Tracce temi marzo 2013

tracce e migliori elaborati del mese

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    Tracce temi diritto penale
    STRUTTURA ED ACCERTAMENTO DELLA CAUSALITA' NEL REATO OMISSIVO.

    OPZ: Premessi cenni sugli istituti del tentativo e del reato omissivo, tratti il candidato il tema della configurabilità del delitto omissivo tentato.

    Con il seguente assegno:

    CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE - collocazione sistematica complessiva, e poi, con riferimento alle singole cause, in particolare legittima difesa, stato di necessità, uso legittimo delle armi e consenso dell'avente diritto - scriminanti tacite

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    traccia in diritto amministrativo

    Il provvedimento amministrativo adottato in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti.

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    Traccia di diritto civile
    La responsabilità civile del giudice, con particolare riguardo all'interpretazione e applicazione della legge.

    Edited by togasana - 7/3/2013, 17:23
     
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  2. geometriavariabile
     
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    come è possibile partecipare a questo corso?
    grazie mille
     
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  3. lucky lux
     
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    vorrei partecipare anche io ... dove bisogna inviare i temi svolti?
     
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    CITAZIONE (lucky lux @ 18/3/2013, 17:13) 
    vorrei partecipare anche io ... dove bisogna inviare i temi svolti?

    leggi il regolamento --> https://aspirantiuditori.forumfree.it/?t=62915674
    è tutto spiegato nella pagina che ti ho indicato. :)
     
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    Miglior tema in diritto amministrativo:
    Il provvedimento amministrativo adottato in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti.



    Il principale vizio che cagione l'illegittimità del provvedimento amministrativo e ne giustifica, quindi, l'annullamento è la violazione di legge, così come previsto già dalla legge 31 marzo 1889, n. 5992, e ribadito, oggi, dall'art. 21octies, legge 7 agosto 1990, n. 241, e dall'art. 29, d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Nell'impostazione originaria del nostro sistema amministrativa, non v'era alcuna distinzione o gradazione nelle conseguenze dell'illegittimità dei provvedimenti amministrativi, delle quali al giudice amministrativo (e a quello ordinario, in sede di disapplicazione) era fatto divieto di valutare la gravità. Ciò era coerente con l'idea di un giudizio esclusivamente di legittimità e, quindi, con il principio di legalità e di divisione dei poteri, e comportava che dovesse disporsi l'annullamento dell'atto illegittimo anche se, trattandosi di un mero vizio formale o procedimentale, il contenuto del provvedimento, se rieditato, non avrebbe potuto essere diverso, quindi, comunque lesivo dell'interesse sostanziale del ricorrente.

    E' di tutta evidenza, però, che annullamenti fondati solo su vizi di legittimità formale, non solo non garantiscono il bene finale della vita agognato dal privato, il quale può al più sperare solo di ritardare l'efficacia del provvedimento per lui lesivo, ma risulta, di converso, lesivo dell'interesse della pubblica amministrazione alla celere e tempestiva esecuzione delle proprie determinazioni. In altri ordinamenti europei (nell'ordinamento tedesco, per esempio) è da tempo presente la distinzione tra violazioni formali e sostanziali di legge: solo le seconde, in quanto autenticamente lesive dell'interesse finale del privato, sono idonee a cagionare l'annullamento del provvedimento, mentre le seconde danno diritto solo al risarcimento del danno. Questa distinzione è stata fatta propria anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea, talché ha finito per trovare qualche timido riconoscimento anche nella nostra produzione giurisprudenziale meno recente. In particolare, certa giurisprudenza ha ritenuto di poter applicare il principio di strumentalità delle forme, dettato all'art. 156 c.p.c., anche in ambito procedimentale, salvando così, per raggiungimento dello scopo, i provvedimenti non preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento, ma preceduti comunque dalla partecipazione del privato, informato aliunde dell'esistenza del procedimento. Altra parte della giurisprudenza ha invece accolto un'accezione sostanziale e piena del principio di cui all'art. 100 c.p.c, negando l'esistenza di un interesse a ricorrere (per raggiungimento del risultato) in capo a colui che chieda l'annullamento di un provvedimento, ove la riedizione del procedimento non potrebbe avere esito diverso e, quindi, alcuna utilità concreta per il ricorrente. In queste ipotesi, secondo i sostenitori di questo secondo indirizzo il processo si dovrebbe chiudere con una pronuncia in rito accertante meramente il difetto di interesse, sul presupposto del previo accertamento di un vizio meramente formale. La tesi, però, è stata aspramente contrastata, prima del 2005, obiettandosi, da parte della dottrina e di buona parte della giurisprudenza, che anche la mera dilazione nell'esecuzione del provvedimento, conseguente alla necessità di rieditare un procedimento amministrativo corretto, possa soddisfare interessi meritevoli di tutela del ricorrente, il quale potrebbe semplicemente non volere quel provvedimento in quel momento.

    Il dibattito ha finalmente trovato un punto d'arresto con la legge n. 80/05 che ha novellato la legge n. 241/90, prevedendo, al secondo comma dell'art. 21octies l'impossibilità di annullare il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma qualora, per la natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. In special modo, ove sia stato omesso l'avviso di avvio del procedimento, il provvedimento non può essere annullato se l'amministrazione dimostri che il contenuto di quest'ultimo non avrebbe potuto essere diverso. La nuova norma si è subito aperta a plurime interpretazioni, ingenerando contrasti in giurisprudenza ed in dottrina, sia per quel che attiene alla delimitazione della sua esatta portata, sia, più in generale, al suo ruolo sistematico nella teoria del provvedimento amministrativo.

    Quanto al primo profilo, la prima parte della disposizione richiede tre elementi affinché possa trovare applicazione: la violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, la natura vincolata del provvedimento, la palese impossibilità di un contenuto alternativo dell'atto impugnato.

    Quanto al primo elemento ci si è chiesti quale dovesse essere il criterio discretivo per individuare la natura formale o meno dell'onere non rispettato dalla P.A.. Secondo una prima tesi, questo criterio deve essere identificato nella minore importanza dell'interesse tutelato rispetto alla posizione del ricorrente. Questa tesi muove dal presupposto che il nuovo istituto abbia sostanzialmente dequotato le illegittimità formali a mere irregolarità, categoria nella quale, appunto, rientrano violazioni di secondaria importanza (come l'omissione del protocollo). Si è però ribattuto che così ragionando si dovrebbe concludere che l'missione della comunicazione di avvio del procedimento sia una mera irregolarità e che, quindi, la stessa partecipazione del privato non corrisponda ad un interesse primario per lo stesso: si tratta di una conclusione inaccettabile. Sotto altro profilo ci si è chiesti se possa essere ritenuto un vizio formale l'omissione della motivazione o il vizio di incompetenza. In particolare, con riguardo a questo secondo profilo problematico, la soluzione maggioritaria fornita in giurisprudenza è stata in senso negativo, in quanto, pur riconosciuta l'astratta riconducibilità dell'incompetenza nell'alveo della violazione di legge, il vizio in questione ha sempre avuto autonoma considerazione nel linguaggio del nostro legislatore, talché la mancata specifica menzione di questo nell'ultimo comma dell'art. 21octies fa propendere nettamente per l'idea che il silenzio sia voluto e che, quindi, della norma debba darsi un'interpretazione restrittiva.

