Tracce temi Febbraio 2013

tracce e migliori elaborati del mese

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    Tracce di diritto amministrativo

    1) Principio di proporzionalità e recessione dell'interesse primario (svolgimento obbligatorio)

    2) La delegificazione (svolgimento facoltativo)

    3) L'atto amministrativo "anticomunitario" ( svolgimento facoltativo).

    ***

    Tracce di diritto civile:

    1) Diritti e doveri delle parti nell'ambito del rapporto obbligatorio, con particolare riguardo al diritto del debitore di adempiere la prestazione.

    2) Delineata la differenza tra obbligazioni strumentali e obbligazioni accessorie tratti il candidato della buona fede nell'ambito del rapporto obbligatorio.

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    Tracce di diritto penale:

    1) Tratti il candidato della tematica dell'errore di fatto e di diritto soffermandosi sui reati sessuali nei confronti dei minori, con particolare attenzione ai profili relativi alla colpevolezza e all'errore in tali fattispecie.

    2)Opzionale
    Dolo intenzionale, diretto ed eventuale: elementi di distinzione e prassi giurispudenziale.

    Assegno per febbraio: il reato omissivo.

    Edited by togasana - 4/2/2013, 22:10
     
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    i temi copiati non saranno corretti.
    è inopportuno ed irrispettoso nei riguardi di chi dedica tempo a questa iniziativa ed a voi serve a ben poco.
    quindi, se dovete scriverli coi libri aperti, risparmiatevi questa fatica.
     
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    sarebbe preferibile che le tracce opzionali fossero svolte solo dopo aver svolto quelle indicate come principali.
    grazie :)
     
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    migliore tema in penale:

    Tratti il candidato della tematica dell'errore di fatto e di diritto soffermandosi sui reati sessuali nei confronti dei minori, con particolare attenzione ai profili relativi alla colpevolezza e all'errore in tali fattispecie.

    Dall’articolo 27 della Costituzione si evince che l’autore del reato debba essere pienamente consapevole del disvalore penale della sua condotta. Diversamente opinando, infatti, si determinerebbe un ingiustificato trattamento sanzionatorio che non assolverebbe al compito di rieducazione del condannato. Tale ragione ha indotto il legislatore ad introdurre nel codice penale istituti giuridici in presenza dei quali l’autore della condotta, ancorchè abbia posto in essere il fatto tipico, andrà esente da responsabilità, perché difetta il requisito soggettivo del reato; uno di questi strumenti è l’errore, che a talune condizioni può qualificarsi quale causa di esclusione della colpevolezza.
    Nonostante manchi una disciplina unitaria di tale scusante all’interno del codice Rocco, è possibile ricostruirne la disciplina attraverso una lettura sistematica delle singole disposizioni normative che lo trattano.
    In particolare due sono le norme che vengono primariamente in gioco: l’articolo 5 e 47 c.p.
    L’articolo 47 c.p. comma primo sancisce la non punibilità dell’agente nell’ipotesi di errore sul fatto che costituisce reato, salvo che sussistano due condizioni. Il fatto di reato non sia previsto anche come delitto colposo e l’errore non sia determinato da colpa. Nell’ipotesi in cui concorrano questi due presupposti il reo risponderà di reato colposo. Un esempio per tutti è il delitto di omicidio. L’agente sarà punibile ex articolo 590 c.p. e non 575 c.p., nel caso in cui il cacciatore che, sparando nel corso dell’attività venatoria, colpisca un amico che si era nascosto dietro un cespuglio, credendo fosse un animale. In un’ipotesi come quella appena citata, sarà compito del giudice valutare se il reo abbia avuto una falsa rappresentazione della realtà e nell’ipotesi di risposta affermativa, se tale errore sia inescusabile; nell’esempio, occorrerà pertanto domandarsi se l’autore del reato, prima di sparare, avrebbe dovuto ragionevolemente accertare la posizione dei suoi compagni nel corso della battuta di caccia, il numero presunto di persone vicino a lui, e la lontananza rispetto alla preda.
    Se l’errore sul fatto che costituisce reato si può definire quale errata percezione naturalistica della realtà fenomenica, l’errore di diritto si ravvisa tutte le volte in cui l’autore del reato non conosca una disposizione normativa (o ne dia una falsa interpretazione) che vieta il comportamento da lui tenuto o nel caso di reato omissivo improprio, non conosco la norma che gli impone l’obbligo giuridico di impedire l’evento ex articolo 40 comma secondo c.p. Anche in tale ipotesi è indispensabile domandarsi se l’errore di diritto sia determinato da colpa o sussista un’effettiva inesigibilità di una diversa condotta, perché solo nel secondo caso, l’autore andrà esente da responsabilità, anche colposa.
    Ad avviso della giurisprudenza e della dottrina maggioritaria, l’errore di diritto non è solamente l’errore sulla legge penale, bensì anche l’errore sulla legge extrapenale che ricade sulla legge penale. Tale considerazione si evince dal combinato disposto dell’articolo 47 comma terzo c.p. con l’articolo 5 c.p. Da ciò consegue che, ad esempio, risponderà del delitto di furto ex articolo 624 c.p., colui che sottrae dal supermercato una cosa senza pagare, non potendosi invocare, a proprio scusa, la non concoscenza della disciplina della proprietà, disciplinata nel codice civile.
    In quest’ipotesi troverà applicazione la disciplina dell’articolo 5 c.p., più severa rispetto a quella dell’articolo 47 c.p.
    Il codice Rocco, infatti, ha introdotto l’articolo 5 c.p. che sancisce la non scusabilità dell’ignoranza della legge penale. Dalla lettura della disposizione normativa si evince che l’autore del reato risponderà di un reato doloso nonostante manchi la rappresentazione e/o la volizione del fatto di reato, poiché il soggetto non conoscendo le disposizioni penali, non si è liberamente autodeterminato. Tale disposizione, espressione di un ordinamento dittatoriale, potenzialmente collide con il principio di colpevolezza. Come in precedenza solo accennato, infatti, la funzione rieducativa della pena può sussistere solo se sia rimproverabile il soggetto per la condotta posta in essere. Tale ragione ha indotto taluni giudici di merito a sollevare una questione di legittimità costituzionale invocando, tra i parametri potenzialmente lesi da tale disposizione, proprio l’articolo 27 della Costituzione. La Corte Costituzionale, pertanto, con le sentenze 364/’88 e 1085/’88 è intervenuta con l’obiettivo di dare un’interpretazione costituzionalmente orientata non solo della disposizione de quo ma di tutte quelle norme che potrebbero collidere con la Carta Fondamentale. In particolare la Consulta è dell’avviso che un soggetto sia rimproverabile solo se abbia agito quantomeno con colpa. Quest’ultima deve necessariamente investire gli elementi più significativi della fattispecie; in paticolare, nel caso che ci interessa, colui che non conosce la legge penale o la legge extrapenale che incide sulla legge penale, sarà punibile solo se la sua ignoranza sia inescusabile. Elementi fattuali da cui evincere tale inescusabilità sono la precisione, chiarezza e conoscibilità della legge, l‘istruzione del reo, la percezione della collettività rispetto al reato al commesso; questi sono taluni degli indici che devono orientare il giudice nel decidere per una sentenza di condanna o di assoluzione perché il fatto non costituisce reato.
    Un’ulteriore precisazione merita di essere fatta: nell’ipotesi in cui l’autore del reato abbia commesso il delitto doloso per errore su legge penale o extrapenale che incida su quella penale e tale errore, alla luce dei parametri sopra esposti, sia considerato inescusabile, costui risponderà del reato doloso; questo, diversamente da quanto previsto dall’ipotesi di errore sul fatto di reato, dove il soggetto risponderà a titolo di colpa solo se il reato è previsto come colposo, altrimenti andrà esente da responsabilità. Ad avviso di taluni autori, il fatto che il soggetto risponda per un reato doloso nonostante abbia agito colposamente, è costituzionalmente incompatibile e pertanto l’articolo 5 c.p. dovrebbe esere dichiarato incostituzionale per violazione del principio di colpevolezza. A tale considerazione si può controbattere con l’utilizzo di un argomento sistematico. Il Codice penale prevede altre disposizioni normative nelle quali si imputa dolosamente un fatto colposamnete commesso e la giurisprudenza maggioritaria le considera costituzionalemente compatibili. A titolo meramente esemplificativo si pensi alla disciplina del concorso anomalo ex articolo 116 c.p., in base alla quale il concorrente risponde del reato diverso da quello da lui voluto; la giurisprudenza ritiene che il correo non vada esente da responsabilità, se era prevedibile in concreto che l’azione criminosa posta in essere avrebbe potuto portare a quelle conseguenze. In questi casi si riponde di un reato doloso nonostante l’agente sia rimproverabile solo a titolo di colpa.
    Ad avviso dei giudici infatti, un reato doloso non necessariamente richiede, perché si perfezioni, la rappresentazione e la volizione di tutti gli elementi costitutivi. Alcuni di essi possono essere contestati al soggetto anche solo a titolo di colpa.
    Il codice penale disciplina altre ipotesi di errore sul fatto di reato. L’articolo 48 c.p., che regolamenta l’ipotesi dell’errore determinato dall’altrui inganno e che parte della dottrina utilizza come fondamento per la disciplina dell’autore mediato; l’articolo 59 c.p., che sancisce al primo comma il principio dell’applicabilità delle cause di giustificazioni ancorchè non conosciute o ritenute inesistenti, poiché aventi rilevanza oggettiva, e il comma quarto che regolamente le cause di giustificazioni putative, in modo analogo a quanto previsto per l’errore sul fatto che costituisce reato. L’articolo 60 e 82 c.p. che disciplinano rispettivamente l’ipotesi di errore sulla persona dell’offeso e l’ aberratio ictus. Solo la prima è errore sulla falsa rappresentazione della realtà potendosi la seconda qualificare piuttosto, insieme all’ipotesi di aberratio delicti ex articolo 83 c.p., come ipotesi di errore inabilità.
    Nella parte speciale del codice penale, invece, è disciplinata un’ulteriore ipotesi di errore, che è stata oggetto di ampi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali, fino all’intervento chiarificatore della Consulta e nel 2012 del legislatore, che ha recepito i dictat della Corte Costituzionale. L’articolo 609 sexies c.p., prima della riforma del primo ottobre 2012 n. 172 così recitava Quando i delitti previsti dagli articolo 609 bis, 609 ter, 609 quater,609 octies e 609 undecies sono commessi in danno del minore di anni diciotto, il colpevole non può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale. Tale disposizione, che appresta una tutela rafforzata nei confronti dei minorenni vittime di abusi sessuali od oggetto di interesse e sfruttamento da parte di soggetti maggiorenni, trova la sua ratio nel fatto che il minore non abbia ancora sviluppato in modo pieno la sua sessualità e nel caso in cui compia atti sessuali, anche consenzienti con gli adulti, la sua volontà risulti comunque viziata. Egli infatti, non sarebbe ancora in grado di autodeterminarsi pienamente e l’attività sessuale potrebbe pregiudicarlo in modo irreversibile.
    Taluni giudici di merito, fin da subito, avevano fatto applicazione della disposizione de quo senza darne un’interpretazione costituzionalemente orientata, e condannando gli autori del reato, sulla sola base fattuale dell’età della persona offesa, senza indagare se il soggetto si sarebbe potuto rappresentare o si fosse effettivamnete rappresentato l’età della persona offesa. Ad avviso di taluni autori, l’automatica applicazione della disposizione normativa, nonostante il meritevole intervento del legislatore, evidenziava chiari segni di incostituzionalità, in particolare nel caso in cui fosse stato contestao al reo il reato di cui all’articolo 609 quater. In tale ipotesi, infatti, a differenza che per le ipotesi di cui all’articolo 609 bis e octies, l’eta della vittima segnava il discrimen tra rilevanza penale e non del fatto di reato; l’autore del delitto, pertanto, rispondeva anche se avesse fatto affidamento sull’apparente età del minore o sulle dichiarazioni dallo stesso rilasciate.
    Tali conclusioni hanno condotto la Corte Costituzionale, previa rimessione, a fornire un’intrepretazione della disposizione de quo compatibile con la Carta Fondamentale, rigettando la questione di costituzionalità. In particolar modo, infatti, la Corte ha utilizzato le medesime argomentazione già fatte proprie nelle sentenze 364/’88 e 1085/88 e sancendo il principio secondo il quale l’autore del reato andrà esente da responsabilità solo se la sua condotta non sia rimproverabile. Un esempio per tutti è l’ipotesi in cui il minore non solo abbia dichiarato false generalità al reo, ma abbia anche consegnato un documento falso, dal quale si potesse evincere un’età superiore. È evidente che in un’ipotesi del genere l’autore del reato potrà andare assolto per difetto dell’elemento soggettivo del reato, poiché il suo affidamento era potenzialmente legittimo. A tali conclusioni si può arrivare anche tramite un’argomento sistematico; l’articolo 1426 c.c., infatti, sanscisce la non annullabilità del contratto nel caso di raggiri utilizzati dal minore che occulti la sua vera età.
    Tali raggiri però non possono consistere in una semplice dichiarazione (chè peraltro esclude ex se il raggiro), ma è necessario, ad avviso della giurisprudenza, una condotta sufficientemente caratterizzata, tesa a legittimare il comportamento del contraente che vi abbia fatto affidamento. Il legislatore, come in precedenza già accennato, è comunque intervenuto nel 2012 a modificare la disciplina de quo aggiungendo, a quanto già esposto la frase “ salvo che si trattai di ignoranza inevitabile”, recependo quanto affermato dalla Consulta.
    Un’ultima considerazione: è evidente che l’errore sull’età della persona offesa è errore sul fatto di reato ex articolo 47 comma primo c.p . Da ciò consegue che se non vi fosse tale discplina speciale troverebbe applicazione quella dettata nella parte generale e sarebbe più favorevole al reo. Infatti nell’ipotesi di errore inescusabile sull’eta della persona offesa, il reo andrebbe prosciolto perché il fatti di reati di cui agli articoli 609 bis, 609 quater, 609 octies e 609 undecies non sono previsti nella forma colposa.

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    Elaborato aderente alla traccia, ordinato, organico e completo, con passaggi logici precisi e senza errori di rilievo. Stilisticamente adeguato. Corretta impostazione della questione.

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    piccola nota a margine da parte di filo di scozia (il mot che si occupa di penale) per questa traccia (la nota è riferita a tutti coloro che hanno svolto il tema):
    CITAZIONE
    I temi di questo mese hanno quasi tutti (tranne due) lo stesso problema, e cioè che non sono aggiornati alla novella legislativa del 2012 che ha modificato l'art. 609-sexies (e altri) c.p.
    Non ho considerato questo aspetto rilevante ai fini del giudizio complessivo sul tema. Questo perché so che in sede concorsuale tutti si presenteranno con un codice aggiornato, per cui eviteranno di incorrere in errori di questo tipo che si possono invece commettere adesso nello scrivere un tema con un codice non aggiornatissimo.

    Sono stati ritenuti sufficienti (oltre alla valutazioni solite circa l'aderenza alla traccia, completezza, organicità e logicità, presenza di errori, livello di approfondimento e forma) i temi che hanno comunque saputo ripercorrere il dibattito circa profili di criticità tra art. 609 sexies c.p., precedente formulazione, e art. 27 Cost., che hanno riportato gli esiti di questo dibattito, e che pertanto hanno saputo anche in un certo modo anticipare la novella legislativa che, giustappunto, si pone naturalmente nella scia di questo dibattito.




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    tema opzionale penale
    Dolo intenzionale, diretto ed eventuale: elementi di distinzione e prassi giurisprudenziale.

