Tracce temi gennaio 2013

tracce e migliori elaborati del mese

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    Tracce di diritto penale
    TEMA OBBLIGATORIO

    _Il candidato illustri le problematiche sottese alla figura delle condizioni obiettive di punibilità e, anche con riferimento agli esempi di tale figura rinvenibili nella legislazione, illustri le differenze tra condizione obiettiva di punibilità ed evento e tra delitto obiettivamente condizionato e delitto aggravato dall'evento.

    TEMI OPZIONALI
    _La responsabilità del direttore di un giornale per la pubblicazione di un'intervista diffamatoria rilasciata da un parlamentare ad un suo cronista.

    _L'evento di danno e quello di pericolo nei reati contro la pubblica incolumità, in particolare con riferimento ai delitti di disastro, e nei delitti contro il patrimonio, specialmente con riguardo ai reati di truffa.


    L'assegno per il mese di febbraio è il seguente:
    IMPUTABILITA' - in particolare criteri malattia mentale
    ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO - dolo, colpa, preterintenzione - responsabilità oggettiva - aberratio - nel concorso rivedere sempre 116 e 117 c.p.

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    Tracce temi di diritto civile

    1)Le fonti atipiche delle obbligazioni con particolare riguardo alle obbligazioni da contatto sociale.

    2)Obbligazioni solidali e vicende transattive.
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    Tracce di diritto amministrativo
    Traccia obbligatoria:
    1) I ricorsi amministrativi non impugnatori: natura giuridica, caratteristiche, disciplina .

    Le tracec che seguono sono facoltative e, quindi, è necessario svolgere prima quella obbligatoria:
    2) La tutela possessoria avverso atti, provvedimenti e comportamenti tenuti dalle pubbliche amministrazioni e dai soggetti equiparati nella materia urbanistica ed edilizia ( svolgimento facoltativo).

    3) La privatizzazione formale degli enti pubblici ( svolgimento facoltativo).

    Edited by togasana - 3/1/2013, 22:08
     
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  2. just_virginia
     
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    caio Toga, buon anno:) ora che Ae è andata, vorrei inziare anche io a fare i temi.
    le tracce di amministrativo e civile, questo mese le posti?
     
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    CITAZIONE (just_virginia @ 2/1/2013, 15:29) 
    caio Toga, buon anno:) ora che Ae è andata, vorrei inziare anche io a fare i temi.
    le tracce di amministrativo e civile, questo mese le posti?

    certamente: le posterò non appena i commissari me le invieranno :)
    (sono giorni di festa-ferie anche per loro ;) ).
    auguri anche a te! :notoganoparty2:
     
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    occhio che ci sono le tracce di civile nel post di apertura della discussione. :)
     
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    Migliori elaborati di penale:
    1) Il candidato illustri le problematiche sottese alla figura delle condizioni obiettive di punibilità e, anche con riferimento agli esempi di tale figura rinvenibili nella legislazione, illustri le differenze tra condizione obiettiva di punibilità ed evento e tra delitto obiettivamente condizionato e delitto aggravato dall'evento.

