La situazione si presenta diversa qualora il sanitario non abbia procurato attivamente danni al nascituro, ma sia incorso in una omessa/erronea diagnosi rispetto a patologie preesistenti e congenite dello stesso.
    Tale ipotesi viene comunemente indicata come “nascita indesiderata”, a dire che la formulazione di una corretta diagnosi nei tempi consentiti dalla legge avrebbe permesso alla madre di valutare l’opzione di una interruzione della gravidanza nei termini della L 194/1978.
    Detto aspetto rimanda ai cd obblighi informativi, accessori e strumentali rispetto alla prestazione principale, la cui violazione può comunque determinare inadempimento importante ai sensi dell’art. 1455 cc, nel momento in cui sia accertata l’incidenza causale dello stesso rispetto alla lesione dell’interesse sottostante.
    Occorre in proposito verificare se l’omessa diagnosi medica abbia esercitato o meno una efficacia condizionante rispetto alla decisione della madre di abortire.
    Qualora si accerti che, ove debitamente informata, la donna avrebbe potuto e voluto abortire – rimettendo alla stessa la legge la relativa decisione – l’omissione colposa rileva in termini causali avendo impedito l’esercizio di una possibilità di scelta che il medico deontologicamente e giuridicamente doveva consentire.
    In tal caso la violazione degli obblighi informativi, strumentali all’esatto adempimento dell’obbligazione, si configura di non scarsa importanza nei termini anzidetti e dunque fonte di danno risarcibile alternativamente in capo al medico o alla struttura sanitaria.
    Ove risulti invece che, pur in presenza di una corretta e tempestiva diagnosi, la madre non avrebbe comunque abortito, oppure che i termini di legge non consentissero ormai l’esercizio di tale facoltà, detta violazione sarebbe priva di incidenza causale.
    Ciò consentirebbe di prospettare la violazione di un obbligo strumentale (quello di informazione), ma non un inadempimento contrattuale importante, attesa la irrilevanza della violazione rispetto al risultato.
    Quanto alle iniziative esperibili dal nascituro una volta nato a propria tutela, in assenza di norme di legge sul punto, la giurisprudenza ritiene che, diversamente dalle ipotesi sopra esaminate di pregiudizi psico-fisici cagionati allo stesso dalla condotta colposa del medico - in cui il nascituro è titolare iure proprio di una azione risarcitoria seppur subordinata all’evento della nascita – questi non maturerebbe alcuna pretesa risarcitoria né verso la madre, né verso il sanitario responsabile della omessa diagnosi.
    Ciò in quanto riconoscere siffatti rimedi equivalrebbe a configurare una sorta di diritto a non nascere se non sano, aspetto che non sembra compatibile con i principi accolti dal nostro ordinamento.
    Come argomentato, tutte le norme fondamentali esaminate si esprimono nel senso di promuovere la vita, la salute, una esistenza dignitosa dell’individuo, eventualmente anche attraverso pubblici sussidi (art. 38 Cost), ed anche la L 194/1978 sull’aborto si pone a tutela del nascituro contro eventuali pratiche illegali, salvo accordare maggiore protezione alla madre in caso di conflitto tra i due interessi.
    L’aborto non assolve infatti ad una funzione eugenetica, ovvero di selezione degli individui geneticamente più sani, e non può essere impiegato come strumento per impedire la nascita di soggetti che presentino malformazioni, salvo che ciò non vada a detrimento della salute psico - fisica della donna (artt. 4 e 6 ).
    Esso non costituirebbe nemmeno un diritto soggettivo della donna, atteggiandosi vieppiù quale esimente speciale rispetto allo stato di necessità (art. 54 cp) con funzione scriminante.
    Pertanto laddove la madre, pur debitamente informata, decida di non interrompere la gravidanza, difetterebbe in capo alla stessa la legittimazione passiva, ad essere cioè convenuta in giudizio dal figlio una volta divenuto maggiorenne per non avere esercitato il diritto di abortire in quanto come detto tale diritto non sussiste.
    Oltre a non essere previsto dall’ordinamento e all’assenza di un soggetto legittimato passivo in ipotesi di contenzioso, il diritto a non nascere se non sano si presenta nondimeno adespota in quanto prima della nascita manca un titolare ai sensi dell’art. 1 cc e dopo la nascita il suo esercizio diventa impossibile in quanto una volta nato il soggetto non può dolersi per una condizione ormai incompatibile con quella attuale (alternativa vita/non vita).
    Inoltre, viene da domandarsi altresì quale potrebbe essere il quantum risarcibile, la perdita subita, dal momento che non vi è possibilità di confronto tra una condizione (quella attuale) e quella precedente la nascita, caratterizzata dalle medesime malformazioni congenite.
    Per tutti questi motivi nessuna pretesa potrebbe essere azionata verso la madre che non abbia optato per la interruzione della gravidanza e nemmeno rispetto al medico che, anche qualora avesse formulato una tempestiva e corretta diagnosi, non avrebbe potuto esercitare sulla stessa alcuna forma di pressione/condizionamento.
    In tal caso si ritiene non sussista azione utilmente esperibile nemmeno in capo al padre e ad eventuali fratelli in quanto non destinatari degli obblighi informativi de quibus (solo la gestante è infatti avvinta da contatto sociale qualificato con il sanitario o comunque parte del contratto in essere con la struttura ospedaliera), atteso anche il fatto che l’ordinamento riserva la scelta di abortire unicamente alla madre.
    Da quanto argomentato risulta dunque che, se prima della nascita non risulta configurabile la capacità giuridica ex art. 1 cc, vi sono nondimeno diritti a contenuto personalissimo e non patrimoniale che competono all’uomo, alla persona in quanto tale e dunque anche al concepito non ancora nato.
    In particolare il diritto a nascere ed alla integrità psico – fisica, i quali possono essere azionati successivamente all’evento della nascita ma che maturano già prima nella sfera giuridica del soggetto.
    Questo è il precipitato delle fondamentali garanzie che la Costituzione estende all’individuo in quanto persona e che ad oggi il legislatore del codice civile non ha recepito.
    Tuttavia, sempre nel rispetto della persona l’ordinamento non prevede un diritto a non nascere se non sano, ciò che aprirebbe alla possibilità della selezione eugenetica in base a non meglio specificati criteri ed in pregiudizio della dignità dell’uomo.
    Da ultimo, anche principi di solidarietà sociale ex art. 2 Cost impongono alla collettività, come ai singoli, di accogliere individui pregiudicati nella integrità psico-fisica e di rimuovere gli ostacoli che si frappongano alle disuguaglianze (art. 3 Cost), in modo da costruire società flessibili e propense alla integrazione dei più deboli.