    Il dolo costituisce da sempre criterio generale o ordinario di imputazione penale. Solo in un secondo momento infatti, ad un punto più maturo della evoluzione sociale e giurisprudenziale, è stata elaborata la nozione di colpa, poi recepita dal Codice Rocco quale eccezionale criterio di attribuzione della responsabilità penale assieme alla preterintenzione (art. 42 co 2 cp).
    Espressione massimamente intensa di adesione al crimine, il dolo è parso dunque per lungo tempo l’unico elemento psichico, idoneo a giustificare azioni criminose particolarmente efferate.
    Tale approccio arcaico e semplificatore tuttavia, mal si concilia con un diritto penale del fatto e con il principio della responsabilità penale personale e colpevole.
    Pertanto il legislatore prima e successivamente anche la dottrina e la giurisprudenza, in un ottica costituzionalmente orientata, hanno provveduto a graduare diversamente l’intensità dell’elemento psicologico dell’agente di reato, in modo da garantire una pena giusta, ovvero proporzionata alla gravità oggettiva del fatto ed adeguata al particolare atteggiamento interiore (art. 133 cp), ciò che solo consente altresì la realizzazione della finalità rieducativa e risocializzativa della stessa ex art. 27 co 3 Cost.
    Entrando nel merito dell’analisi del testo legislativo si osserva che la forma di dolo accolta nella parte generale del Codice è quella generica o intenzionale.
    Ai sensi dell’art. 42 co 2 cp nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo (…). A seguire l’art. 43 co 1 cp prevede che il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione (…) è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione.
    Dal punto di vista strutturale, dunque, il dolo intenzionale accoglie rappresentazione e volontà dell’evento di reato. Dal punto di vista strutturale direi che sia più il dolo generico ad accogliere in generale gli elementi della rappresentazione e della volontà. Poi il dolo intenzionale si caratterizzerà per gli aspetti che illustrerà lei stessa più avanti a p. 4.
    Tale approdo ha consentito di superare le precedenti teorie attestate ora sulla intenzionalità dell’evento di reato, ciò che implicava una eccessiva restrizione dell’area della punibilità, considerata la difficoltà di soddisfare la prova di un’intenzione lesiva, ora sulla sola rappresentazione dell’evento, ciò che al contrario conduceva ad uno smisurato ampliamento della punibilità fino a lambire la colpa cosciente, dato che la rappresentazione o previsione è elemento comune anche a quest’ultima, che pure manca del contributo volontaristico.
    La soluzione accolta dal legislatore dunque recupera rappresentazione e volontà in reciproco equilibrio - salvo quanto si dirà per il dolo diretto ed eventuale - e meglio risponde ad esigenze garantistiche rispetto alla forma di imputazione più grave qual è appunto il dolo.
    Occorre a questo punto esaminare che cosa debba rientrare nel fuoco del dolo ai fini di una omologa responsabilità, ovvero decifrare il cd “fuoco del dolo”.
    Stando alla lettera del codice, l’art. 43 co 1 colloca nel fuoco del dolo solo l’evento che, secondo orientamento ormai pacifico, deve essere inteso in senso normativo e non naturalistico. In tale ultima ipotesi infatti ne resterebbero esclusi i reati di pura condotta, dove un evento in senso naturalistico non è strutturalmente rinvenibile. Diversamente è però sempre presente nei reati un evento in senso giuridico, ovvero una lesione in termini di danno o di solo pericolo a beni interessi sottesi al precetto penale. Tale ricostruzione in chiave astratta sembra pertanto più corretta e rispondente alla esigenza di una interpretazione uniforme del delitto doloso, poiché è impensabile che il legislatore abbia voluto nella parte generale del Codice, e dunque in sede di principio, limitare la definizione del dolo ai soli reati ad evento naturalistico, lasciando per il resto l’interprete sprovvisto di canoni ermeneutici circa la definizione e l’accertamento di tale elemento soggettivo.
    Ciò considerato, tuttavia, il fatto che solo l’evento debba essere oggetto di rappresentazione e volontà da parte dell’agente, sembra ad oggi invero assai riduttivo.
    Una interpretazione costituzionalmente orientata della responsabilità derivante da delitto impone di attrarre nel fuoco del dolo tutti gli elementi della fattispecie di reato che siano espressione di disvalore penale, integrando o approfondendo l’offesa al bene giuridico tutelato.
    In base a tale principio, espresso dalla Corte Costituzionale con il pronunciamento n. 364/88, non solo l’evento dunque, ma tutti gli elementi positivi e negativi della fattispecie dovranno essere rappresentati e voluti dall’agente, sol che inverino in sé l’offesa al bene giuridico sotteso.
    Tra gli elementi positivi rientrano la condotta (attiva od omissiva fino all’ultimo atto), il nesso di causalità, l’evento come detto, le circostanze aggravanti, imputate soggettivamente dopo la riforma del 1990. Si discute se debba rientrare nel fuoco del dolo altresì l’offesa, quale coscienza e volontà della lesione.
    In proposito, secondo quanto stabilito dal Giudice delle Leggi, sarebbe sufficiente la conoscibilità del divieto penale, che spesso esprime una riprovevolezza già matura a livello sociale. In linea di principio infatti l’ignorantia legis non scusa, salvo che sia inevitabile, insuperabile con l’ordinaria diligenza, anche se ad oggi non risulta acclarato quale sia in concreto l’ignoranza inevitabile-scusabile e si attinge al riguardo ad indici sintomatici quali forti contrasti giurisprudenziali, una normativa frammentata e inorganica sul punto e in genere quanto possa contribuire ad indebolire la certezza del cittadino sul divieto penale.
    Da ultimo, anche la qualifica soggettiva nei reati propri deve rientrare nel fuoco del dolo. In mancanza l’agente vorrebbe un fatto diverso da quello tipico con conseguente errore sul fatto che esclude il dolo, ma non la colpa o la punibilità per un fatto diverso ricorrendone i presupposti (ad es. ignorando la qualifica soggettiva l’agente non risponderà di peculato, ma di appropriazione indebita).

    Tra gli elementi negativi della fattispecie figurano le cause di giustificazione o scriminanti, circostanze che elidendo l’antigiuridicità del fatto tipico lo rendono conforme al fatto lecito con conseguente venir meno del contrasto con la posizione di interesse tutelata e con l’ordinamento in generale. L’agente opera infatti nella consapevolezza e volontà di commettere un reato, di ledere o minacciare un interesse rilevante per l’ordinamento. Laddove però sussistano cause di giustificazione o sia l’agente a supporre la loro esistenza esse sono sempre valutate a suo favore. Ciò in virtù della rilevanza oggettiva delle circostanze de quibus, indipendentemente dalla volontà del reo.
    Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa (ad es. eccesso colposo ex art. 55 cp) il fatto sarà punito come delitto colposo, se previsto. Quanto detto consente di menzionare anche quegli elementi che per esclusione non devono (o possono non) rientrare nel fuoco del dolo: l’errore di fatto e sul fatto che, atteggiandosi ad ignoranza o falsa rappresentazione della realtà lo esclude ex art. 47 cp, l’errore di diritto ex art. 5 cp, secondo le considerazioni sopra espresse, le circostanze attenuanti, che rilevano oggettivamente ex art. 59 co 1 in ossequio al principio del favor rei, le condizioni obiettive di punibilità estrinseche ex art. 44 cp, che condizionano la punibilità di un fatto già perfetto, così come quegli elementi naturalistici indipendenti dalla volontà dell’agente (ad es circostanze antecedenti o concomitanti alla condotta).
    È stato giusto e opportuno parlare del fuoco del dolo, ma credo che dedicargli un’intera pagina sia stato un eccesso, con il rischio del fuori traccia, soprattutto perché in fondo vedo che del resto non le mancano argomenti da trattare, più aderenti alla traccia
    Ciò considerato, tutti gli elementi di cui sopra, positivi e negativi, devono essere non solo rappresentati, visualizzati dall’agente, ma anche voluti. Tale aspetto apre dunque alla riflessione sulla intensità del dolo intenzionale.
    L’intensità esprime il grado di adesione psichica dell’agente rispetto al progetto criminoso e nel dolo intenzionale è massima in quanto il reo agisce allo scopo di perseguire l’evento tipico di reato e non un altro. Attenzione con la parola “scopo” – c’è semplicemente la volontà assoluta di realizzare il fatto, che è tipico – se si parla di scopo si parla di dolo specifico, infatti ecco che subito giustamente sente l’esigenza di distinguere dal dolo specifico
    Il dolo intenzionale, in forma particolarmente pregnante, è ad es. ben delineato nel delitto di abuso d’ufficio ex art. 323 cp, dove compare l’avverbio “intenzionalmente”, ad indicare lo scopo precipuo della condotta criminosa, che deve essere realmente perseguito per integrare la fattispecie criminosa e che assolve ad una funzione restrittiva della punibilità, escludendo tutte quelle condotte del pu che perseguano lo scopo vietato solo in forma ancillare.
    Per completezza espositiva è opportuno dare conto altresì di un’altra forma di dolo, cd specifico, che compare solo in ipotesi di parte speciale (ad es. il furto, art. 624 cp) o della legislazione speciale (ad es tributaria), il quale si caratterizza per il fatto che il reo agisce in vista di uno scopo ben preciso, il quale si colloca però oltre il fatto tipico. Infatti è irrilevante per l’ordinamento che tale scopo sia raggiunto, connotando esclusivamente l’atteggiamento psicologico dell’agente. Detto elemento soggettivo svolge una funzione restrittiva della punibilità, che nel contempo però anticipa, dal momento che come detto il risultato oggetto del dolo specifico si colloca fuori dal perimetro dello stesso, ma è sufficiente che l’agente agisca a quel deliberato fine per ritenere integrata la fattispecie.
    Poiché tale forma particolare di dolo non compare nella parte generale, anche alla luce delle menzionate caratteristiche, si ritiene costituisca una versione particolarmente atteggiata del dolo intenzionale.
    Il grado di partecipazione psichica al reato è oggetto di valutazione da parte del giudice non solo in sede di qualificazione giudica del fatto ai fini della sussunzione sotto la norma penale astratta, ma anche in quella di determinazione del quantum di pena irrogabile ai sensi dell’art. 133 co 1, n. 3, cp che espressamente menziona tra gli indici di commisurazione della pena la intensità del dolo.
    Tra i criteri di valutazione oggettiva dell’intensità del dolo figura anche la maggiore o minore ampiezza dello spatium deliberandi, quel lasso di tempo che intercorre tra l’insorgere del proposito criminoso e la sua attuazione. Più lungo è il processo motivazionale che conduce il reo all’azione criminosa maggiore si ritiene sia la sua adesione in quanto la riflessione prolungata sul movente e sui dettagli del crimine dimostra una lucida e meticolosa preparazione, sintomo di maggior disvalore penale della condotta. Si noti ad es la premeditazione tra le aggravanti del delitto di omicidio ex art. 576, co 1, n. 3 cp, che si ritiene sussista in presenza di un certo lasso di tempo, alcune ore o anche meno, tra la maturazione del proposito e l’esecuzione del delitto.
    Quale elemento psichico, dunque interno, il dolo pone seri problemi probatori in capo alla Pubblica Accusa. Tuttavia tale prova si rivela nondimeno determinante in quanto, in difetto, l’imputato dovrà essere assolto con la formula “perché il fatto non sussiste”, mancando cioè di uno degli elementi costitutivi dell’illecito, salva la punibilità del fatto a titolo di colpa se prevista e sempre che anche tale presupposto soggettivo sia assistito da supporto probatorio.
    D’altra parte non risulta in alcun modo possibile appellarsi a presunzioni, non ammissibili in materia penale diversamente da quella civile, giusta il principio della responsabilità penale personale e colpevole ex art. 27 co 1 Cost e quello per cui la colpevolezza va riconosciuta se provata oltre ogni ragionevole dubbio ex art. 533 co 1 cpp (cd principio b.a.r.d.), e cioè con probabilità logica e statistica vicino alla certezza secondo i principi espressi dalla nota sentenza Franzese del 2002.
    Con la conseguenza che il dolo potrà essere dimostrato solo laddove dall’esame delle circostanze esterne risulti obiettivata - attraverso un procedimento di inferenza abduttiva - una intenzione dolosa inconfutabile, la quale potrà al più essere corroborata da indici rivelatori della personalità del reo, anche in base ad eventuali precedenti, utili ad adiuvandum, ma non certo fonte esclusiva di imputazione criminale.
    Proprio per l’impossibilità di scandagliare l’animo umano al di fuori dei casi di confessione o di testimonianze attendibili, in uno con l’esigenza di non applicare sanzioni restrittive della libertà personale nei casi di dubbia colpevolezza, ma anche per non legittimare la formazione di vaste aree di impunità, con conseguente pregiudizio della funzione general preventiva del diritto penale, dottrina e giurisprudenza hanno avvertito l’urgenza di formulare nuove ipotesi di dolo, che costituissero una forma graduata e meno intensa di quello originario ed intenzionale.
    Il riferimento è in particolare al dolo diretto ed eventuale.
    Trattasi di figure contigue al dolo intenzionale, nelle quali dal punto di vista strutturale risulta accentuato il ruolo della rappresentazione rispetto a quello della volontà, quest’ultima ricavata deduttivamente nei termini che saranno meglio specificati.
    Nel dolo diretto – come anche si dirà per il dolo eventuale – l’evento di reato non è dall’agente voluto, ovvero non rappresenta lo scopo della propria azione illecita. Tuttavia nel disegno criminoso esso è rappresentato, ovvero previsto, con un grado di probabilità vicino alla certezza così da potersi ritenere obiettivamente voluto.
    Qui la rappresentazione gioca un ruolo fondamentale in quanto il fatto che l’evento tipico sia, pur se non voluto, rappresentato come altamente probabile, quasi certo, fa sì che l’azione criminosa sia preordinata a conseguirlo.
    Si può quindi affermare che l’agente voglia perseguire anche quello scopo che pure non è l’obiettivo principale della propria azione.
    Ciò consente di imputare all’agente un determinato fatto di reato anche laddove l’evento tipico, pur non essendo il fine precipuo dell’agire delittuoso, rientri comunque nel fuoco del dolo, allorché questi se lo sia rappresentato come altamente probabile se non certo, dunque inevitabile.
    Esulano infatti dal fuoco del dolo quegli eventi del tutto inevitabili, imprevedibili che, profilandosi quali cause anomale e sorpassanti ex art. 41 co 2 cp, siano stati da soli sufficienti a determinare l’evento, come ad es il caso fortuito o la forza maggiore ex art. 45 cp.
    Per le caratteristiche suddette, ed in particolare per la stima altamente probabile se non certa del verificarsi dell’evento non voluto quale conseguenza della propria azione od omissione, il dolo diretto si presenta compatibile con il delitto tentato ex art. 56 cp che, secondo la tesi prevalente, presuppone il dolo della fattispecie consumata.
    In tal caso il carattere univoco e diretto degli atti risulta infatti idoneo ad assorbire un dolo che, pur non essendo preordinato a realizzare l’evento tipico, comunque lo supporta con elevata probabilità.
    In ogni caso la prova di compatibilità rispetto a fattispecie di parte speciale a dolo generico o intenzionale andrà verificata di volta in volta.
    Ad esempio il dolo diretto non si presenta fungibile rispetto al dolo intenzionale atteggiato nei termini del delitto di abuso d’ufficio ex art. 323 cp.
    Infatti, come detto, la norma suppone che il pu agisca al deliberato fine di conseguire un vantaggio patrimoniale proprio o altrui in danno della PA e, in ottemperanza alla ratio restrittiva della punibilità sottesa alla norma, il reato non sussiste qualora tale non sia l’obiettivo principale dell’azione.
    In ipotesi di dolo diretto infatti l’evento tipico, di cui comunque l’agente risponde, non è voluto come principale di talché non risulta sussumibile sotto l’art. 323 cp.
    La norma de qua, proprio per la sua portata restrittiva e per le difficoltà probatorie connesse all’elemento soggettivo, ha finito con l’abrogare di fatto il reato di abuso d’ufficio, disposizione di chiusura nell’ambito dei reati contro la PA.
    Diversamente si ritiene che il dolo diretto sia compatibile con il dolo specifico.
    Ciò in ragione del fatto che il fine specifico deve obiettivarsi solo nella mente del reo in termini di specifica offesa ad un bene interesse tutelato che resta però esterno al fatto tipico. Si consideri ad es il delitto di strage, di pericolo concreto e a dolo specifico, dove il reo agisce al fine di uccidere. Poiché l’effettivo realizzazione di una strage è penalmente irrilevante – il reato è peraltro di solo pericolo – ciò che invece rileva è che gli atti siano tali da porre in pericolo la pubblica incolumità, aspetto che in concreto ricorre anche laddove l’agente non agisca al fine precipuo di commettere una strage, ma ad es a quello di uccidere una persona che si trovi in mezzo ad una folla. In tal caso la strage, quantunque non voluta come scopo primo, nondimeno si rivela altamente probabile, quasi certa.
    Il dolo diretto sbiadisce in dolo eventuale qualora la probabilità dell’evento tipico si abbassi a possibilità, come concreta conseguenza della propria azione od omissione. Anche rispetto al dolo eventuale, dal punto di vista strutturale, la giurisprudenza sfrutta tutte le potenzialità della rappresentazione mentre la volontà attenua ancora la sua adesione al crimine.
    Infatti l’evento tipico non è voluto, ma rappresentato come possibile, ciò che vale ad affermare che il reo, agendo nonostante la possibilità di cagionarlo, ne accetta il rischio.
    Dunque la differenza tra le suddette figure di dolo riposa tutta nel grado di probabilità del verificarsi dell’evento secondo la rappresentazione dell’agente.
    Con la conseguenza che la Pubblica Accusa dovrà procedere ad un’indagine statistica anche attingendo a massime di esperienza in base all’id quod plerumque accidit, obiettivando così l’intenzione del reo.
    Per la struttura che lo caratterizza il dolo eventuale costituisce tentativo estremo di affermare la punibilità del reo quando il dolo intenzionale o diretto non sia in concreto dimostrabile, pur in presenza di chiari ed univoci indizi di colpevolezza. Per questo motivo ha suscitato vivaci dibattiti sul terreno della colpevolezza, conducendo spesso alla condanna pur in presenza di elementi dubitativi e con alleggerimento dell’onere probatorio della Pubblica Accusa, per la quale diventa sufficiente soddisfare la prova della rappresentazione dell’evento tipico come possibile in concreto e della condotta criminosa comunque tenuta, per ricavarne con procedimento deduttivo l’accettazione del rischio e dunque la volontà dell’evento, seppur con un minor grado di disvalore penale del fatto rispetto al dolo intenzionale o diretto.
    Tale dilatazione dell’elemento doloso conduce ad escludere in diversi casi la compatibilità con fattispecie a dolo generico o intenzionale.
    La giurisprudenza maggioritaria nega ad esempio che il dolo eventuale sia compatibile con il delitto tentato ex art. 56 cp. Ciò in quanto lo scopo nel tentativo si delinea chiaramente ab externo, attraverso atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, espressione di una intensità di azione che mira ad uno scopo preciso, laddove nel dolo eventuale l’evento di reato è solo accettato sotto forma di rischio, ciò che rivela un’adesione più blanda e meno marcata al crimine.
    Stesse considerazioni valgono per ciò che riguarda il dolo specifico, che individua un obiettivo preciso al quale l’azione è diretta, essendo irrilevante il suo conseguimento. Dunque la compatibilità con il dolo eventuale deve anche in tal caso essere esclusa, almeno per ciò che riguarda il fine delittuoso.
    Il terreno rispetto al quale il dolo eventuale ha presentato maggiori criticità è quello relativo al confine con la colpa cosciente o con previsione (art. 43 co 3 cp).
    La colpa cosciente o con previsione sussiste ogni qual volta l’agente si rappresenti l’evento di reato e ciò nonostante agisca, si ritiene, con la certezza di dominare la propria condotta e nella speranza di evitare l’evento. Essa costituisce una forma aggravata di colpa ai sensi dell’art. 62 n. 3 cp.
    Già sul piano teorico, ma ancor più su quello pratico, la differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente si presenta alquanto problematica, ciò che in un sistema particolarmente garantista come il nostro porta spesso a derubricare l’imputazione a titolo di dolo eventuale in quella per colpa cosciente, con evidenti conseguenze sul terreno sanzionatorio.
    Il dibattito è emerso in tutta la sua vivacità nell’ambito dei sinistri stradali.
    La guida di autoveicoli costituisce indubbiamente attività pericolosa ex art. 2050 cc, ma nondimeno autorizzata dall’ordinamento per esigenze di utilità sociale e per incrementare le attività realizzatrici della persona ex art 2 Cost, cui indubbiamente anche l’autonomia di locomozione per medie e lunghe tratte contribuisce. Detta attività in quanto autorizzata è lecita, ma solo nell’ambito di precise regole cautelari e di prudenza atte ad evitare sinistri rispetto al quale il rischio connesso alla circolazione automobilistica si ritiene consentito.
    Quando però dalla guida di un veicolo derivi la morte di un uomo, si tratta di verificare a che titolo tale conseguenza debba essere ascritta all’autore di reato.
    Il dolo eventuale è stato spesso invocato nelle aule di giustizia proprio a supporto dell’imputazione a titolo di omicidio volontario (art. 575 cp), laddove l’agente avesse violato il codice della strada, in particolare i limiti di velocità, in un contesto in cui avrebbe dovuto rappresentarsi almeno come possibile il concreto verificarsi della morte di una o più persone quale conseguenza della propria condotta. Ciò in particolare quando per le condizioni estreme di guida non avrebbe potuto fare affidamento sulla propria capacità di dominare gli eventi ed avesse perciò accettato il rischio di uccidere.
    Nella casistica giurisprudenziale spesso in tali frangenti ricorre l’ipotesi delle cd actiones liberae in causa, in cui l’agente prima di mettersi alla guida assume deliberatamente, e dunque con esclusione dell’ipotesi di cui all’art. 91 cp, alcool o sostanze stupefacenti, ciò che secondo la lettera del Codice non esclude né diminuisce l’imputabilità ex artt. 92 e 93 cp.
    In tali ipotesi vale il principio in base al quale, essendosi il reo intenzionalmente precostituito uno stato di incapacità di intendere e volere, risponde poi di tutte le conseguenze delittuose che ne derivano.
    Il dolo eventuale ha spesso costituito un argine alla deriva di sostanziale impunità che accompagna i sinistri stradali in considerazione delle difficoltà probatorie legate al dolo generico, anche se spesso la tesi a supporto del dolo eventuale quando sposata in primo grado è stata poi smentita nei successivi gradi di giudizio.
    In conclusione si può ritenere quindi che la giurisprudenza e la dottrina attraverso la creazione di figure di dolo di intensità minore rispetto a quella del dolo generico o intenzionale hanno tentato di restituire al diritto penale una funzione general e special preventiva che esigenze garantistiche avevano messo a repentaglio, restituendo maggiore considerazione alla vittima o ai danneggiati dal reato, bisognosi di adeguata tutela.
    Il diritto penale infatti ruota attorno al bilanciamento di opposti interessi quali il principio di colpevolezza di matrice costituzionale e la tutela di beni di pari rango espressamente o solo implicitamente tutelati dalla Carta Costituzionale, in funzione dei quali interviene.
    Per questo motivo esigenze garantistiche non dovrebbero mai portare a sacrificare la tutela di interessi fondamentali in presenza di tutti i presupposti del fatto tipico compreso l’elemento soggettivo doloso, del quale la giurisprudenza ritiene consentita una interpretazione che non travalichi il principio di legalità di cui all’art. 25 co 2 cp e che sia nondimeno adeguatrice, ma non creatrice, rispetto ad es anche a fattispecie di reato correlate a nuove fonti di rischio legate all’evoluzione tecnologica, dove quanto mai ardua risulta la piena prova dell’elemento soggettivo.