    Le condizioni obiettive di punibilità sono elementi accidentali di una fattispecie penale, esterne al fatto tipico, e dalla cui verificazione il legislatore fa dipendere l’attivazione della sanzione penale.
    Due sono i tratti problematici dell’istituto.
    Il primo riguarda l’individuazione dei tratti distintivi rispetto agli elementi del fatto tipico, il secondo riguarda il criterio di imputazione soggettiva.
    Quanto al primo profilo, si ritiene che le condizioni di punibilità siano elementi della fattispecie posti a presidio di interessi disomogenei ed ulteriori rispetto a quelli che sovraintendono al fatto tipico, che accedono ad un fatto di reato già perfetto.
    Nella sostanza, realizzano una cesura temporale tra fatto di reato e pena che si giustifica per superiori e imperative esigenze di interesse generale, sul presupposto che in alcuni casi l’applicazione immediata della pena - conseguente all’avvenuto perfezionamento del fatto di reato - potrebbe rivelarsi controproducente.
    La distinzione sembra abbastanza chiara. Gli elementi del fatto tipico connotano l’offensività della fattispecie, le condizioni di punibilità non incidono sul disvalore penale in quanto accedono ad un fatto già offensivo, facendo venir meno l’ostacolo che si frappone alla sua punibilità.
    Sennochè le conclusioni di cui sopra sono state messe in crisi dalla tendenza, emersa nella pratica giudiziaria, di qualificare come condizioni di punibilità elementi di fattispecie che in realtà approfondiscono la lesione del fatto tipico, alimentando la sua portata offensiva.
    Per questo motivo sono state definite condizioni di punibilità cc.dd. intrinseche, in contrapposizione a quelle cc.dd. estrinseche, che si rifanno al modello tradizionale.
    La “scoperta” di queste nuove condizioni di punibilità non è scevra di conseguenze, per i riflessi che comporta – e veniamo al secondo profilo critico dell’istituto –in tema di imputazione soggettiva.
    Se per le condizioni estrinseche vale quanto si ricava dall’articolo 44 c.p. in ordine ad un’imputabilità secondo un criterio puramente oggettivo, essendo elementi che non alimentano il disvalore penale del fatto, a diverse conclusioni deve giungersi quanto alle condizioni del secondo tipo.
    Diventa infatti arduo sostenere che possano essere addebitate all’agente secondo le medesime modalità, nella misura in cui vanno ad incidere sull’offensività della fattispecie.
    Tanto più alla luce degli interventi del giudice costituzionale del 1988 (il riferimento è alle sentenze n. 364 e n.1015) che ha evidenziato la necessità di procedere ad un’imputazione soggettiva – indifferentemente a titolo di dolo o di colpa – per gli elementi significativi di una fattispecie.
    Di qui è possibile trarre una prima conclusione. Le condizioni cc.dd. estrinseche possono essere addebitate al colpevole in base al mero nesso di derivazione causale dal reato, poiché non incidono sul disvalore del fatto; quelle cc.dd intriseche, al contrario, richiedono un addebito basato sul dolo o sulla colpa.
    Le condizioni di punibilità recano con sé un altro problema e cioè quello di differenziarsi dall’evento del reato, per le conseguenze che ne derivano in ordine al locus e al tempus commissi delicti, alla prescrizione, al concorso di persone.
    La legislazione penale offre numerosi esempi di fattispecie con elementi oscillanti, nella considerazione della giurisprudenza e della dottrina, tra una categoria e l’altra.
    In questa disamina è possibile partire dall’art. 167 del codice della privacy che punisce l’illecito trattamento di dati personali “se dal fatto deriva nocumento”.
    È difficile ritenere che il nocumento possa costituire lesione di un interesse diverso da quello offeso dal fatto di reato, apparendo al contrario la realizzazione del rischio che la condotta incriminata intendeva prevenire.
    Si tratterebbe dunque di una condizione intrinseca di punibilità ma non manca chi sostiene che in realtà il nocumento debba considerarsi l’evento costitutivo del reato, apparendo poco conforme al principio di necessità del diritto penale incriminare una condotta (l’illecito trattamento di dati) dotata di per sé di scarsa carica offensiva.
    Analoghe considerazioni possono essere fatte per la dichiarazione di fallimento nell’ambito del delitto di bancarotta fraudolenta regolato dall’art. 216 L.F.. A fronte di un orientamento volto a qualificare quell’evento come una condizione obiettiva di punibilità, si registra la presa di posizione delle SSUU della Cassazione che ne hanno evidenziato la natura di evento del reato.
    A tanto si è giunti sulla base della considerazione che le condotte di distrazione, occultamento, dissipazione di beni, descritte nella fattispecie, fin quando non venga dichiarato il fallimento dell’imprenditore, appaiono dotate di una carica di offensività rimediabile sul (solo) piano civilistico, in quanto lesive dell’interesse del singolo creditore.
    L’interesse protetto dalla norma è invece l’interesse al soddisfacimento delle pretese della massa dei creditori, la cui lesione si attualizza con la dichiarazione di fallimento.
    È dunque la dichiarazione di fallimento che accentra su di sé il disvalore dell’intero fatto di reato, non potendosi ritenere che si limiti ad approfondire una lesione già consolidatasi attraverso le condotte vietate né tantomeno che configuri la lesione di un bene diverso e marginale rispetto a quello del fatto tipico.
    Un’altra fattispecie al centro della problematica in oggetto è quella del delitto di incesto ex art. 564 c.p. che punisce la condotta di “chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette (…)”
    In questo caso si tratta di ritagliare il giusto ruolo, all’interno della fattispecie, all’elemento del pubblico scandalo.
    Secondo la lettura tradizionale, ci troveremmo di fronte ad un classico caso di condizione di punibilità, accedendo ad un’interpretazione che individua il fatto di reato nella condotta incestuosa, la cui punibilità viene rimandata al verificarsi dell’evento in questione per questioni di opportunità e convenienza.
    L’oggettività giuridica della fattispecie – ricavabile anche dalla collocazione sistematica della disposizione – coincide con la moralità familiare, compromessa dalla condotta incestuosa, non punita immediatamente per evitare il pregiudizio ulteriore alla moralità pubblica.
    Una volta che si sia verificato il pubblico scandalo, a prescindere da qualsiasi riferibilità soggettiva ai colpevoli, viene rimosso l’ostacolo alla punibilità del fatto costituente già di per sé reato.
