deontologia avvocato riceve mandato

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    Come la vedete ?
    Un avvocato riceve il cliente e riceve un mandato per sé e per il collega di studio.
    Il collega viene edotto di questo e, senza avere minimamente partecipato alla stesura dell'atto, e senza avere ricevuto il cliente,
    firma un atto di citazione con relativa delega.
    Secondo voi, deontologicamente, il collega che é solo nella procura (ma non nel mandato o nel contratto di patrocinio) ha sbagliato
    a non prendere contatti con il soggetto che ha inviato la procura ?
    Per me, no, perché c'é giurisprudenza deontologica che dice che la procura può essere autenticata anche senza la
    presenza del conferente.
     
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    - Non c'è solo giurisprudenza deontologica, ma lo dice anche la dottrina e la cassazione (Mandrioli, Corso dir.proc.,vol. primo, Giappichelli, 1997, pag.306,nota 3a) ove in nota viene citata a conforto pure Corte Cass. 19.gennaio 1985 n.144,postulandosi comunque l'identificazione del sottoscrittore

    - per esser sicuro di aver capito bene il quesito, l'Ordine addebita al legale di non aver proceduto all'identificazione del sottoscrittore e della parte assistita? art. 23. comma 2?

    - ma non c'era il collega?

    - si tratta di studio associato?
     
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    No, solleva delle speciose contestazioni del tipo che prima che partisse l'atto voleva vederlo.
    Ma il mandato é regolare e la firma é la sua
     
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    quindi chi contesta è la parte, non l'Ordine


    per contestare ha da impugnare con la querela di falso (Corte Cass. 20 giugno 1996 n.5711 Foro it. parte prima,1996,2275; in precedenza Corte Cass. 08 aprile 1989 n.1690)


    difficile che contesti la sua firma, se persona fisica, perchè è comunque identificabile dal contenuto complessivo dell'atto

    l'identificazione della parte che firma serve, sopratutto, quando la parte è una persona giuridica, una società (magari anche di capitali) ed occorre individuare la persona per verificarne i poteri all'interno della compagine societaria
    (così Montesano - Arieta, Trattato dir.proc.,vol. primo, 2001,Cedam, pag.531)
     
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    - dico una bestialità, ma un antico è matusalemmico perchè scrive tutto quel che pensa

    - mi pare che la questione (come avrai intuito) non sia tanto "deontologica", ma di lana caprina (il cliente sarà un mancato ingegnere?) col bilancino del farmacista sempre in mano che vede/stravede sempre negligenze in quel che fanno gli altri

    - ammesso e non concesso che sia proprio così, sarà possibile metterci sicuramente una pezza nelle successive memorie di trattazione ex art.183 cod.proc.civ. oppure, altrimenti, mediante la notifica di un altro atto di citazione che svilupperà la nuova domanda con le precisazioni del cliente in un nuovo giudizio da riunire poi al primo
     
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    Secondo me occorre distinguere alcuni piani
    1) Sul piano della lettura degli atti endoprocessuali da parte del cliente in corso di causa
    2) Sul piano della correttezza nei confronti del collega che ha ricevuto il cliente
    3) Sul piano della possibile responsabilità degli eventuali pregiudizi arrecati al cliente per aver steso un atto introduttivo del giudizio (con tutte le preclusioni successive che ne derivano ai fini poi della stesura degli atti successivi o della formulazione delle domande rivolte al giudice) senza la dovuta diligenza nel caso in cui si rilevi che un diverso comportamento avrebbe evitato tale pregiudizio

    1) Sul primo piano che è quello lamentato dal cliente: su questo punto ammetto di non avere una idea precisa delle posizioni del CNF in merito. Secondo me siamo in un terreno al confine.
    Il discorso è questo: il cliente non firma l'atto, ma firma la procura ad litem. Questo perché la difesa tecnica è un aspetto di competenza esclusiva dell'avvocato, proprio alla luce della professione che ricopre. Una eccessiva intromissione del cliente sul contenuto dell'atto potrebbe risultare dannosa per lo stesso cliente, per vari motivi. Quindi l'autore dell'atto è l'avvocato stesso. Però è anche vero che esiste un dovere, da parte dell'avvocato, di trasparenza nella sua opera. Quindi questo ricomprende doveri informativi rispetto alla strategia che intende seguire e le spiegazioni su come opererà, anche in un ottica di rispetto della natura fiduciaria dell'incarico dell'avvocato stesso.
    Quindi, a seconda delle situazioni, forse (almeno dal mio punto di vista) siamo in una area grigia che assume contorni diversi a seconda di quelli che erano gli accordi presi con il cliente. Se l'avvocato si era impegnato a far consultare l'atto al cliente prima di procedere, secondo me, c'è una lesione dell'affidamento ingenerato da tale impegno.