    Molto bene la padronanza della materia. Molto bene l’impostazione del tema, molto bene la visione organica del tema e bene i passaggi logici.
    Era una traccia incentrata più che altro sulla struttura delle categorie del dolo, pertanto giustissimi i distinguo con il dolo specifico e con la colpa con previsione, mancano invece riferimenti (e ci sarebbero stati bene perché comunque anch’essi inerenti alla struttura) al dolo alternativo.
    Di contro c’è una latente tendenza ad ampliare troppo il discorso su argomenti contigui ma non del tutto aderenti alla traccia (alcuni li ho evidenziati in giallo). Il tema vale un 12 abbondante, 12 ½, ma personalmente consiglio di cercare di mantenersi sempre il più aderenti possibili alla traccia.


    in rosso i commenti dle correttore. in arancio la parte che si sarebeb potuta sintetizzare.
     
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  5. Per aspera ad astra
     
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    Ma le correzioni di amministrativo son ancora in corso?
     
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  6. diritto civile
     
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    Si, conto di terminare per fine mese.
     
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  7. Per aspera ad astra
     
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    Grazie ;)))
     
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  8.  
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    1) Principio di proporzionalità e recessione dell'interesse primario.

    In termini generali, il canone della proporzionalità impone alla p.a. agente di adottare statuizioni amministrative non eccedenti rispetto al fine pubblico perseguito.

    Preliminare all’esame del citato principio, di derivazione comunitaria, è la ricognizione degli altri principi informanti l’azione dei soggetti pubblici, nonché una riflessione in ordine alle modalità di manifestazione l’esercizio del potere autoritativo della p.a., anche alle luce dell’influenza derivante dall’ordinamento giuridico sovranazionale.

    Come noto, l’attività della pubblica amministrazione è ontologicamente preordinata alla cura del pubblico interesse.

    Detto interesse pubblico, nello specifico, rappresenta l’interesse primario presidiato ex lege dalla p.a., la quale -nell’esercizio del potere di cui è munita- potrà limitarsi a dare compiuta attuazione a quanto fissato a monte in maniera puntuale dal legislatore ovvero, ancora, ponderare comparativamente l’interesse primario in parola, con gli interessi secondari facenti capo ai privati, così da operare la scelta più utile per il primo.

    Le due distinte modalità di azione amministrativa, appena descritte, costituiscono, rispettivamente, il potere vincolato e il potere discrezionale esercitabile da un soggetto pubblico ed hanno, quale comune denominatore, la loro sottoposizione al principio di legalità.

    La legge, infatti, è la fonte dalla quale origina la potestas della pubblica amministrazione, atteso che il nostro ordinamento giuridico è incardinato sulla distinta tripartizione del potere pubblico in legislativo, amministrativo e giurisdizionale, secondo i dettami teorici del Montesquieu, così da garantire autonomia e indipendenza alle distinte sfere di imperio, nonché un complessivo equilibrio dello Stato.

    Il principio di legalità è rinvenuto, secondo parte della dottrina, nell’art. 97, comma 2, Cost., a mente del quale i pubblici uffici sono organizzati secondo le disposizioni di legge, mentre altri autori ritengono, invece, che esso sia desumibile dall’art. 113, comma 1, Cost., il quale, nel prevedere la tutela giurisdizionale avverso gli atti della p.a., postula che quest’ultima, al pari dei giudici, sia soggetta alla legge.

    Il principio di legalità, poi, trova un ulteriore addentellato normativo nell’art. 1, comma 1, l. n. 241/1990, lì dove sancisce che l’attività amministrativa “persegue i fini determinati dalla legge”.

    Torna utile rilevare, in via incidentale, come il precetto normativo appena citato richiami anche “i principi comunitari” cui deve parimenti conformarsi l’azione amministrativa, così da operare un formale, sebbene implicito, rinvio al principio di proporzionalità, in ragione della sua, già segnalata, origine comunitaria.

    Il canone della necessaria legalità dell’attività amministrativa attiene non solo alla dimensione statica della stessa -in quanto predetermina, per mezzo della normativa primaria, la porzione di potere, rectius competenza, del soggetto pubblico- ma riguarda anche lo svolgimento dell’azione amministrativa.

    I principi di buona andamento e imparzialità, cristallizzati nel primo capoverso dell’art. 97 Cost. e nell’art. 1, comma 1, l. n. 241/1990, involgono invece più strettamente il profilo dinamico dell’azione amministrativa.

    In particolare, la regola dell’imparzialità dell’agere amministrativo prescrive al soggetto pubblico di perseguire l’interesse primario in posizione di equidistanza rispetto agli interessi secondari investiti dall’esercizio del potere autoritativo, di modo che la cura concreta della res publica non si risolva in una disparità di trattamento a contenuto discriminatorio.

    In tal senso, la più avvertita dottrina rileva come l’imparzialità dell’azione amministrativa sia il riflesso dell’imparzialità dell’organizzazione della pubblica amministrazione, incentrata, come già rilevato, sul principio di legalità, e, secondo quanto fissato dall’art. 97, comma 4, Cost., sulla selezione dei pubblici dipendenti mediante concorso.

    Il buon andamento dell’azione amministrativa esige, invece, che la cura in concreto del pubblico interesse si svolga secondo i canoni dell’economicità, così da operare un contenimento dei costi sostenuti dalla p.a., dell’efficienza, da intendersi quale rapporto tra i risultati conseguiti e investimenti effettuati e, infine, dell’efficacia, cioè il raffronto tra gli obiettivi prestabiliti dell’azione amministrativa e quelli ottenuti.

    Nell’alveo del buona amministrazione -in un’accezione precipuamente contabile più che giuridica- si colloca, poi, la regola -di recente introdotta con la legge costituzionale n. 1/2012- contenuta nell’art. 97, comma 1, Cost., secondo cui le pubbliche amministrazioni, nello svolgimento dell’attività di loro competenza, devono garantire l’equilibrio di bilancio e il contenimento del debito pubblico.

    La ricognizione dei tradizionali principi interni dell’azione amministrativa non può prescindere da un altro canone, il cui contenuto lo rende contiguo e assimilabile al principio di proporzionalità.

    Il riferimento, nello specifico, è al canone della ragionevolezza dell’attività amministrativa.

    Alcuni autori definiscono il canone in questione in termini di super principio, nel cui alveo confluiscono oltre al principio di legalità, anche le regole in tema di buon andamento e imparzialità.

    In sostanza, l’azione amministrativa deve rispondere, nel suo complesso, ad un parametro di logicità, coerenza e razionalità, cosicché essa sarà, comunque, affetta da illegittimità qualora il risultato cui approda -coincidente con la prescrizione contenuta nel provvedimento amministrativo- sia ingiustificatamente pregiudizievole per il destinatario del provvedimento medesimo.

    L’assunto da ultimo indicato rappresenta il punto di contatto tra il principio, di matrice nazionale, della ragionevolezza dell’azione amministrativa, e il principio comunitario della proporzionalità dell’attività del soggetto pubblico.

    Sul punto, giova evidenziare prima facie come la cogenza dei principi di derivazione sovranazionale in seno al nostro ordinamento giuridico trovi un fondamento normativo di matrice costituzionale nell’art. 117, comma 1, Cost., a mente del quale la potestà legislativa dello Stato è esercitata, oltre che in conformità alla Carta fondamentale, anche nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

    Si aggiunga a ciò che, come sopra precisato, l’art. 1, comma 1, l. n. 241/1990 richiama i principi sovranazionali quali canoni che, in uno ai principi di diritto interno, devono informare lo svolgimento dell’azione amministrativa.

    Ciò chiarito, la recente evoluzione del nostro tessuto normativo e della giurisprudenza costituisce prova della rilevante influenza che i principi di matrice comunitaria hanno operato nell’ordinamento interno.

    Si pensi, a mero titolo esemplificativo, al superamento del c.d. dogma in tema di irrisarcibilità dell’interesse legittimo pretensivo, traente origine, tra l’altro, dalla necessità di impedire che le situazioni soggettive di derivazione comunitaria potessero subire una deminutio di tutela a causa della secolare limitazione risarcitoria vigente per l’interesse legittimo in parola.

    Riconducibile, ancora, alla cogenza del diritto comunitario è la previsione della tutela cautelare ante causam, nonché la recente estensione in favore della giurisdizione esclusiva del g.a. della cognizione in ordine alla sorte del contratto perfezionato all’esito di una procedura selettiva illegittima.

    In tema di principi di derivazione comunitaria può, invece, richiamarsi il canone dell’affidamento, in base al quale l’operato dell’azione amministrativa non può travolgere le situazioni soggettive consolidatesi in capo al privato che, in buona fede, abbia maturato, appunto, un legittimo affidamento in ordine ad una specifica statuizione amministrativa a contenuto ampliativo.

    La descritta fattispecie, ad ogni evidenza, evoca il tema dei limiti cui deve sottostare l’esercizio del potere di atutotutela della p.a., oggi cristallizzato nell’art. 21-nonies l. n. 241/1990.

    Emerge anche in tale evenienza -al pari che nell’ipotesi del principio di proporzionalità, come appreso si rileverà- una recessione dell’interesse primario, a contenuto pubblicistico, rispetto all’interesse secondario già presente nella sfera giuridica del cittadino, in forza, però, di un provvedimento amministrativo illegittimo.

    In buona sostanza, a fronte di una fattispecie giuridica consolidatasi nel patrimonio nel privato -mercé il trascorre di un apprezzabile lasso temporale e la buona fede del destinatario, sub specie di ignoranza dell’operato illegittimo della p.a.- la cura dell’interesse primario pubblico -in termini di mero ripristino della legalità violata e certezza del diritto- recede a fronte dell’affidamento del privato.