    Sennonché, anche di questa fattispecie è stata patrocinata un’interpretazione diversa, che valorizzando la libertà individuale all’interno della comunità familiare, sposta l’oggettività giuridica della fattispecie dalla morale familiare alla morale pubblica, individuando così l’evento del reato e quindi il momento in cui si verifica l’offesa al bene protetto alla verificazione del pubblico scandalo.
    Questa breve rassegna può concludersi con la fattispecie dell’insolvenza fraudolenta ex art. 641 c.p., in cui occorre indagare il ruolo dell’inadempimento.
    La condotta incriminata consiste nel fatto di chi contrae un’obbligazione con la riserva mentale di non adempierla, dissimulando il proprio stato di insolvenza, che viene punito (…)”qualora l’obbligazione non sia adempiuta”.
    Anche in questo caso, l’inadempimento, secondo una certa chiave di lettura, viene inteso come condizione di punibilità, accedendo ad un fatto di reato già perfetto.
    Si tratta di una ricostruzione che desta più di una ragione di perplessità, alla luce anche del principio di materialità del diritto penale che impone di non sanzionare condotte rivelatrici solo di un intento criminale (“contrae un’obbligazione col proposito di non adempierla”), sicchè appare maggiormente condivisibile la tesi che individua nell’inadempimento l’evento del fatto di reato e quindi il momento in cui si concretizza la lesione dell’altrui patrimonio.
    In tutti i prospettati esempi appare chiara una cosa e cioè l’importanza di qualificare un elemento di fattispecie che, a prescindere dalla tecnica descrittiva utilizzata dal legislatore (che molto spesso depone nel senso di una condizione di mera punibilità), deve essere valutato in ordine alla sua capacità di rappresentare il disvalore del fatto.
    Diventa quindi rilevante stabilire se trattasi di una condizione di punibilità ovvero dell’evento del reato perché cambia il momento di perfezionamento del reato e (se si tratta di una condizione estrinseca anche) il regime di imputazione soggettivo.
    In particolare, le condizioni di punibilità intrinseche debbono essere riqualificate come elementi costitutivi del fatto tipico o, se si vuole mantenerne la categoria, pretendere un’imputazione basata sul dolo o sulla colpa.
    Dal delitto obiettivamente condizionato occorre distinguere il delitto aggravato dall’evento.
    Il dato comune alla due fattispecie è dato dal fatto che ci troviamo al cospetto di un evento ulteriore che accede ad un reato già perfetto.
    Diversa però è la funzione che svolge all’interno della fattispecie penale; nel primo caso rimuove l’ostacolo alla punibilità del reato, nel secondo caso giustifica un incremento della pena prevista per il reato-base o l’applicazione di una pena di specie diversa
    Il modello generale della fattispecie trova la sua base normativa nell’art. 586 c.p. (morte o lesioni come conseguenza di un delitto) ma nella legislazione penale si trovano esempi di fattispecie normate (omissione di soccorso aggravata dall’evento morte, partecipazione ad una rissa aggravata dall’evento morte, maltrattamenti in famiglia aggravati dall’evento lesioni) astrattamente ad esso riconducibili.
    E allora sorge il problema di capire il perché di questa scelta.
    Due le motivazioni spese al riguardo. La prima è che il legislatore abbia voluto differenziare - per specifiche ipotesi - il trattamento sanzionatorio rispetto a quello previsto dalla fattispecie-modello. La seconda e più persuasiva è che il legislatore abbia inteso modulare il criterio di imputazione soggettiva dell’evento aggravatore sulle specifiche caratteristiche della fattispecie concreta di volta in volta presa in considerazione.
    In altre parole, nelle su richiamate ipotesi normate di delitto aggravato dall’evento (morte o lesioni) la condotta del colpevole appare – su un piano oggettivo – proiettata fisiologicamente verso la causazione del diverso e più grave evento non voluto, che rappresenta il possibile e naturale sviluppo della lesione dell’interesse (omogeneo) del reato-base.
    Si riteneva perciò compatibile con questa ricostruzione un’imputazione prettamente oggettiva dell’evento aggravatore, senza ricercare un ulteriore nesso di compartecipazione psichica dell’agente, dovendosi quello ritenere assorbito nel dolo e/o colpa del reato di base.
    Viceversa, il modello generale del 586 c.p. si presta a ricomprendere ipotesi in cui, a prescindere dal rapporto di vicinanza tra la condotta illecita e l’evento morte (e quindi anche quando la condotta illecita di base sia una condotta di danneggiamento o integri un reato ambientale o in materia di stupefacenti e non sia quindi diretta alla persona dell’offeso) questo si connota come conseguenza del fatto doloso dell’agente.
    Di qui la necessità di un’imputazione più marcatamente soggettivistica dell’evento aggravatore e l’insufficienza di un addebito sul piano puramente oggettivo.
    Si tratta di considerazioni (la prima in particolare) che probabilmente vanno riviste alla luce della più volte richiamata giurisprudenza costituzionale sul principio di personalità della responsabilità penale, che portano ad escludere oggi che la causazione dell’evento morte - dotato di una significativa pregnanza penale – possa essere imputato su basi puramente oggettiva ma che sono servite in passato a giustificare una scelta legislativa altrimenti non facilmente comprensibile.
    Altra problematica che la fattispecie del delitto aggravato dall’evento comporta è quella della qualificazione dell’evento aggravatore, per le significative conseguenze che ne derivano sotto il profilo della disciplina giuridica.
    Tre sono le ipotesi prospettate. La prima è che si tratta di una circostanza aggravante, sottoposta come tale al criterio dell’indifferenza (dolo o colpa) sotto il profilo dell’imputazione soggettiva e al giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p.
    La seconda è che si tratta dell’elemento costitutivo di una fattispecie autonoma, rientrante come tale nel fuoco del dolo o (alla luce della giurisprudenza costituzionale sull’errore aetatis nei delitti sessuali in danno di minori di età) della colpa.
    La terza è che si tratta di una condizione di (maggiore) punibilità rientrante nella previsione dell’art. 44 c.p. di cui si fornisce un’interpretazione estensiva volta a coprire i casi in cui l’evento condizionante non incide sul momento di attivazione della sanzione penale ma sulla sua misura (nel senso di determinarne l’aumento).
    In ordine al criterio di imputazione soggettiva valgono le considerazioni sopra fatte che inducono a ritenere necessario, ogni volta che l’evento condizionante incide sul disvalore astratto della fattispecie, un atteggiamento quanto meno colposo.