    Quanto alla natura vincolata del provvedimento, i punti dibattuti sono stati principalmente due: se il vincolo dovesse essere totale (nell'an, nel quomodo, nel quando, nel quid, ecc.) e se il fondamento del vincolo dovesse essere rintracciato solo nella legge o, al contrario, avesse valore l'autovincolo. Quanto al primo punto, si confrontano tre tesi. Secondo la prima, il vincolo dovrebbe essere totale e, in particolare, non dovrebbe lasciare spazi di discrezionalità, né tecnica né amministrativa, pena altresì un eccessivo potere del giudice nel decidere se accordare o meno la tutela annullatoria. Secondo una diversa tesi, invece, sarebbe possibile concedere che il giudice applichi la norma in questione anche ove il provvedimento si basi su fatti semplici, accertabili con l'utilizzo della consulenza tecnica, atteso che, se si seguisse la prima tesi, si finirebbe per limitare la norma ai soli provvedimenti amministrativi meramente dichiarativi. Secondo, la terza e maggioritaria opzione, infine, la norma dovrebbe trovare applicazione anche nelle ipotesi di discrezionalità tecnica, risultando esclusa solo per i provvedimenti discrezionali puri, ove vi sarebbe il rischio di ledere il principio di legalità. Quanto all'ampiezza del vincolo, minoritaria è la posizione che ritiene che la norma debba applicarsi nelle ipotesi di vincolo su tutti i profili dell'azione amministrativa (an, quomodo, quando, ecc.), in quanto la sua applicazione risulterebbe oltre modo limitata atteso che quasi sempre la P.A. conserva quanto meno discrezionalità sul tempo dell'azione. La posizione più diffusa, invece, ritiene che la disposizione non trovi applicazione solo nelle ipotesi di discrezionalità sul quomodo. Quanto al secondo punto, ovvero quello relativo alla fonte del vincolo, si confrontano due tesi: la prima, minoritaria, ritiene necessario che il vincolo abbia base legislativa; la seconda ritiene, al contrario, che sia rilevante anche l'autovincolo della stessa amministrazione reso nella forma di un precedente regolamento o di un accordo procedimentale con il privato. Affermano i sostenitori di questa seconda soluzione che, se si seguisse la prima tesi, si finirebbe per restringere ingiustificatamente la portata della nuova disciplina.

    Molto più complesso, invece, il significato da attribuire al termine "palese". La maggior parte della dottrina ha ritenuto che questo terzo elemento costitutivo della fattispecie abbia essenzialmente un valore probatorio che può essere compreso solo nel confronto con il secondo periodo del comma secondo dell'art. 21octies. Infatti, al contrario di quanto accadrebbe nel caso di omissione dell'avviso di avvio del procedimento, l'onere della prova dell'impossibilità di un esito alternativo del provvedimento impugnato non grava esplicitamente sulla pubblica amministrazione, nonostante sia quest'ultima ad essere più interessata a quest'accertamento al fine di paralizzare l'azione demolitaria promossa. Se è coerente con il principio di vicinanza della prova e con l'art. 2697 c.c. che sia l'amministrazione a provare che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, è probabile che il legislatore abbia usato questa specifica forma in quanto coerente con il carattere vincolato del provvedimento.

    Ulteriori questioni sono, invece, aperte dal secondo periodo del secondo comma dell'art. 21octies, specificatamente rivolto alle ipotesi in cui sia stata omessa la comunicazione di avvio del procedimento. Secondo una prima tesi questa seconda parte della disposizione sarebbe una mera ipotesi speciale della prima parte dalla quale si differenzierebbe esclusivamente per il diverso riparto dell'onere della prova qui gravante sulla pubblica amministrazione. Ne conseguirebbe che varrebbero i limiti già visti per quel che attiene alla natura vincolata del provvedimento. Secondo diversa tesi, invece, la norma si giustificherebbe proprio in quanto diversa da quella precedente in quanto basata su un diverso fondamento. Mentre la prima parte della norma sarebbe codificazione della vecchia teoria del raggiungimento del risultato, la seconda parte codificherebbe il diverso principio di raggiungimento dello scopo, che aveva trovato applicazione nella giurisprudenza pregressa proprio con riguardo alla comunicazione di avvio del procedimento. Le due fattispecie, sebbene contigue negli effetti, determinanti, entrambe, il "salvataggio" del provvedimento, sarebbero diverse per fondamento ed elementi costitutivi. Secondo una terza tesi, infine, tra le due disposizioni sussisterebbe un rapporto di specialità reciproca, in quanto, mentre il secondo periodo si rivolge anche ai provvedimenti discrezionali, il primo opera solo per i provvedimenti vincolati; mentre il primo non ripartisce l'onere della prova, il secondo addossa quest'ultimo alla P.A.; infine, mentre il primo periodo opera per tutte le violazioni procedimentali, il secondo solo per un determinato tipo di violazioni, quelle che si sostanziano nell'omissione dell'avviso di cui all'art. 8 l. n. 241/90.

    Quanto, specificatamente, alla ripartizione dell'onere della prova, si è sostenuto che la norma sarebbe illogica, in quanto finirebbe per gravare la P.a. di una probatio diabolica. Infatti, provare che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso implicherebbe che l'amministrazione sappia quale sarebbero stati gli elementi di valutazione che il cittadino avrebbe riversato nel procedimento ove fosse stato avvisato dell'avvio di quest'ultimo. E' per questa ragione, che parte della giurisprudenza ritiene che l'onere probatorio imposto dovrebbe comunque essere temperato, da un lato con il principio generale di leale collaborazione processuale delle parti, onde evitare comportamenti ostruzionistici da parte del privato e, dall'altro, con il metodo acquisitivo proprio del giudizio amministrativo. I sostenitori di questa seconda impostazione, quindi, legittimano la possibilità del giudice di assumere prove d'ufficio per supplire alle deficienze conoscitive dell'amministrazione. In ogni caso, riconoscendo anche in questo caso al giudice amministrativo la possibilità di supplire alle carenze probatorie delle parti attraverso l'utilizzo dei propri poteri istruttori, si accentua la trasformazione del processo amministrativo in una vera riedizione di quel procedimento che non si è svolto in maniera corretta davanti alla pubblica amministrazione. In questi termini, la dottrina ha messo in evidenza la portata dirompente della norma, in entrambi i periodi che la compongono, in quanto trasforma definitivamente il sindacato giudiziale da giudizio sull'atto a giudizio sul rapporto. La trasformazione in questione è maggiormente contenuta nel primo periodo, in quanto quest'ultimo si rivolge solo ai provvedimenti vincolati, più ampia nel caso previsto dal secondo periodo, idoneo a ricomprendere anche i provvedimenti discrezionali. In effetti, ammettere che il giudice possa valutare se il provvedimento formalmente viziato avrebbe potuto avere un contento diverso, implica, per ciò stesso, che questi non giudichi del solo atto ma del rapporto, ovvero della fondatezza della pretesa sostanziale del privato avverso la pubblica amministrazione. Enucleata e generalizzata (anche attraverso il sindacato sul silenzio) l'idea di un sindacato del giudice amministrativo che si sposta sul rapporto, alcuni hanno sostenuto di poter applicare per analogia il secondo periodo dell'art. 21octies anche al caso dell'omissione del preavviso di rigetto, il quale ha una funzione di sollecitazione alla partecipazione del privato analoga a quella della comunicazione dell'art. 8.