    Il tema della recessione dell’interesse pubblico primario ricorre anche in presenza del principio di proporzionalità.

    Detto principio, nello specifico, esprime l’esigenza che l’attività amministrativa tesa ad incidere negativamente nella sfera giuridica del destinatario -sotto forma, quindi, di provvedimenti a contenuto restrittivo- risulti adeguata rispetto al perseguimento del fine pubblico cui è ontologicamente preordinata l’attività stessa.

    Per vero, in principio in esame, sebbene ascrivibile all’ordinamento comunitario, trova un’origine più remota all’interno dell’ordinamento giuridico tedesco. La dottrina germanica ha, infatti, plasticamente rappresentato il principio di proporzionalità con l’assunto secondo cui la polizia non può sparare ad un passero con un cannone.

    Il potere pubblico, pertanto, deve individuare un punto di equilibrio tra la primaria necessità di cura dell’interesse sovraindividuale e la compressione dei contrapposto interesse privato, investito dall’azione amministrativa.

    Non tutta l’azione amministrativa, peraltro, dev’essere calibrata sul canone della proporzionalità.

    In tal senso, è opportuno delimitare il campo applicativo del principio in esame.

    Sebbene, invero, tutte le manifestazioni dell’attività amministrativa siano connotate dalla irrinunciabile necessità di perseguimento della finalità pubblica, il canone della proporzionalità non trova applicazione qualora la p.a. agisca iure privatorum, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241/1990.

    Invero, nella delineata ipotesi, soggetto pubblico e cittadino si collocano in posizione paritetica, cosicché manca, in capo, alla p.a. un potere autoritativo idoneo a comprimere unilateralmente la sfera giuridica dell’amministrato, potere che, a sua volta, costituisce l’indispensabile presupposto per l’operatività del principio di proporzionalità.

    Peraltro, non è fuor d’opera rilevare come nei rapporti paritetici lo svolgimento dell’autonomia negoziale debba anch’essa estrinsecarsi in modo conforme e adeguato rispetto all’interesse perseguito, così da non inverare un contegno sproporzionato per la controparte.

    Il riferimento, nello specifico, è all’istituto, di conio giurisprudenziale, dell’abuso del diritto il quale -traendo origine dal principio di solidarietà ex art. 2 Cost., e dai corollari di buona fede e correttezza cristallizzati negli artt. 1175 e 1375 c.c.- postula che l’esercizio di un diritto, sebbene apparentemente riconducibile nella cornice del potere da cui origina, sconfina in un abuso laddove non rechi una effettiva utilità al titolare e, al contempo, crei un ingiustificato sacrificio nell’altro contraente.

    L’ordinamento giuridico reagisce a comportamenti di tal fatta negando la tutela all’autore del condotta abusiva ovvero riconoscendo il diritto al ristoro in favore della controparte pregiudicata.

    Si evince, da quanto appena evidenziato, che la proporzione dell’esercizio di un potere, sia esso pubblico o privato, rappresenta, seppur con distinte declinazioni, una regola presente in ogni branca del diritto.

    Ciò posto, se, dunque, il principio della proporzionalità dell’azione amministrativa -stricto sensu inteso- non trova applicazione in caso attività privatistica della p.a., occorre, quindi, spostare l’analisi alle ipotesi di fisiologico esercizio di un potere autoritativo.

    Quest’ultimo, secondo quanto evidenziato ad inizio trattazione, può trovare espressione per il tramite di un’attività a contenuto vincolato ovvero discrezionale.

    Segnatamente, il principio di proporzionalità non ha spazio applicativo laddove la p.a. compia un’attività già puntualmente predefinita dal legislatore.

    Nella cennata eventualità, invero, il soggetto pubblico opera alla stregua di mero esecutore delle prescrizioni normative disciplinanti l’esercizio del potere di cui è munito, senza che, pertanto, la sua azione sia connotata da margini valutativi.

    Ne deriva, quindi, che il provvedimento a contenuto vincolato -che sia adottato in difformità da puntuali disposizioni primarie- sarà inficiato dal vizio della violazione di legge ma non potrà costituire espressione di un’attività amministrativa sproporzionata, in quanto il canone della proporzionalità, rettamente inteso, è criterio che attiene all’esercizio di potere discrezionale.

    Invero, è l’attività discrezionale -nelle due distinte configurazioni di discrezionalità amministrativa pura e discrezionalità tecnica- a presuppore, ricorrendo alla definizione di autorevole dottrina, una ponderazione comparativa tra l’interesse pubblico sottoposto alla cura della p.a. e l’interesse privato e, quindi, una connessa proporzione di siffatta comparazione.

    A fronte di un potere discrezionale, infatti, il legislatore non fissa in via preventiva e puntuale le modalità di attuazione del potere pubblico, ma assegna alla p.a. la potestà di determinare la regola da applicare al caso concreto.

    Consegue a ciò che lo spazio presente tra l’astratta prescrizione disciplinante il potere pubblico e la concreta fattispecie da regolare è colmato dall’azione amministrativa, mercé l’utilizzo di canoni metagiuridici -quali l’opportunità e la convenienza- che costituiscono il merito amministrativo e sono espressione della discrezionalità c.d. pura, ovvero, ancora, per il tramite di regole tecniche appartenenti a scienze c.d. non esatte, così da configurare l’esercizio della discrezionalità tecnica.

    V’è, peraltro, che la sussistenza di un’attività discrezionale della p.a. non è di per sé, ancora, presupposto sufficiente per l’operatività del principio di proporzionalità dell’azione ammnistrativa.

    Più in chiaro.

    In disparte le ipotesi patologiche di silenzio inadempimento e la disciplina del c.d. silenzio significativo, peraltro inerente attività a basso tasso di discrezionalità, l’approdo dell’attività amministrativa discrezionale è costituito dall’adozione di un provvedimento espresso, ai sensi dell’art. 2, l. n. 241/1990, il cui contenuto può essere restrittivo della sfera giuridica del destinatario ovvero ampliativo.

    In quest’ultimo caso, sebbene si sia comunque in presenza di un’azione incentrata su apprezzamenti discrezionali della p.a., non si pone un problema di proporzionalità della scelta operata dal soggetto pubblico, e ciò per l’evidente ragione che la finale statuizione della p.a. assegna un’utilità al cittadino.

    Nella descritta evenienza -e si richiama sul punto quanto rilevato in precedenza- può trovare applicazione il principio dell’affidamento ingenerato nel privato dal contegno della p.a., qualora la stessa p.a., nel ritenere che la propria precedente azione sia in realtà illegittima, si risolva ad emettere un provvedimento in autotutela.

    Si è rilevato, in merito, come il principio dell’affidamento costituisca elemento idoneo a determinare una recessione dell’interesse pubblico primario rispetto all’interesse secondario ormai consolidatosi nel patrimonio dell’amministrato.

    Tanto precisato, la concludenza giuridica delle argomentazioni finora esposte è, quindi, nel senso che l’ambito elettivo di applicazione del principio di proporzionalità è costituito dai provvedimenti amministrativi discrezionali a contenuto restrittivo.

    Si pensi, a titolo esemplificativo, la potere sanzionatorio di carattere reale o personale facente capo ad alcuni soggetti pubblici, quali le autorità indipendenti, ovvero al potere disciplinare degli gli organi gerarchicamente sovraordinati delle amministrazioni militari.

    Più in generale, possono essere richiamate tutte quelle statuizioni amministrative potenzialmente idonee a determinare una limitazione della sfera giuridica dei destinatari, così come accade in presenza di bandi di gare pubbliche contenenti c.d. clausole escludenti, sproporzionate poiché eccedenti rispetto al fine pubblico perseguito dalla stazione appaltante e pregiudizievoli della libera concorrenza.

    Può, quindi, affermarsi che il principio di proporzionalità rappresenta un parametro cui deve attenersi la p.a., affinché, nell’esercizio del potere autoritativo, compia, tra le scelte astrattamente possibili, quella che, nel preservare l’interesse pubblico affidato alla sua cura, risulti meno gravosa e penalizzante per il cittadino.

    Laddove, di contro, lo strumento utilizzato ecceda nella protezione del fine pubblico perseguito e si concretizzi in una ingiustificata compressione della sfera giudica del privato, l’azione amministrativa sarà sproporzionata.

    Nei termini appena evidenziati, il canone della proporzionalità postula un’equilibrata ponderazione tra l’interesse pubblico e il contrapposto interesse privato, tale da implicare una recessione del primo in favore del secondo, lì dove l’esercizio del potere autoritativo possa sconfinare nell’eccedenza rispetto allo scopo perseguito.

    Qualora quest’ultima evenienza si verifichi, l’attività del soggetto pubblico sarà inficiata da un vizio della funzione, riconducibile nell’alveo dell’eccesso di potere.

    La considerazione appena evidenziata consente di poggiare la riflessione finale della presente trattazione sugli strumenti di tutela previsti in favore del privato, a fronte di una provvedimento ammnistrativo lesivo del principio di proporzionalità.

    In disparte, ovviamente, il potere della p.a. di ricorrere allo strumento dell’autotutela, la principale forma di protezione è costituita dall’azione di annullamento innanzi al g.a., oggi disciplinato dall’art. 29 c.p.a.

    Pacifica, sul punto, è la cognizione del g.a., in funzione di giurisdizione di legittimità ovvero esclusiva, poiché lo scrutinio della proporzionalità dell’azione amministrativa afferisce sempre, come finora rilevato, all’esercizio di un potere autoritativo della p.a., rispetto al quale, in forza del criterio della causa petendi, sono presenti interessi legittimi.

    Quanto, poi, alla natura del vizio che inficia il provvedimento amministrativo lesivo del principio in parola, esso è espressivo di un’alterazione della funzione amministrativa, pertanto è catalogabile, come cennato in precedenza, quale eccesso di potere.

    Tale qualificazione implica ricadute sul piano dell’intensità del vaglio che il g.a. può operare sulla statuizione illegittima, perché sproporzionata.

    Invero, il principio della divisione dei poteri postula la non sindacabilità da parte del g.a. della sfera più intima dell’azione amministrativa, al di fuori, si intende, delle ipotesi tassative in cui il legislatore assegna siffatto potere al giudicante, coincidenti con la c.d. giurisdizione di merito.

    Ne consegue che, essendo il canone della proporzionalità una regola strettamente connessa all’attuazione della potestà discrezionale della p.a., il g.a. potrà scrutinare tale profilo solo ab externo ed, eventualmente, concludere per la declaratoria di illegittimità del gravato provvedimento ove la sproporzione sia rilevabile ictu oculi ovvero in maniera manifesta.

    Diversamente opinando, infatti, il g.a. compierebbe valutazioni di natura schiettamente amministrativa, sostituendosi, quindi, all’intimata p.a. e incorrendo in un eccesso di giurisdizione, censurabile innanzi alla Corte di Cassazione, quale giudice del riparto.

    L’ipotetica caducazione del provvedimento amministrativo viziato o, comunque, la sua accertata illegittimità, consente l’esperimento dell’azione risarcitoria, congiuntamente a quella di annullamento ovvero in via autonoma, giusta il combinato disposto degli artt. 29, 30 c.p.a.

    In conclusione può, quindi, affermarsi che il principio di proporzionalità dell’azione amministrativa, nonché l’assibilabile principio di ragionevolezza, rappresenta un canone cui la p.a. procedente deve sempre conformarsi nei casi in cui incida negativamente nella sfera giuridica del cittadino, così da contemperare in modo equilibrato i contrapposti interessi.



    Valutazione complessiva: 14

    Singole voci:

    a) aderenza alla traccia: buono

    b) completezza contenutistica/ livello di approfondimento: buono

    c) forma: eccellente

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    3) L'atto amministrativo anticomunitario.

    L’argomento in esame impone la previa qualificazione giuridica dell’atto amministrativo, nonché l’individuazione della posizione gerarchica e della cogenza in seno al nostro ordinamento giuridico dei precetti di derivazione comunitaria.

    Verrà, quindi, scrutinata la natura del vizio che affligge la statuizione amministrativa difforme da un parametro normativo sovranazionale, rilevando, al contempo, le eventuali divergenze rispetto alla distinta ipotesi in cui detta difformità involga un precetto della C.e.d.u.

    Ciò posto, occorre in prima battuta rilevare come, stante l’assenza di un’espressa definizione di legge, possa considerarsi, in via generale, atto amministrativo la determinazione imputabile ad un soggetto giuridico in costanza dell’esercizio di un’attività amministrativa.

    La recente evoluzione del tessuto normativo verso una pubblica amministrazione che, sul piano soggettivo, risulta proteiforme, esclude, invero, che l’atto amministrativo sia solo la statuizione imputabile ad un soggetto pubblico, in quanto ben può essere definito amministrativo l’atto che, sebbene adottato da un soggetto formalmente privato, tuttavia sia espressione di una condotta di rilievo pubblicistico dal medesimo posta in essere.

    Si pensi, ad esempio, agli organismi di diritto pubblico, di cui all’art. 3, comma 26, d. lgs. n. 163/2006, i quali, nonostante possano assumere la veste societarie, sonno definiti, dal comma 25 del citato articolo, “amministrazioni aggiudicatrici”, obbligate, in quanto tali, a seguire la procedura di evidenza pubblica per l’aggiudicazione di appalti di lavoro, servizi e forniture.

    Per quel che interessa la presente trattazione, poi, nell’ampio genus dell’atto amministrativo, è dato distinguere tra atti c.d. endoprocedimentali e atti aventi efficacia esterna, ovvero provvedimenti amministrativi stricto sensu intesi.

    In particolare, i primi, cioè gli atti endoprocedimentali, sono determinazioni amministrative strumentali all’attività procedimentale della p.a., che si collocano, pertanto, nelle fasi iniziale e istruttoria dell’attività amministrativa.

    Sono, a titolo esemplificativo, atti endoprocedimentali la comunicazione di avvio del procedimento, di cui all’art. 7, l. n. 241/1990, ovvero, ancora, i pareri, cioè le statuizioni tese a lumeggiare l’azione del soggetto pubblico, sempre che detti pareri non siano a contenuto negativo e vincolanti, poiché, nella descritta ipotesi, l’irreversibilità dell’arresto procedimentale è di per sé lesivo della sfera giuridica dell’interessato, che, ad ogni evidenza, è onerato ad impugnare tempestivamente l’atto pregiudizievole.

    I provvedimenti amministrativi, di contro, sono le determinazioni espresse che la p.a., giusta l’art. 2, l. n. 241/1990, è tenuta ad emanare all’esito dell’attività procedimentale, ove la legge non assegni valenza provvedimentale, c.d. silenzio significativo, al contegno inerte che la medesima p.a. procedente abbia assunto allo spirare del termine fissato per l’esercizio del potere amministrativo.

    Il provvedimento amministrativo rappresenta, nello specifico, la determinazione con cui la pubblica amministrazione incide, in via unilaterale, nella sfera giuridica del destinatario, costituendo, modificando o estinguendo una situazione giuridica soggettiva.

    Attesa la descritta incidenza dei provvedimenti amministrativi sulla posizione giuridica dell’amministrato, essi sono suscettibili, diversamente dagli atti endoprocedimentali, di impugnazione ad opera dell’amministrato che ne assuma l’illegittimità, fermo restando, comunque, che l’eventuale illegittimità può anche derivare dalla violazione di prescrizioni normative disciplinanti canoni endoprocedimentali.

    Circoscritta, pertanto, la nozione di atto amministrativo che, in ipotesi, possa assumere la qualificazione di “anticomunitario”, la riflessione successiva deve poggiarsi sulla individuazione dei vizi idonei a inficiare la validità di un provvedimento amministrativo.

    E’ noto che il processo amministrativo nasce come processo a carattere impugnatorio, cioè come ambito giuridico in cui l’azione dell’amministrato, pregiudicato da una statuizione illegittima della p.a., è finalizzata alla caducazione, con efficacia ex tunc, dell’atto gravato innanzi al giudice.

    La perdurante rilevanza dell’actio caducatoria, nonostante lo spostamento del baricentro processuale dall’atto al rapporto, è tuttora confermata dall’art. 29 c.p.a., che -sotto la rubrica “azione di annullamento”- è il primo degli strumenti di tutela previsto dal codice del processo amministrativo in favore del cittadino.

