Tracce temi aprile 2013

tracce e migliori elaborati del mese

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    Traccia in diritto amministrativo:
    L'efficacia nel tempo del provvedimento amministrativo.

    assegno per maggio: il responsabile del procedimento amministrativo.

    ****
    Traccia in diritto penale
    Tema principale: Condizioni e limiti dell'uso legittimo delle armi.

    Tema opzionale: Il candidato delinei gli elementi costitutivi della scriminante del consenso dell'avente diritto con particolare riguardo alla rilevanza del consenso negli interventi medico chirurgici a scopo terapeutico, in particolare nella disciplina dei trapianti, e all'omicidio del consenziente.

    Assegno aprile:

    CONCORSO DI REATI - concorso di reati e concorso apparente di norme - casisitica - reato continuato - reato complesso

    Edited by togasana - 3/4/2013, 21:01
     
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    Traccia in diritto amministrativo:
    L'efficacia nel tempo del provvedimento amministrativo.

    assegno per maggio: il responsabile del procedimento amministrativo.

    ****
    Traccia in diritto penale
    Tema principale: Condizioni e limiti dell'uso legittimo delle armi.

    Tema opzionale: Il candidato delinei gli elementi costitutivi della scriminante del consenso dell'avente diritto con particolare riguardo alla rilevanza del consenso negli interventi medico chirurgici a scopo terapeutico, in particolare nella disciplina dei trapianti, e all'omicidio del consenziente.

    Assegno aprile:

    CONCORSO DI REATI - concorso di reati e concorso apparente di norme - casisitica - reato continuato - reato complesso

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    Tracce in diritto civile:

    1) Autonomia delle parti e ius variandi con particolare riferimento alle clausole sugli interessi ultra legali, gli interessi anatocistici, e i contratti dei consumatori.

    2) La concessione abusiva del credito, profili risarcitori.
     
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    per il tema di civile il temrine scade il 7 maggio :)
     
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    CITAZIONE
    Assegno aprile:

    CONCORSO DI REATI - concorso di reati e concorso apparente di norme - casisitica - reato continuato - reato complesso

    questo è l'assegno di maggio?
     
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    CITAZIONE (anella1 @ 29/4/2013, 17:54) 
    CITAZIONE
    Assegno aprile:

    CONCORSO DI REATI - concorso di reati e concorso apparente di norme - casisitica - reato continuato - reato complesso

    questo è l'assegno di maggio?

    sì. ho sbagliato a scrivere il mese :)
     
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    Migliori temi in diritto penale