    Venendo alle conseguenze sistematiche che l'innovazione normativa recata dalla legge n. 80/05 è in grado di ingenerare, esse ruotano sulla identificazione della natura delle disposizioni oggetto di analisi. In estrema sintesi, secondo un filone di pensiero le disposizioni avrebbero natura processuale, secondo un altro filone di pensiero, invece, esse avrebbero natura sostanziale. Diverse le conseguenze ove si segue l'una o l'altra delle due tesi, ciascuna delle quali si articola in più correnti. Se, infatti, si segue l'impostazione processualista, le nuove norme troverebbero immediata applicazione a tutti i processi pendenti, anche se riferentesi a provvedimenti emanati in precedenza. Similmente se ne dovrebbe dedurre che le norme rappresenterebbero semplicemente un impedimento alla possibilità del giudice di pronunziare l'annullamento dei provvedimenti impugnati, i quali però rimarrebbero illegittimi e, in quanto tali, potrebbero essere oggetto di annullamento in autotutela e, d'altro canto, sarebbero anche causa di un danno risarcibile. Infine, la norma non potrebbe trovare applicazione davanti al giudice ordinario, innazi al quale mai si discute di annullamento, ma, al più, di disapplicazione. Se si segue, invece, l'impostazione sostanzialista, si dovrebbe ritenere che la legge n. 80/05 non potrebbe trovare applicazione immediata alla sua entrata in vigore, ma, al contrario, in virtù del principio tempus regit actum, i provvedimenti anteriori alla nuova legge dovrebbero ritenersi invalidi, quelli successivi validi. Ovviamente, in quanto provvedimenti validi, si dovrebbe escludere che gli stessi possano essere oggetto di annullamento in autotutela o di tutela risarcitoria; mentre della nuova norma si dovrebbe fare applicazione anche innanzi al G.O., ma al fine di escludere la disapplicazione dei detti provvedimenti.

    L'idea di fondo portata avanti dai sostanzialisti è quella per cui la norma avrebbe sostanzialmente dequotato i vizi formali in mere irregolarità, impedendo così che si possa parlare di un provvedimento illegittimo. A sostegno della tesi si reca essenzialmente l'argomento topografico, visto che la disposizione trova collocazione in una legge di diritto sostanziale e, specificatamente, nel titolo relativo alla validità e all'efficacia dei provvedimenti in generale. Una ricostruzione di tal fatta si espone però a molteplici critiche. In primo luogo, come accennato, declasserebbe l'intera materia della partecipazione al procedimento a una sorta di disciplina "opzionale" per le amministrazione e comporterebbe, d'altronde, la poco convincente conseguenza di dover ritenere che l'intervento procedimentale sia poco importante per il privato, così gettando via le più importanti conquiste di democrazia partecipata nell'esercizio del potere amministrativo. In secondo luogo, si aprirebbero significative questioni di costituzionalità, atteso che la Carta fondamentale non sembrerebbe affatto poter consentire differenziazione nella tutela a secondo che si tratti di un interesse strumentale al rispetto delle forme o di quello sostanziale al bene della vita. Senza considerare che si dovrebbe presupporre in maniera apodittica che il mero interesse ad un rinvio dell'esecuzione del provvedimento possa essere giuridicamente irrilevante, come se il tempo non fosse un interesse sostanziale. Ulteriore critica che si appunta alla ricostruzione in analisi evidenzia che, mentre l'irregolarità è frutto di un giudizio in astratto fondato sulla scarsa importanza della norma violata, al contrario l'art. 21octies opera sul presupposto di un confronto in concreto fra il provvedimento impugnato e quello che sarebbe stato reso in esito al procedimento ove quest'ultimo ipoteticamente non fosse stato viziato. L'irregolarità ha quindi il valore di un giudizio ex ante ed in astratto fra norme, l'art. 21octies quello di un giudizio ipotetico ex post in concreto sul provvedimento singolo.

    Una diversa ricostruzione, sempre nell'ambito del filone sostanzialista, ricostruisce la norma in commento come una forma di sanatoria ex lege dei provvedimenti. Anche questa seconda ricostruzione è oggetto di critiche. In primo luogo si evidenza come il concetto di sanatoria implica comunque la necessità che l'amministrazione conosca il vizio che intende sanare ed operi attraverso un'integrazione del provvedimento invalido. Al contrario, il meccanismo dell'art. 21octies non richiede alcuna integrazione del provvedimento, né che la P.a. sia a conoscenza del vizio dell'atto. In secondo luogo, la tesi in oggetto non sembra i suoi stessi presupposti con i suoi esiti: qualsiasi sanatoria postula che il provvedimento sanato sia originariamente illegittimo, al contrario ricostruita in termini sostanziali la norma, si dovrebbe concludere che i provvedimenti cui si riferisce l'art. 21octies siano validi.

    Quanto al filone processualista, oggi maggioritario, due sono le ricostruzioni maggiormente diffuse: quella che fonda le norme sul principio di raggiungimento dello scopo e quella che la fonda sul principio di raggiungimento del risultato. Altre, infine, come già accennato, distinguono il primo e il secondo periodo del secondo comma dell'art. 21octies riconducendo il primo al principio di raggiungimento del risultato ed il secondo a quello di raggiungimento dello scopo. Non osterebbe alla configurazione processualista il locus delle nuove norme ed un argomento a favore delle stesse potrebbe essere tratto dalla lettera della disposizione che dice "non è annullabile", non "non è illegittimo". Sembrerebbe, quindi, che la norma prenda in considerazione solo le conseguenze processuali di queste illegittimità formali, al fine di escludere la tutela caducatoria. Ciò non esclude però affatto le altre forme di tutela e in particolare quella risarcitoria. La possibilità giuridica di quest'ultima sembrerebbe oggi trovare un esplicito conforto nell'art. 34 c.p.a., ove si ammette che l'azione di annullamento possa essere convertita in azione di mero accertamento dell'illegittimità a fini esclusivamente risarcitori. Attraverso questa formula processuale si supera quella che precedentemente rappresentava il naturale di esito del principio di raggiungimento del risultato, ovvero una pronuncia di accertamento in rito del difetto di interesse a ricorrere, inteso in senso sostanziale.

    La tesi non lede neanche principi costituzionali, atteso che, comunque, viene assicurata al ricorrente una qualche forma di tutela patrimoniale. Si obietta, però, la difficoltà di quantificare il valore della partecipazione procedimentale e, quindi, di risarcirne l'omissione. Il risarcimento per lesione di interessi legittimi è oggi ricostruito dalla giurisprudenza maggioritaria in termini di illecito aquiliano per lesione all'interesse sostanziale sotteso all'interesse legittimo, per lesione, in altri termini, alla legittima aspirazione del cittadino ad un bene della vita. La lesione che si risarcirebbe, invece, nel caso di una violazione procedimentale non può certo essere ritenuta una lesione ad un bene della vita cui il cittadino aspira in sé e per sé, come utilità finale. Conseguenza è che, in maniera asistematica, il tipo di responsabilità che sarebbe appuntabile alla P.a. in casi siffatti sarebbe una responsabilità da contatto sociale e non una responsabilità di natura aquiliana.