    La richiamata statuizione prescrive, nello specifico, l’esperibilità dell’azione in parola, nel termine decadenziale di sessanta giorni, con cui si deduca il vizio di violazione di legge, eccesso di potere o incompetenza, in conformità alla tradizionale tripartizione dei vizi del provvedimento amministrativo.

    La cennata tripartizione è parimenti presente in un precetto di matrice sostanziale, cioè l’art. 21-octies, comma 1, l. n. 241/1990.

    Nel dettaglio, l’eccesso di potere è un vizio della funzione amministrativa, per mezzo del quale l’esercizio del potere discrezionale può essere vagliato dal g.a. ab externo, nel rispetto del principio di separazione dei poteri, e ciò onde consentire la caducazione di atti amministrativi che, sebbene formalmente conformi ai precetti di legge, risultino tuttavia difformi dal fine pubblico cui è preordinato l’esercizio del potere amministrativo.

    Posto, invece, che la competenza è, sulla scorta della definizione di autorevole dottrina, la misura del potere assegnato ad una singola pubblica amministrazione, l’incompetenza -nelle sue declinazioni di incompetenza territoriale, per materia e per gradi- costituisce, invece, l’adozione di un atto amministrativo in contrasto con la specifica cognizione spettante ex lege ad un soggetto pubblico.

    La violazione di legge, infine, è vizio a carattere generale e residuale, che si configura laddove l’azione amministrativa -sottoposta alla disciplina di rango primario, secondo il principio cardine della legalità- risulti lesiva delle prescrizioni normative.

    Si è posto, quindi, il problema se l’atto amministrativo anticomunitario, cioè contrastante con la disciplina sovranazionale, sia una forma di patologia provvedimentale ascrivibile a detta ultima categoria e, in quanto, tale sottoposta all’ordinaria disciplina annullatoria.

    Sul punto, si rende necessaria una preliminare ricognizione dell’evoluzione dei rapporti tra l’ordinamento comunitario e l’ordinamento interno.

    Segnatamente, in un primo periodo, risalente nel tempo, la Corte costituzionale affermava che le disposizioni di derivazione comunitarie fossero qualificabili alla stregua di norme ordinarie.

    In un secondo momento, quindi, il giudice delle leggi ha ritenuto che le disposizioni in esame fossero sovraordinate rispetto alla legge ma subordinate alla Costituzione, imputando a sé il vaglio circa l’eventuale illegittimità dei precetti interni con le disposizioni comunitarie.

    Nello specifico, l’originaria posizione della Corte rifletteva l’assunto che l’ordinamento comunitario e quello interno fossero separati, c.d. tesi dualista.

    La successiva evoluzione giurisprudenziale si è, invece, caratterizzata per l’adesione alla c.d. teoria monista, che predica un’integrazione tra l’ordinamento comunitario e quello dei singoli Stati membri dell’Unione Europea, il cui finale effetto è costituito dalla c.d. primazia del primo rispetto ai secondi.

    Ne è conseguito che, superato il controllo accentrato in capo alla Corte costituzionale circa la conformità dei precetti comunitari alla Carta fondamentale, il giudice delle leggi ha statuito la possibilità -stante la supremazia dell’ordinamento giuridico europeo rispetto a quello interno- che i singoli giudici investiti delle controversie, nonché la pubblica amministrazione, possano disapplicare il precetto interno in contrasto con le disposizioni di derivazione comunitaria.

    Sempre la Corte costituzionale ha, peraltro, mantenuto un potere ultimo di controllo sulla normativa comunitaria in forza della c.d. teoria dei controlimiti, secondo cui laddove la norma comunitaria sia lesiva dei diritti fondamentali degli individui ovvero, ancora, dei principi cardine dell’ordinamento interno, essa può essere dichiarata illegittima.

    L’ultimo stadio dell’evoluzione dei rapporti tra ordinamento interno e comunitario è dato dall’introduzione -nel tessuto della Carta fondamentale, per mezzo della legge costituzionale n. 3/2001- del precetto di cui all’art. 117, comma 1, a mente del quale il potere legislativo dello Stato si conforma alle prescrizioni della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’Unione Europea.

    Viene, quindi, ratificata l’opzione giurisprudenziale che, nel riconoscere la primazia delle prescrizioni comunitarie, legittima il potere disapplicativo del giudice e della p.a. a fronte di prescrizioni interne lesive di disposizioni comunitarie.

    Chiarita, quindi, l’attuale forza delle prescrizioni dell’Unione Europea, può esaminarsi la sorte del provvedimento amministrativo adottato in difformità da queste ultime.

    Sul punto, è necessario distinguere l’evenienza in cui la prescrizione interna anticomunitaria fondi il potere della p.a., dalla distinta in ipotesi in cui ne disciplini le modalità di estrinsecazione.

    Nel primo caso, invero, il contrasto tra la disposizione interna, sulla quale si radica la potestas pubblica dell’amministrazione, e i precetti comunitari implica l’esercizio del potere di disapplicazione della norma anticomunitaria da parte del giudice adìto, cosicché l’atto amministrativo adottato in forza di quest’ultima è nullo, ai sensi dell’art. 21-septies, l. n. 241/1990.

    La nullità, in particolare, deriva dal difetto assoluto di attribuzione in capo alla p.a., ovvero, carenza di potere in astratto.

    V’è, peraltro, che nei confronti della predetta ipotesi di nullità non sussiste una giurisdizione esclusiva del g.a. -per come, invece, contemplato dall’art. 133, lett. a), n. 5, per la violazione o l’elusione del giudicato- cosicché l’individuazione del giudice competente avviene sulla scorta della natura della situazione soggettiva dedotta in giudizio, secondo, quindi, il consolidato criterio della c.d. causa petendi.

    Attesa, quindi, l’incapacità del provvedimento nullo a determinare l’affievolimento della situazione giuridica da diritto soggettivo in interesse legittimo, si rende necessario verificare l’originaria consistenza della posizione soggettiva incisa dalla statuizione anticomunitaria nulla.

    In particolare, ove detta originaria posizione giuridica sia un diritto soggettivo, la cognizione della controversia spetterà al g.o., stante la segnalata incapacità del provvedimento amministrativo nullo ad affievolire la situazione soggettiva in parola, sempre che non si versi in materia assegnata alla giurisdizione esclusiva del g.a.

    Di converso, qualora la posizione originaria sia, comunque, un interesse legittimo, la controversia dovrà radicarsi innanzi al g.a., in funzione di giurisdizione di legittimità.

    In presenza, peraltro, di eventuali azioni esperite innanzi a giudici non muniti di giurisdizione, troverà applicazione l’istituto della translatio iudicii, giusta gli artt. 59, l. n. 69/2009 e 11 c.p.a., cosicché il ricorrente potrà preservare gli effetti processuali dell’actio già esperita, instando davanti al giudicante individuato dal giudice che ha declinato la propria giurisdizione.

    Ciò chiarito circa l’evenienza in cui la norma interna contrastante con la disciplina comunitaria fondi il potere della p.a., si è registrato, invece, un contrasto sulla sorte dell’atto amministrativo anticomunitario, laddove la norma interna lesiva del precetto sovranazionale disciplini le modalità di esercizio del potere amministrativo.

    In particolare, un’opzione ermeneutica minoritaria ha sostenuto la tesi per la quale, a fronte della verificazione della circostanza da ultimo indicata, è consentita al g.a. la disapplicazione della statuizione amministrativa gravata.

    La tesi in esame, nello specifico, prende le mosse dal principio della primazia dell’ordinamento europeo rispetto all’ordinamento interno, assumendo, pertanto, che non può essere consentito alla p.a. ciò che non è consentito al legislatore.

    Si precisa, quindi, che se, per un verso, è prevista -al fine di un controllo capillare e diffuso della cogenza della disciplina sovranazionale- la disapplicazione delle disposizioni interne difformi da quelle dell’Unione Europea, in pari misura detta disapplicazione dovrà operare nei confronti di una statuizione amministrativa anticomunitaria, pena, altrimenti, il consolidamento di una fattispecie concreta -quella cioè disciplinata dall’atto illegittimo- lesiva del regime giuridico sovranazionale.

    L’assunto in questione è stato disatteso dalla pressoché unanime dottrina e giurisprudenza, sulla scorta di un duplice ordine di argomenti.

    Specificamente, sotto un primo profilo si è evidenziato come un consolidato orientamento della Corte di giustizia europea statuisca che in singoli Stati membri sono liberi di disciplinare gli strumenti di tutela e il regime processuale in seno al loro ordinamento.

    Unico limite alla cennata libertà è che il regime giuridico ivi previsto non deve determinare una deminutio di tutela delle posizioni soggettive di derivazione comunitaria.

    Con peculiare riguardo, poi, al termine decadenziale di sessanta gironi entro cui gravare le statuizioni amministrative illegittime, il giudice europeo ha affermato che tale termine non è irragionevole, in quanto costituisce un punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela del cittadino, che lamenti l’illegittimità del provvedimento amministrativo, e la distinta esigenza di presidiare la certezza dei rapporti giuridici di matrice pubblicistica.

    Sulla scorta delle considerazioni appena esposte, la giurisprudenza amministrativa ha quindi rilevato come l’anticomunitarietà di un provvedimento della p.a. non legittima il superamento della perentorietà del termine di impugnazione dell’atto amministrativo e, quindi, non consente una disapplicazione provvedimentale ad opera del g.a.

    Sotto distinto profilo, si è, ancora, rilevato come il citato art. 21-octies, comma 1, l. n. 241/1990, nel contemplare la violazione di legge tra i vizi idonei ad inficiare la legittimità di un provvedimento amministrativo, non distingua tale violazione da quella dei precetti di matrice sovranazionale.

    Si è, quindi, sostenuto che la locuzione “legge” -di cui al menzionato articolo- vada intesa in senso ampio, comprensiva, pertanto, dell’insieme dei precetti che, in forza dell’integrazione tra ordinamento europeo e ordinamento interno, costituiscono il parametro normativo cui deve conformarsi l’azione della pubblica amministrazione.

    Ne deriva che il vizio del provvedimento amministrativo adottato in difformità dai parametri normativi sovranazionali è la violazione di legge.

    Conclusivamente, quindi, l’atto amministrativo anticomunitario può essere affetto da un’invalidità qualificabile alla stregua di nullità ovvero annullabilità, a seconda se la norma contrastante con il precetto sovranazionale fondi il potere della p.a. ovvero ne disciplini le modalità di esercizio.

    Nella seconda ipotesi, tuttavia, la natura anticomunitaria dell’atto amministrativo non comporterà -sulla scorta delle prevalente opzione ermeneutica- un discostamento dall’ordinario regime di tutela previsto per le statuizioni amministrative affette da violazione di legge, cosicché l’atto in parola dovrà essere gravato innanzi al g.a. nel termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione o, comunque, dalla conoscenza, giusta il combinato disposto degli artt. 21-octies, comma 1, l. n. 241/1990 e 29, 41, comma 2, c.p.a.

    Un’ultima considerazione, come anticipato ad inizio trattazione, riguarda la distinta ipotesi dell’atto amministrativo contrastante con le prescrizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

    Tali prescrizioni, in particolare, sono richiamate dall’art. 117, comma 1, Cost., che, oltre a vincolare il legislatore al rispetto della Costituzione e delle norme sovranazionali, impone anche il vincolo degli obblighi internazionali.

    La citata norma costituzionale, in uno al precetto del Trattato di Lisbona che prevede la conformazione dell’Unione europea ai principi C.e.d.u., ha indotto parte della dottrina e della giurisprudenza a sostenere la qualificazione delle norme C.e.d.u. quali norme di matrice sovranazionale.

    Corollario della ritenuta equipollenza tra le disposizioni appena menzionate è l’estensione alle norme C.e.d.u. delle regole vigenti per le norme comunitarie, ivi compreso il potere disapplicativo, in capo al giudice e alla p.a., della norma interna contrastante con la C.e.d.u.

    La tesi in parola è stata disattesa dalla dottrina e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.

    Si è, in particolare, evidenziato come le disposizioni C.e.d.u. abbiano mantenuto, pur dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001 e della sottoscrizione del Trattato di Lisbona, la natura di norme pattizie internazionali.

    Invero, il Trattato di Lisbona, nel prevedere il riconoscimento da parte dell’Unione Europea dei principi C.e.d.u., non ne ha per ciò solo determinato l’adesione -atteso che a tal fine è indispensabile un’espressa manifestazione di assenso di tutti gli Stati membri- ma si è limitato, più semplicemente, a concepire un precetto di natura programmatica.

    In ragione di ciò, come puntualmente precisato dalla Corte costituzionale, le norme C.e.d.u. non assurgono al rango di disposizioni sovranazionali ma sono da considerarsi norme interposte tra le legge ordinaria e la Costituzione.

    Ne deriva che l’eventuale contrasto tra norma interna e C.e.d.u. non legittima il giudice e la p.a. a disapplicare la prima, ma postula l’esercizio del vaglio di legittimità ad opera della Corte costituzionale.

    Stante, peraltro, la posizione di fonte gerarchica interposta della C.e.d.u., l’eventuale difformità di un atto amministrativo dai principi in essa contenuti determinerà, in misura analoga a quanto previsto per l’atto amministrativo anticomunitario, il vizio della violazione di legge.



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    Singole voci:

    a) aderenza alla traccia: sufficiente

    b) completezza contenutistica/ livello di approfondimento: buono

    c) forma: eccellente

    per la 2° nessuna sufficienza. se c'è qualcuno che non ha ricevuto la correzione, non manchi di farlo presente.