    CONDIZIONI E LIMITI DELL’USO LEGITTIMO DELLE ARMI

    L’art. 53 c.p. disciplina la causa di giustificazione dell’ ”Uso legittimo delle armi”. Le cause di giustificazione, altrimenti dette esimenti o scriminanti, secondo la teoria tripartita, che è la teoria più accreditata dalla giurisprudenza maggioritaria, rientrano nella cd. antigiuridicità, accostandosi così alle altre due categorie del reato: la tipicità e la colpevolezza. Pertanto, ben vi può essere un fatto tipico, in quanto caratterizzato da tutti gli elementi richiesti dalla fattispecie di reato, ma non antigiuridico, in quanto è presente un elemento esterno al reato, caratterizzato, per l’appunto, da una causa di giustificazione e, quindi, non punibile. L’antigiuridicità è sintetizzabile, dunque, come assenza di cause di giustificazione.
    Le cause di giustificazione non sottostanno al principio di legalità, o, più precisamente, al principio di stretta legalità, ex art. 25.2 Cost, in quanto traggono origine dall’intero ordinamento giuridico. Pertanto, se un fatto è scusabile per un ramo dell’ordinamento lo diventa inevitabilmente, posto il principio di non contraddizione, per tutto l’ordinamento giuridico e non sarà assoggettabile né a sanzione penale, né, tantomeno, a sanzione civile o amministrativa. Dunque, le cause di giustificazione non sono solo quelle riportate dal Codice Rocco agli articoli 50, 51, 52, 53, 54 c.p.
    Le cause di giustificazione si differenziano, così, sia dalle cause di esclusione della colpevolezza che dalle cause di esclusione della pena. Infatti, le prime non sottostanno al divieto di analogia, corollario del principio di legalità, e si applicano a tutti i concorrenti, mentre le cause di esclusione della colpevolezza, così come quelle che escludono la pena, sono solo quelle espressamente definite dal legislatore e si applicano solo al soggetto a cui si riferiscono e sottostanno al divieto di analogia. Differente è la ratio sottesa a tali cause: le cause di esclusione della colpevolezza escludono l’elemento soggettivo del reato in presenza di determinati fattori, ad esempio sono le cause che escludono l’imputabilità, disciplinate dagli artt. 85 e ss. c.p.; mentre le cause di esclusione della pena esprimono un giudizio di opportunità effettuato ex ante dal legislatore, il quale ritiene il fatto seppur tipico, colpevole ed antigiuridico non punibile in concreto. Emblematica è, ad esempio, la causa di non punibilità descritta all’art. 649 c.p. per il reo legato da vincoli di parentela con la vittima di determinati reati contro il patrimonio.
    Il fondamento o la ratio delle scriminanti è da rintracciare, secondo la teoria pluralistica, caso per caso nelle singole cause di giustificazione: ad esempio, nel consenso dell’avente diritto manca un interesse da tutelare; secondo la teoria monistica, invece, la ragione giustificatrice è da rintracciare nel bilanciamento degli interessi coinvolti.
    Il codice non parla mai di cause di giustificazione, a differenza del codice di procedura penale, che ne fa menzione, ad esempio, all’art. 273.2. All’ultimo comma dell’art. 59 c.p. impropriamente si fa riferimento alle circostanze di esclusione della pena. Secondo l’orientamento maggioritario tale assunto, che aprioristicamente potrebbe far intendere anche un riferimento alle cause di esclusione della pena o della colpevolezza, è da ritenere riferibile proprio con riguardo alle cause di giustificazione. Pertanto, tale articolo prevede un’applicazione oggettiva delle scriminanti anche laddove non conosciute dal soggetto agente, se, invece, ritenute erroneamente esistenti sono sempre valutate a favore del reo, purché tale errore non sia dovuto a colpa, poiché se è previsto il reato come delitto colposo la punibilità non è esclusa. Tale articolo si ricollega così all’art. 47 c.p.: l’errore è infatti un errore di fatto sul fatto o su una norma extrapenale, in quanto l’errore di diritto è subordinato al principio dell’ “ignorantia legis non excusat”, seppure con i temperamenti della più recente Giurisprudenza, disciplinato all’art. 5 c.p.
    In particolare, la causa di giustificazione dell’uso legittimo delle armi rappresenta una novità del Codice Rocco del 1930, posto che il precedente Codice Zanardelli del 1889 non la prevedeva. La Giurisprudenza dell’epoca, al riguardo, oscillava includendo tale situazione nei casi dell’esercizio del diritto o adempimento del dovere, o della legittima difesa o stato di necessità. L’attuale Codice spinto, da un lato, a dare una definizione univoca, evitando così vaghi orientamenti pretori, dall’altro, ad attuare una politica criminale più autoritaria previde per la prima volta esplicitamente tale causa di giustificazione nell’art. 53 c.p. Pertanto, il fondamento della esimente in esame deve essere rintracciato nell’ottica del legislatore dell’epoca nella salvaguardia dell’ordine pubblico, inteso come interesse supremo da sovrapporsi agli interessi individuali dei singoli, stante il concetto di Stato autorità da tutelare in tutte le sue forme. La ratio con cui tale norma fu concepita era essenzialmente l’espressione del potere autoritario dello Stato, rispondente ad una determinata ideologia politica. Certamente, oggi la norma deve essere letta in conformità con i principi di un ordinamento democratico, quale quello attuale, tutelati in primis dalla Carta Costituzionale ed anche dalle Convenzioni internazionali ed europee che pongono la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo come principi supremi che ogni Stato democratico deve rispettare e garantire. Pertanto, attualmente, la giurisprudenza impone una lettura restrittiva di tale causa di giustificazione e al contempo ritiene che la ratio sottostante a tale norma sia la tutela degli adempimenti dei doveri pubblici, intesa come più ampia tutela del principio del buon andamento della PA, garantito dall’art. 97 Cost.
    La causa di giustificazione in esame è una causa sussidiaria, da come si evince dalla clausola di riserva posta nell’incipit iniziale della norma. Pertanto, l’applicazione dell’art. 53 c.p. è subordinata alla non applicazione dei due articoli precedenti, ossia l’esercizio del diritto o adempimento del dovere (art. 51 c.p.) e la legittima difesa (art. 52 c.p.).
    È bene segnalare il rapporto che intercorre tra l’art. 53 c.p. e le scriminanti precedenti, posto che vi è ancora chi, secondo un orientamento minoritario, ritiene che l’esimente dell’uso legittimo delle armi possa essere ricondotta o nell’esercizio del diritto o adempimento del dovere, o nella legittima difesa.
    Innanzitutto, per quanto riguarda i rapporti tra l’art. 51 c.p. e l’art. 53 c.p., si ritiene che il secondo sia una specificazione del generale adempimento del dovere cui tende il pubblico ufficiale. Infatti, per godere dell’esimente dell’uso legittimo delle armi il soggetto agente necessariamente utilizza l’arma o altro mezzo di coazione fisica, al fine specifico di adempiere un dovere del proprio ufficio.
    Per quanto riguarda, invece, i rapporti che intercorrono tra gli artt. 52 c.p. e 53 c.p. occorre segnalare che, mentre l’esplicazione della legittima difesa è azionabile da chiunque, dell’uso legittimo delle armi può goderne, invece, solo il pubblico ufficiale. Mentre la legittima difesa è azionabile facoltativamente, il pubblico ufficiale è costretto ad agire, utilizzando l’arma, in quanto chiamato a rispondere ad un dovere del proprio ufficio, non potendo usufruire del commodus discessus e cioè, sostanzialmente della scelta tra l’agire e il non agire (fuga). Infine, mentre il pubblico ufficiale può utilizzare l’arma solo per difendere interessi superindividuali, nella legittima difesa chi agisce lo fa in difesa di interessi anche individuali ed egoistici. Tuttavia, c’è ancora chi, aderendo ad un indirizzo minoritario, ritiene che tra le due norme in esame corra un rapporto di specialità bilaterale o reciproca. A tal riguardo, si sottolinea che tra i recenti arresti della Suprema Corte propende l’aderenza al solo modello del rapporto di specialità unilaterale in astratto per la soluzione di un eventuale concorso apparente di norme, ex art. 15 c.p.
    La scriminante di cui all’art. 53 c.p. è, al contempo, una causa di giustificazione propria, in quanto è applicabile soltanto nei confronti del pubblico ufficiale e, secondo quanto affermato dal secondo comma, a qualsiasi persona cui si rivolge il pubblico ufficiale.Tuttavia, l’orientamento maggioritario ritiene che debba farsi una lettura più restrittiva dell’art. 357 c.p., che dà la nozione di pubblico ufficiale. Pertanto, rientrano nella qualifica di pubblico ufficiale ,ex art. 53 c.p., soltanto quei soggetti che hanno poteri autoritativi e che svolgono la mansione di agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria e militari esercenti funzioni di pubblica sicurezza.
    Inoltre, da quanto afferma il secondo comma, dell’esimente godrà anche qualsiasi persona cui il pubblico ufficiale richieda assistenza. Si è, a tal proposito, sottolineato che l’ordine deve essere espresso e inequivocabile, non potendosi desumere da atteggiamenti taciti o da fatti concludenti.
    La scriminante in esame per poter essere applicata abbisogna di una serie di elementi esplicitati dalla stessa norma ed altri ritenuti, invece, implicitamente esistenti.