    Quanto al problema dell'autotutela, le diverse tesi si distinguono principalmente per il diverso significato che attribuiscono al rinvio operato all'art. 21octies contenuto nel successivo 21nonies. I sostanzialisti ritengono che il detto rinvio debba essere letto in senso restrittivo come riferentesi al solo c. 1, atteso che sostengono la legittimità dei provvedimenti viziati di cui al c. 2. Al contrario, i processualisti, ammettendo l'illegittimità dei provvedimenti di cui al c. 2 dell'art. 21octies c. 2, ne ammettono altresì l'annullabilità d'ufficio in quanto, coerentemente, ritengono che il rinvio di cui all'art. 21nonies debba essere letto come riferentesi all'interso art. 21octies.

    Sul versante processuale le tue tesi si differenziano anche. I processualisti, come detto, dopo il varo del codice del processo amministrativo vedono nel'art. 34 di quest'ultimo testo il naturale esito dei giudizi relativi ai provvedimenti di cui all'art. 21octies. I sostanzialisti protendono invece per il rigetto in merito dell'azione di annullamento, sul presupposto della piena legittimità dei provvedimenti di cui all'art. 21octies c. 2.









    Valutazione complessiva: 13
    Singole voci:
    a) aderenza alla traccia: eccellente
    b) completezza contenutistica/ livello di approfondimento: discreto
    c) forma: buono


    ***
    sono state inviate le correzioni dei temi di amministrativo sia per febbraio sia per marzo, se qualcuno non ha ricevuto le correzioni per questa materia (ripeto solo diritto amministrativo) mi scriva in privato.
    per le altre materie dovrete pazientare un po' :)
     
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  6. Tywin Lannister
     
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    A mio modesto parere, gli elaborati redatti sono eccessivamente lunghi. E' ben difficile ipotizzare la redazione di elaborati concorsuali di queste dimensioni in sede concorsuale.
     
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    CITAZIONE (Tywin Lannister @ 3/4/2013, 18:06) 
    A mio modesto parere, gli elaborati redatti sono eccessivamente lunghi. E' ben difficile ipotizzare la redazione di elaborati concorsuali di queste dimensioni in sede concorsuale.

    i ragazzi studiano gli argomenti prima di redigere il tema.
    è più che normale che, avendo freschi gli argomenti, si scriva di più e meglio.
    poi, va be' qualcuno bara nel senso che scopiazza e fa un copia ed incolla dei libri, ma noi....che ci possiamo fare?
    la cosa fondamentale è : esercitarsi a scrivere di diritto, capire come impostare un tema ed il grado di approfondimento richiesto.