    Voto: 14, Tema completo



    Tema numero due
    Negli anni successivi all’entrata in vigore del codice vigente, la persona ha sicuramente assunto un ruolo centrale nel diritto civile, sia nella sua dimensione individuale che collettiva. Ne è prova la valorizzazione degli artt.2 e 3 della Carta Costituzionale, attraverso cui la giurisprudenza è riuscita a tutelare situazioni giuridiche soggettive nuove, in linea con il mutare della coscienza sociale.
    È in tale premessa che si inserisce la questione oggetto della presente disamina, la quale evidenzia tutta la sua problematicità a motivo delle molteplici questioni etiche che in essa inevitabilmente confluiscono.
    Dal dato normativo è necessario prendere le mosse. Il primo comma dell’art.1 c.c. collega al momento della nascita la capacità giuridica del concepito, che altro non è che la capacità di esser titolari di diritti e di doveri. Il secondo comma della medesima disposizione subordina l’esperibilità dei diritti riconosciuti ex lege al concepito al momento della nascita. Sembrerebbe dunque che, solo nel momento in cui il feto si distacca dal corpo materno, il soggetto acquisti iure proprio il diritto al risarcimento del danno o all’adempimento della prestazione promessa.
    Il diritto positivo tutela il concepito in materia di riconoscimento del figlio (art.254 c.c.), di amministrazione genitoriale (art.320 c.c.), di capacità successoria (art.462 c.c.), di donazione (art.784 c.c.), mediante le leggi speciali (art.1, 17 e 18 Legge n.194/78) e attraverso le elaborazioni giurisprudenziali che al nascituro hanno riconosciuto il diritto all’onore, alla reputazione, all’integrità psicofisica etc.
    Oggetto di discussione da lungo tempo è la possibilità di riconoscere una soggettività giuridica in capo al concepito. L’indirizzo tradizionale, valorizzando il dato normativo ex art.1 c.c., afferma che solo con la nascita il soggetto acquisterebbe la soggettività giuridica e, dunque, la capacità giuridica. Peraltro, si sostiene che il legislatore, con la formulazione del secondo comma della disposizione in parola, abbia voluto precisare che i diritti riconosciuti dall’ordinamento giuridico al concepito decadono ove quest’ultimo non venga alla luce. Ci si troverebbe pertanto di fronte ad un periodo di aspettativa sottoposto a condizione sospensiva o, secondo altra ricostruzione, ad una fattispecie in formazione progressiva.
    Quanto detto condurrebbe a disconoscere una soggettività giuridica in capo al concepito, il quale sarebbe comunque considerato portatore di interessi che l’ordinamento giuridico intende tutelare.
    Se questo è l’orientamento prevalente, c’è però una parte della giurisprudenza di legittimità che in un recente passato ha affermato la soggettività giuridica del concepito, ritenendo che il disconoscimento della stessa determini l’impossibilità di riconoscere il concepito come titolare di un interesse protetto. Secondo questa ricostruzione giuridica, infatti, la tutela del concepito richiederebbe a monte il riconoscimento della soggettività giuridica. Altri in dottrina parlano di una capacità giuridica provvisoria, che verrebbe meno nell’ipotesi di non nascita.
    L’indirizzo de quo è rimasto una voce isolata nel panorama e giurisprudenziale e dottrinale dato che recentemente la Suprema Corte, pronunciatasi sulla legittimazione risarcitoria del concepito, ha disconosciuto la sussistenza di una soggettività giuridica in capo allo stesso, riconoscendolo quale oggetto di tutela. Il recente arresto, ripercorrendo la normativa che del concepito si occupa, evidenzia come la stessa abbia principalmente inteso provvedere alla tutela e protezione del concepito.
    Con la ricostruzione in parola, la giurisprudenza di legittimità respinge inoltre l’ulteriore tesi che individua nell’art.320 c.c. l’argomento testuale a sostegno della soggettività giuridica del concepito, poiché solo attraverso il riconoscimento di una tale posizione giuridica si potrebbe configurare quel rapporto di alterità con il genitore/rappresentante. La fragilità del ragionamento è stata però dimostrata sottolineando l’eccezionalità della norma, che deroga ad uno dei principi cardine in materia di rappresentanza: la sussistenza della capacità di agire in capo al rappresentato ex art.1389 c.c.
    Ulteriore elemento di confronto è inoltre la constatazione che, ove si affermasse la soggettività giuridica del nascituro, potrebbero evincersi elementi di contraddizione nella legge sull’interruzione volontaria della gravidanza dato che il legislatore, nell’opera di bilanciamento tra gli interessi di due soggetti giuridici, avrebbe inteso sacrificare la vita del nascituro rispetto allo stato psico-fisico della donna.
    Nonostante le disquisizioni in tema di soggettività giuridica del concepito, la necessità di tutelare il concepito ha condotto all’unanime riconoscimento in capo a quest’ultimo del diritto al risarcimento per le lesioni subite durante la vita endouterina. La casistica giurisprudenziale sul punto è copiosa e spesso si inserisce nella più ampia materia della responsabilità professionale del medico, la cui condotta colposa provoca lesioni al feto, ledendo il suo diritto a nascere sano (lesioni durante la gestazione o durante il parto, omesse informazioni che correttamente eseguite avrebbero permesso la nascita sana).
    Per lungo tempo la tutela risarcitoria del concepito è stata negata proprio sulla base della mancata equiparazione del concepito al nato. Unica sentenza favorevole sul punto si registra negli anni Cinquanta, con la quale venne riconosciuto il risarcimento al concepito, al quale era stata trasmetta una malattia ereditaria da parte del genitore, consapevole della patologia. Successivamente però, il risarcimento diretto del concepito è stato sempre negato, complice anche l’idea che per poter configurare l’illecito fosse necessaria la lesione di un diritto soggettivo, non ravvisabile in capo ad un soggetto giuridicamente inesistente.
    Il superamento dell’orientamento sfavorevole è avvenuto attraverso il riconoscimento della lesione dei principi costituzionali di cui agli artt. 2, 31 e 32 Cost. e della legge n.194/78, che tutela la vita sin dal suo inizio, e attraverso la nuova concezione dell’art.2043 c.c. quale clausola generale posta a tutela non solo di diritti soggettivi, ma di aspettative, interessi, diritti di credito.
    Nel percorso giurisprudenziale in materia, ha assunto un significativo ruolo l’arresto che ha ammesso la richiesta risarcitoria iure proprio da parte del neonato, nato senza padre, vittima di sinistro stradale durante la gestazione. In quest’ultimo caso, la giurisprudenza ha ritenuto irrilevante la non contemporaneità tra la condotta e l’evento lesivo, individuato nella perdita del rapporto parentale, ritenendo avvenuta la propagazione soggettiva dell’illecito tra la figura paterna e il nascituro. La Suprema Corte nel caso di specie ha individuato un’ipotesi di danno futuro, ossia di quel danno che si verifica in un momento successivo rispetto alla condotta; danno spesso difficilmente quantificabile nella sua esatta dimensione e pertanto liquidato attraverso il criterio probabilistico, nella species di danno patrimoniale e non patrimoniale (biologico, morale soggettivo e esistenziale).
    Oggi, la giurisprudenza di legittimità più moderna individua la fonte dell’obbligazione risarcitoria nel contratto con la struttura ospedaliera o nel contatto sociale qualificato tra il medico e la paziente/gestante. La relazione tra la gestante ed il medico che presta la propria attività in una struttura ospedaliera (quindi non incaricato direttamente dalla paziente) viene definita rapporto socialmente tipico, al quale l’ordinamento giuridico collega una serie di doveri specifici.
    La figura contrattuale viene individuato nello schema del contratto protettivo a favore di terzi. Scaturita dalle elaborazioni della dottrina tedesca, la figura negoziale de qua permette di attribuire il diritto al risarcimento per inadempimento professionale, non solo alla gestante, ma iure proprio anche al neonato, ritenuto soggetto estraneo al contratto, ma protetto dallo stesso. Il riconoscimento del risarcimento dei danni patiti è consequenziale all’accertamento degli elementi di cui agli artt.1218 ss. c.c., tra i quali assume particolare importanza, nel risarcimento a favore del concepito, il nesso eziologico tra la condotta del medico e l’evento di danno. È stato così ritenuto risarcibile il danno causato al feto dalla somministrazione di un farmaco finalizzato a favorire l’ovulazione e dunque la gravidanza, senza un’adeguata informazione alla gestante del rischio cui andava incontro.
    Pacificamente ammessi al risarcimento dei danno anche il padre e gli eventuali fratelli e sorelle del danneggiato, per i riflessi che la nascita in famiglia di un soggetto non sano spiega nelle rispettive sfere personali e nell’ambito delle relazioni familiari.
    Nell’ambito della casistica di malpractice sanitaria, la problematica che sicuramente ha fatto maggiormente discutere e la dottrina e la giurisprudenza è quella dell’omessa diagnosi delle malformazioni del feto, che non ha permesso alla donna di interrompere la gravidanza.
    In particolare, ci si è chiesti se potesse esser riconosciuto in capo al nato malformato la lesione di quel diritto definito “diritto a non nascere se non sano” (c.d. wrongful life)
    Prima di affrontare la problematica e dar atto del recente revirement giurisprudenziale, giova premettere che l’attuale indirizzo della giurisprudenza concorda nel ritenere tenuto al risarcimento nei confronti delle figure genitoriali il sanitario che, attraverso la condotta colposa, non abbia permesso alla coppia di autodeterminarsi, non fornendo un’esatta diagnosi sulle condizioni del feto, presupposto fondamentale per la scelta abortiva.
    Di contro unanime, fino ad un recente passato, l’orientamento giurisprudenziale che negava il diritto al risarcimento iure proprio del neonato. Molteplici le ragioni che spingevano la giurisprudenza di legittimità a non riconoscere la legittimazione attiva.
    Si escludeva che il nato malformato potesse ottenere un risarcimento per esser venuto al mondo e costretto ad una vita meno fortunata. Si riteneva che il diritto del concepito fosse quello di nascere sano ex art.32 Cost., disposizione costituzionale che sotto il profilo privatistico obbliga l’ordinamento giuridico a predisporre un sistema di tutela per le lesioni subite a causa dell’errata esecuzione della prestazione professionale e, in ordine al profilo pubblicistico, di approntare tutte quelle condizioni (strutture sanitaria idonee, messa a diposizione di farmaci, formazione per gli operatori sanitari) che favorissero la corretta esecuzione della prestazione.
    Si sottolineava l’inammissibilità del c.d. aborto eugenetico, finalizzato alla selezione della razza umana, incompatibilità con la legislazione in materia di interruzione della gravidanza, che correla la scelta abortiva al serio pericolo per la salute psico fisica della donna e, dopo i 90 giorni dal concepimento, al grave pericolo per la sua vita, seppur in presenza di malformazioni del feto.
    Si affermava, inoltre, che, ove fosse riconosciuto il diritto risarcitorio, si sarebbe trattato di un diritto adespota in quanto nel momento della maturazione del diritto non vi sarebbe stato alcun titolare, mentre con la nascita sarebbe venuta meno lesione del diritto.
    Non si escludeva altresì l’ esposizione della madre a richieste risarcitorie da parte del nuovo nato per non aver deciso di abortire, con l’aberrante conseguenza che l’interruzione della gravidanza non sarebbe stata più una scelta, ma un obbligo per non essere esposti a richieste risarcitorie successive. Senza considerare la difficoltà di stabilire la tipologia ed il grado di malformazione che esporrebbe al risarcimento.
    Si osservava infine che il danno da risarcire si porrebbe al di fuori della ratio risarcitoria che è quella di riparare la perdita di qualcosa che c’era ed ora non c’è più (teoria differenziale), mentre è evidente come la malformazione del feto sussiste ab origine.
    Queste le motivazioni che fino al recente arresto della Suprema Corte avevano condotto la giurisprudenza di legittimità a non ammettere il diritto al risarcimento iure proprio del concepito. Il revirement della Cassazione è recente.
    La sentenza della Suprema Corte innova riaffermando l’importanza di riconoscere il concepito come oggetto di tutela, così come confermato dalle varie leggi che del concepito si occupano e dalla normativa codicistica che gli attribuisce diritti e procedendo all’accertamento degli elementi dell’illecito che legittimano il risarcimento dei danni: la condotta del medico di omessa diagnosi della malformazione, l’elemento soggettivo della negligenza ed imperizia del sanitario nell’esecuzione della prestazione, il nesso causale tra la condotta e l’interesse leso, che viene individuato dalla pronuncia nel diritto ad una vita più agevole. La Cassazione risolve dunque l’ostacolo principale, quello del nesso eziologico tra condotta e danno, mediante il riconoscimento della lesione alla salute nel suo aspetto dinamico, che consiste in una vita certamente più difficile da vivere. In sostanza, secondo la ricostruzione della Corte, si tratterebbe di risarcire il danno non per il mancato aborto, ma per riparare il pregiudizio dovuto ad una vita di sofferenze.
    Evidenti le forzature nell’analisi degli elementi dell’illecito civile, che solo le elaborazioni giurisprudenziali successive smentiranno o confermeranno.
    Anche in ordine al regime probatorio, l’arresto de quo si dimostra ampio dal punto di vista della tutela, ritenendo sufficiente la prova mediante le presunzioni semplici ex art.116 c.p.c. considerata l’alta probabilità che la donna opti per l’interruzione ove sia messa al corrente delle condizioni del feto.
    Diversa dalla c.d. wrongful life è, infine, quella che dalla giurisprudenza anglosassone viene definita wrongful birth (da nascita indesiderata), avvenuta a causa dall’errata esecuzione della prestazione professionale con la quale era stata richiesta l’interruzione della gravidanza o la sterilizzazione della donna o dell’uomo.
    Per lungo tempo il risarcimento è stato ritenuto inammissibile poiché il riconoscimento della vita quale bene supremo determinava l’impossibilità di configurare un interesso leso.
    Successivamente, è stato riconosciuto alla gestante il risarcimento dei danni per violazione del diritto all’autodeterminazione ex art. 13 Cost. L’errata esecuzione della prestazione da parte del medico non ha permesso alla donna di autodeterminarsi e di scegliere legittimamente di non concepire (nel caso della mancata sterilizzazione) o di interrompere la gravidanza (nel caso del mancato aborto). La legge sull’aborto garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, attribuendo alla donna il diritto di interrompere la gravidanza al ricorrere di determinati presupposti previsti ex lege, riconoscendo nella stessa il soggetto sul quale maggiormente ricadono gli effetti della gravidanza.
    Quanto ai legittimati attivi a richiedere il risarcimento, se nel passato non vi era unanimità circa il riconoscimento della pretesa risarcitoria in capo al padre del neonato, la giurisprudenza di legittimità più recente l’ammette anche nell’ipotesi di mancata sterilizzazione della donna o nel mancato aborto, ritenendo configurata anche in capo a quest’ultimo la lesione del diritto alla procreazione cosciente e responsabile, essendo la nascita generalmente una scelta condivisa dalla coppia.
    I danni consisteranno nelle spese di mantenimento ed alla diminuzione della capacità lavorativa dovuta alla necessità di assistenza del bambino e non patrimoniale nella species di danno biologico, morale soggettivo ed esistenziale.
    Nessun riconoscimento risarcitorio in capo al nuovo nato, chiamato questa volta a vivere una vita presumibilmente giusta.