    2) In ogni caso una condotta del genere secondo me è una mancanza di correttezza nei confronti del collega. Il colloquio con il cliente non è solo un momento formale in cui si "mette una firma", ma è un momento in cui il cliente spiega la propria situazione ed illustra il problema che sta esponendo al professionista, elencando i vari dettagli e rispondendo anche ai dubbi o alle domande del professionista stesso utili anche a definire la strategia da seguire poi dal punto di vista processuale. Stilare un atto senza aver avuto alcun contatto col cliente, senza aver sentito il collega che aveva parlato con il cliente o aver letto una relazione rispetto agli elementi più importanti emessi in colloquio è francamente una condotta dal mio punto di vista censurabile, perché di fatto è una mossa azzardata.
    Praticamente è come stilare un atto senza sapere nulla della situazione in concreto, quasi come compilare un atto giudiziale fosse qualcosa di meccanico o automatico che si possa fare senza una conoscenza un minimo diretta della posizione affidata. Col rischio di perdere di vista elementi fondamentali anche rispetto alle eventuali chance del cliente di ottenere quanto avrebbe potuto, e di incorrere in decadenze processuali non più sanabili in un secondo momento. E in tal caso si passerebbe al punto 3

    3) La condotta dell'avvocato che ha stilato un atto introduttivo di giudizio con tale leggerezza potrebbe di fatto, in alcuni casi, pregiudicare irrimediabilmente le sorti di un giudizio. Certo... si tratta di casi rari, ma non certo impossibili. Ecco, in tal caso la mancata diligenza dell'avvocato è sicuramente censurabile da un punto di vista disciplinare perché si tradurrebbe, in tal caso, in una condotta concretamente pregiudizievole per il cliente che poteva essere evitata con un minimo di diligenza (anche solo informare il collega che aveva parlato con il cliente prima di agire... mi pare proprio il minimo)

    Edited by Zefiro80 - 24/2/2021, 12:30
     
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    d'altronde però, quella citata è la prassi de codifensore domiciliatario
     
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    Che io sappia il codifensore domiciliatario, però, chiede istruzioni al collega titolare prima di agire.
    Ora, io non esercito ma quando ero praticante non ho mai visto alcun domiciliatario agire per conto suo senza prima avere istruzioni dal titolare. Anche quando la procura la si fa firmare ad entrambi i difensori per questioni di praticità, il domiciliatario sa bene che il cliente è suo solo nominalmente perché comunque il rapporto fiduciario col cliente è siglato in realtà col titolare che poi definisce le linee difensive e le strategie processuali.

    In alcuni casi il codifensore può anche avere iniziative proprie, ma sempre dietro il consenso del titolare o potrebbe contribuire rispetto ad una possibile migliore strategia difensiva, ma sempre dopo il confronto con il collega titolare. Secondo me rimane poco professionale il domiciliatario che agisce in completa autonomia, anche alla luce delle considerazioni che ho fatto sopra.

    Ribadisco che, a mio avviso, si ha una vera e propria responsabilità disciplinare solo se da questa leggerezza deriva un effettivo pregiudizio non più sanabile (es. vengono tralasciate delle domande che non potranno più essere introdotte nel giudizio) mentre probabilmente potrebbe non sussistere (o quanto meno ho più dubbi io se sussiste responsabilità disciplinare) se l'eventuale pregiudizio è sanabile (ad esempio le argomentazioni a favore del cliente risultano "deboli" giuridicamente, in tal caso c'è sempre il tempo di correggere il "tiro" dell'argomentazione - fin tanto che non cambia la natura della domanda o fin quando non incorrano altre preclusioni come quelle probatorie)
     
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