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    per civile la situazione si è sbloccata e stanno arrivando le correzioni.
    grazie e buona Pasqua a tutti :)
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    1) DIRITTI E DOVERI DELLE PARTI NELL’AMBITO DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO, CON PARTICOLARE RIGUARDO AL DIRITTO DEL DEBITORE AD ADEMPIERE LA PRESTAZIONE DOVUTA.
    Per rapporto giuridico si intende una relazione qualificata dall’ordinamento tra soggetti portatori di interessi giuridici tra loro contrastanti, rispettivamente titolari di una situazione giuridica soggettiva attiva o passiva a seconda che l’ordinamento attribuisca carattere prevalente o soccombente all’interesse di cui la parte è portatrice.
    Il rapporto obbligatorio è un particolare tipo di rapporto giuridico che sorge per effetto di contratto, di fatto illecito, di ogni atto o fatto idoneo a ciò in conformità dell’ordinamento giuridico (art. 1173 c.c.). Tra questi ultimi la dottrina e la giurisprudenza identificano le norme volte ad attribuire in capo a un soggetto un legittimo affidamento nel comportamento di altro soggetto in base a una loro interpretazione conforme al principio costituzionale di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. Così, ad esempio, l’art. 1175 c.c., che obbliga entrambe le parti di un rapporto obbligatorio ad eseguire lo stesso secondo le regole della correttezza, sarebbe fonte per le parti stesse di una serie di obbligazioni strumentali all’esecuzione del rapporto obbligatorio in un’ottica collaborativa, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio.
    All’interno del rapporto giuridico obbligatorio si individua innanzitutto una situazione giuridica soggettiva attiva qualificabile come diritto soggettivo relativo, così definito in base alle sue particolari caratteristiche: la sua efficacia non erga omnes, potendo essere fatto valere solo nei confronti di soggetti determinati o determinabili al momento dell’instaurazione del rapporto giuridico obbligatorio (eccettuata la possibilità di esperire la tutela risarcitoria extracontrattuale nei confronti di terzi che ingiustificatamente ledano la sua posizione giuridica); il fatto che la realizzazione dell’interesse di cui è portatore il suo titolare non può avvenire in via diretta ma richiede l’esecuzione di l’altrui collaborazione mediante l’esecuzione di una prestazione, la quale, ai sensi dell’art. 1174 c.c., deve essere suscettibile di valutazione economica ed essere propedeutica alla realizzazione dell’interesse, anche non patrimoniale, di cui è portatore il titolare del diritto.
    Al diritto soggettivo relativo corrisponde una posizione giuridica di obbligo di colui che è tenuto all’esecuzione della prestazione.
    Le suesposte caratteristiche permettono di discernere il diritto soggettivo relativo da altre situazioni giuridiche soggettive attive, e, in particolare: dal diritto soggettivo assoluto (cui corrisponde una situazione giuridica soggettiva passiva di dovere), che è presente nei rapporti giuridici non obbligatori e che si caratterizza per essere efficace erga omnes nonché per il fatto che la realizzazione dell’interesse perseguito dal titolare del diritto si realizza direttamente, senza la necessità dell’altrui collaborazione; dal diritto potestativo (cui corrisponde una posizione giuridica passiva di soggezione), che è presente nei rapporti giuridici obbligatori e che si caratterizza per il fatto che il suo titolare ha il potere discrezionale di incidere sulla sfera giuridica di un soggetto terzo determinato o determinabile al momento della costituzione del rapporto giuridico (quindi la sua efficacia non è erga omnes, salva la possibilità di esperire la tutela risarcitoria extracontrattuale nel caso di sua lesione ingiustificata) nonché per il fatto che non necessita dell’altrui collaborazione per la realizzazione dell’interesse ad esso sotteso; dall’aspettativa, presente anche nei rapporti giuridici obbligatori, che è la posizione giuridica attiva in cui versa un soggetto nelle more del perfezionamento a suo favore di una fattispecie acquisitiva di un diritto e che l’ordinamento tutela imponendo a soggetti che acquisirebbero la correlata situazione giuridica soggettiva passiva di comportarsi secondo buona fede (pena il perfezionamento di diritto della fattispecie acquisitiva del diritto ex artt. 1358 e 1359 c.c.)nonchè attribuendo in capo al titolare dell’aspettativa il potere di compiere atti conservativi e dispositivi del diritto condizionato (artt. 1356 – 1357 c.c.).
    In base al codice civile i titolari di un rapporto giuridico obbligatorio sono titolari di una molteplicità di situazioni giuridiche.
    Nello specifico il titolare del diritto soggettivo relativo (il cd. creditore) ha innanzitutto il diritto di ricevere la prestazione dedotta in obbligazione in conformità ai parametri oggettivi (qualità e quantità della prestazione, tempo e luogo dell’adempimento) e soggettivi (ricezione della prestazione a persona legittimata a richiederla) previsti dal titolo o dalla legge (cui corrisponde un obbligo del debitore a eseguire correttamente la prestazione dovuta).
    Il creditore è anche titolare, in base alla disciplina codicistica, di diritti potestativi (cui corrispondono analoghe posizioni giuridiche di soggezione in capo alla controparte) tra cui: quello di opporsi all’adempimento del terzo nel caso in cui il creditore abbia un interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione o se il debitore manifesti anch’egli la sua opposizione (art. 1180 c.c.); quello di rifiutare un adempimento parziale salvo che la legge o gli usi dispongano diversamente (art. 1181 c.c.); quello del creditore in buona fede di impugnare l’esecuzione della prestazione effettuata dal debitore con cose altrui (art. 1192 c.c.).
    A sua volta il debitore (colui che è tenuto a effettuare le prestazione principale) ha in primo luogo il diritto (cui corrisponde in capo al creditore analogo obbligo) a essere liberato dal vincolo obbligatorio nel caso in cui si verifichi una delle cause di estinzione dell’obbligazione nonché il diritto, una volta estinta l’obbligazione, di ottenere la quietanza di pagamento (cui corrisponde l’obbligo del creditore di apprestare in favore del debitore apposita dichiarazione utile a provare l’avvenuta estinzione del rapporto obbligatorio) ex art. 1194 c.c.
    A questi diritti soggettivi relativi si affiancano diritti potestativi in titolarità del debitore tra cui: quello di rifiutare la remissione del credito da parte del creditore (art. 1236 c.c.); quello del debitore che offre di eseguire la prestazione con cose di cui può disporre di impugnare il precedente pagamento effettuato con cose altrui (art. 1192 c.c.); quello relativo all’imputazione del pagamento effettuato a un determinato rapporto giuridico obbligatorio (art. 1193 c.c.).
    A queste situazioni giuridiche si aggiungono le aspettative che il codice civile attribuisce al debitore (a cui corrisponde l’obbligo giuridico del creditore di comportarsi secondo buona fede) tra le quali: quella concernente il diritto del debitore a imputare il pagamento al capitale piuttosto che agli interessi e alle spese (che si perfeziona ex art. 1194 c.c. solo con il consenso del creditore); quella correlata al diritto del debitore di liberarsi dal vincolo obbligatorio effettuando una prestazione diversa da quella dovuta (il cui perfezionamento richiede il consenso del creditore ex art. 1197 c.c.); quella inerente al diritto del debitore a che il terzo non adempia alla prestazione dovuta (il cui perfezionamento richiede anche il rifiuto del creditore ex art. 1180, 2 comma, c.c.).
    Particolarmente interessante è l’istituto della mora del creditore.
    Ai sensi dell’art. 1206 c.c. il creditore viene costituito in mora se, senza un motivo legittimo (come può essere l’esecuzione da parte del debitore di una prestazione parziale o comunque non conforme a quella dovuta), non compie quanto necessario affinché il debitore possa adempiere all’obbligazione o rifiuta il pagamento offertogli nelle forme di cui agli artt. 1208, 1209, 1216 e 1217 c.c.
    A fronte dunque del rifiuto del creditore di collaborare nell’adempimento della prestazione dovuta il debitore ha il diritto potestativo di mettere in mora il creditore mediante la proposizione di un’offerta effettuata nelle forme di legge e successivamente dichiarata valida con sentenza passata in giudicato o accettata dal creditore ex art. 1207, 2 comma, c.c.
    Il perfezionamento della mora credendi attribuisce tra l’altro al debitore due diritti: quello di chiedere al creditore il risarcimento dei danni subiti a seguito del comportamento moroso di quest’ultimo(art. 1207 c.c.); quello potestativo di liberarsi dal vincolo obbligatorio mediante esecuzione del deposito nelle forme previste dalla legge e sua successiva validazione dello stesso mediante sentenza passata in giudicato o sua successiva accettazione dello stesso da parte del creditore (art. 1210 c.c.).
    Alla luce della disciplina codicistica sin qui esposta ci si può chiedere se esista in capo al debitore un diritto ad adempiere.
    In merito risulta preliminarmente opportuno capire a quale interesse del debitore correlare la suesposta situazione giuridica soggettiva attiva: se a quello di liberarsi dal vincolo obbligatorio, interpretando il termine adempimento in senso lato come modo di estinzione del rapporto obbligatorio; se a quello di eseguire la prestazione dovuta personalmente, interpretando dunque il termine adempimento in senso proprio.
    Orbene la realizzazione del primo dei due interessi viene previsto e tutelato dall’ordinamento giuridico mediante la disciplina della mora credendi.
    Mediante gli artt. 1206 e ss. c.c. viene predisposto un meccanismo di tutela della posizione debitoria rispetto al comportamento del creditore ingiustificatamente ostativo a ricevere la prestazione dovuta. Nello specifico viene attribuito al debitore il diritto potestativo di eseguire le formalità previste dalla legge per mettere in mora il creditore, con conseguente diritto potestativo di attivare le ulteriori formalità per liberarsi dal vincolo obbligatorio se costui rifiuta di accettare la prestazione.
    La natura potestativa dei diritti previsti nella disciplina della mora credendirisulta avvalorata dalle seguenti considerazioni: essi possono essere fatti valere solo nei confronti del creditore; la realizzazione dell’interesse finale perseguito dal debitore, che consiste nella liberazione dal vincolo obbligatorio, si verifica indipendentemente dalla collaborazione del creditore.
    Peraltro il diritto potestativo di liberarsi dal vincolo obbligatorio a seguito della mora credendi riceve tutela anche nei confronti dei terzi che ledono ingiustificatamente la predetta situazione giuridica soggettiva attiva ex art. 2043 c.c. Ormai consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinale sostiene infatti che il concetto di danno ingiusto di cui all’art. 2043 c.c. faccia riferimento non già soltanto alla lesione antigiuridica di diritti soggettivi assoluti ma anche di interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Tra questi si può certamente annoverare anche quello del debitore alla liberazione dal vincolo obbligatorio, che il diritto tutela, come si è avuto modo di vedere, mediante l’attribuzione al debitore di una posizione di diritto potestativo.
    Resta ora da vedere se esiste una situazione giuridica soggettiva attiva che è volta alla realizzazione dell’interesse debitorio a eseguire la prestazione dovuta.
    A una prima disamina delle disposizioni codicistiche invero sembra che si dia rilievo all’interesse creditorio all’esecuzione della prestazione dovuta e non a quello debitorio. In tal senso depongono i seguenti articoli del c.c.: l’art. 1174 c.c., che stabilisce espressamente che la prestazione dedotta in obbligazione deve, tra l’altro, corrispondere a un interesse anche non patrimoniale del creditore, senza fare alcuna menzione dell’interesse debitorio correlato alla stessa; l’art. 1256 c.c., laddove prevede che l’impossibilità temporanea della prestazione dovuta può comportare l’estinzione del rapporto obbligatorio se nelle more dell’impossibilità in esame il creditore non ha più interesse a ricevere la prestazione; l’art. 1259 c.c., che stabilisce che, nel caso di impossibilità per fatto altrui ad eseguire una prestazione consistente nel dare una cosa determinata, il creditore può esigere dal debitore la prestazione di quanto questi abbia conseguito a titolo di risarcimento del danno, con ciò implicando che, estinta l’obbligazione principale per causa non imputabile alle parti, il debitore non sia titolare di un interesse meritevole di tutela che possa essere stato leso dal comportamento antigiuridico del terzo.
    Nonostante questo scenario vi sono tuttavia delle disposizioni codicistiche dalle quali emergerebbe la rilevanza giuridica dell’interesse debitorio a eseguire personalmente la prestazione: l’art. 1180, 2 comma, c.c., che legittima il creditore a rifiutare l’adempimento del terzo nel caso in cui il creditore non abbia un interesse a che il debitore esegua personalmente la prestazione e tuttavia quest’ultimo si opponga all’adempimento del terzo; l’art. 1236 c.c., che attribuisce al debitore il diritto a rifiutare la remissione del credito da parte del creditore.
    A dire il vero anche gli artt. 1174, 1256 e 1259 c.c., sopra citati a sostegno dell’esclusiva rilevanza giuridica dell’interesse creditorio all’esecuzione della prestazione dovuta, non sarebbero del tutto incompatibili con l’ammettere in capo al debitore una situazione giuridica soggettiva attiva volta alla realizzazione del suo interesse alla personale esecuzione della prestazione dovuta: gli artt. 1174 e 1259 c.c. non menzionano anche implicitamente la rilevanza dell’interesse debitorio all’esecuzione della prestazione dovuta ma neanche lo escludono, non escludendo l’art. 1259 c.c. che il debitore possa chiedere ulteriormente al terzo anche il risarcimento del danno subito per la lesione ingiustificata del suo interesse a eseguire personalmente la prestazione dovuta, diverso rispetto a quello derivante dalla perdita subita dal creditore per la mancata dazione della cosa determinata; l’art. 1256 c.c. dovrebbe essere letto in combinato disposto con l’art. 1175 c.c., con la conseguenza che il diritto del creditore a esigere l’estinzione del rapporto obbligatorio nelle more dell’impossibilità temporanea della prestazione dovuta deve essere esercitato secondo le regole della correttezza, ovvero in un’ottica collaborativa con il debitore nei limiti dell’apprezzabile sacrificio. Ciò dunque porterebbe il creditore a non esercitare il proprio diritto all’estinzione dell’obbligazione nei limiti dell’apprezzabile sacrificio nel caso in cui vi sia un interesse debitorio all’esecuzione della prestazione temporaneamente divenuta impossibile, a pena di esercizio abusivo del diritto e di conseguente sanzione per il creditore.
    Potrebbe invero essere confutata anche l’argomentazione relativa alla mora credendi
    Ciò posto si può dedurre quanto segue.
    L’interesse del debitore a eseguire la prestazione dovuta personalmente gode di rilevanza giuridica. Esso può dunque trovare tutela nel caso di sua lesione antigiuridica sia nei confronti dei terzi ex art. 2043 c.c. sia nei confronti del creditore.
    Ciò posto si tratta di capire se questa situazione giuridica soggettiva attiva sia identificabile in un diritto soggettivo relativo.
    In merito la soluzione positiva potrebbe desumersi in base ad argomentazioni tra loro alternative.
    In primo luogo si potrebbe invocare lo stesso art. 1207 c.c., che sancisce l’obbligo del creditore di risarcire i danni derivanti dalla sua mora e che, letta sistematicamente alle norme del codice che attribuiscono rilevanza giuridica all’interesse del debitore all’adempimento, includerebbe anche i danni subiti dalla lesione dello stesso, a cui quindi l’ordinamento attribuirebbe la situazione giuridica soggettiva di diritto.
    L’argomentazione proposta non sembra decisiva né condivisibile: se è vero che l’ordinamento predispone la tutela risarcitoria per la lesione di un diritto ciò non vuol dire che la tutela risarcitoria sia apprestata solo per la lesione ingiustificata di diritti. Del resto l’elaborazione in materia di responsabilità extracontrattuale ci insegna qualcosa in merito.( informale)
    Alternativamente, e questa è forse la soluzione più attendibile, si potrebbe ravvisare un diritto del debitore ad adempiere in virtù del combinato disposto degli artt. 1173 – 1175 c.c.: il creditore, obbligato a dare esecuzione del rapporto obbligatorio secondo le regole della correttezza, avrebbe l’obbligo giuridico di tenere in considerazione l’eventuale interesse del debitore alla realizzazione della prestazione, in virtù della rilevanza giuridica ad esso attribuita dalle disposizioni codicistiche, e a tenere un comportamento conforme, nel limite dell’apprezzabile sacrificio, su cui il debitore potrebbe legittimamente confidare, vantando dunque un diritto a eseguire la prestazione dovuta.
    Ci si potrebbe poi ulteriormente chiedere se il debitore possa chiedere la reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 c.c. Lasciando a disparte il dibattito inerente l’esperibilità di tale forma di risarcimento in caso di responsabilità per inadempimento ex art. 1218 c.c. dovuto anche alla collocazione della norma all’interno della parte del codice inerente alla responsabilità extracontrattuale, si dovrebbe dare al quesito risposta negativa. Ciò in quanto la ricezione della prestazione è un facere infungibile, che rende questo tipo di risarcimento impraticabile perché contrastante con l’inviolabilità della libertà personale ex art. 13Cost.

    GIUDIZIO 16
    Tema nettamente superiore alla sufficienza, ottimamente argomentato e con una corretta ricostruzione degli istituti giuridici. Il candidato dimostra una notevole conoscenza della materia ed una avanzata capacità critica nella esposizione della tematica oggetto di tema.



    2) Delineata la differenza tra obbligazioni strumentali e obbligazioni accessorie tratti il candidato della buona fede nell'ambito del rapporto obbligatorio.