    ADERENTE ALLA TRACCIA, ORDINATO, PASSAGGI LOGICI CHIARI. PIACEVOLE LETTURA. 13.
    ANCHE SE IN CONCLUSIONE, TANTO CHE C’ERA, AVREBBE POTUTO ANCHE PRENDERE POSIZIONE SULLA QUALIFICAZIONE DELL’EVENTO NEI DELITTI DALLO STESSO AGGRAVATI.


    *****

    2) L’EVENTO DI DANNO E QUELLO DI PERICOLO NEI REATI CONTRO LA PUBBLICA INCOLUMITA’, IN PARTICOLARE CON RIFERIMENTO AI DELITTI DI DISASTRO, E NEI DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO, SPECIALMENTE CON RIGUARDO AI REATI DI TRUFFA.

    La fattispecie di reato, per dirsi configurata in tutti i suoi elementi strutturali sia oggettivi sia soggettivi, deve consistere in un fatto concreto, colpevole, offensivo e punibile.
    Quanto detto è confermato dalla concezione quadripartita del reato ormai accolta dalla prevalente ?? (AUTOREVOLE FORSE E’ MEGLIO) dottrina e in accordo con la quale il fatto criminoso, per avere rilievo penale, deve presentare contestualmente tutti i predetti caratteri.
    È bene evidenziare, tuttavia, come se da un lato gli elementi oggettivi e soggettivi riconducibili rispettivamente alla condotta, all’evento, al nesso causale, alla colpevolezza e alla punibilità sono disciplinati a livello normativo, il carattere dell’offensività del fatto illecito non trova ad oggi una regolamentazione espressa nell’ordinamento penale.
    Tuttavia, stante il silenzio normativo, non si può non riconoscere l’opportunità che la condotta punibile sia offensiva, cioè a dire arrechi un vulnus al bene giuridico protetto dalla norma penale incriminatrice.
    Argomentare diversamente significherebbe accordare rilievo penale anche all’agire inoffensivo, con ciò vanificando il ruolo punitivo- rieducativo della sanzione penale.
    Il principio di offensività assume una valenza diversa a seconda che si guardi ai reati di danno o ai reati di pericolo.
    Nei primi, infatti, il perfezionamento del reato coincide con la concretizzazione di un danno per il bene protetto.
    I reati di pericolo – di contro – si caratterizzano per un aspetto essenziale: l’agente pone in essere una condotta volta a mettere in pericolo l’interesse tutelato; non si verifica una lesione concreta del bene predetto ma –sic et simpliciter – il rischio del verificarsi del danno stesso.
    Per il solo fatto del pericolo di lesione l’ordinamento accorda una tutela anticipata al bene minacciato.
    Attenta dottrina ha sottolineato sul punto come debba trattarsi di un bene di rango primario la cui importanza è riconosciuta a livello costituzionale.
    È tale primarietà, a ben vedere, che giustifica l’arretramento di tutela ad un momento precedente la lesione effettiva del bene.
    Si altresì ritenuto che i reati di pericolo fossero compatibili con il principio di offensività in quanto quest’ultimo va inteso in senso lato ricomprendendo nella lesione rilevante non solo quella concreta bensì anche quella meramente potenziale.
    È opportuno precisare come la condotta illecita causativa dell’evento dannoso rappresenti il mezzo per il tramite del quale si configura il pericolo della lesione per il bene presidiato.
    Sul punto la dottrina ha operato una distinzione tra l’evento in senso naturalisitico (fatto naturale volto a causare il pericolo) ed evento giuridico (pericolo della lesione). Tale discrimen è essenziale al fine di comprendere in toto la struttura dei reati di pericolo.
    A ben vedere, infatti, in tali reati l’eventus damni in senso naturalisitico non esiste; ciò che l’ordinamento sanziona a monte è, infatti, la condotta concretizzante il pericolo del verificarsi dell’evento dannoso stesso. Se si guarda tuttavia all’evento in senso giuridico lo stesso, nei reati di pericolo, coincide con il pericolo della lesione.
    Al fine di meglio comprendere i tratti essenziali dei reati di danno e di quelli di pericolo e il ruolo dell’evento in tali ambiti, è opportuno porre mente ad alcune tipologie di reato disciplinate nella parte speciale del codice penale.
    Emblematici sul punto sono i delitti contro l’incolumità pubblica e i reato contro il patrimonio.
    I primi, disciplinati al libro VI del codice vigente, sono reati di pericolo in relazione ai quali il legislatore ha ritenuto necessario punire tutte le condotte volte a mettere in pericolo il bene della incolumità pubblica.