    Innanzitutto, è necessario che il pubblico ufficiale sia chiamato a prestare un dovere del suo ufficio e, proprio per evitare gli ostacoli che si frappongono nella sua attività (doverosa), utilizza, o ordina di utilizzare, l’arma, ovvero altro mezzo di coazione fisica. Gli ostacoli che possono frapporsi al riguardo consistono o in una violenza da respingere ovvero una resistenza da vincere.
    In particolare, non sorgono problemi importanti relativamente all’interpretazione della violenza. Si ritiene, infatti, che la violenza sia costituita da un comportamento attivo e, quindi, in atto, non potendo il soggetto agente utilizzare l’arma per una violenza antecedente. L’atto di violenza non necessariamente deve essere rivolto al pubblico ufficiale, potendo essere diretto anche verso terzi, nei confronti dei quali il soggetto agente interviene adempiendo ogni attività volta a riportare l’ordine pubblico. Si pensi, ad esempio, ad una guerriglia urbana. Infine, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che nell’ipotesi di violenza vi rientri anche la minaccia, quando seria e grave, di una violenza possibile e futura.
    Problemi più delicati sorgono, invece, per le ipotesi della resistenza da vincere e per l’esatto inquadramento della fattispecie. Al riguardo, si segnalano in giurisprudenza ed in dottrina orientamenti contrastanti. Infatti, parte della giurisprudenza, sostenuta anche da una certa dottrina, ritiene che nella ipotesi di resistenza presa in considerazione dalla norma rientri solo la resistenza attiva e non quella passiva, ossia la fuga. Si ritiene, cioè, che l’arma non potrà essere usata verso un reo che fugge, in quanto tale comportamento è successivo alla commissione del reato, sempre che, tuttavia, la fuga non sia accompagnata dalla contestuale utilizzazione dell’arma. Secondo tale teoria è necessario, dunque, compiere un giudizio di proporzione tra il comportamento posto in essere del pubblico ufficiale e quello attuato dalla violenza o resistenza del reo, a prescindere dall’azione criminosa compiuta precedentemente da quest’ultimo.
    Per altro verso, invece, una dottrina, sostenuta anche da una recente giurisprudenza, ritiene che, configurando la resistenza nei termini suddetti, risulterebbe impraticabile nella realtà oggettiva dei fatti l’uso dell’arma, ad esempio anche solo per bucare le ruote dell’autovettura di malviventi in fuga o sparare un colpo in aria. Si è così sostenuto, facendo leva anche sulla normativa speciale in materia di pubblica sicurezza, che l’arma possa essere utilizzata ex art. 53 c.p. anche per le ipotesi di resistenza passiva e quindi per evitare la fuga dell’autore del reato. Tale tesi fu sostenuta anche da una sentenza della Cassazione del 2003, la quale ha dato adito a parecchie critiche e obiezioni da parte della più attenta dottrina per l’utilizzo controverso che fece dell’art. 2, comma 2, lett b) della Cedu, posto a fondamento della motivazione della sentenza. Tale articolo, infatti, intitolato “Diritto alla vita”, mentre nella prima parte tutela per l’appunto il diritto alla vita di ogni individuo nella maniera più ampia, essendo la vita di ogni uomo considerato bene assoluto ed inderogabile, nel secondo comma, alla lettera b) in particolare, consente l’utilizzo dell’arma, dalla quale può derivare la morte, per eseguire un arresto legale. Ebbene aspre furono le critiche mosse alla Suprema Corte, innanzitutto, per l’errata comparazione della Cedu al diritto comunitario. Più esattamente, nella prima parte della motivazione la Corte fece riferimento alla indiscussa supremazia del diritto comunitario sul diritto interno, sbagliando, evidentemente, a collocare la Cedu tra il diritto dell’Unione Europea. La Cedu è, infatti, una convenzione internazionale firmata a Roma il 4 novembre del 1950 ed appartiene, quindi, al diritto internazionale. Inoltre, la Cedu stabilisce un minimum di tutela che ogni Stato deve garantire ai diritti fondamentali dell’uomo, lasciando, però, ad ogni ordinamento la prerogativa di ampliare tale tutela. A tal riguardo, si obiettò che la Suprema Corte interpretò al contrario tale criterio, posto che, secondo la ricostruzione che ne fece, lo Stato garantirebbe una minore tutela del diritto in esame
    È necessario, inoltre, ai fini dell’applicazione dell’esimente in esame, valutare il comportamento del pubblico ufficiale dal punto di vista della necessità, stante l’esplicito richiamo effettuato dalla norma, e della proporzionalità, ritenuto, invece, l’elemento implicito.
    Il giudizio sulla necessità richiede che il comportamento tenuto fosse inevitabile, ovvero l’unico idoneo a reprimere la violenza o a vincere la resistenza. Ciò implica che il pubblico ufficiale effettui una graduazione dei comportamenti da tenere e che l’uso dell’arma sia effettuato come extrema ratio, non essendo utile alcun comportamento diverso. La necessità è vista, dunque, come inevitabilità altrimenti del comportamento effettivamente tenuto.
    Tuttavia, la necessità comporta necessariamente anche un giudizio di proporzione. Secondo la giurisprudenza maggioritaria, tale elemento, seppure non indicato espressamente nella norma, a differenza, invece, del richiamo presente nell’art. 52 c.p., deve ritenersi implicitamente esistente. Sicuramente, l’assenza di un riferimento espresso deve ricondursi a quella politica autoritaria perseguita dal Codice Rocco, oggi non più attuabile, stante i principi democratici a cui è conformato il nostro ordinamento. È necessario, altresì, sottolineare che il giudizio di proporzione debba effettuarsi in un duplice senso: da una parte, ponendo in raffronto il comportamento del pubblico ufficiale come risposta alla violenza attuale o alla resistenza perpetrata; dall’altra, invece, tenendo in considerazione i beni da tutelare, non potendo mai il bene, al quale il soggetto agente è chiamato a difendere, essere inferiore a quello che si vuole sacrificare.
    Altro interessante orientamento della Suprema Corte, in relazione alla fattispecie in esame, è costituito da una sentenza del 2008. Il caso di specie riguardava un agente dei Carabinieri che, dopo aver inseguito Tizio, che procedeva a velocità elevata in un centro cittadino e successivamente intimatogli l’alt da un posto di blocco, superava il blocco e proseguiva contro mano per le vie della città, mettendo così in serio pericolo l’incolumità dei cittadini e creando gravi problemi di ordine pubblico. L’agente riusciva a fermare l’auto folle in corsa, sparando con la pistola d’ordinanza, e forando le gomma dell’auto. Successivamente, però, il militare, avvicinatosi al finestrino di Tizio, non riuscendo ad aprire lo sportello, essendo costui chiusosi nell’abitacolo, utilizzava il calcio della pistola come corpo contundente, al fine di spaccare il finestrino, ferendo mortalmente Tizio, essendo partito inavvertitamente un colpo dalla pistola. Ebbene il PM rinviò a giudizio l’agente dei Carabinieri per omicidio preterintenzionale, il giudice di primo grado, invece, modificò l’imputazione e condannò l’agente per omicidio colposo. In appello, venne contestato al soggetto agente l’eccesso colposo in omicidio colposo, ritenendo che il Carabiniere ben poteva utilizzare la pistola come corpo contundente, essendo nell’immediatezza l’unico oggetto rinvenibile, ma ben poteva prospettarsi l’evento della morte avendo dovuto, invece, prima di utilizzare l’arma, metterla in sicurezza. Ebbene la Cassazione ribaltò entrambi i gradi di giudizio, affermando che non esisteva alcun obbligo per l’agente dei Carabinieri di mettere in sicurezza l’arma, poiché stante l’intera condotta, pericolosa ed azzardata, posta in essere da Caio, ben poteva prospettarsi nella mente del pubblico ufficiale la possibilità che Caio fosse armato. In sostanza, la Suprema Corte ribadisce la funzione finalistica dell’arma che serve appunto per tutelare beni primari, come la vita non solo della collettività, ma anche dell’agente in servizio e che, pertanto, deve essere utilizzata in tal senso, seppur effettuando quel giudizio di necessità e proporzionalità prima detto.
    L’ultima parte del primo comma dell’art. 53 c.p. è stato modificato dalla L. n. 152 del 1975, la quale ha inserito una serie di reati per i quali si può procedere all’uso dell’arma. In particolare, è consentito tale uso al fine di impedire la consumazione dei reati di strage, naufragio, sommersione, disastro aviatorio e ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona. Varie obiezioni sono state mosse dalla dottrina. Da una parte, si è ritenuta tale specificazione inutile, in quanto nei reati in esami il concetto di violenza è già presente; dall’altra, si sono mosse critiche di incostituzionalità della norma. Probabilmente, secondo un’interpretazione che intende far salva la norma, il legislatore ha ampliato la possibilità dell’uso dell’arma o altro mezzo di coazione fisica ad un momento antecedente e più precisamente, alla fase del tentativo punibile. Ciò sarebbe, infatti, giustificato dall’utilizzo dei termini “e comunque al fine di impedire la consumazione” che esprimerebbe il giudizio sulla idoneità ed univocità degli atti ex art. 56 c.p.
    Infine, l’ultimo comma dell’art. 53 c.p., stante il principio di legalità formale, ex art. 25 Cost., rinvia alle leggi specifiche che consentono l’utilizzo dell’arma o altro mezzo di coazione fisica.