    Il primo titolo del quarto libro del codice civile, dedicato alle obbligazioni in generale, si apre con tre disposizioni preliminari: l’art. 1173 il quale enuncia le fonti delle obbligazioni, l’art. 1174 che descrive il carattere patrimoniale della prestazione ed infine l’art.1175 che attiene al comportamento delle parti secondo le regole della correttezza.
    A ben vedere, nessuna delle dette disposizioni fornisce alcuna definizione del concetto di obbligazione, rimessa agli sforzi dottrinali i quali, facendo tesoro della tradizione romanistica in materia di “obligatio”, la indicano come quel vincolo o rapporto giuridico tra due (o più) parti in forza del quale una di esse, il debitore, è tenuta (ovvero ha il dovere giuridico di) eseguire una prestazione in favore dell’altra parte, il creditore.
    L’esecuzione della prestazione oggetto dell’obbligazione ne costituisce il suo adempimento.
    Vero è, tuttavia, che, ai fini dell’adempimento, talora, si richieda l’esecuzione di prestazioni ora strumentali ora accessorie rispetto alla prestazione, per così dire, principale, le quali formano oggetto, a loro volta, secondo ricostruzioni dottrinarie e giurisprudenziali, ormai consolidate, di obbligazioni strumentali e di obbligazioni accessorie.
    Si impone, pertanto, la necessità di darne una definizione terminologica che sarà ancor meglio comprensibile se calata nella realtà di talune tipologie concrete di rapporti obbligatori.
    Tradizionalmente, si ritiene che le obbligazioni c.d. strumentali sono quelle intese ad agevolare o consentire l’esecuzione della prestazione tipica, fondamentale, ovvero dedotta nell’obbligazione principale, senza la quale esse non avrebbe ragione d’essere.
    La mancanza del requisito dell’autonomia le rende così funzionali all’adempimento della prestazione principale che non potrebbero formare oggetto di un autonomo contratto, atto o fatto idoneo a produrre un vincolo obbligatorio.
    Le obbligazioni c.d. accessorie, invece, sono soltanto connesse a quella principale, ovvero vi accedono, a completamento e/o ampliamento della fase esecutiva dell’obbligo.
    La loro natura e la loro rilevanza meramente accessoria, pertanto, non escludono che le stesse, a differenza della categoria delle obbligazioni strumentali, possano formare oggetto di un autonomo rapporto, quale che ne sia la fonte di produzione.
    Applicazioni pratiche di tale distinzione concettuale si rinvengono, anzitutto, nel diritto dei trasporti.
    Com’ è noto, con il contratto di trasporto, la cui nozione è data dall’art. 1678 c.c., il vettore si obbliga, verso corrispettivo, a trasferire persone o cose da un luogo ad un altro; sicché l’obbligazione principale (recte: la prestazione principale) attinente alla causa contrattuale consiste nel trasferimento di persone o cose.
    E’ di tutta evidenza, però, che l’esecuzione della prestazione tipica sarebbe compromessa (o addirittura, a seconda dei casi, si renderebbe materialmente impossibile)qualora il vettore non provvedesse ad adempiere prestazioni funzionali di protezione del passeggero o di custodia della merce, nonché di carico e di scarico.
    L’obbligo di custodia discende direttamente dall’art. 1177 a mente del quale l’obbligazione di consegnare una cosa determinata include anche quella di custodirla sino alla consegna.
    L’obbligo di protezione è, invece, insito nell’obbligazione di trasferimento del passeggero la salvaguardia della cui integrità si pone come strumento necessario del trasferimento da luogo di partenza a quello di arrivo.
    L’inadempimento di tali obbligazioni comporta responsabilità del vettore per i danni cagionati dai sinistri occorsi al passeggero o per perdita ed avaria delle cose trasportate.
    Del pari, strumentali all’esecuzione del trasporto sono le attività di presa a bordo e di scarico dei passeggeri nonché di carico e scarico delle merci senza le quali non sarebbe neppure materialmente possibile l’esecuzione della prestazione principale.
    Esempi di obbligazioni accessorie, sempre in tema di trasporti, sono quelle relative alla somministrazione di vitto e alloggio al passeggero, nonché di custodia dei bagagli le quali, tuttavia, possono formare oggetto di previsioni negoziali autonome e distinte rispetto a quelle che regolano il trasporto e, quindi, costituire, anziché vincoli accessori alla prestazione tipica, autonome obbligazioni principali legate ad altre figure negoziali
    Gli esempi di tale distinzione potrebbero arricchirsi con riferimento ad altre tipologie produttive di rapporti obbligatori (dal mandato all’appalto, dalla mediazione alle obbligazioni da c.d. “contatto sociale”) ma ciò che rileva, in sintesi, è la concezione, ormai pacifica, secondo cui l’adempimento di obbligazioni accessorie e strumentali avrebbe il suo referente normativo non solo (in via mediata) nelle disposizioni che regolano le singole figure contrattuali o che disciplinano le altre fonti delle obbligazioni ma soprattutto (in via immediata)nell’art. 1175 c.c., in forza del quale il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza.
    Non vi è dubbio che, avuto riguardo alla fonte più frequente di genesi del rapporto obbligatorio, ovverosia il contratto, tale norma debba essere raccordata all’art. 1375 c.c. il quale obbliga le parti ad eseguire il contratto secondo buona fede.
    Tale raccordo permette di identificare (ancorché tale identificazione sia perennemente disputata in dottrina e giurisprudenza) il canone della correttezza che deve animare il comportamento del debitore e del creditore con il principio di buona fede c.d. oggettiva che deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione, ed accompagnarlo in ogni sua fase.
    Allo scopo, tuttavia, di riempire di contenuto le due nozioni esposte, siano espressione di autonomi criteri siano identificabili l’una nell’altra, va da sé che esse esprimono la necessità di una reciproca lealtà di condotta che deve guidare ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio le quali sono chiamate ad agire nell’ottica di un doveroso bilanciamento dei reciproci interessi.
    La buona fede, in sostanza, serve allo scopo di indirizzare il rapporto giuridico all’interno di una cornice di equilibrio e proporzione.
    Ormai non vi è chi non individui l’obbligo in esame come oggetto di un autonomo dovere giuridico che prescinda dall’esistenza di specifiche pattuizioni contrattuali al riguardo o di specifiche disposizioni normative le quali possono, tutt’al più, integrare il criterio in esame e adattarlo alle singole fattispecie concrete, ma non possono costituire né la fonte di detto obbligo il quale già trova una sua autonomia nelle previsioni codicistiche già enunciate, né la causa di una sua espunzione dall’ordinamento giuridico.
    Sotto quest’ultimo profilo, infatti, è stato accortamente indicato dalla giurisprudenza della Cassazione il carattere costituzionale della buona fede o correttezza fondato nella previsione contenuta nell’art. 2 della Costituzione circa l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale.
    La costituzionalizzazione di tale criterio di condotta si pone quindi come limite allo stesso arbitrio legislativo, non potendo infatti il legislatore ordinario eliminare o ridurre la portata dell’obbligo di buona fede, stante la copertura costituzionale dello stesso.
    D’altro canto, tale criterio, oltre ad avere mantenuto il suo profilo sostanziale – fisiologico di indice - guida della condotta delle parti nella fase esecutiva del rapporto, ha assunto, nei più recenti approdi giurisprudenziali, un aspetto anche marcatamente processuale quale strumento di controllo giurisdizionale, anche in senso modificativo ed integrativo, dello statuto negoziale o disciplinatorio del rapporto, laddove emergano elementi patologici della sua esecuzione portati all’attenzione del Giudice.
    Il che significa che all’Autorità Giudiziaria è dato di verificare se via sia stata un’autonoma violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva tale da concretare il c.d. abuso del diritto.
    Detto altrimenti, se il titolare di un diritto dispone di una pluralità di modalità attraverso cui potere esercitare tale diritto, qualora prescelga una modalità di esercizio che realizzi una sproporzione ingiustificata fra il beneficio che questi ritrae e il sacrificio sofferto dalla controparte, si concretano gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto, ossia di un uso dello stesso sleale perché contrario a correttezza e buona fede in quanto rivolto al il conseguimento di obiettivi diversi ed ulteriori non indicati dal legislatore.
    A titolo esemplificativo, si ponga mente a talune ipotesi prese in considerazione dalla giurisprudenza nell’ ambito delle deliberazioni assunte dalla maggioranza di un assemblea societaria per realizzare interessi extrasociali in danno della minoranza, in materia di recesso della banca da un rapporto di apertura di credito a tempo determinato, esercitato, ancorché in presenza di una giusta causa, in modo così imprevisto da ledere l’affidamento ragionevole del cliente sulla disponibilità della provvista per un dato tempo, oppure nell’iniziativa del creditore di iscrivere ipoteca su taluni beni del debitore e poi procedere ad esecuzione su altri beni.
    E così via, gli esempi potrebbe moltiplicarsi anche alla luce dei risvolti garantisci provenienti dall’applicazione giurisprudenziale del principio di buona fede.
    Giova infine ricordare che costituendo il principio in esame oggetto di un obbligo autonomo, la sua violazione costituisce di per sé inadempimento e come tale è sottoponibile ai rimedi apprestati dall’ordinamento non solo sul piano meramente risarcitorio del danno che né è derivato ma anche sotto altri profili di tutela la cui ammissibilità, oggi, appare scontata: come la declaratoria di nullità o di inefficacia del contratto o dell’atto abusivo posto in essere, lo strumento risolutorio,la perdita del diritto del quale si è abusato e, sul piano processuale, il rigetto della pretesa fatta valere in giudizio e la condanna alle spese.

    Giudizio 16+
    Ottimo elaborato, preciso, chiaro e perfettamente inerente alla traccia. Il candidato dimostra non solo di avere compreso ottimamente il problema conoscitivo, ma di sapere coordinare correttamene gli istituti giuridici ad esso pertinente. Perfetta e chiara la delineazione delle obbligazioni strumentali e accessorie.
    Ottimo tema.