    Voto 13,5

    Edited by schopena - 28/10/2013, 09:02
     
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  6. keleborn
     
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    User deleted


    Cara Shopena, riguardo all'ultimo argomento credo sia utile precisare che la Suprema Corte -con la sentenza n. 16574/2012- ha riconosciuto, in presenza di una nascita indesiderata, il diritto al ristoro, tanto in favore dei genitori, quanto in favore di eventuali fratelli e, soprattutto, del medesimo neonato malformato:
    "La responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti di entrambi i genitori anche ai fratelli del neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta, nonché al figlio nato malformato.
    La situazione soggettiva tutelata è il diritto alla salute, non quello a nascere sano.
    In forza della propagazione intersoggettiva degli effetti diacronici dell’illecito, l'interesse alla procreazione cosciente e responsabile non è solo della madre, ma altresì del futuro bambino, e ciò anche quando questo si trovi ancora nel ventre materno anche se la lesione inferta al concepito si manifesta e diviene attuale al momento della nascita".
     
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    CITAZIONE (keleborn @ 27/10/2013, 21:27) 
    Cara Shopena, riguardo all'ultimo argomento credo sia utile precisare che la Suprema Corte -con la sentenza n. 16574/2012- ha riconosciuto, in presenza di una nascita indesiderata, il diritto al ristoro, tanto in favore dei genitori, quanto in favore di eventuali fratelli e, soprattutto, del medesimo neonato malformato:
    "La responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti di entrambi i genitori anche ai fratelli del neonato, che rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta, nonché al figlio nato malformato.
    La situazione soggettiva tutelata è il diritto alla salute, non quello a nascere sano.
    In forza della propagazione intersoggettiva degli effetti diacronici dell’illecito, l'interesse alla procreazione cosciente e responsabile non è solo della madre, ma altresì del futuro bambino, e ciò anche quando questo si trovi ancora nel ventre materno anche se la lesione inferta al concepito si manifesta e diviene attuale al momento della nascita".

    Ciao!
    Hai ragione, grazie a nome di tutti :) , si tratta della sentenza che parla di concepito come "oggetto di tutela"?
    In effetti è meglio segnalarla, molti di voi l'hanno inserita, infatti molti hanno preso tra 13 e 14.
    Ho scelto il tema pubblicato perché sebbene l'Autore non ne abbia parlato si è invece sforzato di individuare il regime della prova e il danno risarcibile per ognuna delle ipotesi di malpractice, profilo che invece mancava spesso negli altri temi.
    Però sì, hai ragione. Magari appena ho un secondo pubblico un altro tema, ugualmente ben fatto, che però dà conto dell'ultima giurisprudenza.

    N.B.
    In tutta onestà, comunque, credo che - salvo che l'ultima pronuncia sia quella sul danno non patrimoniale del 2008 - potrete passare anche se non l'avete letta, sempre che il tema sia strutturato in modo corretto e ben approfondito. Questo chiaramente è un mio personalissimo giudizio, ma vi dico: se il tema che avete scritto vi pare ben fatto, non fatevi convincere a non consegnare solo perché vi dicono: ma non sai che la Cassazione l'anno scorso ha detto che...
    :)
    Appena posso ne pubblico un altro, così potete leggere anche della pronuncia.

    Per Keleborn, ho appena inserito un altro tema, che dà conto della giurisprudenza più recente in tema di diritto a non nascere se non sano. Non so se sia la medesima pronuncia cui alludevi tu, comunque meglio sapere una cosa in più che una in meno.

    Per tutti: se vi sono nuove pronunce e nuovi orientamenti SEGNALATELI!! Ho dato gli scritti nella primavera del 2012, può essere benissimo che mi sfugga qualcosa, mi raccomando! :)))
     
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    Settembre Diritto civile
    Capacità giuridica e concepito, con particolare riferimento ai casi di malpractice sanitaria e di diritto a non nascere se non sano.