    13 ½
    OTTIMO INQUADRAMENTO SISTEMATICO. TRATTAZIONE ADERENTE ALLA TRACCIA, COMPLETA ED ORIGINALE. AFFRONTA ADEGUATAMENTE IL PROBLEMA CONOSCITIVO SOTTESO ALLA TRACCIA STESSA. ORDINATO NEI PASSAGGI LOGICI E ADEGUATO LIVELLO DI APPROFONDIMENTO.


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    Il candidato delinei gli elementi costitutivi della scriminante del consenso dell'avente diritto con particolare riguardo alla rilevanza del consenso negli interventi medico chirurgici a scopo terapeutico, in particolare nella disciplina dei trapianti, e all'omicidio del consenziente.

    Le cause di giustificazione, nel nostro ordinamento, hanno la funzione di rendere obiettivamente lecita una condotta che, in assenza di determinate condizioni poste, appunto nelle scriminanti stesse, configurerebbero fattispecie di reato.
    Tale funzione viene assolta, secondo la dottrina maggioritaria, al fine di contemperare diverse esigenze espresse dall’ordinamento con disposizioni che, in apparenza, si pongono in contrasto le une con le altre.
    Nel caso dell’art. 50 c.p. il Codice stabilisce che non è punibile chi commette un fatto di reato (con lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato) col consenso del titolare del diritto o di chi può validamente disporre del diritto stesso.
    Ia scriminante è considerata espressione del principio espresso dal brocardo latino volenti, consenzienti, non fit iniuria; ossia, la sfera di disposizione di un diritto arriva fino alla soppressione dello stesso.
    L’ordinamento pone, comunque, una serie di limitazioni a tale principio, mediante la tecnica del contemperamento degli interessi sottesi.
    L’analisi richiesta, quindi, deve essere posta sia nel delineare i tipi di consenso ed i casi nei quali il consenso è rilevante, a vario titolo, per l’ordinamento; si dovrà, quindi, valutare quali diritti siano disponibili e possano, quindi, essere lesi con applicazione dell’art. 50 c.p.; infine, si dovranno valutare natura, requisiti e modi di espressione del consenso per poi affrontare la questione inerente al consenso informato rilevante nell’attività medico-chirurgica che, ad oggi, viene scriminata in virtù di una generale valutazione di liceità dell’attività stessa (c.d. scriminante non scritta), solo latamente ricollegata all’art. 50 c.p.
    La questione inerente all’art. 579 c.p., invece, verrà risolta in via preliminare, analizzando i vari tipi di consenso rilevanti, per la dottrina, nel nostro ordinamento.
    La migliore dottrina suole distinguere tra consenso proprio (quello rilevante ai fini dell’art. 50 c.p.), consenso improprio (ossia il consenso in presenza del quale la fattispecie concreta non corrisponde a quella tipica), i casi di reato c.d. consentito (ossia l’art. 579 c.p.) ed il consenso informato rilevante nell’attività medico-chirurgica.
    Si usa, quindi, distinguere tra il consenso proprio, che integra la scriminante di cui all’art. 50 c.p., dal consenso improprio, ossia quella mancanza di dissenso che rende la fattispecie non tipica.
    Per quanto attiene al consenso improprio, in particolare, vi sono reati in cui il dissenso della persona offesa integra la tipicità della fattispecie e reati in cui, al contrario, è il consenso stesso ad integrare la tipicità.
    Esempi del primo tipo di ipotesi sono la violenza sessuale ex artt. 609 bis e segg. c.p. e la violazione di domicilio ex art. 614 c.p.; casi in cui è il consenso a costituire illecito si rinvengono nei delitti di truffa, ex art. 640 c.p. (e varianti varie), nel delitto di estorsione di cui all’art. 629 c.p.; vi sono, poi, i delitti propri dei pubblici ufficiali (corruzione nelle sue varie declinazioni e concussione) e quelli di cessione di sostanze stupefacenti.
    Per quanto attiene ai casi di consenso “illecito” di cui alla poc’anzi citata casistica esemplificativa, si deve ulteriormente distinguere tra i reati in cui il consenso è carpito alla persona offesa con particolari modalità della condotta (truffa ed estorsione) dai casi in cui il consenso integra un accordo illecito (corruzione ed art. 73 D.P.R. 309/90, rispettivamente reato in atto e reato contratto).
    La violenza sessuale può vedere situazioni diverse, atteso che il bene giuridico tutelato, ossia la libertà sessuale come diritto della persona, può essere leso sia mediante violenza (con aperto dissenso) sia con induzione in errore o minaccia (ossia con consenso carpito in maniera illecita).
    Il consenso improprio, quindi, riguarda una pluralità di situazioni previste dalle diverse fattispecie di parte speciale che possono essere catalogate per struttura e per il valore che il consenso riveste nell’ambito del fatto tipico.
    Per quanto attiene al consenso proprio di cui all’art. 50 c.p., invece, si deve, preliminarmente, individuarne la natura giuridica, valutare quali diritti possano essere oggetto di disposizione ex art. 50 c.p., per poi vagliare quali siano i requisiti di legittimità dello stesso, ossia validità, titolarità, forma e possibilità di revoca.
    Sulla natura del consenso deve dirsi, innanzi tutto, che vi sono tesi contrapposte tra chi vede nel diritto penale una completa autonomia ordinamentale e, pertanto, ritiene di dover individuare solo nelle categorie penalistiche la natura del consenso scriminante e che, al contrario, ritiene di dover accedere, per la ricostruzione dell’istituto, interamente alle categorie di matrice civilistica.
    Secondo la tesi panpenalistica il consenso rilevante sarebbe quello che si desume dal disposto dell’art. 50 c.p. stesso, con interpretazione, anche sistematica del Codice penale, della valutazione degli elementi di validità del consenso prestato.
    La tesi civilistica, al contrario, propone di valutare il consenso rilevante solo secondo le categorie civilistiche, di fatto adattando il testo del Codice penale alla portata di dette categorie.
    Il limite applicativo che entrambe le summenzionate posizioni hanno evidenziato ha portato la dottrina ad elaborare una posizione intermedia, che vede il ricorso alle categorie civilistiche inteso in senso non esclusivo, con interpretazione delle stesse anche alla luce della disposizione penale di riferimento; giova peraltro ricordare che il suesposto dibattito non ha riguardato solo l’art. 50 c.p., ma è esteso a tutta la casistica in cui categorie di matrice civile possono avere una qualche rilevanza per la ricostruzione dell’istituto di riferimento (con particolare riguardo alla teoria degli elementi normativi della fattispecie).
    Orbene, essendo il consenso una manifestazione di volontà, dichiarata dall’avente diritto in maniera tale da renderla conoscibile a terzi ed, in particolare, all’agente, ci si deve chiedere se tale manifestazione abbia natura negoziale, sia atto giuridico in senso stretto o sia fatto giuridico e se e come, in ogni caso, tali categorie civilistiche possano essere utilizzate omissio medio nell’ordinamento penale ovvero se esse non debbano essere reinterpretate alla luce del disposto dell’art. 50 c.p.
    Posto che per negozio giuridico si deve intendere quella manifestazione di volontà diretta a creare, modificare od estinguere un rapporto giuridico tra le parti, si deve ritenere che tale categoria abbia effetti troppo specifici ed estesi per essere ricondotti al consenso scriminante.
    Il consenso dell’avente diritto, infatti, anche se può avere effetti dispositivi, non necessariamente crea un rapporto giuridico di tipo negoziale tra i soggetti che interagiscono; tale dato di fatto porta ad escludere in radice l’utilizzo di tale categoria.
    Si propende, quindi, per la qualificazione del consenso scriminante come atto giuridico in senso stretto, ossia un atto volontario con il quale un soggetto modifica unilateralmente la propria sfera giuridica; si ritiene, inoltre, che abbia natura non recettizia, ossia che non debba essere necessariamente portato a conoscenza del soggetto che pone in essere la fattispecie di reato scriminata ex art. 50 c.p., salva anche l’applicazione della scriminante putativa di cui all’art. 59 c.p.
    Tale soluzione si impone laddove si consideri come il consenso risulta essere presupposto di fatto della scriminante e che il giudizio di non illiceità della condotta sia portato con riferimento ala mera sussistenza dello stesso e non, al contrario, della sua effettiva conoscenza da parte dell’agente.
    Solo per completezza, al fine di delineare ancora meglio la differenza intercorrente col consenso improprio, giova precisare che nelle ipotesi di consenso improprio la presenza o meno del consenso stesso non dovrebbe essere valutata come atto giuridico, quanto piuttosto come fatto giuridico in senso stretto.
    Ciò perché se, come detto, il consenso esclude la tipicità del fatto, il suo difetto la integra e la manifestazione di dissenso eventualmente espressa dalla vittima risulta elemento fattuale vero e proprio.
    I diritti che possono essere oggetto di libera disposizione ai sensi dell’art. 50 c.p., inoltre, seppure non risultano essere un numerus clausus, incontrano una serie di limiti da parte dell’ordinamento.
    Incomprimibile, anche con il consenso del titolare validamente espresso, è il diritto alla vita: su questo vi è totale convergenza tra principi costituzionali, norme civili e penali.
    Così il consenso dato al fine di far provocare il proprio decesso ad un soggetto agente rileva solo come elemento di minor disvalore penale della fattispecie, la quale, tuttavia, mantiene un’elevata carica di antigiuridicità obiettiva.
    E’ il caso dell’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p., che prevede un’ipotesi speciale del reato di omicidio punita in maniera più lieve rispetto al genus dell’omicidio: si parla, in questo caso, di reato consentito, poiché la vittima consente al proprio omicidio per motivi propri senza per questo far venire meno il reato, ma ottenendo l’effetto giuridicamente rilevante di far inquadrare il fatto nell’ambito di una disciplina diversa rispetto a quella generale.
    Giova quindi precisare, sul punto, che l’art. 579 risulta speciale sia rispetto al delitto di cui all’art. 575 c.p., sia rispetto alla disciplina generale, poiché il consenso validamente espresso dal titolare del bene giuridico seppure non scrimina provoca l’applicazione di una fattispecie con cornice edittale radicalmente diversa rispetto a quella generale.
    L’integrità fisica può essere oggetto di consenso scriminante solo in alcune ipotesi; vi è, quindi, una valutazione qualitativa e quantitativa operata dall’ordinamento.
    Si contrappongono, sul punto, due tesi, che vedono l’una la valutazione in astratta della lesione che viene posta in essere; l’altra, invece, ritiene doveroso una valutazione in concreto.
    Secondo la prima impostazione la valutazione della lesione dovrebbe essere effettuata solo secondo parametri normativi, per il secondo - e preferibile – orientamento, invece, la valutazione dovrebbe essere effettuata solo sulla fattispecie concreta, di modo da consentire al giudice di operare un vaglio di fatto sulla situazione oggetto di imputazione.
    La fonte normativa di riferimento è l’art. 5 c.c., anche con riferimento alla legislazione speciale in tema di donazione di organi: la norma del 1942, se non interpretata in senso evolutivo ed alla luce della legislazione speciale, porterebbe, ad oggi, a risultati pratici considerati inaccettabili nella nostra realtà sociale.