    ***************
    migliori temi di diritto penale
    1) STRUTTURA ED ACCERTAMENTO DELLA CAUSALITA' NEL REATO OMISSIVO

    Al fine di meglio comprendere quale sia la struttura del rapporto di causalità nel reato omissivo e come si debba procedere al relativo accertamento (qualificando, peraltro, le modalità con le quali deve essere fornita la prova del nesso causale medesimo), è opportuno premettere brevi cenni sulle categorie dogmatiche relative al reato omissivo ed alla struttura delle diverse figure, per poi procedere all’analisi richiesta.
    La definizione di reato omissivo è stata, storicamente, legata alla definizione di omissione, così come la concezione generale del reato ha risentito, per quanto attiene alle ricostruzioni teoretiche, del concetto di azione nel reato commissivo doloso.
    Per omissione, in linea generale, dovrebbe intendersi una mera inazione; tale inazione, tuttavia, è stata ricondotta, da varie teorie, ad un aspetto ora psicologico, ora materiale per approdare, infine, ad un assetto prettamente normativo.
    Scartate le ipotesi per cui l’omissione veniva vista come un trattenersi dal porre in essere una condotta, dal non facere un qualcosa (secondo alcuni autori un qualcosa socialmente dovuto) o da un aliud agere (al fine di ricondurre l’omissione nell’alveo dell’azione), si è pervenuti ad una concezione prettamente normativa dell’omissione che, in definitiva, consisterebbe in un non facere quod debetur.
    Si suole distinguere, in dottrina, tra reato omissivo proprio ed improprio, laddove il primo sarebbe, secondo la concezione dominante, specificamente previsto dal legislatore mediante fattispecie di mera condotta (sempre secondo la tesi maggioritaria) tassativamente tipizzate; improprio sarebbe, invece, il reato scaturente dal combinato disposto di una norma di parte speciale con il disposto dell’art. 40, co. 2, c.p.
    Quest’ultima disposizione sancisce un criterio generale di equivalenza giuridica tra il cagionare un evento ed il non impedirne uno che il soggetto aveva l’obbligo giuridico di impedire.
    Tale disposizione ha, di fatto, portato la dottrina a ragionare della struttura del reato omissivo improprio a partire da siffatto criterio di equivalenza normativa, creando, in sostanza, la categoria del reato omissivo improprio sul modello causale per esso previsto dl legislatore.
    La problematica nasce, anche, dal fatto che, nel reato omissivo proprio, il legislatore configura, di regola, reati di mera condotta che, nelle diverse concezioni del reato (bipartita o tripartita), non destano particolari problemi sistematici, mentre la collocazione della condotta omissiva ex art. 40, co. 2, c.p., apre ad una breccia di atipicità nel sistema.
    La condotta omissiva, infatti, nel reato omissivo proprio è, per la concezione bipartita, solo una delle modalità con le quali viene in essere l’elemento materiale del reato; nella concezione tripartita, al contrario, è finalizzata alla descrizione del fatto tipico, con integrazione dell’elemento psicologico del reato stesso.
    Posto che, ad oggi, la tesi preferibile vede nella condotta il nucleo minimo imprescindibile del fatto tipico, risulta chiaro come, attraverso la clausola di equivalenza di cui all’art. 40, co. 2, c.p., si crei una rarefazione del fatto tipico che caratterizza alcune forme di manifestazione del reato come il concorso eventuale di persone ex artt. 110 e segg. c.p. ed il delitto tentato ex art. 56 c.p.; da tale angolo visuale ben si comprende, quindi, per quale ragione si registrino posizioni dottrinali, pur minoritarie, che inseriscono il reato omissivo improprio tra le manifestazioni del reato.
    La tesi, per quanto acuta nel cogliere un dato strutturale ed un profilo di tensione con il principio di legalità, non può essere accolta, atteso che le forme di manifestazione del reato di cui sopra creano modelli di estensione della punibilità di condotte già tipizzate nella parte speciale, mentre il reato omissivo improprio è autonomo modello di punibilità posto sullo stesso piano di quello commissivo dal legislatore mediante la succitata clausola di equivalenza.
    Il problema è che, nel reato omissivo improprio, il fatto materiale, composto da condotta (omissiva) ed evento, che dovrebbero essere separati dall’imputazione oggettiva, ossia il nesso causale, sono, in realtà, con esso uniti, posto che l’art. 40, co. 2, c.p., si riferisce, contemporaneamente, alla condotta, all’evento ed al nesso che li lega.
    Ciò posto, è da chiedersi come il legislatore costruisca il precetto penale nell’ambito dei reati di tipo omissivo, che sono finalizzati al soddisfacimento di un interesse pretensivo da parte dello Stato a che determinate condotte vengano poste in essere, in aperta contrapposizione con il reato commissivo, caratterizzato da vere e proprie norme di divieto.
    Per quanto attiene al reato omissivo proprio, esso si struttura (di regola) sulla base della sola norma penale, che contiene tutti gli elementi in sé e non viene contraddistinta dall’integrazione di elementi normativi esterni alla fattispecie tipica.
    La condotta omissiva sanzionata assume rilievo allorchè si presentino due situazioni: da un lato, che vi sia un effettivo obbligo di agire da parte dell’agente e, dall’altro, che tale obbligo sia violato.
    L’obbligo di agire (o di attivarsi), nel reato omissivo proprio, scaturisce dalla fonte normativa e dal venire in essere della situazione di fatto da essa prevista; come detto, la fonte normativa è la stessa norma penale, in ciò differenziandosi (come si dirà tra breve) dal reato omissivo improprio.
    Il nesso di causa, trattandosi di fattispecie di mera condotta, non è legato al verificarsi dell’evento, ma si configura laddove l’agente, a fronte della situazione tipica prevista dalla fattispecie omissiva, non si attivi nel momento in cui dovrebbe farlo.
    Il legame tra condotta omissiva ed evento può, tuttavia, divenire rilevante nelle fattispecie aggravate dall’evento, come, ad, es., quelle previste e punite dagli artt. 570 e 593 co.3, c.p.; in questo caso, si dovrà verificare in concreto se all’omissione penalmente rilevante è causalmente legato il venire in essere dell’evento aggravatore.
    I criteri causali adottati in questo caso hanno diviso la dottrina: da un lato chi ritiene applicabile, senza mediazioni di sorta, l’art. 40, co. 1, c.p., dall’altro chi ritiene si debba far riferimento al modello causale del reato omissivo improprio di cui all’art. 40, co. 2, c.p. (del quale si dirà funditus a breve).
    In realtà, ciò che rileva è che la causalità, nel reato omissivo proprio, è caratterizzata da un duplice momento, materiale e normativo, laddove il secondo, tuttavia, è meno stringente di quello operante nel reato omissivo improprio, attesa la sua finalizzazione a legare un evento aggravatore ad una condotta già di per sé costituente reato e non ad imputare, sul piano oggettivo, un fatto di reato a titolo diretto di omesso impedimento del venire in essere dell’evento lesivo.
    Il reato omissivo improprio, invece, è caratterizzato da una struttura complessa, che deve necessariamente fare riferimento ad ordinamenti extrapenali per la configurazione dell’obbligo giuridico di cui all’art. 40, co. 2, c.p.
    Sotto questo profilo, il reato omissivo improprio è caratterizzato dalla verificazione di un evento, determinato da una condotta omissiva caratterizzata dal mancato impedimento della verificazione dell’evento stesso da parte di un soggetto sul quale gravava una posizione di garanzia prevista dall’ordinamento.
    La struttura del reato omissivo improprio, quindi, è legata sia al presupposto giuridico (dovere extrapenale di garantire un soggetto da determinate situazioni) sia alla verificazione di un evento causalmente legata all’omissione dell’agente (sotto questo profilo il nesso causale assume quasi maggiore rilevanza rispetto a quanta non ne rivesta nel reato commissivo, per la natura normativa e per le peculiari modalità d’accertamento); la struttura del nesso causale normativamente posto, d’altra parte, è inscindibilmente legata proprio al dovere di impedire l’evento in capo all’agente, ossia dal suo essere titolare di una posizione di garanzia verso determinati soggetti.
    Il non essere tale posizione direttamente prevista dall’ordinamento penale ha posto il problema sia delle fonti idonee a fondarla (di cui è opportuno dare brevemente conto) che della natura degli obblighi nascenti dalla stessa.
    Per la dottrina più rigorosa solo fonti strettamente normative potrebbero essere idonee a fondare una posizione di garanzia (atti legislativi, regolamenti, usi); atteso che per alcuni autori il reato omissivo improprio è una species del genus della norma penale in bianco, ritenere idonee altre fonti sarebbe una vera e propria lesione del principio di legalità.
    La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che la posizione di garanzia possa trovare fondamento anche in fonti extranormative ma qualificate, come ad esempio il contratto, il fatto da cui scaturisca un’obbligazione civile (ad es. per contatto sociale) ovvero la consuetudine.
    A fronte di tale apertura, tuttavia, affinchè venga in essere una vera e propria posizione di garanzia in capo all’agente, risulta necessario che, a fianco della fonte extralegale, vi sia una effettiva e concreta presa in carico del bene protetto.
    A fronte di tale correttivo, la tesi sostanziale ha prevalso, mentre i tentativi di ancorare a fonti civilistiche (arg. ex art. 1173 c.c.) la posizione di garanzia senza presa in carico del bene protetto non avevano trovato il consenso della dottrina e della giurisprudenza: se, infatti, il bene protetto risulta ben delineato ed allo stesso modo lo sono gli obblighi dell’agente, anche il precetto, per quanto caratterizzato dall’estensione di cui all’art. 40, co. 2, c.p., risulta determinato e rispettoso del principio di riserva di legge.
    Le posizioni di garanzia si distinguono, in generale, in quelle caratterizzate da obblighi di protezione e obblighi di controllo, queste ultime caratterizzate anche da una sub categoria, costituite dall’obbligo di impedire il fatto illecito altrui.
    Sono obblighi di protezione quelli che determinano il dovere di impedire qualunque tipo di evento dannoso al soggetto protetto: tipica quella dei genitori rispetto ai figli.