    Per soggetti di diritto l’ordinamento intende persone fisiche ed enti in grado di elevarsi a centri di imputazione di diritti soggettivi e di obblighi, sottraendosi così a quell’atteggiamento di indifferenza che il diritto riserva agli interessi non rilevanti per la società.
    La soggettività giuridica implica dunque una astratta idoneità a porre in essere atti giuridicamente rilevanti, in grado cioè di produrre effetti modificativi, costitutivi o estintivi nella propria sfera giuridica.
    Il codice civile non descrive presupposti e condizioni per l’acquisto della soggettività giuridica, ma sub art. 1 tratta della capacità giuridica, che la persona fisica acquista al momento della nascita, ovvero della separazione dall’utero materno con conseguente autonoma attività cardio-respiratoria.
    Si tratta di concetti avvinti da un nesso di pregiudizialità logica, dal momento che per poter essere considerati giuridicamente capaci occorre essere preventivamente individuabili quali potenziali destinatari di norme giuridiche e dunque soggetti di diritto.
    L’evento della nascita rappresenta dunque quel fatto naturale cui l’ordinamento attribuisce rilevanza per la attribuzione della capacità giuridica.
    Dato il carattere futuro e incerto della stessa, essa assolve al ruolo di condicio iuris sospensiva, in questo caso prevista dal legislatore medesimo.
    Non è peraltro richiesto che la persona nasca sana ed è sufficiente anche un solo istante vita autonoma per determinare l’acquisto della capacità giuridica e dunque l’apertura della successione, ad esempio.
    Da un punto di vista concreto rileva invece la cd capacità di agire, che consiste nella concreta idoneità a compiere atti giuridicamente rilevanti, la quale si raggiunge con il compimento del diciottesimo anno di età, salvo sia stabilita un’età diversa (art. 2 cc).
    Dalla nascita e fino alla morte – cioè la irreversibile cessazione delle funzioni vitali - la persona sarà dunque presente nel mondo giuridico, acquisendo diritti patrimoniali e personali, e non potrà essere privata della capacità giuridica se non nei casi previsti dalla legge (art. 22 Cost.).
    Ciò premesso, occorre considerare se e a quali condizioni un soggetto non ancora nato possa essere oggetto di attenzione da parte dell’ordinamento ed a quali fini.
    Da quanto detto sinora discende che il concepito, e a maggior ragione il concepturus, non goda della capacità giuridica, essendo un potenziale soggetto di diritto.
    Tuttavia, dall’esame di talune disposizioni presenti nel codice civile risulta che il concepito e talvolta anche il concepturus siano destinatari di determinati effetti giuridici.
    In particolare ai sensi dell’art. 462 cc il concepito è capace di succedere al pari della persona nata al momento della apertura della successione. Al comma secondo - per esigenze di certezza - la norma si premura di stabilire una presunzione iuris tantum di concepimento al tempo della successione, soddisfatta qualora la nascita avvenga entro trecento giorni dalla morte della persona della cui successione si tratta.
    L’art. 642 uc cc prevede altresì che possa essere chiamato a succedere anche il concepturus, purché figlio di una persona vivente al momento dell’apertura della successione. Tale precisazione consente di evitare la declaratoria di nullità della disposizione per indeterminatezza del beneficiario ex art. 1346 cc, ampliando così la libertà del testatore.
    Non solo. Simmetricamente la legge ammette poi che il concepito, o il figlio di determinata persona vivente al tempo della disposizione, sebbene non ancora concepito, possa essere beneficiario di una liberalità (art. 784 co 1 cc).
    Ciò considerato occorre quindi interrogarsi sulla soggettività giuridica e capacità dei destinatari di tali norme, nonché sulla efficacia di simili disposizioni, tutte a rilevanza patrimoniale.
    Dal tenore dell’art. 1 cc sembra infatti potersi escludere che il concepito, e a maggior ragione il concepturus, sia dotato di soggettività giuridica, ovvero della astratta capacità di acquisire diritti ed obblighi. Ciò in quanto è come detto la nascita a costituire l’elemento perfezionativo della fattispecie de qua.
    Tuttavia, poiché l’ordinamento non è indifferente a tali soggetti, limitatamente alle disposizioni esaminate sembra corretto ritenere che si tratti di un’aspettativa giuridicamente tutelata ad acquisire i diritti patrimoniali indicati.
    Essa in particolare si atteggia a fattispecie a formazione progressiva, scandita da una serie di fatti temporalmente susseguentisi l’ultimo dei quali perfeziona l’acquisto del diritto.
    Nell’attesa che si verifichi l’evento perfezionativo (nascita) il concepito non ha dunque titolo per vantare alcunché e solo con l’avveramento della condizione la disposizione produrrà effetti nel suo patrimonio.
    La posizione tutelata ha pertanto rilevanza meramente strumentale e non finale.
    Si coglie così una importante differenza con il diritto soggettivo che l’ordinamento accorda solamente alla nascita (ad es. diritto di proprietà, di credito), quale situazione finale che esprime forza e libertà in quanto il titolare è libero di esercitarlo o meno, ma se decide di farlo dispone di strumenti coercitivi in grado di dare piena attuazione agli interessi patrimoniali o non patrimoniali sottesi.
    In quanto aspettativa giuridicamente tutelata e non di mero fatto, la posizione del concepito rispetto ai diritti patrimoniali indicati gode dunque di una tutela strumentale rimessa ai legali rappresentanti.
    L’art. 784 cc in punto di donazione rinvia agli artt. 320 e 321 cc secondo cui saranno i genitori di regola congiuntamente a rappresentare i figli nascituri in tutti gli atti civili e ad amministrarne i beni, salvo che per gli atti di ordinaria amministrazione, che possono essere compiuti disgiuntamente da ciascun genitore.
    Essi saranno quindi legittimati ad agire in giudizio qualora il mancato perfezionamento della fattispecie dipenda ad es. dal fatto doloso o colposo altrui ex art. 2043 cc (ad es. morte del concepito avvenuta a causa di un sinistro stradale con addebito colposo).
    Trattandosi di una aspettativa e non di un diritto perfetto è lecito domandarsi quale sia l’entità del danno risarcibile.
    Non l’intero danno dal momento che la nascita rappresenta un evento futuro e incerto, dipendente da molteplici variabili.
    Piuttosto sembra preferibile fare riferimento al cd danno da perdita di chances, e dunque alla probabilità che, rebus sic stantibus, aveva il concepito di nascere, seppure resta una stima alquanto incerta.
    Rispetto al soggetto non ancora concepito non sembra possibile ipotizzare una forma di tutela ulteriore rispetto a quella di tipo conservativo in pendenza della condizione, secondo il disposto degli artt. 320, 321 cc.
    Qualora la nascita non si verifichi, si ritiene che la quota ereditaria debba essere ripartita tra gli ulteriori eredi secondo il cd accrescimento (art. 674 cc).
    Per le ragioni esposte non pare infatti ipotizzabile un fenomeno successorio rispetto ai genitori.
    In caso di donazione invece, dato il carattere strettamente personale della stessa, la disposizione sarà inefficace.
    Da quanto detto l’interesse del legislatore del 1942 nei confronti del nascituro si arresta all’ambito delle disposizioni patrimoniali.
    Questo rappresenta il retaggio di un’epoca incentrata precipuamente sulla tutela dei diritti reali, in cui ad acquisire preminente rilevanza sono i beni a carattere produttivo. La salvaguardia di detti interessi patrimoniali si spinge oltre le stesse regole creando finzioni di soggettività giuridica, mentre medesime considerazioni non possono essere spese per la tutela dei diritti della persona.
    Infatti gli 6 e ss cc, che concernono i diritti della personalità (nome, immagine) – i quali si sono poi evoluti attraverso successive elaborazioni confluite in norme giuridiche contenute in altri testi (ad es. Cod Privacy Dlgs 196/2003) – fanno riferimento al concetto di “persona”, sinonimo di soggetto di diritto, giuridicamente capace quale come detto il nascituro non è, né sarebbe peraltro logicamente ipotizzabile un pregiudizio alla privacy di un soggetto non ancora nato, con la conseguenza che un eventuale “diritto” sarebbe adespota.
    A diversa ratio risponde la tutela dei diritti patrimoniali, anche se non ancora realmente maturati nella sfera giuridica del destinatario, proprio in ragione della loro dimensione concreta e tangibile, in quanto riferiti a beni, ovvero “cose” che possono formare oggetto di diritti (art. 810 cc).
    Oggi questa impostazione non può dirsi ancora valida.
    La Carta Costituzionale del 1948 e i fondamenti della CEDU, unitamente a taluni principi che permeano il diritto penale, l’apporto della giurisprudenza che interpreta il diritto vivente, le disposizioni della legislazione speciale presentano un panorama del tutto diverso.