    Sarebbe, ad esempio, da escludere in radice la possibilità di effettuare trattamenti anche invasivi di tipo estetico, come tatuaggi o inserimento di corpi estranei anche invasivi, come spesso accade; gli interventi chirurgici di tipo estetico, risulterebbero, del pari, non consentiti.
    Idem dicasi con riferimento ai trapianti di organi tra vivi: l’art. 5 c.c., seguito alla lettera, non li consentirebbe; la legislazione speciale ha, tuttavia, aperto alla possibilità di donare organi come retina o reni (rispettivamente l. 301/93 e 458/67), anche in ossequio al dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.
    L’attività di chirurgia estetica o plastica, invece, è pacificamente ricondotta all’alveo applicativo dell’art. 50 c.p., c.p. con la doverosa precisazione che le lesioni eventualmente provocate per colpa nell’ambito di detti interventi non risultano scriminate ex art. 50 ma, se ne ricorrono i requisiti, ai sensi del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 coordinato con la l. 8 novembre 2012, n. 189 (c.d. decreto Balduzzi), in virtù del quale il medico non risponde per colpa lieve se ha agito secondo i canoni ivi previsti.
    La disponibilità di altri diritti personalissimi, quali ad esempio onore e decoro, è, invece, pacifica, anche se può comunque incontrare limiti di legge, ove previsti: il fatto, ad esempio, che un soggetto tolleri o consenta di farsi insultare di notte sotto casa a voce alta dall’agente non implica che quest’ultimo non debba rispondere della contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.
    Discorso analogo vale per i diritti reali: si può consentire espressamente, ad esempio, all’invasione di terreni; l’incendio di cosa propria, tuttavia, è autonomamente punito dall’art. 423, co. 2, c.p.
    Per quanto attiene ai caratteri che deve rivestire il consenso, la dottrina individua nell’effettività, libertà, spontaneità ed attualità i requisiti che esso deve rivestire per essere valido ai sensi dell’art. 50 c.p.; va detto che la ricostruzione ricalca fortemente le categorie mutuate dal diritto civile in materia.
    E’ effettivo il consenso espresso seriamente, finalizzato al conseguimento dello scopo scriminante, ossia non ioci o docendi causa.
    Risulta poi libero il consenso non carpito con violenza, errore o dolo; spontaneo è poi il consenso che la legge indica come necessariamente tale (su tutte: la legge sul trapianto di rene).
    E’ attuale, infine, il consenso prestato al momento in cui viene posta in essere la lesione o messa in pericolo del bene giuridico del titolare.
    Il consenso può, infine, essere revocato in ogni momento; la revoca, tuttavia, seppure anch’essa atto giuridico in senso stretto, deve essere necessariamente recettizia, poiché risulta necessario che venga recepita dall’agente.
    In ogni caso, laddove la revoca fosse anche stata effettuata, ma non ve ne fosse effettiva conoscenza, l’agente potrebbe invocare la scriminante putativa di cui all’art. 59 c.p.
    Si pone, poi, il problema sia della forma della revoca, sia della corrispondenza tra modalità di manifestazione del consenso e di manifestazione della revoca.
    La dottrina maggioritaria tende a ritenere valida la revoca tacita, purchè manifestata in maniera tale da essere riconoscibile all’agente; anche il consenso può essere prestato tacitamente, purchè non si tratti di mera quiescenza ma si tratti di una vera e propria manifestazione di volontà, seppure esternata per facta concludentia.
    Neppure si esclude la validità di una revoca tacita a consenso espresso e viceversa: la natura non negoziale e non necessariamente dichiarativa del consenso scriminane ex art. 50 c.p., infatti, non può nemmeno creare vincolo di forma reciproca.
    La problematica, sul punto, riguarda, eventualmente, la prova dell’effettività o meno del consenso e della sussistenza della revoca.
    La sussistenza delle cause di giustificazione, secondo la giurisprudenza di legittimità, deve essere allegata da chi la invoca che, al contempo, dovrebbe, anche cercare di portare quanti più elementi possibile a sostegno di un tanto.
    L’onere della priva in senso stretto, tuttavia, incombe sul pubblico ministero che deve fornire la prova negativa di quanto allegato dalla difesa; il giudice chiamato al vaglio, deve escludere la sussistenza della scriminante laddove sia pacifico che la stessa non poteva essere invocata, ovvero laddove gli elementi di prova portino, oltre ogni ragionevole dubbio, ad escluderla.
    Gli elementi addotti dalla difesa devono essere valutati come elementi di contrasto a fronte dei quali la tesi accusatoria deve essere validata o meno: è evidente, quindi, come consenso o revoca espressi tacitamente possano comportare serie problematiche di ricostruzione dei fatti in sede di indagine prima e di processo poi, tanto all’accusa che alla difesa.
    Per quanto attiene, infine, al consenso informato rilevante nell’attività medico chirurgica, si deve dare brevemente conto dell’acceso dibattito che si è registrato in dottrina e giurisprudenza circa la sua riconduzione, rispettivamente, alla scriminante di cui all’art. 50, c.p., a quella di cui all’art. 51, ovvero, infine, all’individuazione di una causa di giustificazione non espressamente codificata in sede legislativa ma presente nell’ordinamento quale espressione diretta dell’art. 32 Cost.
    L’inapplicabilità dell’art. 50 c.p. a tutte le ipotesi di attività terapeutica o medico chirurgica nasce dai casi nei quali il medico è costretto ad agire senza poter richiedere il consenso al paziente in virtù di un’emergenza e/o dello stato di incoscienza del paziente stesso.
    Il vuoto normativo che tale soluzione lascerebbe aperto non consente di ritenerla accettabile nel nostro ordinamento, poiché l’inaccettabilità dell’implicazione invaliderebbe il metodi di ricostruzione dell’istituto.
    La disposizione di cui all’art. 51 c.p., sub specie adempimento del dovere, se applicata in maniera generale all’attività medico-chirurgica, al contrario, priverebbe di ogni significato il consenso del paziente, previsto, in maniera espressa, dalla disposizione costituzionale di cui all’art. 32 Cost.
    L’art. 51 c.p., tuttavia, è stato invocato, utilmente, in un triste caso di cronaca, ossia il caso Welby, laddove il paziente aveva espresso in maniera certa, univoca e ferma la volontà di non essere più sottoposto alla respirazione artificiale; il paziente, peraltro, era stato collegato al respiratore artificiale senza aver prestato il consenso a tale pratica.
    L’ipotesi di reato posta a carico del medico che aveva scollegato il paziente dal respiratore, in quel caso, era proprio omicidio del consenziente ex art. 579 c.p.: i giudici di merito, tuttavia, hanno ritenuto che a fronte non solo del consenso, ma della volontà di non proseguire nella ventilazione artificiale validamente espressa dal paziente, in medico avesse avuto il dovere di scollegare la macchina salva vita.
    La summenzionata situazione, d’altra parte, divergeva manifestamente da altre ipotesi astrattamente analoghe ma sostanzialmente diverse.
    Ad esempio, sul punto veniva richiamato il caso del marito che aveva effettuato un’iniezione letale alla moglie malata terminale ed estremamente sofferente: in quel caso la condanna ex art. 579 arrivò anche perché non vi era alcun mezzo artificiale che mantenesse in vita la vittima che aveva manifestato la volontà di morire ma non di interrompere alcuna terapia della quale, tra l’altro, non vi era necessità alcuna al fine del mantenimento in vita.
    Secondo dottrina e giurisprudenza maggioritarie, ad oggi, l’attività medico-chirurgica è scriminata in quanto ontologicamente lecita ed espressione dei principi generali dell’ordinamento, tra i quali, su tutti, si richiama l’art. 32 Cost.
    Varie le teorie che hanno cercato di spiegare attraverso quale tipo di procedimento ermeneutico di possa giungere a sostenere la sussistenza, nel nostro ordinamento, di scriminanti non codificate; dalla teoria dell’azione socialmente adeguata, in virtù della quale l’attività esplicata in ossequio a svariati principi costituzionali deve essere considerata ontologicamente lecita, si è passati all’applicazione analogica ai casi dubbi delle scriminanti codificate, per giungere ad un’interpretazione estensiva delle cause di giustificazione espresse per ritenere lecite condotte, di volta in volta, ricondotte ora all’una, ora all’altra scriminante.
    Ciò posto, è da dire che nel nostro ordinamento, l’attività meidco-chirurgica è considerata lecita ex se; il problema si pone per quanto attiene alla struttura ed al fondamento della scriminante che si ritiene debba operare a fronte dell’espletamento di detta attività.
    Ogni teoria, pertanto, si presta a svariate critiche, poiché, anche in seguito al citato decreto Balduzzi, de iure condito non è possibile ricostruire l’istituto sulla base del mero diritto positivo, risultando necessaria un’integrazione analogica o estensiva sul piano ermeneutico.
    La c.d. scriminante non codificata, quindi, opererebbe laddove l’intervento fosse effettuato secondo la miglio scienza ed esperienza del tempo e nel rispetto delle leges artis a fronte di un consenso informato che permetta al paziente di decidere della propria sfera personale; consenso che, tuttavia, può essere anche presunto laddove l’intervento risulti necessario ed il paziente sia incosciente e non vi sia chi possa decidere validamente per lui.
    La problematica nasce dal fatto che il consenso informato è presupposto di legittimità dell’attività medico-chiurirgica e non è, di per sé solo, scriminante, come il consenso proprio di cui all’art. 50 c.p.: è condizione di liceità di un’attività di per sé già lecita e non presupposto di fatto della non antigiuridicità obbiettiva di una determinata condotta; si pone, quindi, il problema di comprendere cosa accada laddove il consenso manchi.
    Nulla quaestio in ordine alle situazioni c.d. necessitate, ossia quelle in cui senza l’intervento medico privo di consenso il paziente perderebbe la vita; in questi casi è pacifico che si applichi l’art. 54 c.p.
    La giurisprudenza di legittimità, in ordine ai casi di mancanza di consenso (o consenso invalidamente prestato) vin caso di attività medico-legale, ha effettuato una distinzione tra difetto di consenso ed espresso dissenso del paziente al fine di spiegare il fenomeno in maniera unitaria.
    Mancanza o vizio del consenso risultano assorbiti dalla finalità dell’attività curativa laddove vi sia esito fausto dell’intervento; in caso di esito infausto la situazione andrebbe valutata mediante i canoni della colpa medica.
    Ciò perché l’azione caratterizzata da finalità curativa non sarebbe tipica perché ontologicamente lecita; in tal modo, la giurisprudenza di legittimità, con un velato richiamo alla teoria finalistica dell’azione, è riuscita ad inquadrare in maniera soddisfacente la problematica, garantendo, anche, una visione sistematica degli istituti di riferimento.
    L’espresso dissenso, al contrario, renderebbe l’attività medico-chirurgica sempre contra legem, in virtù del combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 Cost.