    Sono obblighi di controllo quelli del soggetto che deve proteggere solo determinate categorie di persone da una determinata serie di rischi: ad esempio il bagnino dello stabilimento balneare.
    L’obbligo di impedire il fatto illecito altrui è, secondo parte della dottrina, non configurabile come obbligo scaturente da posizione di garanzia, poiché l’evento di cui all’art. 40, co. 2, c.p., non potrebbe essere costituito da un reato; si obbietta che anche il reato è una manifestazione fenomenica, naturalistica prima che giuridica e che, pertanto, può essere definito come evento.
    Ad oggi la giurisprudenza maggioritaria tende ad ammettere tale obbligo come fondante la responsabilità ex art. 40, co. 2, c.p., in particolare per quanto attiene, ad esempio, i reati societari, laddove è stata configurata la responsabilità omissiva del sindaco della società di capitali per omesso controllo sugli amministratori che avevano commesso una bancarotta fraudolenta.
    Ciò brevemente posto in ordine alla posizione di garanzia ed ai vari tipi di obbligo da essa, di volta in volta, scaturenti, è necessario analizzare natura e struttura della causalità omissiva, per poi dar conto delle modalità con le quali la stessa deve essere provata: si dovranno, quindi, valutare le posizioni della dottrina e ripercorrere brevemente l’iter argomentativo delle celebri sentenze Orlando e Franzese sul punto.
    Secondo una posizione dottrinaria ormai superata, l’omissione non potrebbe mai, sul piano naturalistico, essere causa di un evento, atteso che le cause materiali dello stesso sarebbero tutti i fatti che lo hanno prodotto in senso fisico.
    Dato che la causalità di cui all’art. 40, co. 1, c.p. è comunque una causalità di tipo materiale prima che giuridico, l’omissione in sé considerata non potrebbe mai risultare causa di un evento, ossia generare un fenomeno fisico.
    La posizione viene superata sulla base di un interpretazione sistematica dei primi due commi dell’art. 40 c.p.: dato che la causalità è effettivamente naturale (co. 1) e che il Codice prevede una clausola di equivalenza al co. 2, il concetto di causalità omissiva deve essere di tipo squisitamente normativo.
    Deve, però, evidenziarsi il fatto che, anche a fronte di tale scelta legislativa, la condotta omissiva posta in essere dall’agente determina un evento naturalistico e, pertanto, una concatenazione causale di tipo materiale, nel fatto tipico, deve essere individuata: la sentenza Franzese, di cui si dirà a breve, infatti, ha escluso la tesi causale che tendeva ad un’eccessiva volatilizzazione del fatto tipico proprio con riferimento al nesso causale, individuando come criterio sufficiente per l’imputazione oggettiva una mera probabilità.
    La struttura della causalità del reato omissivi improprio, quindi, si sostanzia secondo quanto affermati nella sentenza Orlando, di una valutazione di tipo strettamente fattuale e di una di tipo logico-ipotetico, dopo aver effettuato, preliminarmente, il vaglio della effettiva sussistenza in capo all’agente della posizione di garanzia.
    Valutata positivamente la sussistenza di quest’ultima, è da capire se l’evento verificatosi sia collegato alla posizione di garanzia in termini di connessione, ossia se tra gli obblighi del garante fosse, o meno, ricompreso quello di impedire l’evento stesso.
    Avuta risposta positiva anche a questo quesito, si tratta di ricostruire il nesso di causalità tra omissione ed evento.
    Nel reato commissivo di evento, tale accertamento, secondo la sentenza Orlando, mai smentita, è tale per cui se, data l’azione e gli eventi concomitanti materialmente presenti in cui è venuto in essere l’evento, quest’ultimo si è verificato in ragione dell’azione medesima; tale verifica è effettuata mediante in noto procedimento di eliminazione mentale per cui, tolta l’azione posta in essere dal soggetto attivo, l’evento non si sarebbe verificato: l’azione è, in tale caso, condicio sine qua non dell’evento ex art. 40 co. 1 c.p.
    Tale struttura viene riproposta anche con riferimento al reato omissivo improprio sostituendo, in primo luogo, l’omissione all’azione, di modo che l’evento sia causalmente legato alla condotta omissiva con un rapporto di tipo condizionalistico.
    Il processo controfattuale di eliminazione mentale, tuttavia, è effettuato sostituendo l’azione dovuta all’omissione per verificare se l’evento non si sarebbe verificato in caso di corretto adempimento dell’obbligo derivante dalla posizione di garanzia, di modo che se l’evento non si sarebbe verificato, si è in presenza di un nesso causale tra omissione ed evento stesso.
    Logicamente tale costruzione non desta perplessità alcuna, attesa la sua linearità e la logicità manifesta; ciò che risultava problematico era l’individuazione dei parametri in virtù dei quali effettuare il giudizio ipotetico prognostico in virtù del quale un fatto non verificatosi naturalmente (l’azione dovuta ed omessa) avrebbe impedito il venire in essere di un evento naturalisticamente venuto ad esistenza.
    Nella sentenza Franzese tale questione viene affrontata, così come viene esplicitato sia il modello probatorio di riferimento sia il quantum della prova necessaria a fondare la responsabilità dell’agente.
    Le S.U. Franzese indica quale referente di fatto della del giudizio ipotetico la legge scientifica di copertura, ossia quel tipo di legge fisica universale o scientifico-statistica in virtù della quale un antecedente causa un conseguente ed in ragione della quale una certa azione può elidere l’antecedente stesso, impedendo il venire in essere del conseguente.
    Dando ingresso a tale ricostruzione, le S.U. Franzese hanno aderito in senso stretto alla teoria della causalità scientifica, determinando, anche, un modello di ricostruzione probatoria del nesso eziologico intercorrente tra causa ed effetto.
    Se alle leggi scientifiche (universali o statistiche) si deve far riferimento per la ricostruzione del rapporto di causalità intercorrente tra condotta ed evento, allo stesso modo la prova di detta relazione deve essere fornita con metodi e sistemi direttamente reperiti dalle scienze di riferimento: nel caso di colpa medica, la causalità dovrà essere ricostruita secondo i dettami della scienza medica e, in modo analogo, la prova dovrà consistere in un accertamento scientifico da tale settore gnoseologico derivante.
    Alla causalità mediante sussunzione sotto leggi scientifiche si aggiunge, quindi, anche la prova di tipo scientifico.
    Le scienze o i risultati scientifici di riferimento utilizzabili a parametro (sia della legge di copertura che del metodo di prova) sono quelle accreditate dalla comunità scientifica del momento in cui è effettuato l’accertamento.
    Da notare che le S.U. Franzese avevano ad oggetto un caso reato omissivo colposo di tipo medico, di talchè la ricostruzione effettuata, in alcuni punti, inevitabilmente sovrappone l’accertamento del nesso causale sub specie omissione con quello inerente all’identificazione del tipo di colpa e dell’accertamento della stessa.
    La problematica nasce, anche, dal fatto che sia la causalità di cui all’art. 40, co. 2, c.p., che la colpa, sono concetti giuridici di tipo squisitamente normativo e, pertanto, la verifica concreta della sussistenza degli stessi può, in un certo modo, sovrapporsi proprio sotto il profilo concettuale.
    Basti pensare che il medico ha una posizione di garanzia nei confronti del paziente sub specie obbligo di controllo e che i doveri di diligenza impostigli dalla professione esercitata determinano un obbligo di attivarsi: nel reato omissivo improprio colposo la posizione di garanzia è strutturalmente legata alla fatto tipico, mentre l’obbligo di di diligenza è relativo all’elemento psicologico.
    Non può tacersi, tuttavia, che per alcune ricostruzioni della teoria tripartita l’elemento normativo della colpa rientra anche nella fattispecie tipica e che tra obbligo di attivarsi ed obbligo giuridico di impedire un evento mediante azione dovuta la differenza concettuale non è poi così marcata.
    Sicchè, sul piano probatorio, la prova della causalità omissiva tende a sovrapporsi in maniera rilevante a quella della colpa.
    Infine, per quanto attiene al raggiungimento della prova necessaria a fondare una sentenza di condanna, le S.U. Franzese dettano una regola generale per ogni elemento del reato, ossia quello dell’alto grado di credibilità razionale e logicità della ricostruzione effettuata.
    Il criterio dell’alta credibilità razionale altro non è che un correttivo al libero apprezzamento del giudice sub specie giudizio probabilistico: se in alcuni casi la legge di copertura è di tipo scientifico-statistico, non è dato sapere quale sia il quantum di probabilità necessario a fondare una sentenza di condanna; sicchè, nel caso in cui non sia possibile raggiungere la certezza matematica, ma si registri una probabilità scientificamente accertata e quantificata, essa sarà sufficiente a fondare la penale responsabilità dell’imputato se, a fronte delle circostanze di fatto e delle risultanze probatorie, sia altamente credibile che la condotta omissiva colposa dell’agente sai condicio sine qua non dell’evento.
    La formula dell’alta credibilità razionale, ad oggi, è utilizzata anche per riempire di significato il principio di cui all’art. 533, co. 1, c.p.p., ossia la necessità che la penale responsabilità dell’imputato sia provata oltre ogni ragionevole dubbio.
    La casistica indica come tale formula sia adeguato correttivo al criterio della probabilità pura: è l’ipotesi di mesotelioma pleurico determinato dall’esposizione all’amianto.
    La probabilità che tale malattia venga provocata dall’esposizione ad amianto è bassa (attorno al 10 %); tuttavia, se il soggetto indebitamente esposto all’amianto non è stato soggetto ad altri agenti che la scienza riconosce come causa di quel determinato tipo di patologia, si dovrà concludere che la medesima è insorta a causa dell’esposizione all’amianto.
    Le critiche a tale impostazione sono, tuttavia, ancora stringenti: non manca chi sostiene che la formula dell’alta credibilità razionale secondo schemi dettati dalla logica formale sia un principio di per sé indeterminato e non idoneo ad assurgere a parametro certo delle modalità di valutazione della prova.