    La Repubblica riconosce e garantisce infatti i diritti inviolabili dell’uomo, tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e riconosce i diritti della famiglia (artt. 2, 32, 29 Cost.).
    Il diritto alla vita è espressamente difeso e promosso dall’art. 2 CEDU, la sua distruzione è sanzionata dal codice penale attraverso il delitto di omicidio (art. 575 cp), anche del consenziente(art. 579 cp)– attesa la indisponibilità della vita al di fuori dei parametri ricavabili dall’art. 32 co2 Cost. – e di quello di infanticidio (art. 578 cp- reato proprio che fa espresso riferimento al feto).
    La stessa L. 194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza è volta a contemperare tra loro l’interesse alla tutela della salute della madre con quello alla salvaguardia del feto, precisando l’art. 1 co 2 come l’aborto non costituisca mezzo per il controllo delle nascite e giustifichi la soppressione del nascituro solamente per esigenze di cura.
    In epoca più recente la giurisprudenza, attraverso le note pronunce del Supremo Collegio a SU (2003 e 2008), ha poi contribuito ad un rinnovato atteggiamento rispetto alle prerogative della personalità, reinterpretando in chiave costituzionalmente orientata l’art. 2059 cc. e aprendo così ad una valutazione matura e composita del danno non patrimoniale, comprensiva della lesione ai valori fondamentali dell’individuo, del danno biologico e del danno morale tout court, la cui tutela è assicurata dallo strumento risarcitorio.
    Dal panorama delineato emerge come, a dispetto di un mancato coordinamento con le disposizioni del codice civile, non possa più essere disconosciuto in capo al concepito il diritto alla vita e più in generale la tutela dei fondamentali valori della persona quale ad es. l’integrità psico-fisica, pena un manifesto contrasto con i principi dell’ordinamento nazionale e con quelli comunemente accolti dalla comunità internazionale (art. 10 Cost).
    Ad oggi però lo sforzo maggiore in tal senso è sostenuto dalla giurisprudenza attraverso la elaborazione di nuove fattispecie giuridiche.
    Si fa in particolare riferimento al cd contratto ad effetti protettivi verso i terzi, con cui si è inteso estendere una tutela latu sensu contrattuale a quei soggetti formalmente estranei al contratto, ma comunque destinatari di importanti effetti riflessi.
    Tale fattispecie ha trovato in particolare riconoscimento nell’ambito del rapporto tra medico e gestante, quest’ultima formalmente parte di un rapporto contrattuale con la struttura medica ospedaliera (cd contratto atipico di spedalità) ed avvinta altresì da un rapporto ad oggi ritenuto latamente contrattuale (art. 1218 cc) con il medico (cd contatto sociale qualificato), sul quale in virtù della presa in carico della paziente gravano specifici obblighi di protezione a contenuto sia positivo sia negativo.
    Attraverso il cd contratto ad effetti protettivi verso i terzi si intende in particolare riferirsi alla efficacia del rapporto contrattuale, rimarcando come in deroga all’art. 1372 cc il contratto possa produrre effetti anche verso soggetti non contraenti.
    C’è chi però ha criticato la tesi del cd “danno riflesso”, evidenziando come ex art. 185 cp ogni reato obbliga al risarcimento di tutti i danni prodotti, alla vittima quanto ai danneggiati i quali, essendo direttamente attinti dall’illecito, soffrirebbero pregiudizi propri e non riflessi.
    La fattispecie del contratto ad effetti protettivi verso terzi è stata indubbiamente osteggiata da quella giurisprudenza più attenta al dato formale che, in base ad una lettura di stretto diritto dell’art. 1372 cc, ha escluso che il contratto possa produrre efficacia ultra partes al di fuori dei casi previsti dalla legge (ad es. art. 1411 cc).
    Il contratto a favore di terzo di cui all’art. 1411 cc infatti, se costituisce una eccezione legalmente tipizzata e dunque un’ipotesi facilmente percorribile, presenta però il limite di subordinare la tutela alla accettazione del terzo - che resta estraneo all’accordo tra promittente e stipulante - di cui presuppone la capacità giuridica, oltre al fatto di impedire un’estensione della protezione agli altri membri del nucleo familiare danneggiati nelle loro fondamentali prerogative, il cui riconoscimento implica il ricorso alla tutela risarcitoria.
    Partendo dalle medesime argomentazioni che hanno supportato la tesi del contatto sociale qualificato (tra cui il fatto che l’art. 1218 cc non richiede la stipula di un contratto ai fini di una responsabilità contrattuale) e nell’ottica di valorizzare la tutela dei diritti fondamentali della persona, alcuni orientamenti hanno supportato la tesi del contratto ad effetti protettivi verso i terzi proprio per estendere la tutela delle prerogative fondamentali al nascituro, così come al padre ed agli stessi fratelli, i quali subiscano pregiudizi patrimoniali e non da episodi di malpractice sanitaria in danno del primo, così come della gestante.
    Con “malpractice sanitaria” si fa riferimento a casi di colpa medica, in cui cioè il sanitario si renda contrattualmente inadempiente violando i propri obblighi professionali da cui derivino pregiudizi alla madre così come al nascituro.
    Laddove il sanitario con la propria imprudente, imperita o negligente attività (ad es. somministrando una errata/dannosa terapia o omettendo le cure necessarie) abbia procurato al nascituro pregiudizi irreversibili, legittimata attiva ai fini della proposizione della richiesta risarcitoria non sarebbe esclusivamente la madre – parte del contratto con la struttura ospedaliera o comunque avvinta da contatto sociale qualificato con il medico negligente - ma il padre e più in generale tutti i membri del nucleo familiare primario in quanto danneggiati, compreso il nascituro.
    Ciò in virtù della forte intensità delle relazioni familiari che la stessa Carta costituzionale protegge (art. 29), le quali verrebbero ad essere seriamente compromesse nel loro equilibrio dalla perdita o da seri pregiudizi psico-fisici arrecati al nascituro.
    L’orientamento in questione considera il nascituro quale soggetto autonomo, titolare di una aspettativa giuridicamente tutelata ad una vita sana e in quanto tale dotato di una propria legittimazione ad agire, subordinata alla nascita e che eserciterà prima della maggiore età attraverso i genitori in quanto rappresentanti legali, per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, ex art. 1223-2059 cc (ad es. danno alla capacità lavorativa, rimborso delle spese mediche sostenute, danno biologico, alla vita di relazione, ecc.).
    A seguito della nota pronuncia a Sezioni Unite del 2008, ormai pacificamente la giurisprudenza ammette che anche da una violazione contrattuale possano derivare danni non patrimoniali risarcibili, atteso che lo strumento risarcitorio si atteggia a presidio posto a garanzia della effettività della tutela.
    Qualora i danni riportati dal neonato incidano sulla sua aspettativa di vita, il risarcimento andrà commisurato al differenziale tra una vita sana, in salute e le deteriori condizioni cui lo stesso si accinge a trascorrere la propria esistenza in conseguenza della negligenza medica.
    Dunque il concepito, già prima della nascita matura un vero e proprio diritto al risarcimento del danno a seguito della lesione di un valore fondamentale, azionabile successivamente alla nascita medesima, momento in cui anche i danni cagionati saranno attentamente ponderabili.
    E’ tuttavia possibile che da episodi di malpractice medica derivi nondimeno la morte del nascituro, caso in cui occorre distinguere a seconda che la stessa intervenga prima della nascita o successivamente.
    Nel primo caso, manca ancora una soggettività giuridica completa in capo al nascituro e il diritto al risarcimento del danno, non potendo maturare iure hereditatis, sarebbe acquisito ex contractu, e cioè in capo alla gestante a seguito del contatto sociale qualificato intercorso con il sanitario, nonché al padre o ai fratelli attraverso la copertura ultra partes che il contratto ad effetti protettivi verso i terzi consente.
    Nell’ipotesi in cui invece la morte sopraggiunga dopo la nascita, la pretesa risarcitoria maturerebbe direttamente nella sfera giuridica del soggetto ormai nato e sarebbe acquisita iure hereditatis in capo agli eredi, i quali farebbero pertanto valere un pregiudizio proprio, da perdita del rapporto parentale, oltre alla pretesa creditoria ereditata.
    Sul punto la giurisprudenza dibatte in quanto a fronte dell’orientamento che ritiene sufficiente anche un solo istante di vita per maturare l’acquisto del diritto che cadrà poi in successione, ve n’è un altro secondo cui sarebbe invece necessario un tempo sufficientemente lungo da poter presumere una sofferenza psico-fisica.