    13 COMPLETO E ADERENTE ALLA TRACCIA. STESURA ORDINATA E CON PASSAGGI LOGICI BEN DEFINITI. SUFFICIENTE LIVELLO DI APPROFONDIMENTO. STILISTICAMENTE OK
     
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    2) La concessione abusiva del credito, profili risarcitori.

    Ricorre la concessione abusiva del credito quando un operatore economico, in genere una banca, eroga un finanziamento in favore di un’impresa in stato di decozione, senza verificarne l’affidabilità patrimoniale, così da esporre l’eventuale garante del beneficiario al rischio di escussione per somme elevate ovvero, ancora, determinando un pregiudizio in capo imprese terze, che hanno stipulato negozi giuridici con detto beneficiario, confidando nella solidità economica dello stesso.
    La concessione abusiva del credito -nei termini generali appena descritti- pone, pertanto, un problema di responsabilità dell’operatore economico nei confronti del garante o dei terzi danneggiati.
    Si rende, quindi, necessario individuare la natura di tale responsabilità, nonché i rimedi esperibili dai soggetti pregiudicati.
    La prospettata analisi deve prendere le mosse dal concetto di abuso del diritto, del quale la concessione abusiva del credito costituisce una declinazione.
    In via di prima approssimazione, può affermarsi che l’istituto dell’abuso del diritto rappresenta uno dei recenti approdi cui è prevenuta la Suprema Corte nella pregevole attività ermeneutica tesa a snidare le molteplici prescrizioni comportamentali ascrivibili al principio di buona fede oggettiva, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., proiezione, a sua volta, del dovere di solidarietà tra consociati previsto nell’art. 2 Cost.
    E’ noto che il citato principio informi l’intero rapporto obbligatorio, che ad esso deve conformarsi dalla fase delle trattative -antecedente, quindi, al perfezionamento del negozio giuridico- al momento della stipulazione, alla successiva fase esecutiva e, infine, in presenza di un’ipotetica patologia del vincolo giuridico.
    Nello specifico, e richiamando la definizione contenuta nella relazione del codice civile del 1942, la buona fede impone al creditore di avere il giusto riguardo della sfera giuridica del debitore e al debitore di tenere nella dovuta considerazione l’interesse creditorio.
    La reciproca attenzione, che ciascuna parte di un rapporto obbligatorio deve avere verso l’interesse dell’altra, compendia una serie di condotte distinte e ulteriori rispetto a quelle cristallizzate nello statuto negoziale o nel canone del neminem laedere, con il limite, tuttavia, del c.d. non apprezzabile sacrificio.
    Altrimenti detto, la lealtà comportamentale -in cui prende forma la buona fede- non può imporre condotte che costituiscono uno sforzo non esigibile dalla controparte.
    Delineato il concetto di buona fede oggettiva -distinta, quindi, dalla buona fede soggettiva, quale ignoranza di ledere l’altrui diritto ex art. 1147, comma 1, c.c.- occorre individuare l’interferenza di tale principio con l’abuso del diritto.
    In consonanza con le statuizioni enunciate in materia dalla Corte di Cassazione, viene a configurarsi l’abuso del diritto laddove un soggetto, titolare di una posizione soggettiva contenente molteplici facoltà, esercita il potere di cui è titolare in maniera formalmente aderente alla fonte legale o negoziale dal quale detto potere promana, perseguendo però uno scopo distinto e ulteriore, che non arreca alcuna utilità al titolare stesso e, al contempo, cagiona un pregiudizio alla controparte.
    L’abuso del diritto, quindi, invera un esercizio sfunzionale del potere negoziale che, sebbene ossequioso della cornice legale, risulta in concreto sproporzionato rispetto al fine ad esso sotteso, e ciò in maniera speculare -come osservato dalla più avvertita dottrina- a quanto accade in presenza di attività amministrativa viziata da eccesso di potere.
    Come noto, l’istituto in parola non è disciplinato in via generale dal nostro ordinamento giuridico e nelle sue originarie applicazioni, avuto riguardo anche ad alcune specifiche previsioni codicistiche, ha trovato quale preminente, se non esclusivo, perimetro attuativo i diritti reali.
    Sul piano storico, infatti, il legislatore -in fase di stesura del codice civile- si è trovato di fronte all’alternativa se confezionare una norma che regolamentasse l’abuso in questione in termini astratti, ovvero se prevedere all’uopo singole disposizioni.
    La seconda opzione è stata quella prescelta dal legislatore, in quanto nella stesura definitiva del codice civile è stato espunto l’art. 7 -compendiato, invece, nella bozza preliminare- che conteneva proprio una enunciazione generale del divieto di abuso del diritto.
    Si è osservato, sul punto, come detta espunzione trovasse giustificazione nel timore che una clausola così ampia -qual è, appunto, l’abuso del diritto- attribuisse al giudice un potere interpretativo eccessivamente dilatato, sfornito di parametri normativi certi, con il conseguente rischio di pronunce non uniformi.
    Si è quindi preferito introdurre nel tessuto codicistico singole norme, finalizzate a regolamentare e sanzionare specifiche condotte abusive, nel ristretto ambito dei diritti reali.
    Di tali norme -tra cui si annovera, ad esempio, l’abuso dell’usufruttuario ex art. 1015 c.c. o del creditore pignoratizio sulla res, giusta l’art. 2793 c.c.- il divieto di atti emulativi previsto dall’art. 833 costituisce il precetto paradigmatico.
    Esso, in particolare, impone al proprietario di non compiere atti che non abbiano altro scopo di creare nocumento al vicino. Il perfezionamento della condotta abusiva postula un elemento oggettivo, rappresentato dalla condotta emulativa, e un elemento soggettivo, sub specie di animus nocendi, cioè intenzione di arrecare disturbo al vicino.
    Tanto chiarito circa il sostrato normativo delle singole prescrizioni in materia di abuso del diritto -operanti principaliter in materia di diritti reali- giova a tal punto rilevare come la valorizzazione in sede pretoria del principio di buona fede abbia determinato una trasposizione delle condotte abusive anche in sede di rapporto obbligatorio, con conseguente individuazione dei criteri idonei a qualificare come abusivo il contegno tenuto da uno dei paciscenti.
    In ordine a questi ultimi, specificati a inizio trattazione, la Suprema Corte ha affermato che, diversamente dall’ipotesi condotta emulativa posta in essere dal proprietario, ai fini dell’integrazione di un contegno abusivo in ambito negoziale non è necessaria la ricorrenza dell’elemento soggettivo -cioè il citato animus nocendi- essendo sufficiente che il creditore consegua, in concreto, una utilità sproporzionata rispetto all’interesse dedotto in contratto e, ancora, pregiudizievole per la controparte.
    Ciò posto, e a fronte dell’acclarata sussistenza di un abuso del diritto, la giurisprudenza di legittimità si è occupata di specificare le forme di tutela esperibili dal soggetto pregiudicato.
    Assunto fondamentale, in tema, è che, in presenza di una condotta abusiva riconducibile al titolare di un diritto soggettivo, deve essere negata dall’ordinamento giuridico ogni forma di tutela che possa consentire la realizzazione di un interesse sproporzionato o irragionevole ovvero, ancora, che possa garantire la conservazione di detto interesse.
    Nella prospettiva tracciata si colloca l’exceptio doli generalis.
    L’istituto appena citato, ad ogni evidenza di matrice romanistica, ha la precipua finalità di neutralizzare le pretese abusive avanzate da controparte, e ciò tanto in ambito negoziale –mediante l’exceptio doli generalis seu praeteriti- quanto in sede processuale, con l’exceptio doli generalis seu praesentis.
    In forza di detto istituto, pertanto, il contraente vittima dell’abuso potrà opporsi alle richieste provenienti dalla controparte, le quali inverino una palese violazione dei canoni di buona fede e correttezza.
    Si pensi, ad esempio, alla posizione del garante di un contratto autonomo di garanzia, al quale il creditore del garantito avanzi la richiesta di immediato pagamento di una somma già versata dal debitore ovvero derivante da un accordo connotato da palese illiceità.
    In tali evenienze, nonostante l’autonomia della garanzia rispetto al debito garantito, il garante, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, ben potrà esercitare l’exceptio doli generalis, al fine di disattendere una pretesa creditoria connotata da chiara abusività.
    Sempre in tema, poi, di rimedi esperibili dalla vittima dell’abuso, la giurisprudenza delle Sezioni Unite, componendo sul punto un contrasto, esclude invece che la violazione dei principi di buona fede e correttezza -di cui l’abuso del diritto costituisce declinazione- possa determinare la nullità del negozio giuridico, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c., sub specie di nullità virtuale.
    Il principio di buona fede, invero, riguarda, nelle sue varie applicazioni, il comportamento delle parti, non anche la validità del negozio giuridico.
    Sulla scorta di questo tradizionale assunto, la cui solida base normativa si rinviene nelle prescrizioni del codice civile, le Sezioni Unite hanno quindi affermato che le norme disciplinanti la buona fede, anche ove considerate imperative, sono comunque regole di condotta, non di validità, cosicché la loro violazione non può avere riflessi in termini di nullità del contratto ma -come per tutti i casi in cui si registra l’inosservanza di regole di comportamento- consente solo l’esperimento dell’azione risarcitoria, salve le tassative ipotesi delle nullità c.d. di protezione contemplate, in genere, nella disciplina consumeristica.
    A ciò consegue che l’esercizio abusivo del diritto perpetrato in sede negoziale non inficerà il contratto ma consentirà, tuttavia, alla vittima dell’abuso di esigere il ristoro dei pregiudizi patiti.
    Tanto chiarito, dalla complessiva riflessione finora svolta -in ordine alla evoluzione della disciplina del principio della buona fede sul versante dell’abuso del diritto- è emerso come l’applicazione congiunta di tali istituti in ambito negoziale sia, nella sostanza, tesa a neutralizzare le pretese creditorie che concretizzino una disparità di forze dei contraenti a danno di quello più debole.
    Di ciò, ad esempio, vi è riscontro nei dicta delle Sezioni Unite.
    Così, la Suprema Corte ha qualificato come abusiva la condotta del creditore che, in base ad un unico rapporto giuridico, parcellizzi il credito in singole pretese, così da costringere il debitore ad una defatigante azione giudiziaria di contrasto. Parimenti abusivo è il diniego ingiustificato, opposto dal creditore al debitore che offre di eseguire il pagamento per mezzo di un assegno circolare.
    Alla luce di quanto esposto occorre, quindi, verificare il presupposti e i limiti applicativi dei principi e delle regole finora individuati in presenza della concessione abusiva del credito, quale specifica declinazione, appunto, dell’abuso del diritto.
    Il profilo caratterizzante la concessione abusiva del credito è dato proprio dalla circostanza che l’operatore economico, nel concedere il finanziamento all’impresa beneficiaria, omette di verificare -con conseguente compromissione della correttezza e diligenza della propria condotta negoziale- l’affidabilità patrimoniale della medesima beneficiaria, la quale versi in un evidente stato di decozione.