    ELABORATO ADERENTE ALLA TRACCIA, BEN STRUTTURATO E CON PASSAGGI LOGICI BEN DEFINITI. NON PRESENTA ERRORI DI RILIEVO. BUON LIVELLO DI APPROFONDIMENTO E BUONO NELLA FORMA. 13

    *********
    2) Premessi cenni sugli istituti del tentativo e de reato omissivo, tratti il candidato il tema della configurabilità del delitto omissivo tentato


    L’art. 56, primo comma, c.p., nel definire la struttura del delitto tentato, prevede che chiunque compia atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie, relativamente ai reati di mera condotta, o l’evento non si verifica, relativamente ai reati di evento.
    Il delitto tentato, pertanto, si configura quale autonomo titolo di reato rispetto al corrispondente modello del delitto consumato, per la configurazione del quale, invece, è richiesto che l’azione si compia o l’eventi si verifichi.
    Già, dalla lettura della norma, è agevole evincere gli elementi strutturali del tentativo.
    Anzitutto, rileva il compimento di atti idonei: ovverosia è necessario che l’agente abbia posto in essere atti che, valutati ex ante ed in concreto, cioè tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, siano idonei ad offendere il bene giuridico protetto dalla corrispondente norma incriminatrice di parte speciale.
    E’ evidente, tuttavia, che la lesione debba essere solo potenziale e non effettiva, altrimenti il reato si configurerà nella forma consumata.
    In secondo luogo, si impone la direzione non equivoca di tali atti, in quanto corrispondenti, nei reati a forma vincolata, almeno ad una parte dello specifico modello di comportamento descritto dalla norma incriminatrice oppure da valutare in relazione all’uso del mezzo prescelto dall’agente per il compimento del risultato criminoso, nei reati a forma libera.
    Va da sé che l’opinione prevalente, sia in dottrina che in giurisprudenza, attribuisce rilevanza, ai fini del tentativo, ai soli atti esecutivi dai quali emerge l’inizio dell’esecuzione dell’iter criminis non portato a completamento e non già anche agli atti meramente preparatori.
    L’elemento soggettivo del delitto tentato viene ravvisato esclusivamente nel dolo, non ammettendosi ipotesi colpose di tentativo.
    Per di più, la lettera della legge (la quale fa riferimento al solo “delitto” tentato) induce ad escludere, in linea generale, la configurabilità del tentativo rispetto ai reati contravvenzionali, ferma restando la prevedibilità da parte del legislatore di specifiche figure di tentativo contravvenzionale.
    L’art. 56, inoltre, di per sé, non sembra riservare il proprio ambito concettuale ed applicativo al solo agire commissivo, potendosi ammettere, alla luce della norma in commento, anche la rilevanza (almeno in astratto) di un agire omissivo nello stadio del mero tentativo.
    Il che apre alla problematica, piuttosto spinosa e dibattuta, della configurabilità del delitto omissivo tentato.
    Com’ è noto, infatti, il diritto penale non consta solo di divieti di agire ma anche di comandi di agire, inosservati i quali si può prospettare un’omissione penalmente rilevante, tale essendo quella che risiede nel mancato compimento di un’azione che si aveva l’obbligo giuridico di compiere.
    Tradizionalmente, si distinguono i reati omissivi in “proprio di mera omissione” ed “impropri o commissivi mediante omissione”.
    I primi si delineano allorquando l’agente omette il compimento di un’azione imposta da una norma incriminatrice di parte speciale al fine di prevenire o neutralizzare una situazione di pericolo che involga il bene giuridico protetto dalla norma medesima, e ciò indipendentemente dal verificarsi o meno di un evento lesivo o pericoloso.
    Si pensi, a mo’ di esempio, ai reati di omissione di soccorso, nelle due fattispecie tipizzate dal codice penale all’art. 593, oppure all’omissione di atti d’ufficio di cui all’art. 328 c.p. o, ancora, all’omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale prevista dall’art. 361 c.p.
    Nei secondi – reati omissivi impropri – la condotta omissiva va ricostruita dalla combinazione dell’art. 40, secondo comma, c.p. a mente del quale “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” con la norma incriminatrice di parte speciale che vieta la causazione di uno specifico evento.
    Così dal combinato disposto dell’art. 40, 2 c., con l’art. 575 c.p. che punisce “chiunque cagiona la morte di un uomo” discende la responsabilità, a titolo omissivo, del garante che non ha compiuto l’azione giuridicamente doverosa diretta ad impedire l’evento della morte altrui.
    Si tratta, pertanto, di reati di evento per la sussistenza dei quali non è sufficiente la mera omissione ma anche la verificazione dell’evento dannoso o pericoloso ed il nesso di causalità fra condotta omissiva ed evento, ricostruibile secondo il paradigma della “condicio sine qua non” e della sussunzione sotto leggi di copertura.
    E’ di tutta evidenza, altresì, che, ai fini della rilevanza penale dell’omissione, l’agente sia rimasto inerte di fronte alla situazione di pericolo che aveva l’obbligo di neutralizzare, fondandosi, tuttavia, tale obbligo non già in un precetto morale, religioso o di opportunità sociale, ma in una norma giuridica, anche extrapenale, ovunque ubicata nell’ordinamento, ritenendosi ammissibili, oltre che fonti legislative formali o materiali, anche fonti normative secondarie e ad atti di autonomia privata, contrattuali o negoziali.
    Ciò premesso, occorre fornire una soluzione alla problematica, della quale si è fatto cenno, circa la configurabilità del delitto omissivo tentato, alla luce della distinzione fra le due tipologie di reati omissivi.
    In ordine ai reati omissivi impropri, che, come detto, si sostanziano in reati di evento, appare, ormai, pacifica la possibilità che essi si manifestino anche nello stadio del tentativo, atteso che, qualora l’agente abbia volontariamente omesso l’azione dovuta, ma per circostanze fortuite, o, comunque estranee alla sfera della sua volontà, l’evento non si verifichi, non vi è motivo di dubitare dell’imputabilità del fatto a titolo di delitto tentato.
    D’altronde, si è in presenza di un iter consumativo frazionabile, nel quale acquisisce carattere essenziale la mancata verificazione dell’evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire (in caso contrario – se cioè l’evento si produce – non si integrerà un mero tentativo ma, ovviamente, un delitto consumato).
    Se, quindi, sussiste la situazione in presenza della quale si attiva l’obbligo di agire previsto normativamente o contrattualmente ed, altresì, si palesa la condizione di pericolo per il bene giuridico tutelato che il garante ha l’obbligo di neutralizzare, non si vede perché questi, ove rimanga inerte, non debba rispondere a titolo di tentativo, quando non si cagiona l’evento.