    2) DELINEATA LA DIFFERENZA TRA OBBLIGAZIONI STRUMENTALI E ACCESSORIE TRATTI IL CANDIDATO DELLA BUONA FEDE NELL’AMBITO DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO.
    L’interesse giuridicamente rilevante è definibile come l’aspirazione a un bene della vita che l’ordinamento prende in considerazione. Nel caso di interessi confliggenti l’ordinamento giuridico interviene dando prevalenza a uno dei due (il cui portatore sarà titolare di una situazione giuridica soggettiva attiva) rispetto all’altro (il cui portatore sarà titolare di una situazione giuridica soggettiva passiva). La relazione giuridica intercorrente tra i portatori di interessi tra loro confliggenti viene definita rapporto giuridico.(ti conviene da subito delineare l’ambito entro cui dai queste definizioni altrimenti la commissione per capire deve leggere tutto il tema e poi tornare indietro..e ti assicuro che non lo fanno)
    Il rapporto giuridico obbligatorio è un particolare tipo di rapporto giuridico che sorge per effetto di contratto, di fatto illecito, di qualsiasi altro fatto o atto idoneo a esserne qualificato come fonte dall’ordinamento giuridico (art. 1173 c.c.). All’interno del rapporto obbligatorio si configurano principalmente due situazioni giuridiche soggettive tra loro correlate: una di diritto e una di obbligo.
    Oggetto di entrambe è, ai sensi dell’art. 1174 c.c., una prestazione suscettibile di valutazione economica e rispondente a un interesse, anche non patrimoniale, del titolare del diritto.
    Dal punto di vista classificatorio, il diritto in esame viene qualificato come diritto soggettivo relativo poiché si caratterizza per i seguenti elementi: l’interesse ad esso sotteso non può essere realizzato immediatamente e direttamente dal suo titolare ma necessita della collaborazione del titolare dell’obbligo; la situazione giuridica in esame inoltre non può essere fatta valere nei confronti di tutti ma solo nei confronti del titolare dell’obbligo, salva fatta la tutela extracontrattuale azionabile nei confronti dei terzi al rapporto obbligatorio che abbiano ingiustificatamente leso il diritto stesso.
    I seguenti elementi consentono di distinguere la situazione giuridica soggettiva attiva in esame dalle altre e in specie: dal diritto soggettivo assoluto (a cui corrisponde una situazione giuridica soggettiva passiva di dovere), che si caratterizza per la sua efficacia erga omnes e per il fatto che l’interesse sotteso al diritto può essere realizzato direttamente dal titolare del diritto; dal diritto potestativo (a cui corrisponde una situazione giuridica soggettiva passiva di soggezione), che attribuisce al suo titolare il potere discrezionale di incidere sulla sfera giuridica di un determinato soggetto e che si caratterizza per il fatto che la realizzazione dell’interesse ad esso sotteso non richiede la collaborazione di altrui soggetto e per il fatto che la sua efficacia si indirizza solo nei confronti del soggetto titolare della situazione giuridica soggettiva passiva; dall’aspettativa, che è la situazione giuridica soggettiva attiva in cui si trova un soggetto nelle more del perfezionamento di una fattispecie costitutiva di un diritto, a cui corrisponde in capo al soggetto che sarà titolare della situazione giuridica soggettiva passiva l’obbligo di comportarsi in buona fede nelle more del perfezionamento dell’acquisto del diritto (argomento tratto dall’art. 1358 c.c.).(Il codice civile si occupa del rapporto giuridico obbligatorio agli artt. 1173 e ss. c.c.
    In tale contestoil codice prevede espressamente determinati tipi di obbligazioni, che si differenziano tra di loro per il contenuto della prestazione che ne costituisce oggetto (che può consistere in un fare ex art. 1217 c.c., in un non fare ex art. 1222 c.c., in un dare ex artt. 1177 - 1178 c.c., nella prestazione di una garanzia ex art. 1179 c.c.), per le caratteristiche della prestazione (così le obbligazioni divisibili o indivisibili ex artt. 1314 – 1320 c.c.), per la struttura del rapporto obbligatorio (così le obbligazioni solidali ex artt. 1292 – 1313 c.c., le obbligazioni alternative ex artt. 1285 – 1291 c.c., le obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c.).
    Il codice civile non menziona espressamente né le obbligazioni strumentali né quelle accessorie. A fronte si questa mancanza risulta dunque necessario procedere a una loro individuazione in via sistematica.
    Il termine obbligazione strumentale ci riporta inequivocabilmente al concetto strumento. Così, in linea di primissima approssimazione, si potrebbe anche pensare che questa definizione vada a coincidere con quella di obbligazione principale: come abbiamo visto, infatti, l’ esatta esecuzione della prestazione dedotta nel rapporto obbligatorio, eseguita nei termini e secondo le modalità previste dal titolo o dalla legge, è propedeutica alla realizzazione dell’interesse sotteso al diritto del creditore.
    A questa prima ipotesi ricostruttiva deve essere tuttavia dato riscontro normativo.
    Un primo indice di segno negativo si potrebbe rinvenire nel combinato disposto degli artt. 1176 – 1218 c.c. La prima norma, come noto, obbliga il debitore a utilizzare nell’adempimento dell’obbligazione la diligenza del buon padre di famiglia o, nel caso in cui l’obbligazione inerisca all’esercizio dell’attività professionale, quella esigibile in relazione alla natura dell’attività esercitata. L’art. 1218 c.c. stabilisce invece che, in caso di inadempimento, il debitore non può essere ritenuto responsabile se prova che la mancata esecuzione della prestazione dovuta è stata determinata da impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile.
    Il combinato disposto di queste due norme potrebbe portarci a una prima riflessione.
    Il perfetto adempimento della prestazione principale non è condizione necessaria per andare esente da responsabilità. Il debitore può raggiungere siffatto risultato se l’inadempimento non è a lui attribuibile. A detto proposito l’art. 1176 c.c. completa l’enunciato di cui all’art. 1218 c.c. prescrivendo al debitore di utilizzare nell’esecuzione del rapporto obbligatorio la diligenza del buon padre di famiglia o quella richiesta in relazione alla natura dell’attività esercitata.
    Da ciò si può dedurre quanto segue. (frasi troppo corte, è opportuno rendere maggiormente scorrevole il tema)
    L’esecuzione della prestazione dovuta in via principale comporta indirettamente il sorgere tra le parti di altri rapporti obbligatori aventi per oggetto l’esecuzione da parte del debitore di altre prestazioni propedeutiche al corretto adempimento della prestazione principale e il cui corretto svolgimento rileva in sede di inadempimento al fine di imputare o meno al debitore la responsabilità ex art. 1218 c.c.
    In quest’ottica dovrebbero dunque leggersi ad esempio la norma contenuta nell’artt. 1177 c.c., che obbliga il debitore a preventivamente custodire la cosa determinata, che deve consegnare, fino alla consegna).
    La soluzione qui esposta sembrerebbe del resto trovare conforto anche nell’art. 1175 c.c., che, come noto, impone a entrambe le parti di un rapporto obbligatorio di comportarsi secondo le regole della correttezza, con ciò implicitamente imputando in capo alle parti degli obblighi ulteriori rispetto a quello di eseguire perfettamente la prestazione dovuta. La norma appare interessante anche sotto un altro aspetto: essa lascia infatti ben intendere che anche il creditore sia tenuto ad adempiere a determinati obblighi nei confronti del debitore, anche se la norma al riguardo non è specifica, limitandosi appunto a prescrivere un generico dovere di correttezza.
    Prescrizioni più specifiche al riguardo potrebbero essere ravvisate ad esempio negli artt. 1180 c.c. e 1206 c.c.
    La prima norma stabilisce che la prestazione principale può essere adempiuta anche da un terzo a patto che non sia interesse del creditore che la prestazione venga svolta personalmente dal debitore. In questo caso la legge in presenza di un fatto (adempimento del terzo) obbliga il creditore ad accettare (salvo l’eccezione di cui sopra) la prestazione effettuata dal terzo a cui corrisponde il diritto del debitore a essere liberato dal vincolo obbligatorio.
    L’art. 1206 c.c., invece, stabilisce la costituzione in mora del creditore nel caso in cui quest’ultimo, tra l’altro, non compia quanto necessario affinchè il debitore possa adempiere alla prestazione dovuta.
    Da questa norma si desume che il creditore ha l’obbligo di porre in essere una serie di prestazioni nei confronti del debitore, il cui contenuto è desumibile in relazione al contenuto del rapporto obbligatorio principale e che sono volte a soddisfare l’interesse del debitore a estinguere il vincolo obbligatorio.
    Da quanto esposto dunque potrebbe desumersi quanto segue.
    Per obbligazioni strumentali dovrebbe più propriamente intendersi quell’insieme di rapporti obbligatori diversi da quello cd. principale, che si aggiungono a quest’ultimo e a cui sono strettamente correlati da un punto di vista tecnico- funzionale, essendo dallo stesso funzionalmente inscindibili e non godendo di un’autonomia in senso proprio.
    Esaminato il concetto di obbligazione strumentale occorre dunque definire quello di obbligazione accessoria.
    Il termine “accessorio” è sinonimo di complementare, subordinato. Ciò ci fa in primo luogo pensare a una subordinazione del rapporto obbligatorio accessorio rispetto a quello principale tale per cui la sua esistenza dipende da quella di quest’ultimo.
    In questa accezione le obbligazioni strumentali possono ben definirsi come obbligazioni accessorie, in base a quanto detto in precedenza. Ciò posto resta tuttavia da vedere se effettivamente vi sia una totale coincidenza tra l’obbligazione accessoria e quella strumentale o se, invece, l’obbligazione strumentale non costituisca piuttosto una particolare species di obbligazione accessoria.
    Un primo riferimento utile nella soluzione della questione è data dall’art. 1263 c.c. Questa norma, come noto, stabilisce che il credito ceduto viene trasferito con i privilegi, le garanzie personali e reali nonché con “gli altri accessori”.
    Il riferimento ad “altri accessori” fa propendere per definire come tali anche i privilegi, le garanzie personali e reali. Tuttavia, pur essendo “accessori”, i privilegi e le garanzie reali non possono certo definirsi come obbligazioni accessorie. Essi presuppongono l’esistenza di un rapporto obbligatorio ma sono diritti reali e, dunque, diritti soggettivi assoluti e non già relativi: le posizioni giuridiche in esame sono efficaci erga omnes e la realizzazione dell’interesse del loro titolare non richiede la necessaria collaborazione di altrui soggetto.
    Discorso a parte deve essere svolto con riferimento alle garanzie personali, come la fidejussione, per effetto della quale un soggetto si obbliga personalmente verso il creditore a garantire l’adempimento dell’obbligazione altrui (art. 1936 c.c.). In siffatta ipotesi vi è un rapporto obbligatorio di fonte negoziale mediante il quale il creditore acquista il diritto a richiedere l’adempimento di un’obbligazione preesistente a un terzo che si è a sua volta obbligato in tal senso. In questo caso il creditore può soddisfare il proprio interesse creditorio solo mediante la collaborazione del debitore originario o del terzo garante e il suo diritto può essere fatto valere solo nei confronti di questi ultimi, salva fatta la possibilità di ricorrere alla tutela extracontrattuale ex art. 2043 c.c. nel caso in cui un terzo leda ingiustificatamente la sua posizione giuridica.
    Interessante ai fini dell’individuazione dell’obbligazione accessoria è altresì il combinato disposto degli artt. 1277 c.c. e 1282 c.c. La prima norma stabilisce che il debitore di una prestazione pecuniaria è tenuto a corrispondere la somma dovuta al suo valore nominale. L’art. 1282 c.c. prescrive che i crediti pecuniari liquidi ed esigibili producono interessi automaticamente, nella misura prevista all’art. 1284 c.c., salvo diversa disposizione convenzionale o di legge.
    L’art. 1282 c.c. attribuisce dunque al creditore, a partire dalla scadenza del termine previsto per l’adempimento della prestazione pecuniaria principale, il diritto a ricevere una prestazione economica ulteriore rispetto a quella originariamente dovuta dal debitore.
    Da quanto sommariamente esposto si può dedurre quanto segue.
    Il rapporto obbligatorio è definibile come accessorio se si aggiunge a un altro, definito come principale.
    In senso tecnico anche le obbligazioni strumentali hanno carattere accessorio perché, come si è detto, si inseriscono nel rapporto obbligatorio principale e si aggiungono ad esso.
    Tuttavia nel nostro ordinamento sono previste anche obbligazioni accessorie in senso proprio (ovvero non anche strumentali), che si aggiungono al rapporto obbligatorio principale ma che, a differenza delle obbligazioni strumentali, non presentano un legame funzionale rispetto al rapporto obbligatorio principale: esse infatti si limitano ad aggiungersi ad esso ma non sono necessarie all’esecuzione (ed estinzione) del rapporto obbligatorio principale tra debitore e creditore. Di conseguenza le obbligazioni accessorie sono correlate all’obbligazione principale ma da essa in un certo senso autonome, presupponendo anche esse del resto per la loro corretta esecuzione obbligazioni strumentali.
    Definita la distinzione tra obbligazione accessoria e strumentale occorre definire il ruolo che la buona fede ha nel rapporto obbligatorio e le sue possibili incidenze sulle obbligazioni accessorie e strumentali.
    Il concetto di buona fede non viene definito dal codice.
    Ciò ha dato adito a un dibattito in ambito giurisprudenziale e dottrinale volto a stabilire se esso debba essere definito su base statistico – quantitativa (ossia definendo come in buona fede il comportamento considerato come tale da parte della generalità dei consociati in base alla disamina delle situazioni del caso concreto) ovvero dal punto di vista soggettivo (ossia calibrando la definizione sulla base del soggetto cui deve essere accertata la buona fede).
    L’aspirazione verso una maggior certezza nei rapporti commerciali ha fatto propendere verso una concezione oggettiva di buona fede, a detta della quale il comportamento di un soggetto deve essere valutato ricorrendo al prototipo del cd. agente modello, ovvero di un soggetto con le medesime caratteristiche, competenze e nelle medesime condizioni in cui versava il soggetto di cui deve essere appurata la buona fede.
    Nell’ambito della disciplina codicistica sulle obbligazioni in generale la nozione di buona fede è menzionata solo all’art. 1189 c.c. in materia di pagamento al creditore apparente. Questa norma, come noto, prescrive la liberazione del debitore che esegue il pagamento a chi, in base a circostanze univoche, appare legittimato a riceverlo, se il debitore prova di essere stato in buona fede.
    Dalla norma in esame sembra emergere che il ruolo della buona fede nella disciplina generale delle obbligazioni serva come correttivo di un comportamento contrario alle regole, che, nonostante detta contrarietà e grazie alla buona fede, produce gli effetti che il comportamento avrebbe avuto se fosse stato posto in esseresecundumius.
    Tuttavia il concetto di buona fede viene menzionato anche nella disciplina codicistica del contratto, che è fonte di obbligazioni ex art. 1173 c.c., in veste apparentemente diversa rispetto a quanto desumibile dall’art. 1189 c.c.
    Il termine in esame viene infatti utilizzato per orientare il comportamento delle parti (o di una parte) nella fase delle trattative (art. 1337 c.c.), durante la pendenza di unacondizione sospensiva o risolutiva (art. 1358 c.c.), nell’interpretazione del contratto (art. 1366 c.c.), nell’esecuzione del rapporto contrattuale (art. 1375 c.c.).
    La buona fede viene menzionata anche nelle disposizioni codicistiche che disciplinano un’altra fonte di obbligazioni, ovvero l’indebito soggettivo ex art. 2036 e ss. c.c. In questa sede il comportamento in buona fede rileva sia per estinguere l’obbligazione (artt. 2036 e 2037 c.c.) sia per determinare il momento costitutivo dell’obbligazione di prestare frutti e interessi (art. 2036 c.c.).
    Alla luce di quanto esposto ci si può chiedere se anche nella disciplina generale sulle obbligazioni la buona fede possa rilevare anche al di là della previsione dettata dall’art. 1189 c.c.
    In linea di prima approssimazione ci si potrebbe riferire agli artt. 1175 c.c. e 1176 c.c.
    La prima norma stabilisce che le parti di un rapporto obbligatorio devono comportarsi secondo le regole della correttezza. Il riferimento alle “regole della correttezza” sembra implicare qualcosa di piùrispetto al semplice agire correttamente, ovvero in conformità alle regole dettate (dalle parti o dalla legge) per l’esecuzione del rapporto obbligatorio. Il rinvio alle regole della correttezza potrebbe essere interpretato in senso valutativo, ossia con riferimento anche alle regole del corretto comportamento in ambito sociale.
    A confermare l’assunto potrebbe essere d’ausilio il concetto di “buon padre di famiglia” menzionato dall’art.1176 c.c. per perimetrare la diligenza richiesta al debitore nell’adempimento della prestazione.
    L’utilizzo di un termine di rilevanza prettamente sociale, quale appunto quello di “padre di famiglia”, colora l’aggettivo “secondo le regole della correttezza” di un’accezione valutativa, certamente inclusiva del termine di buona fede.
    La soluzione qui proposta, comportando la necessaria osservanza da parte di entrambe le parti della buona fede nell’esecuzione del rapporto obbligatorio, implica in primo luogo una sorta di rivisitazione del diritto del creditore a richiedere la prestazione dovuta, che deve essere esercitato non soltanto avuto riguardo a quanto prescritto dalla legge o dal titolo ma in buona fede, ovvero in un’ottica di piena collaborazione e di ausilio con il debitore nel limite dell’apprezzabile sacrificio.
    Rientra in questa tematica l’istituto di elaborazione giurisprudenziale e dottrinale del cd. abuso del diritto, oggi considerato principio di portata generale,tratto dalla disamina di alcune disposizioni civilistiche (quali, ad esempio, quelle in materia di atti emulativi ex art. 833 c.c. o quelle in materia di abuso della potestà genitoriale ex art. 1033 c.c. ma anche quella di cui all’art. 1175 c.c.)nonchè dal principio costituzionale di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. e che consiste nell’esercizio di un diritto in modo formalmente corretto ma sostanzialmente volto a realizzare un’utilità socialmente riprovevole e, quindi, contraria a buona fede. Siffatta fattispecie, che differisce dall’istituto dell’eccesso di diritto perché in quest’ultima ipotesi il titolare del diritto lo esercita eccedendo i confini della propria posizione giuridica, viene variamente sanzionata in sede pretoria. Applicato al diritto del creditore a ricevere la prestazione dovuta implica un obbligo dello stesso di esercitare il suo diritto anche in maniera parziale ovvero rinunciando allo stesso nel caso in cui la buona fede glielo imponga, valutate tutte le circostanze del caso di specie, sempre che ciò non gli comporti un sacrificio apprezzabile.
    L’inclusione del concetto di buona fede all’interno della prescrizione normativa di cui all’art. 1175 c.c. pone un altro quesito, ovvero se la buona fede possa costituire fonte di obbligazioni strumentali in capo alle parti, proprio in base alla loro stretta inerenza con la corretta esecuzione del rapporto obbligatorio principale.
    Il riferimento normativo utile a dare al quesito risposta positiva è data dal combinato disposto degli artt. 1175 e 1173 c.c. Quest’ultima norma, come noto, elenca quali possibili fonti dell’obbligazione il contratto, il fatto illecito nonché ogni altro fatto o atto idoneo a essere considerato come fonte dell’obbligazione in conformità dell’ordinamento. L’utilizzo dell’espressione “in conformità dell’ordinamento giuridico” sembra far riferimento non solo agli atti o fatti che la legge qualifica come tali ma altresì ogni atto o fatto che l’ordinamento consente di definire come tale. A tale proposito la dottrina e la giurisprudenza identifica come tale anche la buona fede, che, essendo dovuta essere osservata dalle parti negli atti di esecuzione del rapporto obbligatorio ed essendo peraltro concreta applicazione del principio costituzionale di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., attribuisce in capo alle parti obblighi ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge o dal titolo, stante il legittimo affidamento di una parte che a che l’altra parte volti collabori nella fase propedeutica all’adempimento della prestazione principale, nel limite esterno dell’apprezzabile sacrificio.
    In base a questa impostazione, ormai consolidata, il dovere di comportarsi secondo buona nell’esecuzione del rapporto obbligatorio può dunque essere inquadrato come fonte di obbligazioni strumentali, non previste dalla legge o dal titolo, in quanto strettamente funzionali a che la prestazione principale venga eseguita secondo le regole della correttezza, ivi inclusa anche quella di buona fede. Eventuali inadempimenti in dette obbligazioni, il cui contenuto deve essere valutato in base alle circostanze del caso concreto, legittimerà la parte non inadempiente a richiedere all’altra parte il risarcimento del danno eventualmente subito per effetto dell’inadempimento ex art. 1218 c.c.
    Giunti a questo punto ci si potrebbe altresì chiedere se la buona fede possa costituire anche fonte di obbligazioni accessorie in senso proprio, ossia di obbligazioni che accedono al rapporto principale ma che acquisiscono carattere in un certo senso autonomo (rectius di maggior autonomia rispetto alle obbligazioni strumentali), non essendo strettamente funzionali alla corretta esecuzione del rapporto obbligatorio.
    La risposta positiva al quesito in esame discende proprio dalla qualifica della buona fede come concretizzazione del principio di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., che, letto in combinato disposto che le norme che impongono obblighi di comportamento in capo a un determinato soggetto, costituisce fonte di obbligazione ex art. 1173 c.c. in favore dei soggetti che, entrando in contatto con il soggetto tenuto a un determinato comportamento, legittimamente confidano nel compimento dello stesso (cd. teoria del contatto sociale qualificato).
    In merito la giurisprudenza e la dottrina si sono occupate, ad esempio, del caso del contratto tra medico ginecologo e paziente incinta con riferimento alla posizione del padre, soggetto terzo rispetto al contratto. In merito si è affermato innanzitutto che il ginecologo, nell’esecuzione del contratto, deve adoperarsi per salvaguardare la salute della paziente e del nascituro: in questo caso l’obbligo di salvaguardare la salute del paziente rientra tra le obbligazioni principali del contratto, quello di salvaguardare la salute del nascituro discenderebbe dal combinato disposto degli artt. 1173 – 1175 c.c., trattandosi di obbligazione strumentale alla corretta esecuzione del rapporto obbligatorio principale, stante l’obbligo per il ginecologo a seguire la gestante fino alla nascita del nascituro.
    Di natura invece accessoria sarebbe l’obbligo del medico nei confronti del padre, soggetto terzo rispetto al rapporto ma la cui sfera giuridica viene comunque incisa dalla scorretta esecuzione da parte del ginecologo del rapporto contrattuale. In questo caso sarebbe difficile prospettare la costituzione di un rapporto giuridico obbligatorio ai sensi del combinato disposto degli artt. 1173 – 1175 c.c., a patto che le pattuizioni negoziali tra le parti principali non diano in qualche modo rilevanza all’interesse del padre alla corretta esecuzione dell’obbligazione principale. Verrebbe tuttavia in rilievo la teoria del cd. contatto sociale qualificato: sempre richiamando l’art. 1173 c.c. e il principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost. (di cui la buona fede viene considerata dai più come una sorta di corollario applicativo) la costituzione di un rapporto obbligatorio tra padre e ginecologo potrebbe configurarsi alla luce dei doveri cui è tenuto il medico, sia dal punto di vista giuridico sia dal punto di vista deontologico, a correttamente svolgere la sua professione assolvendone gli obblighi a ciò propedeutici, all’osservanza dei quali il padre ripone un legittimo affidamento.
    Da quanto esposto dunque la buona fede, intesa quale corollario applicativo del principio di solidarietà sociale ex art. 2 Cost., svolge nelle obbligazioni accessorie non solo un ruolo di modificazione/estinzione del rapporto obbligatorio paragonabile a quello dell’obbligazione principale in virtù dell’istituto dell’abuso del diritto ma altresì può costituire fonte delle stesse in base alla teoria del contatto sociale qualificato.
    Giudizio 16/17
    Il candidato comprende pienamente il problema conoscitivo e lo sviluppa in modo più soddisfacente e con analisi critica, arrivando ad una soluzione particolarmente degna di nota. In particolare il ragionamento del candidato è lucido e lineare.
    Sotto il profilo lessicale, a parte qualche irregolarità, il tema appare correttamente strutturato.
    Il candidato dovrebbe tuttavia lavorare sulla sintesi, nove pagine di word appaiono un po’ troppo eccessive e difficilmente riproducibile in sede di esame.


    se qualcuno non ha ricevuto le correzioni di civile per il solo mese di febbraio, lo faccia presente.
    grazie :)
     
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8 replies since 3/2/2013, 13:14   1459 views
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