    All’interno del titolo in esame assumono una valenza importante i reati di disastro (disastro ferroviario, art. 430 c.p.; pericolo di disastro ferroviario art. 431 c.p.). E FORSE CON RIFERIMENTO A 430 E 431 SAREBBE STATO OPPORTUNO OPERARE UN PARALLELISMO TRA LE DUE NORME EVIDENZIANDONE LE DIFFERENZE
    Si tratta di due reati di pericolo nei quali l’evento di danno non si è verificato; tuttavia in ragione della primarietà dell’interesse protetto dall’ordinamento il legislatore ha inteso incriminare condotte atte a mettere in pericolo il bene stesso e a prescindere dall’effettiva causazione di un danno (evento naturalisitico).
    È bene notare, nello specifico, come la fattispecie del disastro di cui all’art. 430 c.p. sia un reato di pericolo astratto in relazione al quale non occorre che il giudice accerti la pericolosità della condotta la quale si reputa pericolosa ex se (presunzione iuris et de iure); diversamente accade nel delitto di pericolo di disastro ferroviario; tale reato rientra nella categoria dei reati di pericolo concreto nei quali il giudice è tenuto ad accertare la pericolosità dell’agire illecito al fine di accordare rilievo penale alla condotta dell’agente.
    È proprio con riferimento ai reati di pericolo (sia astratto, sia concreto) che si sono ravvisati problemi di compatibilità con il principio di offensività.
    Tali perplessità sono state sopite dalla prevalente giurisprudenza la quale, facendo perno sulla centralità del bene protetto, ritiene opportuno anticipare la tutela ad un momento precedente il verificarsi del danno; e ciò in completa armonia con il principio di offensività in quanto il comportamento illecito, pur non avendo concretizzato un danno, ha messo in pericolo l’integrità dell’interesse con ciò creando un’offesa potenziale allo stesso.
    Quanto detto con riferimento ai reati di pericolo e alla loro compatibilità con il principio di offensività porta a comprendere le differenze strutturali con i reati di danno.
    In tali ultimi delitti l’evento si atteggia in modo differente rispetto ai reati di pericolo.
    Ciò in quanto lo stesso coincide con il danno al bene protetto non già con il pericolo del danno (evento naturalistico ed evento giuridico coincidono).
    Tipici esempi di reati di danno sono i delitti contro il patrimonio, disciplinati al titolo XII del codice penale.
    Tali fattispecie sono accomunati dall’identità del bene tutelato (il patrimonio altrui).
    Ponendo mente in particolare, ai reati di truffa di cui agli artt. 640 ss. c.p. è bene sottolineare come al fine del perfezionamento dei reati de quo occorra che venga arrecato un danno concreto al patrimonio altrui.
    Il danno nei reati di truffa consiste nella diminutio patrimonii del soggetto passivo e nella corrispondente ed ingiusta locupletazione dell’agente.
    Il patrimonio altrui – quale bene protetto - è leso irrimediabilmente a seguito dell’arricchimento del soggetto attivo il quale, con frode, ha ottenuto un guadagno non dovuto.
    Il reato si perfeziona con il verificarsi del danno.
    Da quanto detto pare evidente come nei reati di truffa – diversamente da quanto accade nei reati di disastro – il legislatore non abbia avvertito l’esigenza di anticipare la tutela penalistica ad un momento precedente la causazione dell’evento dannoso (danno inteso quale evento naturalisitico e giuridico al contempo).
    Ciò in quanto il bene protetto (patrimonio altrui) non è elevabile a bene di rango primario come la pubblica incolumità.
    Il minor rilievo ordinamentale dell’interesse protetto giustifica la differente caratterizzazione dei reati di danno rispetto a quelli di pericolo.

    12-
    BUONA LA PREMESSA.
    NON PIENAMENTE SUFFICIENTE PERCHE’ NON DEL TUTTO CONVINCENTE CON RIFERIMENTO AI REATI CONTRO LA PUBBLICA INCOLUMITA’.
    CONSIDERI CHE NEL TITOLO DEDICATO A TALI DELITTI, REGNO SI’ DEI REATI DI PERICOLO, NON RISIEDONO TUTTAVIA PERO’ ESCLUSIVAMENTE REATI DI PERICOLO PRIVI DI EVENTO IN SENSO NATURALISTICO; I.E. NEL 430 UN EVENTO C’E’, PER QUANTO LE SUE CONSEGUENZE DANNOSE POSSANO ESSERE MINIMALI.