    Trattasi di una tesi fortemente discutibile in quanto conduce a stimare il bene della vita in misura inferiore rispetto a quello della integrità psico-fisica, oltre ad essere foriera di numerose incertezze circa ad es. il tempo occorrente per ritenere acquisita la pretesa creditoria.
    In tal caso il risarcimento del danno andrà commisurato alla intera perdita subita, valutata l’incidenza causale dell’errore medico sulla vita del neonato.
    Sotto il profilo dell’onere della prova, trattandosi di una responsabilità latu sensu contrattuale, sarà il sanitario a dover fornire la dimostrazione della esecuzione dell’intervento a regola d’arte e dell’assenza di profili di negligenza, imprudenza o imperizia, così recidendo il nesso eziologico tra la propria condotta e il danno.
    Sempre che l’obbligazione assunta non implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà ex art. 2236 cc, caso in cui la responsabilità medica sarebbe limitata al dolo o alla colpa grave.
    In proposito occorre però dare atto della recente modifica legislativa che ha alleggerito fortemente la responsabilità medica ed il relativo onere probatorio.
    Si fa riferimento al cd Decreto Balduzzi (convertito in legge n. 189/2012), che ha espressamente qualificato la responsabilità del sanitario come extracontrattuale ex art. 2043 cc, codificando quell’orientamento che a partire dal 1999 era stato superato dalla tesi del contatto sociale qualificato cui il Supremo Collegio aveva aderito.
    Ciò che introduce un significativo filtro al contenzioso in materia di malpractice medica, con inversione dell’onere probatorio che trasla in capo al danneggiato, gravato della prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie ai sensi dell’art. 2043 cc..
    Ciò nonostante la giurisprudenza non sembra però avere del tutto abbandonato la tesi del contatto sociale qualificato e dunque l’ipotesi di una responsabilità latu sensu contrattuale in capo al medico.
    La situazione si presenta diversa qualora il sanitario non abbia procurato attivamente danni al nascituro, ma sia incorso in una omessa/erronea diagnosi rispetto a patologie preesistenti e congenite dello stesso.
    Tale ipotesi viene comunemente indicata come “nascita indesiderata”, a dire che la formulazione di una corretta diagnosi nei tempi consentiti dalla legge avrebbe permesso alla madre di valutare l’opzione di una interruzione della gravidanza nei termini della L 194/1978.
    Detto aspetto rimanda ai cd obblighi informativi, accessori e strumentali rispetto alla prestazione principale, la cui violazione può comunque determinare inadempimento importante ai sensi dell’art. 1455 cc, nel momento in cui sia accertata l’incidenza causale dello stesso rispetto alla lesione dell’interesse sottostante.
    Occorre in proposito verificare se l’omessa diagnosi medica abbia esercitato o meno una efficacia condizionante rispetto alla decisione della madre di abortire.
    Qualora si accerti che, ove debitamente informata, la donna avrebbe potuto e voluto abortire – rimettendo alla stessa la legge la relativa decisione – l’omissione colposa rileva in termini causali avendo impedito l’esercizio di una possibilità di scelta che il medico deontologicamente e giuridicamente doveva consentire.
    In tal caso la violazione degli obblighi informativi, strumentali all’esatto adempimento dell’obbligazione, si configura di non scarsa importanza nei termini anzidetti e dunque fonte di danno risarcibile alternativamente in capo al medico o alla struttura sanitaria.
    Ove risulti invece che, pur in presenza di una corretta e tempestiva diagnosi, la madre non avrebbe comunque abortito, oppure che i termini di legge non consentissero ormai l’esercizio di tale facoltà, detta violazione sarebbe priva di incidenza causale.
    Ciò consentirebbe di prospettare la violazione di un obbligo strumentale (quello di informazione), ma non un inadempimento contrattuale importante, attesa la irrilevanza della violazione rispetto al risultato.
    Quanto alle iniziative esperibili dal nascituro una volta nato a propria tutela, in assenza di norme di legge sul punto, la giurisprudenza ritiene che, diversamente dalle ipotesi sopra esaminate di pregiudizi psico-fisici cagionati allo stesso dalla condotta colposa del medico - in cui il nascituro è titolare iure proprio di una azione risarcitoria seppur subordinata all’evento della nascita – questi non maturerebbe alcuna pretesa risarcitoria né verso la madre, né verso il sanitario responsabile della omessa diagnosi.
    Ciò in quanto riconoscere siffatti rimedi equivalrebbe a configurare una sorta di diritto a non nascere se non sano, aspetto che non sembra compatibile con i principi accolti dal nostro ordinamento.
    Come argomentato, tutte le norme fondamentali esaminate si esprimono nel senso di promuovere la vita, la salute, una esistenza dignitosa dell’individuo, eventualmente anche attraverso pubblici sussidi (art. 38 Cost), ed anche la L 194/1978 sull’aborto si pone a tutela del nascituro contro eventuali pratiche illegali, salvo accordare maggiore protezione alla madre in caso di conflitto tra i due interessi.
    L’aborto non assolve infatti ad una funzione eugenetica, ovvero di selezione degli individui geneticamente più sani, e non può essere impiegato come strumento per impedire la nascita di soggetti che presentino malformazioni, salvo che ciò non vada a detrimento della salute psico - fisica della donna (artt. 4 e 6 ).
    Esso non costituirebbe nemmeno un diritto soggettivo della donna, atteggiandosi vieppiù quale esimente speciale rispetto allo stato di necessità (art. 54 cp) con funzione scriminante.
    Pertanto laddove la madre, pur debitamente informata, decida di non interrompere la gravidanza, difetterebbe in capo alla stessa la legittimazione passiva, ad essere cioè convenuta in giudizio dal figlio una volta divenuto maggiorenne per non avere esercitato il diritto di abortire in quanto come detto tale diritto non sussiste.
    Oltre a non essere previsto dall’ordinamento e all’assenza di un soggetto legittimato passivo in ipotesi di contenzioso, il diritto a non nascere se non sano si presenta nondimeno adespota in quanto prima della nascita manca un titolare ai sensi dell’art. 1 cc e dopo la nascita il suo esercizio diventa impossibile in quanto una volta nato il soggetto non può dolersi per una condizione ormai incompatibile con quella attuale (alternativa vita/non vita).
    Inoltre, viene da domandarsi altresì quale potrebbe essere il quantum risarcibile, la perdita subita, dal momento che non vi è possibilità di confronto tra una condizione (quella attuale) e quella precedente la nascita, caratterizzata dalle medesime malformazioni congenite.
    Per tutti questi motivi nessuna pretesa potrebbe essere azionata verso la madre che non abbia optato per la interruzione della gravidanza e nemmeno rispetto al medico che, anche qualora avesse formulato una tempestiva e corretta diagnosi, non avrebbe potuto esercitare sulla stessa alcuna forma di pressione/condizionamento.
    In tal caso si ritiene non sussista azione utilmente esperibile nemmeno in capo al padre e ad eventuali fratelli in quanto non destinatari degli obblighi informativi de quibus (solo la gestante è infatti avvinta da contatto sociale qualificato con il sanitario o comunque parte del contratto in essere con la struttura ospedaliera), atteso anche il fatto che l’ordinamento riserva la scelta di abortire unicamente alla madre.
    Da quanto argomentato risulta dunque che, se prima della nascita non risulta configurabile la capacità giuridica ex art. 1 cc, vi sono nondimeno diritti a contenuto personalissimo e non patrimoniale che competono all’uomo, alla persona in quanto tale e dunque anche al concepito non ancora nato.
    In particolare il diritto a nascere ed alla integrità psico – fisica, i quali possono essere azionati successivamente all’evento della nascita ma che maturano già prima nella sfera giuridica del soggetto.
    Questo è il precipitato delle fondamentali garanzie che la Costituzione estende all’individuo in quanto persona e che ad oggi il legislatore del codice civile non ha recepito.
    Tuttavia, sempre nel rispetto della persona l’ordinamento non prevede un diritto a non nascere se non sano, ciò che aprirebbe alla possibilità della selezione eugenetica in base a non meglio specificati criteri ed in pregiudizio della dignità dell’uomo.
    Da ultimo, anche principi di solidarietà sociale ex art. 2 Cost impongono alla collettività, come ai singoli, di accogliere individui pregiudicati nella integrità psico-fisica e di rimuovere gli ostacoli che si frappongano alle disuguaglianze (art. 3 Cost), in modo da costruire società flessibili e propense alla integrazione dei più deboli.
     