    In tal modo, infatti, si consente l’artificiosa permanenza in vita nel circuito economico di soggetto palesemente incapace di fronteggiare gli impegni contrattuali, ingenerando un ingannevole affidamento in capo a distinti soggetti economici, che con l’impresa insolvente rinnovano pregressi rapporti giuridici ovvero ne perfezionano nuovi.
    Nell’ottica così evidenziata, parte della dottrina ha rilevato come la concessione abusiva del credito postuli una palese vulnerazione dell’art. 41 Cost., posto a presidio della libera iniziativa economica privata.
    Ciò in quanto l’abuso in cui incorre l’operatore di mercato -nel concedere il finanziamento ad un soggetto già in condizioni di insolvenza- genera, a sua volta, una contaminazione dello specifico settore in cui il beneficiario del finanziamento opera, minando in radice il libero esercizio dell’attività imprenditoriale dei soggetti presenti in quello specifico settore.
    Si è, peraltro, già evidenziato come la concessione abusiva del credito imponga un distinzione, in termini di effetti negativi, tra le imprese che ragionevolmente intrattengano rapporti economici con il beneficiario di un finanziamento e l’ulteriore e distinta evenienza in cui il pregiudizio lo subisca l’eventuale garante di detto beneficiario.
    Partendo dall’analisi di questa seconda ipotesi, essa ricorre quando, ad esempio, a fronte di un finanziamento erogato da un operatore in favore di un’impresa in stato di decozione, quest’ultimo esiga dal beneficiario una fideiussione, magari omnibus.
    Ne conseguirà che il fideiussore sarà chiamato dal finanziatore -a fronte dello scontato inadempimento dell’impresa insolvente- ad eseguire la prestazione di garanzia.
    Tale pretesa, tuttavia, ben può essere qualificata, in ragione delle superiori considerazioni, come abusiva, cosicché il fideiussore potrà neutralizzare la irragionevole richiesta avanzata dal finanziatore con l’utilizzo dell’exceptio doli generalis.
    Diversamente è a dirsi, invece, nella prima delle ipotesi tracciate, cioè quella in cui il pregiudizio della concessione abusiva del credito si inveri nella sfera patrimoniale di imprese terze, che perfezionino operazioni economiche con il beneficiario.
    Sul punto, si registrano contrapposte opzioni ermeneutiche in ordine alla natura della responsabilità del finanziatore, alcune delle quali costituiscono ulteriore proiezione del principio di buona fede ex artt. 1175, 1375 c.c., altra, invece, maggioritaria, è ascrivibile alla categoria della responsabilità aquiliana, ex art. 2043 c.c.
    Segnatamente, quanto alle prime, una parte della dottrina richiama la responsabilità contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c., sotto forma di contatto sociale qualificato.
    Come noto, detta responsabilità ricorre quando due soggetti, in assenza di un previo accordo, entrano in contatto e, in forza della eventuale qualificazione che tale forma di contatto riceva dall’ordinamento, in capo ad uno dei due soggetti si ingenera un affidamento circa il contegno che l’altro deve osservare nei suoi riguardi.
    La responsabilità da contatto sociale, altrimenti detta obbligazione senza prestazione, trova, in particolare, la sua ratio nell’esigenza di presidiare interessi di rilevanza costituzionale, come ad esempio il bene salute di cui all’art. 32, ed ha il precipuo fine di consentire una più agevole tutela del soggetto debole e pregiudicato, mercé l’esperimento dell’azione da inadempimento ex art. 1218 c.c., anziché extracontrattuale.
    Terreno di elezione della responsabilità in esame è costituito dalla prestazione sanitaria resa da un medico dipendente presso una casa di cura, ma la giurisprudenza ne ha esteso l’ambito applicativo ad ulteriori fattispecie, come per l’ipotesi della responsabilità dell’insegnante per i danni dell’alunno cagionati a se stesso.
    Il maggioritario orientamento sostiene che la responsabilità in parola trovi fondamento nella vulnerazione del principio di buona fede, quale corollario del dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. nei termini già precisati, mentre è minoritaria l’opzione ermeneutica tesa a ricondurre il contatto sociale nell’alveo dell’art. 1173 c.c., quale “altro fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” e, quindi, come ipotesi di obbligazione ex lege.
    Ciò detto circa la natura della responsabilità da contatto sociale, paiono fondate le critiche rivolte all’opzione ermeneutica che ne predica l’estensione anche alla concessione abusiva del credito.
    Invero, avuto riguardo alle caratteristiche strutturali della responsabilità da contatto, diviene oltremodo difficoltoso, se non impossibile, sostenere che l’operatore economico, all’atto dell’erogazione del finanziamento in favore del beneficiario decotto, entri in contatto con le imprese che stipulano operazioni economiche con quest’ultimo.
    Critiche non dissimili vengono mosse alla ulteriore tesi che, muovendosi sempre sul terreno della responsabilità contrattuale, individua nella concessione abusiva del credito un’ipotesi di contratto ad effetti protettivi.
    Tale categoria, in particolare, trova origine nella dottrina tedesca e si fonda, al pari dell’evenienza del contatto sociale qualificato, su un’interpretazione evolutiva del principio di buona fede.
    Nello specifico, il negozio ad effetti protettivi postula che il debitore -obbligato ad eseguire ex contractu una prestazione nei confronti della controparte- deve tenere in considerazione anche la sfera giuridica dei soggetti posti in posizione di vicinanza con il creditore, così da evitarne la compromissione.
    Esempio paradigmatico di contratto ad effetti protettivi è dato dalla prestazione del medico-ginecologo eseguita nei confronti della partoriente, che, laddove compiuta con negligenza, obbligherà il professionista a risarcire non solo la controparte ma anche i soggetti alla stessa vicini, cioè il coniuge e il neonato, che abbiano subito un danno.
    In sostanza, il principio di buona fede impone l’osservanza di condotte ulteriori e distinte rispetto a quelle fissate dalla statuto negoziale non solo nei confronti dei paciscenti ma anche in favore dei soggetti posti in posizione di vicinitas o proximity ad essi.
    Ma proprio la compiuta enucleazione dei richiamati concetti di vicinitas o proximity escludono l’applicabilità del contratto ad effetti protettivi all’ipotesi di concessione abusiva del credito.
    Infatti, la vicinanza -tra la parte del contratto e il soggetto protetto dal contratto medesimo- implica un collegamento qualificato che può, ad esempio, rinvenirsi proprio nel rapporto di coniugio tra la partoriente e il marito -nel richiamato esempio della prestazione ginecologica- ovvero, ancora, in presenza di vicinitas costituite da stabili forme di convivenza tra soggetti.
    Le descritte circostanze, ad ogni evidenza, non si rinvengono però in presenza di una concessione abusiva del credito, in quanto le imprese terze danneggiate dalla condotta abusiva del finanziatore non sono in posizione di proximity con il beneficiario insolvente.
    La concludenza giuridica delle argomentazioni appena esposte è, pertanto, nel senso della qualificazione in termini di responsabilità extracontrattuale del contegno con cui il finanziatore concede abusivamente credito ad un’impresa in stato di decozione.
    Invero, le società che subiscono un pregiudizio patrimoniale a seguito del perfezionamento di operazioni economiche con il beneficiario insolvente assumono la veste del quisque de populo rispetto alla contegno abusivo posto in essere dal finanziatore.
    Costituisce, pertanto, coerente conseguenza di ciò l’applicazione a fattispecie di tal fatta dell’art. 2043 c.c.
    Scrutinata la natura della responsabilità derivante dalla concessione abusiva del credito, occorre, quindi, analizzare il profilo risarcitorio, tanto sul versante del regime giuridico sostanziale, quanto sul versante dell’onus probandi.
    In ordine al primo dei profili richiamati, bisogna avere riguardo all’art. 1223 c.c., in combinato disposto, rispettivamente, con l’art. 1218 ovvero con l’art. 2043, giusta il rinvio di cui all’art. 2056, comma 1, c.c., laddove si qualifichi la responsabilità del finanziatore verso le imprese in termini contrattuali ovvero extracontrattuali.
    Così, giusta il richiamato art. 1223 c.c., il pregiudizio dedotto in giudizio compendierà il danno emergente ed il lucro cessante, siccome eziologicamente riconducibili alla condotta abusiva dell’operatore economico che ha concesso il finanziamento ad una società in stato di decozione.
    Specificando ulteriormente tale assunto, l’impresa terza, danneggiata dall’insolvenza del beneficiario del credito -il cui finanziamento aveva alimentato un ragionevole affidamento circa la presupposta solidità economica- avrà diritto a conseguire un ristoro pari alle spese sostenute nelle operazioni economiche intraprese con l’impresa decotta, nonché, ancora, avrà diritto al ristoro del mancato guadagno, cioè agli utili che le sarebbero derivati laddove dette operazioni economiche fossero andate a buon fine.
    Si aggiunga a ciò che -considerata l’applicabilità dell’art. 1225 c.c. alle sole ipotesi di responsabilità contrattuale- la qualificazione della responsabilità in esame come aquiliana, conformemente all’opzione interpretativa maggioritaria, consente il risarcimento del pregiudizio oltre il limite della prevedibilità, rispetto al tempo in cui il finanziamento è stato concesso.
    Da ultimo, avuto riguardo al regime giuridico probatorio, giova rilevare come la diversa adesione alla tesi della responsabilità del finanziatore ex art. 1218 ovvero art. 2043 determina rilevanti ricadute in tema di onus probandi.
    E’ noto, invero, come in presenza di una obbligazione ex contractu il creditore -a seguito della presa di posizione espressa nel 2001 dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione- debba limitarsi ad allegare in giudizio il titolo e l’inadempimento, fornendo la prova del pregiudizio asseritamente subito a causa della omessa attuazione del rapporto obbligatorio.
    Spetterà, di contro, al convenuto debitore dimostrare che ha eseguito correttamente la prestazione del divisato accordo, nel pieno rispetto dell’art. 1176 c.c., ovvero, in alternativa, che il mancato soddisfacimento dell’interesse creditorio non è dipeso da causa a lui imputabile.
    Trasponendo le individuate coordinante ermeneutiche all’ipotesi in cui la responsabilità del finanziatore sia qualificata come contrattuale -sub specie di contatto sociale ovvero di contratto ad effetti protettivi-, le imprese danneggiate potranno limitarsi a dedurre in giudizio la condotta abusiva del finanziatore, fornendo prova del pregiudizio subito, mentre incomberà a detto finanziatore dimostrare che la sua condotta non è stata negligente o lesiva dei principi di lealtà comportamentale.
    Ben più gravoso, invece, è l’onus probandi delle imprese danneggiate, qualora agiscano in giudizio ai sensi dell’art. 2043 c.c.
    In tale evenienza, invero, esse -in adesione al regime giuridico vigente in materia di responsabilità extracontrattuale- avranno l’onere di dimostrare l’integrazione dell’illecito e, quindi, la natura abusiva della condotta tenuta dall’operatore economico nel momento in cui ha concesso il credito ad un’impresa decotta, il pregiudizio subito, nonché il rapporto di causalità materiale e giuridica tra quest’ultimo e la ridetta concessione abusiva del credito.