    ***
    dell'altro tema opzionale non ci sono state sufficienze :D

    ****
    solo una curiosità che spero qualcuno possa risolvere: come si fanno a scrivere 10 pagine in word di tema? no, perché equivalgono diciamo ad una ventina di fogli scritti a mano...se in sede concorsuale riuscite a scrivere 20 pagine di brutta ed a ricopiarla (ma pure soli a scriverle in bella) avete tutta la mia stima -_-
     
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    i temi copiati non saranno corretti.
    è inopportuno ed irrispettoso nei riguardi di chi dedica tempo a questa iniziativa ed a voi serve a ben poco.
    quindi, se dovete scriverli coi libri aperti, risparmiatevi questa fatica.
     
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  7. ignvall
     
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    E il miglior tema di diritto civile ?
     
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    CITAZIONE (ignvall @ 11/2/2013, 12:40) 
    E il miglior tema di diritto civile ?

    drevono ancora arrivare le correzioni di civile.
    tra un po' pubblicherò quelle di amministarivo.
     
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  9.  
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    1)I ricorsi amministrativi non impugnatori: natura giuridica, caratteristiche, disciplina

    In via preliminare rispetto all’analisi della specifica categoria dei ricorsi amministrativi non impugnatori pare opportuno dedicare qualche sia pur breve cenno alla tutela giustiziale in generale. Tramite i ricorsi amministrativi si sollecita la pubblica amministrazione a rivedere una propria determinazione, nell’àmbito di un procedimento che alcuni considerano espressione di autotutela (intesa come facoltà per la p.a. di risolvere da sé le controversie con i privati, senza ricorrere all’autorità giudiziaria, e avendo sempre come fine ultimo il miglior perseguimento dell’interesse pubblico), altri invece inquadrano nel genus dell’autodichia (i.e. la possibilità per la p.a. [non di “autotutelare” i propri interessi, ma] di decidere da sé, in veste neutrale – ponendo, cioè, tutti gli interessi sullo stesso piano –, i conflitti con i terzi, mediante un’applicazione “oggettiva” del diritto al caso concreto).

    La funzione pratica dei ricorsi amministrativi consiste nel consentire di ottenere una pronuncia della p.a. in tempi rapidi, tra l’altro facendo valere, di norma, anche vizi di merito, ciò che in sede giurisdizionale è ammesso soltanto in ipotesi eccezionali (cfr. art. 7, c. 6, c.p.a.). D’altro canto, proprio la “snellezza” procedurale che contrassegna i rimedi amministrativi ne costituisce il vero limite, e spiega come mai essi hanno di regola carattere facoltativo rispetto alla tutela giurisdizionale, non costituiscono cioè una “tappa” obbligata per poter accedere a quest’ultima. E’ nota, infatti, la difficile compatibilità costituzionale (il riferimento è, in particolare, all’art. 24 Cost.) di quelle previsioni che subordinino la praticabilità della tutela innanzi al giudice (ordinario o amministrativo) al previo esperimento di un ricorso amministrativo: al riguardo, la Corte costituzionale ha mostrato un atteggiamento sempre più “severo” nei confronti di simili preclusioni, tanto che esse sono oggi circoscritte ad ipotesi eccezionali (v., ad es., art. 443 c.p.c.; in tema di ordinamento militare, v. art. 16 [peraltro abrogato] l. n° 382/1978; dei ricorsi non impugnatori si dirà amplius infra).

    Venendo alle tradizionali distinzioni in materia di rimedi amministrativi, occorre ricordare quella tra ricorsi ordinari – avverso atti non definitivi della p.a., che cioè non costituiscono l’ultima parola dell’amministrazione su una determinata controversia (sono tali a) il ricorso gerarchico c.d. proprio, rivolto ad un’autorità gerarchicamente sovraordinata rispetto a quella che ha emanato l’atto impugnato; b) il ricorso gerarchico c.d. improprio, laddove manchi invece una vera e propria gerarchia; c) il ricorso c.d. in opposizione, indirizzato alla stessa autorità che ha posto in essere l’atto) – e ricorsi straordinari, proponibili soltanto avverso atti definitivi (l’unica ipotesi è rappresentata dal ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: da un punto di vista teorico, peraltro, è possibile distinguere tra atti definitivi per natura – emessi da organi superiorem non recognoscentes [es. organi collegiali, ministri, dirigenti apicali] –, per legge [es. provvedimenti prefettizi in tema di requisizione d’urgenza], nonché in via implicita [es. provvedimenti espropriativi, di retrocessione dei beni espropriati, in tema di distributori di carburante]). Va in ogni caso rammentato che la definitività non è più – salve le cennate eccezioni – condicio sine qua non per l’attivazione della tutela giurisdizionale.

    Si distingue, poi, tra rimedi generali – per i quali non occorre un’espressa previsione di legge (sono tali il ricorso gerarchico proprio e il ricorso straordinario) – ed eccezionali – ammessi, per converso, solo ove contemplati da un’esplicita disposizione (in genere di rango legislativo). Un’ulteriore distinzione è quella tra ricorsi eliminatori – che consentono solo la caducazione del provvedimento impugnato – e ricorsi rinnovatori – tramite i quali la p.a. è investita del potere di rivalutare la situazione giuridica controversa (sono tali il ricorso in opposizione, talora il ricorso gerarchico proprio, eccezionalmente quello improprio, mai il ricorso straordinario).