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  9. RaveRod80
     
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    Seconda traccia di amministrativo:

    "Natura sostanziale o processuale dell’art. 21 octies l. 241/1990 secondo comma e conseguenze applicative".
     
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    QUAGLIA

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    Dall'isola dei bimbi sperduti. Qualcuno ha visto mt?

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    Tracce civile per novembre POTETE SCEGLIERNE SOLO UNA
    1. Le obbligazioni pecuniarie e la disciplina dell'anatocismo bancario.
    2. L'autotutela nel diritto civile: l'eccezione di inadempimento e il suo onere probatorio.
    3. Azione revocatoria, con particolare riferimento ai rapporti all'interno della famiglia.
     
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  11. komplicata
     
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    amo le nuove tracce....complimenti schopena e grazie!!!!
     
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  12. rosmar83
     
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    Molto molto interessanti!! Grazie!
     
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    QUAGLIA

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    Temi migliori sulla traccia di Ottobre n. 3.: Patrimoni separati e trust, con particolare riferimento al trust interno

    Ragazzi, è un tema importante. Va studiato meglio! Quasi tutte insufficienze. Sono molto stupita, è un tema che ai corsi vari viene battuto in lungo e in largo.


    Tema
    Il concetto di responsabilità patrimoniale si pone come predicato dell’obbligazione, non esiste quest’ultima senza una connessa responsabilità la quale, dunque, si configura come momento patologico. La vera garanzia è rappresentata dal patrimonio che integra, secondo la regola generale di cui all’art.2740 cc, una realtà unitaria: il debitore risponde dell’inadempimento con tutti i suoi beni presenti e futuri. Tale principio di unicità può essere derogato, nei casi previsti dalla legge, dando così luogo alla separazione patrimoniale. Trattasi più specificamente di patrimoni separati o destinati dove, nel primo caso, si ha una separazione generale e quantitativa che ha una finalità generale (es. fondo patrimoniale); nel secondo rileva in chiave qualitativa il segmento del patrimonio che viene dedicato ad uno scopo (art. 2447 bis cc).
    In linea generale è da dirsi che l’ordinamento conferisce il potere di limitare la responsabilità separando alcuni beni dal proprio patrimonio in considerazione del vincolo giuridico che viene sugli stessi impresso. Tale separazione patrimoniale è generalmente ammessa se rispondente ad un principio di meritevolezza ex art. 1322 2 co (cui rinvia l’art. 2645 ter cc), o quando la destinazione è prodromica allo sviluppo del mercato (art.2447 quinquies cc) o, ancora, se funzionale alle necessità del nucleo famigliare (art 170 cc).
    Segnatamente al fondo patrimoniale, che costituisce una più classica e tradizionale figura di segregazione patrimoniale, può osservarsi come la stessa non ponga particolari problemi. I coniugi, o anche un terzo, hanno la possibilità di costituire durante la vita matrimoniale un patrimonio vincolato o destinato attraverso l’utilizzo dei frutti dei beni oggetto di vincolo (mobili, immobili, mobili registrati, titoli di credito) i quali verranno utilizzati per i bisogni della famiglia (artt.167-168 cc).
    Profili di maggiore interesse offre, invece, l’istituto del trust che rappresenta la massima espressione di segregazione patrimoniale allo stato esistente.
    La figura in analisi, di là dai nodi interpretativi, presenta considerevoli spunti di collegamento con la tematica della limitazione della garanzia patrimoniale, con l’atipicità/tipicità dei diritti reali e con i negozi intrisi da rapporti fiduciari.
    In merito al primo profilo s’è brevemente discorso in premessa, è ora opportuno contestualizzare il trust all’interno dei diritti reali atipici.
    Il codice civile chiaramente individua il principio di tipicità dei diritti reali. Difatti, in quanto quest’ultimi comprimono le facoltà o impongono limitazioni e vincoli al diritto di proprietà, non possono non rappresentare un numerus clausus, anche in una logica di reazione al vecchio sistema di proprietà feudale. Il numero chiuso dei diritti reali se per un verso reca in sé una serie di vantaggi quali una maggiore tutela della proprietà, una più accentuata sicurezza ma anche velocità nella circolazione della ricchezza, una tutela più forte dei terzi non può più rigidamente considerarsi poiché non completamente rispondente alle esigenze della mutata realtà sociale. Ed allora ecco che le specifiche peculiarità del trust (così come di tutta una serie di nuove figure non tipizzate) ,in quanto idonee ad incidere sulla proprietà classicamente intesa, meritano una rinnovata considerazione precipuamente alla luce di un principio di tipicità in funzione sociale.
    Il trust è un istituto di derivazione anglosassone la cui origine è strettamente legata all’epoca del tardo Medioevo quando i cavalieri, dovendo partire per le crociate, affidavano i loro beni ad un fiduciario in quale assumeva l’obbligo di ritrasferirli ai figli o ad altri successori in caso di mancato ritorno. Un rapporto di siffatto tipo, basato unicamente sulla fiducia, risultava fallace in quanto spesso l’affidatario contravveniva all’obbligo di ritrasferimento e, conseguentemente, l’unica tutela per l’affidante era quella di rivolgersi alle Corti d’Equità che puntualmente si pronunciavano a favore dei beneficiari. Considerata, tuttavia, l’utilità pratica della fattispecie è da rilevarsi come essa non potè non subire una rapida diffusione, accompagnata anche al perseguimento di scopi diversi, con un conseguente sviluppo di meccanismi di tutela più consoni per gli interessi coinvolti.
    Prima di analizzare funditus la figura in esame, è opportuno tracciarne la peculiare struttura. Vi è un soggetto (settlor) che conferisce ad un altro soggetto (trustee) tutti o parte dei suoi beni affinchè li detenga e li amministri nell’interesse di un terzo beneficiario (beneficiary) oppure per uno scopo individuato secondo quanto previsto nell’atto costituivo del trust o secondo le direttive del settlor. Il generale intento finale è quello di trasferimento dei beni al beneficiario o più raramente al settlor (trust di ritorno) o di mancato trasferimento nel caso di trust di scopo. L’atto costitutivo del disponente può, poi, anche prevedere una quarta figura del rapporto che assume le vesti di protector ovverosia colui il quale controlla la gestione fiduciaria e vigila sul diligente operato del trustee tenuto, peraltro, al criterio del prudent man.
    L’atto costitutivo può essere inter vivos o mortis causa può avere ad oggetto, oltre al diritto di proprietà, qualsiasi altro diritto ed ha durata tendenzialmente (può anche essere perpetuo) limitata in quanto il trust ha ragion d’essere in una destinazione finale del bene.
    Nonostante, prima facie, potrebbe apparire necessaria un’accettazione del trustee rispetto al negozio di destinazione del bene, è da darsi conto che la natura contrattuale del trust è stata unanimemente negata (tanto dalla giurisprudenza italiana quanto da quella inglese) in quanto tale figura è più coerentemente da inquadrarsi in un negozio unilaterale del settlor.
    Elemento discretivo del trust è che i beni oggetto di separazione sono intestati a nome del trustee o di altra persona ma comunque per conto del trustee non entrando in alcun modo a far parte della patrimonio di quest’ultimo. Esso avrà senz’altro l’obbligo di gestire, amministrare nonchè l’onere di rendere conto del proprio operato al settlor, ma la massa patrimoniale in oggetto rimane segregata ed autonoma. Ecco, dunque, che il trust viene a delinearsi esattamente come patrimonio del tutto separato ed indifferente alle vicende del trustee, non anche come un autonomo ente giuridico dotato di propria personalità. Ma la suddetta separazione definitiva (salvo eventuale revoca) opera anche rispetto al patrimonio del disponente, che ne risulta completamente spogliato, nonché rispetto al beneficiario che potrà ottenerne disponibilità solo al termine.
    L’autonomia della separazione patrimoniale consente, a differenza del negozio fiduciario italiano, di rendere opponibile la relativa disciplina ai terzi, ed in specie ai creditori personali del trustee (previo onere di trascrizione nel trust interno), non rimanendo con mera efficacia inter partes. Il soggetto beneficiario del trust, invece, riceve tutela rispetto a chi acquista dal gestore in mala fede potendo avvalersi dell’azione revocatoria e risarcitoria ex art. 2043 cc, esattamente come si verifica anche per i creditori di detto gestore nei confronti della costituzione del trust. Taluni avevano tematizzato, considerando il trustee come un rappresentante del beneficiary, la possibile applicabilità sul punto del disposto di cui al 1394 cc in tema di conflitto di interessi del contratto concluso dal rappresentante col rappresentato. Deve tuttavia, e più correttamente, escludersi la figura della rappresentanza in quanto il soggetto gestore agisce in nome proprio o altrui, ma senz’altro per proprio conto.
    A tale ultimo riguardo è opportuno procedere una breve schematizzazione di sintesi al fine di distinguere il trust da una serie di altri istituti presenti nel nostro ordinamento e che presentano profili di affinità.
    Il negozio fiduciario, in virtù della comunanza circa l’elemento fondante, si è palesato come una delle fattispecie più similari, ma a ben vedere dalla natura contrattuale del negozio fiduciario e da quella unilaterale del trust discendono diversi corollari. Esclusivamente il trust è idoneo a configurare una vera segregazione patrimoniale in quanto, perfezionato il negozio, il disponente ne rimane al di fuori non potendo più ingerirsi né rispetto al bene né rispetto allo stesso trustee; la massa distinta risulta svincolata, inoltre e come già esposto, sia dal trustee che dal beneficiario. Le obbligazioni assunte dal gestore si configurano nei riguardi del beneficiario e non dell’ex dominus dei beni. Il negozio fiduciario nasce, invece, da contratto e permane un interesse del fiduciante al punto tale che gli obblighi assunti dal fiduciario operano rispetto a quest’ultimo, inoltre il bene entra regolarmente nella sfera del fiduciario potendo essere aggredibile dai creditori dello stesso.