    Non è, pertanto, condivisibile l’opinione (a dire il vero, ormai, assolutamente marginale) di chi, a priori, esclude la configurabilità del tentativo in relazione a tutti i reati omissivi, compresi quelli impropri, sull’assunto che il garante non potrebbe mai dare vita ad atti idonei, aventi una direzione univoca, ammissibili solo in relazione ai reati commissivi.
    Questa tesi sconta, invero, il limite di non adeguare la struttura del tentativo, definita dall’art. 56 c.p., alla peculiarità (ed alla realtà concreta) del fatto di omissione.
    Semmai, si pone un’altra questione di maggiore valenza, legata all’individuazione del momento a partire dal quale ha inizio il tentativo punibile.
    Orbene, la corrente dottrinaria più accreditata fonda la soluzione sul momento in cui il ritardo nell’esecuzione dell’azione di salvataggio ha causato un pericolo concreto al bene tutelato oppure ha accresciuto la situazione di pericolo che si aveva l’obbligo di neutralizzare.
    Si pensi all’esempio classico della ragazza madre la quale, in preda ad una forte depressione post partum, ometta deliberatamente la nutrizione del neonato, mettendone a repentaglio la vita.
    Potrà ben rispondere di tentato infanticidio, se, per effetto dell’intervento salvifico di terzi, non si verificherà il decesso del neonato.
    E’ ovvio, tuttavia, che se l’evento non si produrrà per un ripensamento della madre, la quale, volontariamente avrà desistito dalla condotta omissiva, il tentativo non sarà punibile in ragione dell’applicabilità dell’art. 56, terzo comma, il quale introduce l’istituto della desistenza volontaria, quale causa oggettiva di non punibilità.
    Così come, se se verificherà la morte del neonato, la madre non risponderà di delitto tentato ma bensì consumato.
    Più complessa, è, invece, la questione della configurabilità del tentativo in ordine ai reati omissivi propri.
    Tradizionalmente, la dottrina si è orientata nel senso di escluderla in quanto ha ritenuto essenziale il termine di adempimento della prescrizione normativa.
    Detto altrimenti, se il termine, stabilito dalla norma o discendente dalle circostanze del caso concreto, richiesto per il compimento dell’azione doverosa non è ancora scaduto, non si può imputare nulla all’agente, poiché non si è ancora prodotta la violazione dell’obbligo, mentre se il termine è scaduto, il reato è già perfezionato nella forma consumata.
    A ciò si è aggiunta l’impalpabilità della volontà di non adempiere la prescrizione normativa, atteso che l’omissione tentata, a differenza dell’azione tentata, non può essere agevolmente percepita attraverso la percezione sensoriale.
    Questa impostazione tradizionale è stata messa in discussione da una vecchia pronuncia della Cassazione la quale, nel 1985, ha ammesso l’individuabilità del reato tentato in relazione alla fattispecie omissiva di astensione dagli incanti prevista dall’art. 354, asserendo che, ove sussista incertezza se l’omissione verrà compiuta o meno, non si può ancora configurare nessun tipo di reato né tentato né consumato, ma allorquando l’incertezza viene meno è ammissibile il tentativo di astensione.
    La decisione ha affrontato il tema dello status penale di un accordo delle parti avente ad oggetto l’astensione di una di esse dal concorso ad un incanto, ritenendo che siffatto accordo già configurasse un’ipotesi di tentativo punibile, essendo cessato lo stato di incertezza circa l’intenzione omissiva dell’agente.
    Benché, le più recenti pronunce della Suprema Corte inerenti alla medesima questione hanno mutato orientamento attribuendo all’accordo la mera valenza di antefatto non punibile, la sentenza del 1985 ha, come dire, aperto un nuovo dibattito dottrinario sul tema in parola.
    Sicché, posizioni più recenti hanno ritenuto ammissibile il tentativo nel reato di mera omissione prefigurandolo riguardo all’ipotesi in cui l’agente si sia volontariamente precostituito una situazione di incompatibilità rispetto al compimento dell’azione dovuta.
    Si immagini il caso del pubblico ufficiale il quale, poco prima della scadenza del termine imposto dalla norma per il compimento dell’atto del suo ufficio, si sia imbarcato in un volo aereo, assicurandosi, per tale via, una situazione di impossibilità di adempimento.
    C’è, tuttavia, chi obietta che alla situazione di impossibilità seguirà necessariamente la consumazione del reato, così come chi contro deduce che sarebbe più corretto parlare di tentativo di precostituire una situazione di impossibilità all’adempimento, come quando, restando nell’esempio, il pubblico ufficiale si veda costretto a non imbarcarsi a causa di un improvviso sciopero del personale di volo.
    Ciò non toglie, però, che ipotesi di tal fatta richiedono uno sforzo interpretativo (e ricostruttivo) non indifferente al fine di armonizzare la soglia di punibilità degli atti di colui che si è posto in una simile posizione di impossibilità ad adempiere con il carattere dell’idoneità e della direzione univoca degli atti richiesti dall’art. 56 c.p.
    Va dato atto, infine, che, negli ultimi anni, è emersa un’altra impostazione dottrinaria la quale, a ben veder, mostra approdi più coerenti con le sue premesse.
    Alla luce di essa, si ritiene ammissibile il tentativo quando l’agente non compie l’azione doverosa nel termine utile (Tizio, ad esempio, inizialmente omette di soccorrere un ferito proseguendo la marcia del suo veicolo per alcuni metri) ma ancora residua una chance di adempimento, ovverosia un’ulteriore frazione temporale entro cui potere utilmente adempiere (Tizio poco dopo, fa marcia indietro e presta l’assistenza occorrente al ferito)
    In tale evenienza - si afferma - se l’agente ha avuto un ripensamento volontario troverà applicazione l’istituto della desistenza volontaria, mentre se è stato indotto da un elemento di coazione esterno ed estraneo alla sua volontà (ad esempio l’avere udito le sirene della polizia oppure l’aver subito le minacce di una terza persona)risponderà di tentativo di omissione.


    TEMA ADERENTE ALLA TRACCIA, PASSAGGI LOGICI CHIARI, APPROFONDIMENTO SUFFICIENTE. 12 ½


    ps. se qualcuno non ha ricevuto il tema di penale o amministrativo (ripeto solo penale o amministrativo) di marzo lo faccia presente.
    per civile stiamo recuperando un po' di temi arretrati.

    buon we a tutti :)
     
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6 replies since 3/3/2013, 12:19   1314 views
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