    Infine, sulla scorta di un’autorevole dottrina, si distingue tra ricorsi impugnatori e ricorsi non impugnatori:

    a) i primi sono rimedi proposti nei confronti di un provvedimento amministrativo, di cui viene chiesto l’annullamento o la riforma. Gli autori che hanno approfondito quest’ultima distinzione hanno evidenziato come nel caso dei ricorsi impugnatori sia riscontrabile una prevalenza dell’interesse soggettivo dell’autorità su quello obiettivo connaturato all’imparzialità: in altri termini, la decisione resa all’esito di un ricorso impugnatorio, pur inscrivendosi nel quadro di una funzione giustiziale – volta, cioè, all’affermazione del diritto nel caso concreto –, risentirebbe in qualche misura del carattere “orientato”, “interessato” che tradizionalmente connota l’agere amministrativo che si estrinseca attraverso provvedimenti autoritativi;

    b) i ricorsi non impugnatori riguardano, invece, le controversie insorte – generalmente in materia di diritti soggettivi (e dunque svincolate dalla previsione di un termine di decadenza) – tra due o più soggetti (che possono essere tutti privati, tutti pubblici, o in parte pubblici e in parte privati) che operano all’interno del medesimo ordinamento di settore oppure in àmbiti che, pur estranei alla sfera dei pubblici poteri, toccano, anche solo indirettamente, interessi della p.a.

    Il discrimine fondamentale rispetto alla prima tipologia di rimedi è dunque costituito dal fatto che in quest’ultimo ordine di casi non si impugna un provvedimento, bensì si conosce di un rapporto: la p.a. è chiamata, cioè, a pronunziarsi su controversie eminentemente interprivatistiche. Ne deriva che, come è stato correttamente evidenziato, manca qui quel “connubio” tra imparzialità e interesse che contraddistingue i ricorsi gerarchici: il punto di equilibrio tra questi due valori è individuato facendo prevalere la prima a discapito del secondo; rimangono così in ombra i caratteri dell’“imperatività” e dell’“autoritatività” della p.a. giudicante, e ci si trova al cospetto - più che ad un procedimento di secondo grado – ad una situazione assimilabile a quella che è dato riscontrare sul versante giurisdizionale. Parrebbe quindi corretto accostare i ricorsi non impugnatori all’autodichia piuttosto che all’autotutela, attesa la posizione di più marcata “terzietà” dell’amministrazione chiamata a pronunciarsi sull’istanza del soggetto che reclama tutela. Di qui, ancòra, il carattere eccezionale che si suole attribuire ai ricorsi non impugnatori.

    Ciò detto sull’inquadramento giuridico di siffatta categoria, si possono passare rapidamente in rassegna le principali ipotesi comunemente ricondotte al suo interno. Si considerino i ricorsi

    - alle commissioni regionali e provinciali di vigilanza per l’edilizia economica e popolare (la natura amministrativa e non giurisdizionale di queste commissioni è stata costantemente ribadita dalla Corte di cassazione e dalla giurisprudenza amministrativa; peraltro, alcune funzioni della commissione sono senz’altro giurisdizionali – es. quelle in materia di condominio);

    - ai consigli comunali, provinciali e regionali, per far dichiarare la decadenza di consiglieri in regime di incompatibilità o di ineleggibilità;

    - per controversie tra agenti esattoriali ed enti pubblici di appartenenza;

    - per controversie in materia doganale;

    - proposti da comuni e province per controversie riguardanti i confini;

    - tra assistiti ed enti previdenziali, a proposito di trattamenti di previdenza spettanti ai primi;

    - rivolti all’ispettorato provinciale dell’agricoltura per controversie tra locatore e coltivatore diretto a proposito delle migliorie recate al fondo.