    Rispetto alla simulazione, ancora una volta risulta permeante l’elemento fiduciario ma in quest’ultimo caso non si configura alcun effetto traslativo; effetto al contrario presente nel trust dove si assiste ad un vero trasferimento del diritto reale di proprietà.
    Di rilievo è anche la distinzione con il contiguo istituto del fondo patrimoniale, come anticipato espressione di separazione del patrimonio. Tuttavia esso opera all’interno di confini più rigidi ed in specie ai sensi dell’art. 167 cc oggetto della destinazione sono i beni specificamente individuati dal disposto normativo e non tutti come per il trust, la stessa separazione incontra dei limiti poiché l’esecuzione sugli stessi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere estranei ai bisogni della famiglia (art.170 cc), il fondo patrimoniale cessa al verificarsi di una causa che lo riguarda (annullamento, scioglimento) o per morte di uno dei coniugi mentre il trust può proseguire anche dopo il decesso ed, inoltre, ha un effetto segregativo completo. Tale citato effetto comporta, infatti, che nel trust la massa destinata risulta assolutamente impermeabile ai creditori generali anche se di buona fede; non così per il fondo il quale è aggredibile non solo dai creditori dello stesso ma anche da quelli generali ignari che l’obbligazione era stata contratta per scopi estranei.
    Tenendo presente i predetti rilievi non può negarsi come il trust si presenti costitutivo di una proprietà segregata (che risponde solo per le obbligazioni inerenti i propri fini) ‘senza titolarità’. Segnatamente, e con maggiore precisione, può dirsi che viene in rilievo il problema della scissione tra proprietà formale e sostanziale, in capo al trustee e al beneficiary, in termini di incompatibilità di detta dual property con i tradizionali concetti di proprietà e di numerus clausus dei diritti reali elaborati nel nostro ordinamento.
    La suddetta questione necessita, ad onor di completezza, di alcuni riferimenti in ordine alle tesi elaborate da diversi segmenti dottrinali e pretori relativamente alla natura dell’istituto in discorso.
    In ossequio alla matrice anglosassone s’è sostenuto che il trust subisca uno sdoppiamento della proprietà in legal ownership, di tipo formale e che inerisce la gestione e dunque di competenza del trustee, e la equitabile ownership di tipo sostanziale in quanto riferibile al godimento del beneficiary. La Suprema Corte di Giustizia ha, però, obbiettato che in realtà si è in presenza di unica proprietà del trustee che genera vincoli di tipo obbligatorio, dal punto di vista dell’esercizio del diritto, al perseguimento dello scopo.
    Considerati gli elementi peculiari legati alla dual property ed a seguito della ratifica ad opera della L. n°89/364 della Convenzione dell’Aja 1 luglio 1985 che detta disposizioni comuni relative alla legge applicabile in Italia in caso di controversie aventi ad oggetto beni situati in Italia, si è palesato il problema circa l’ammissibilità del ‘trust interno’ che sarebbe costituito da cittadini italiani su beni residenti nel Territorio dello Stato.
    La Convenzione ponendosi l’obbiettivo di garantire il riconoscimento dei trust esteri e di garantire l’uniformità della normativa in ipotesi di conflitti, si è spinta al punto da imporre agli Stati firmatari di riconoscere ogni trust che rispetti le condizioni di cui all’art. 2 della Convenzione (art.11).
    Con riferimento alla Convenzione si pone un problema di applicazione della legge nello spazio. Taluni, inquadrando la stessa come una norma di diritto sostanziale uniforme, la hanno considerata operante in virtù dell’art.2 che porrebbe una deroga all’art. 2740 cc. Altro accostamento esegetico ritiene che la separazione patrimoniale è liberamente attuabile in quanto espressione dell’autonomia privata che troverebbe, in tal caso, un riferimento nella littera legis di cui al 2 co. dell’art. 2740 cc.. Inoltre la predetta segregazione non si porrebbe in contrasto né con in divieto di patti successori (art.458 cc), nell’ipotesi di trust collegato alla morte del settlor, poiché insussistente qualsivoglia forma di patto fra disponente e beneficiario passando i beni automaticamente al trustee; né tantomeno con l’art. 692 cc in quanto non c’è duplicità di vocazione ereditaria.
    Ebbene la citata Convenzione mentre all’art. 2 offre una nozione di trust assolutamente in linea con la figura analizzata, afferma successivamente che lo stesso, regolato dalla legge scelta dal costituente, deve essere opponibile ai terzi, trascritto se avente ad oggetto beni immobili o mobili registrati, impermeabile sia rispetto ai creditori e ai successori del trustee che alla comunione legale con il coniuge. Le prescrizioni relative alla opponibilità del trust ai creditori del gestore nonché quelle inerenti la trascrizioni incidono su una materia di esclusiva competenza del Legislatore interno il quale, però, non è mai intervenuto al fine di dare attuazione.
    Orbene in proposito si è registrato un approdo ermeneutico, non pacificamente condiviso, che ha accolto la tesi relativa alla trascrivibilità dell’atto di costituzione di un trust anche se genera un trasferimento di una situazione giuridica nuova e non assimilabile alla tradizionale nozione di proprietà. Il riconoscimento della possibile trascrizione ed opponibilità del trust deriverebbe direttamente dall’art. 12 della Convenzione dell’Aja che integrerebbe norma self-executing. Per conseguenza il trustee acquisirebbe il potere di pretendere l’adempimento dell’onere delle formalità pubblicitarie in quando unico strumento idoneo a garantirne l’opponibilità nel nostro ordinamento.
    Invero l’accoglimento dell’inquadramento delle norme della convenzione come norme di diritto materiale fonda le basi della tesi, prevalente, che riconosce l’opportunità di creare trusts interni i cui elementi fondanti siano riconducibili al nostro ordinamento mentre l’unico elemento di internazionalità può essere rappresentato dalla legge regolatrice scelta dal disponente (straniera). Precipitato logico di tale assunto è che l’ordinamento ha possibilità di non riconoscere trusts, non perché semplicemente ‘interni’, ma solo in quanto la legge regolatrice si pone in contrasto con l’ordine pubblico e le norme imperative dello Stato. Per tale strada assumendo, così, rilevanza il controllo di liceità e meritevolezza di cui al paradigma normativo 1322 – 1343 cc.
    Ad ulteriore rafforzamento di tale impostazione si è addotto l’argomento letterale derivante dall’introduzione del disposto di cui al 2645 ter cc con L.n°51/06. Si è discorso in dottrina se tale norma, che impone la trascrizione degli atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela, sia da considerarsi applicabile ai soli patrimoni destinati tipici od anche a quelli atipici utilizzando come norma intermedia l’art. 1322 cc
    Volendo accedere ad una interpretazione rigida del negozio di ‘atto di destinazione’, che non può essere in favore del conferente, nè dà vita ad una vicenda circolatoria, né tantomeno ad un patrimonio separato ed che si pone in linea con il principio di tipicità dei diritti reali attesa la necessarietà di trascrizione ex art. 2645 ter cc, non residuerebbe spazio alcuno per la sussumibilità del trust all’interno suddetta norma.
    Altro approccio interpretativo ha ritenuto, invece, l’opportunità di incentrare l’attenzione sull’elemento fondante la nuova disciplina ovverosia la meritevolezza di tutela dello scopo. Detto altrimenti si tratta di dover stabilire quando ed in presenza di quali interessi è consentito vincolare un bene inibendone la circolazione e riducendo la garanzia patrimoniale per i creditori. Di là dalle diverse soluzioni offerte in merito alla meritevolezza dello scopo, in specie ci si è riferiti alla coincidenza con l’utilità pubblica o alla prevalenza sull’interesse economico generale, può affermarsi che essa sussiste ogni volta che lo scopo non è illecito in virtù del combinato 1322 – 1343 cc..
    Accedendo a tale conclusione esegetica s’è ritenuto di dover considerare il paradigma normativo di cui al 2645 ter cc non unicamente riferibile agli atti tipici trascrivibili ma anche a quelli atipici, fra cui il trust. L’interpretazione di tale norma sostantiva in chiave di meritevolezza causale consente l’ingresso nel nostro sistema di atti di destinazione atipici di cui ne fornisce una, sia pur minima, disciplina seppur (beninteso) non idonea a garantire la tipizzazione dell’istituto in discorso. Ne discende così la necessarietà della forma pubblica a1i fini della opponibilità ai terzi, la circoscrizione al trust temporaneo e non perpetuo (‘periodo non superiore a 90 anni o per la durata della vita della persona fisica’), l’imprinting relativo controllo di meritevolezza dell’oggetto del trust.
    Sulla scorta, dunque, dei due argomenti relativi all’avvenuta ratifica della Convenzione dell’Aja, che si pone come chiaro intento quello di ammettere il trust interno, nonché dell’ancoraggio normativo fornito dall’introduzione dell’art. 2645 ter cc, che consente l’inserimento degli atti di destinazione atipici previo controllo di meritevolezza (1322 cc) e di assenza di contrasto con l’ordine pubblico (1343 cc), l’interpretazione prevalente ritiene ammissibile la configurabilità del trust interno nell’ordinamento italiano.


    Voto Il tema è sufficiente.

    Mancano alcuni punti che quasi nessuno – anche negli altri temi - ha indicato, come gli approfondimenti, nella disciplina del trust in generale, sulla disputa sulla natura giuridica, sulla struttura del trust, ecc.

    L’introduzione può essere migliorata, ma nel complesso 12.
     
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  14. RaveRod80
     
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    Solo per informarvi che entro domani dovrei terminare la correzione degli elaborati di amministrativo che mi avete inviato.Non disperate :-)
     
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    La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza.

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    CITAZIONE (RaveRod80 @ 18/11/2013, 10:22) 
    Solo per informarvi che entro domani dovrei terminare la correzione degli elaborati di amministrativo che mi avete inviato.Non disperate :-)

    Grazie del conforto, Rave! :lol:
     
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