    Giudizio 12+
    Il candidato sebbene mostri di comprendere il problema conoscitivo oggetto della traccia, si dilunga eccessivamente nell’illustrazione di argomenti accessori, dando in tal modo l’impressione di volere evitare una trattazione più immediata dell’oggetto della traccia.
    Relativamente alla concessione abusiva del credito, correttamente il candidato delinea le ipotesi di responsabilità dell’istituto creditizio nei confronti delle imprese terze e dei garanti, non soffermandosi invece del problema risarcitorio nei confronti dell’impresa che abbia ottenuto il credito ed abbia visto aumentare la propria esposizione debitoria. Manca anche un accenno alla eventuale legittimazione dell’azione in caso di fallimento da parte dei creditori


    Edited by togasana - 6/9/2013, 14:29
     
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    L’efficacia nel tempo del provvedimento amministrativo.

    Il provvedimento amministrativo è l’atto adottato dalla p.a., ovvero da un soggetto ad essa equiparato, per mezzo del quale l’autorità emanante, all’esito di un’attività procedimentale, incide in via unilaterale nella sfera giuridica di uno o più destinatari, modificando, costituendo o estinguendo un rapporto giuridico a contenuto pubblicistico.
    Il provvedimento in parola è espressione del principio di legalità -cristallizzato negli artt. 97, comma 2, e 1, l. n. 241/1990- che, in ossequio alla tripartizione dei poteri sulla quale si fonda il nostro ordinamento giuridico, impone al soggetto pubblico l’adozione delle sole statuizioni previste ex lege, secondo i canoni della tipicità e della nominatività, quali corollari del citato principio di legalità.
    E’ la legge, pertanto, che delimita il campo di efficacia e, quindi, di incidenza del provvedimento amministrativo nei confronti degli amministrati.
    Nella delineata prospettiva, non sfugge un parallelo tra l’efficacia dell’atto negoziale, così come prevista dall’art. 1321 c.c., intesa quale estrinsecazione del potere privatistico di delineare un dato assetto di interessi tra privati, e l’efficacia del provvedimento amministrativo, il quale però, diversamente, dall’autonomia privata, è vincolato al perseguimento del pubblico interesse assegnato alla cura della singola p.a. e, salva la discrezionalità ammnistrativa, non può dispiegare effetti diversi da quelli prescritti da norme primarie.
    Del pari, non sfugge la distinzione tra il provvedimento amministrativo stricto sensu inteso, quale, appunto, atto dotato di efficacia esterna, e gli atti c.d. endoprocedimentali, cioè quell’insieme di determinazioni del soggetto pubblico emanate in costanza di procedimento amministrativo e allo stesso funzionali, i quali hanno un’efficacia interna all’azione amministrativa e, quindi, inidonea a modificare l’altrui sfera giuridica, salvo non assumano la forma di atti di irreversibile arresto procedimentale, come avviene in ipotesi di parere negativo, obbligatorio e vincolante.
    Ciò considerato, e prima di esaminare la dimensione temporale dell’efficacia del provvedimento amministrativo, è utile soffermarsi sul momento perfezionativo -e quindi di dispiegamento degli effetti- delle determinazioni amministrative.
    Nello specifico, l’art. 21-bis, l. n. 241/1990 contiene uno statuto giuridico in tema di efficacia dei provvedimenti aventi contenuto negativo, cioè limitativi della sfera patrimoniale o personale dei destinatari. Si pensi, rispettivamente, al decreto espropriativo, da cui deriva il trasferimento coattivo di un bene del privato nel patrimonio della p.a., ovvero al c.d. d.a.s.p.o, per mezzo del quale il Questore può inibire ai tifosi facinorosi e violenti l’accesso agli stadi di calcio.
    Proprio in ragione dei risvolti sfavorevoli per il privato derivanti dai provvedimenti in questione, il legislatore esige che gli effetti siano subordinati alla comunicazione o notificazione personale all’interessato, salvi i limiti, debitamente allegati e motivati dall’amministrazione procedente, della materiale difficoltà o impossibilità di tale forma di comunicazione.
    L’urgenza, peraltro, consente alla pubblica amministrazione di adottare provvedimenti cautelari limitativi con immediata efficacia -prescindendo pertanto dalla notificazione personale-, fermo restando l’obbligo di una puntuale giustificazione di detta urgenza, nonché l’emanazione del provvedimento definitivo in conformità alla regola della notificazione personale.
    Tanto premesso e, passando all’esame della dimensione temporale dell’efficacia provvedimentale, occorre muovere dall’assunto che, in via generale, le determinazioni amministrative dispongono per l’avvenire, e ciò in aderenza al principio contemplato dall’art. 11, comma 1, disp. prel. c.c.
    Ne deriva, pertanto, che l’efficacia del provvedimento è preordinata a disciplinare vicende giuridiche pro futuro, salvo il ricorrere, come di seguito verrà rilevato, di circostanze idonee a determinare l’adozione di statuizioni amministrative ad efficacia retroattiva, incidenti, in quanto tali, su fattispecie pregresse.
    Sulla scorta di quanto appena evidenziato, può, dunque, affermarsi che gli effetti provvedimentali nel tempo si sviluppano sul binomio dell’efficacia dal momento dell’adozione -costituente la regola- e della retroattività, che rappresenta l’eccezione.
    Sempre sul piano della dimensione temporale dell’efficacia provvedimentale, occorre ancora distinguere tra statuizioni ad efficacia istantanea -come, ad esempio, i provvedimenti irrogativi di sanzioni amministrative- e provvedimenti ad efficacia durevole, cioè determinazioni amministrative i cui effetti si producono lungo un arco di tempo prefissato a monte dalla legge ovvero dalla medesima p.a., come avviene in materia autorizzatoria ovvero concessoria.
    La cennata distinzione, come appresso si preciserà, rappresenta un criterio rilevante ai fini delle modalità di esercizio del potere di autotutela.
    Quanto alle statuizioni amministrative ad efficacia durevole, esse hanno a base la necessità di disciplinare una fattispecie concreta per un determinato periodo di tempo.
    In alcune ipotesi è il medesimo legislatore a prescrivere in maniera inderogabile il limite temporale di efficacia dell’atto amministrativo.
    E’ il caso, ad esempio, del regime giuridico previsto per alcuni provvedimenti riconducibili alla procedura espropriativa.
    Così, l’art. 9, comma 2, d.p.r. n. 327/2001 stabilisce che il vincolo preordinato all’esproprio ha un’efficacia di cinque anni, entro i quali deve essere emanata la dichiarazione di pubblica utilità, salva eventuale proroga. Del pari, la dichiarazione di pubblica utilità ha un’efficacia di cinque anni, salvo proroga e diversa determinazione della p.a., lustro entro il quale deve essere emanato il decreto di esproprio, giusta l’art. 13, commi 4, 5 d.p.r. n. 327/2001.
    Nelle evenienze appena richiamate è il medesimo legislatore a circoscrivere l’estensione temporale degli atti amministrativi, e ciò per la principale ragione di non sottoporre la sfera patrimoniale del privato ad una compressione sine die del diritto reale del quale è titolare, così da determinare una forma larvata di espropriazione in assenza dell’adozione di un formale atto ablativo.
    Ne deriva che allo spirare del termine di efficacia prefissato dal legislatore ovvero dalla p.a. procedente si determina una decadenza dell’efficacia provvedimentale, cosicché la statuizione amministrativa cessa di regolamentare la fattispecie rispetto alla quale la medesima era stata adottata, incidendo, secondo la tesi della c.d. carenza di potere in concreto, sull’esistenza stessa del potere della p.a. ad emanare successive statuizioni, eventualmente di cognizione del g.o. perché nulle.
    Ciò chiarito, si è già evidenziato come tra i provvedimenti ad efficacia durevole si registrino i provvedimenti autorizzatori e concessori, i quali, sulla scorta della tradizionale distinzione dottrinale, sono finalizzati, rispettivamente, a rimuovere un ostacolo all’esercizio di un diritto già presente nel patrimonio dell’amministrato ovvero, quanto ai secondi, ad attribuire ex novo all’amministrato la titolarità di una posizione soggettiva.
    In materia, è di particolare attualità la vicenda riguardante la durata delle le concessioni demaniali marittime, cioè dei provvedimenti per mezzo dei quali la p.a. assegna in concessione ad un privato una porzione di spiaggia, al fine di consentirne la gestione e l’inserimento di infrastrutture con fini di ricezione turistica.
    Dette concessioni, nello specifico, sono state assegnate, fino ad un recente passato, in assenza di una procedura di evidenza pubblica -atta ad individuare il beneficiario sulla scorta di una comparazione di offerte- nonché per un periodo di efficacia nell’ordine di decenni, con possibilità di prelazione del rinnovo in favore del beneficiario medesimo.
    In sostanza, prima che, sotto l’impulso della disciplina sovranazionale, il descritto assetto venisse a modificarsi, l’efficacia delle concessioni demaniali marittime compendiava un lasso temporale molto esteso, cui si affiancava lo ius prelationis in capo al concessionario.
    Tale sistema, così come congegnato, è risultato tuttavia lesivo del principio di libera concorrenza presidiato dall’ordinamento comunitario, cosicché è intervenuto il legislatore che ha stabilito, per un verso, la decadenza entro il 2015 di tutte le concessioni demaniali aventi efficacia pluridecennale e, per altro verso, l’abolizione del diritto di preazione previsto in favore del concessionario.
    In sostanza, nonostante la concessione di beni demaniali non rientri nella disciplina del d. lgs. n. 163/2006, c.d. codice dei contratti pubblici -avente invece ad oggetto gli affidamenti di lavori, servizi e forniture-, poiché dette concessioni sono provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole, incidenti in un segmento di mercato sensibile alla concorrenza, diventa indispensabile in tali contesti il ricorso da parte della p.a. concedente alla procedura di evidenza pubblica, nonché, ancora, una contrazione dei periodi di affidamento in concessione, così da consentire una compiuta attuazione del principio di libera concorrenza.
    In ragione di quanto evidenziato in tema di provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole, si evince che, salvo l’esercizio del potere di autotutela, le statuizioni in questione hanno un’efficacia protratta per un determinato lasso temporale, allo scadere del quale si registra al decadenza del provvedimento, salvi la proroga ovvero il rinnovo.
    Segnatamente, la decadenza del provvedimento è una conseguenza direttamente riconducibile allo spirare del termine di efficacia, al verificarsi della quale non si rende necessaria alcuna statuizione ammnistrativa, eccetto che non abbia un contenuto meramente accertativo.
    Così, decorso il termine di efficacia di un provvedimento autorizzatorio o concessorio, in capo al provato viene meno l’esercizio dei poteri ascrivibili all’efficacia del decaduto provvedimento.
    Circa la proroga ovvero il rinnovo dei provvedimenti ad efficacia durevole, si è in presenza attività discrezionale della pubblica amministrazione, per mezzo della quale la medesima p.a. in prossimità dello spirare del termine di efficacia del provvedimento, ovvero immediatamente dopo, verifica il perdurare dei presupposti che hanno legittimato l’adozione del provvedimento amministrativo.
    Segnatamente, mentre la proroga è attività che si colloca in costanza di efficacia del provvedimento amministrativo, così da protrarne gli effetti senza soluzione di continuità, il rinnovo, di contro, viene disposto immediatamente dopo lo spirare del termine di efficacia dell’atto rinnovato e, quindi, in discontinuità con gli effetti già prodottisi.
    Prima di scrutinare il regime giuridico dell’efficacia retroattiva dei provvedimenti amministrativi, giova precisare che l’efficacia di un provvedimento amministrativo è suscettibile di essere sospesa, secondo quanto stabilito dall’art. 21-quater, l. n. 241/1990.
    Alla luce di quanto stabilito nel precetto appena citato, la p.a. procedente può, al ricorrere di gravi ragioni e per il periodo strettamente necessario, circoscrivere sul piano temporale un periodo entro il quale la statuizione amministrativa cessa di avere efficacia, salvo riacquistarla al maturare del periodo di sospensione in parola.
    Tanto considerato, si è rilevato in precedenza come l’efficacia temporale dei provvedimenti amministrativi sebbene, ordinariamente, disposta pro futuro può anche essere retroattiva.
    In termini generali, i provvedimenti amministrativi ad efficacia retroattiva sono espressione del potere di autotutela della p.a., per mezzo del quale ciascun soggetto pubblico può incidere sua precedente determinazione dal medesimo adottata.
    La ratio sottesa all’esercizio dello ius poenitendi ad opera della p.a. è rinvenibile nei principi di buon andamento e imparzialità cristallizzati nell’art. 97, comma 2, Cost., che impongono all’amministrazione pubblica di presidiare costantemente gli interessi pubblici affidati alla sua cura dal legislatore.
    Consegue a ciò che laddove un provvedimento amministrativo efficace risulti difforme dalle prescrizioni di legge ovvero dai canoni metagiuridici dell’equità, dell’opportunità e della convenienza -ascrivibili al c.d. merito amministrativo- il soggetto pubblico può, rispettivamente, annullare d’ufficio detto provvedimento, ai sensi dell’art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241/1990, ovvero revocarlo, giusta l’art. 21-quinquies, l. n. 241/1990.
    Sotto il profilo disciplinatorio, occorre tuttavia precisare che l’efficacia retroattiva è dispiegata solo dall’annullamento d’ufficio, con cui la p.a. elimina il provvedimento affetto da un vizio di illegittimità a far data dalla sua originaria adozione.
    Ciò accade, come già rilevato, solo in presenza di patologie attizie espressive di una difformità del provvedimento dal parametro legale, a prescindere se il provvedimento in questione abbia o meno efficacia durevole.
    Di contro, la revoca provvedimentale ha efficacia ex nunc, e può essere adottata -per ragioni afferenti a sopravvenienze incidenti sull’asseto dei regolati interessi pubblici e privati- solo rispetto a statuizioni provvedimentali ad efficacia durevole.
    Ne discende che non può essere revocato, ma solo annullato, il provvedimento amministrativo che abbia cessato l’efficacia durevole.
    Si pensi, ad esempio, al provvedimento di aggiudicazione definitiva ai sensi dell’art. 11, d. lgs. n. 163/2006, la cui efficacia è limitata sul piano temporale fintanto che non intervenga la stipulazione del contratto con l’aggiudicatario, al cui verificarsi, pertanto, l’aggiudicazione non sarà più passibile di revoca per sopravvenute ragioni pubbliche ma, al più, annullabile per illegittimità.
    V’è, peraltro, che l’efficacia retroattiva del provvedimento amministrativo, poiché idonea ad incidere su fattispecie pregresse, rispetto alle quali può essere maturato un affidamento del privato, rende necessaria una puntuale ponderazione comparativa tra l’interesse pubblico oggetto di cura e il contrapposto interesse facente capo al privato.
    In tale ottica si giustifica il richiamo, contenuto nell’art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241/1990 al “termine ragionevole” entro cui deve essere emanato l’atto di annullamento.
    Tale ragionevolezza del termine, in uno alla cennata rilevanza degli interessi del privato destinatario della statuizione caducatoria, hanno indotto la giurisprudenza ad affermare che, ai fini della legittimità del provvedimento di annullamento d’ufficio, non assume rilievo la sola esigenza di ripristino della legalità violata, occorrendo, in concreto, che l’eliminazione dell’atto illegittimo assicuri un miglior soddisfacimento dell’interesse pubblico rispetto al contrapposto interesse privato.
    In sostanza, maggiore è il lasso temporale intercorrente dall’adozione del provvedimento originario illegittimo, maggiore sarà l’affidamento del privato e, quindi, più stringente si renderà l’obbligo di motivazione posto a base dell’atto annullatorio adottato d’ufficio.
    Sempre in tema di efficacia retroattiva dei provvedimenti amministrativi, recenti arresti giurisprudenziali hanno statuito la legittimità di atti amministrativi incidenti, con effetti retroattivi, su specifici rapporti giuridici.
    Il riferimento, in particolare, è alla disciplina dei tetti di spesa in materia sanitaria.
    Più in chiaro.
    La p.a., nello stipulare convenzioni con strutture accreditate per l’esecuzione di prestazioni sanitarie, predetermina dei limiti massimi di spesa entro cui dette prestazioni devono essere liquidate, programmando all’uopo stime orientative per l’anno successivo.
    Accade, tuttavia, in alcuni casi, che la definitiva approvazione dei limiti massimi di spesa avvenga, nel corso dell’anno, in termini ridotti rispetto a quelli provvisoriamente indicati, così da incidere retroattivamente anche sul pagamento delle prestazioni sanitarie già erogate, le quali, pertanto, verranno liquidate per un importi minori rispetto a quelli provvisoriamente esecutivi.
    La giurisprudenza, sul punto, ha sancito la legittimità dell’efficacia retroattiva dei provvedimenti in esame.
    Il Supremo Consesso amministrativo, nello specifico, ha statuito che l’efficacia retroattiva della riduzione del tetto di spesa, rispetto a quello provvisoriamente indicato, è giustificata dalla necessità di consentire il pagamento delle prestazioni sanitarie eseguite nei limiti della disponibilità patrimoniale della p.a.
    In ordine alla garanzia degli interessi facenti capo alla struttura convenzionata, ha invece precisato come rispetto ad essi non può registrarsi un ragionevole affidamento, quale limite all’efficacia retroattiva del provvedimento di spesa, poiché proprio la provvisorietà dell’iniziale, maggiore previsione del tetto massimo di spesa, non avrebbe consentito un affidamento di tale natura.
    Efficacia retroattiva, da ultimo, è riscontrabile nei provvedimenti di cui all’art. 19, comma 3, prima parte, l. n. 241/1990, per mezzo dei quali la p.a., entro sessanta giorni dalla presentazione della s.c.i.a., può adottare statuizioni di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli effetti dannosi già prodottisi a seguito dell’inizio dell’attività posta in essere dal privato.

    voto:16


    ps. non riesco ad apile la mail conla valutaione, se l'autore del tema mi invia tramite pvt le singole voci di valutazine mi risparmia un po' di fatica. grazie

    pss. un utente è ancora in attesa del tema....lo so, ma non ho avuto più notizie :trumanfailtimido.gif:
     
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7 replies since 31/3/2013, 15:57   1418 views
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