    In punto di disciplina giuridica, la questione di fondo che si pone è se sia applicabile la regolamentazione dettata per i ricorsi impugnatori. Si tratta, invero, di un profilo assai poco esplorato tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, sicché il còmpito dell’interprete è reso più difficile dalla mancanza di coordinate che ne illuminino l’itinerario ermeneutico. La giurisprudenza si è occupata per lo più del problema se si applichi il meccanismo del c.d. silenzio rigetto di cui all’art. 6 d.p.r. n° 1199/1971. In proposito giova ricordare che questo istituto non descrive un provvedimento tacito negativo, non va cioè confuso con il c.d. silenzio diniego (che dà corpo, insieme con la figura, ad esso speculare, del c.d. silenzio assenso, alle ipotesi di silenzio significativo previste dall’ordinamento, vale a dire il silenzio cui il legislatore assegna una determinata valenza provvedimentale): invero, quando si parla di silenzio rigetto si fa riferimento – come l’Adunanza plenaria ebbe a precisare in due importanti pronunce rese intorno alla fine degli anni ottanta – ad un semplice presupposto processuale per poter esperire ricorso giurisdizionale. Si tratta, tra l’altro, di una figura ormai recessiva, non essendo più prevista la “pregiudizialità” del ricorso amministrativo per poter adire l’autorità giudiziaria. Il silenzio rigetto non va nemmeno confuso con il c.d. silenzio rifiuto, o silenzio inadempimento, i.e. la mera inerzia della p.a., priva, in quanto tale, di valore provvedimentale, e che proprio per questa ragione ha rappresentato tradizionalmente un serio ostacolo nell’ottica della protezione giurisdizionale della situazione giuridica soggettiva vantata dal privato, atteso che il sistema di giustizia amministrativa è strutturato intorno all’impugnativa di un provvedimento, che nella fattispecie per definizione manca. La tesi secondo cui il silenzio contemplato dall’art. 6 d.p.r. cit. costituisce un mero presupposto processuale sembra avvalorata dal tenore letterale del medesimo articolo, giusta il quale, decorsi novanta giorni dalla data di presentazione del ricorso senza che l’organo adìto abbia comunicato la propria decisione, è esperibile ricorso giurisdizionale contro il provvedimento impugnato (in via gerarchica), e non – si noti – avverso l’ipotetico provvedimento tacito di diniego. Ancòra, si ritiene che la p.a. conservi il potere di decidere il ricorso amministrativo anche una volta intrapresa la strada giurisdizionale, ciò che comporta un evidente vantaggio per il cittadino (al quale può così essere somministrata una tutela pure di merito, contrariamente a quanto può accadere in sede giurisdizionale, come si è già avuto modo di precisare). Orbene, la giurisprudenza reputa che non si applichi l’art. 6 cit., talché al privato non rimane che azionare il meccanismo del silenzio rifiuto.

    Un’accorta dottrina è dell’avviso che non si applichi neppure il principio dell’unicità del grado (che per il ricorso gerarchico è stato introdotto – com’è noto – nel 1971); l’assunto è stato condiviso dalla Plenaria, la quale ha affermato che anche dopo la riforma del 1971 i ricorsi non impugnatori possono essere articolati in più gradi. Per tale via, tra l’altro, anche i ricorsi successivi al primo non presentano carattere impugnatorio, dato che non hanno ad oggetto la decisione resa sul ricorso di primo grado, bensì la pretesa originaria: non si tratta, cioè, di procedimenti di secondo grado.

    Infine, sul fronte dottrinale è stata autorevolmente sostenuta la tesi secondo cui in materia di ricorsi non impugnatori non varrebbe il principio di facoltatività del ricorso amministrativo, il previo esperimento del quale continuerebbe, pertanto, a rappresentare condicio sine qua non per poter rivolgersi al giudice. Non è mancato un recepimento giurisprudenziale di siffatta scuola di pensiero: in giurisprudenza si è ritenuto necessario – e sufficiente – il ricorso alla commissione regionale per l’edilizia onde poter adire il giudice amministrativo. A supporto di questa ricostruzione militerebbe il descritto connotato di terzietà della p.a. chiamata a pronunciarsi su un ricorso non impugnatorio, la maggior distanza rispetto agli interessi di parte che, per contro, contaminerebbero la decisione su ricorso impugnatorio. In senso contrario si potrebbero addurre le argomentazioni opposte dalla giurisprudenza costituzionale – e largamente seguite in dottrina – circa la difficile coniugabilità con il diritto di ciascuno alla tutela giurisdizionale dei propri diritti soggettivi ed interessi legittimi di un sistema che condizionasse la medesima tutela alla preventiva attivazione di un rimedio amministrativo.



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    3)
    La privatizzazione formale degli enti pubblici


    La privatizzazione degli enti pubblici prende avvio negli anni novanta, quando, con svariate previsioni normative, si è disposta la trasformazione di taluni enti in società per azioni; tra questi, l’Enel, le Ferrovie dello Stato, l’Eni, ecc.

    Tale fenomeno, tuttavia, si è arrestato ad una fase, definita “fredda” in considerazione della mancata cessione delle quote societarie, detenute dalla mano pubblica.

    Proprio tale mancata attuazione della piena privatizzazione degli enti pubblici ha suscitato tra gli interpreti diversità di vedute su svariati aspetti del fenomeno in discorso.

    La trasformazione della veste dell’ente, seguendo le prime opinioni sorte in merito, costituirebbe un ostacolo insuperabile ad una qualificazione della società come pubblica; gli enti pubblici possono essere qualificati come territoriali, non territoriali, autarchici, locali, nazionali ecc.; nella tradizionale classificazione degli enti pubblici non era dato rinvenire la nozione di ente pubblico in forma societaria.

    Tale assunto, sostenibile agli esordi del processo di privatizzazione, e nella prospettiva di un completamento dello stesso con la dismissione del patrimonio azionario pubblico, in presenza di una privatizzazione solo formale, è stato presto smentito da prevalenti prese di posizione.

    La natura pubblica delle società risultanti dalla privatizzazione degli enti risulta, inoltre, conforme al principio di legalità, essendo avvenuta detta trasformazione in forza di previsioni normative.

    La trasformazione degli enti in società, è accompagnata dalla creazione di sempre più autorità preposte al controllo dei settori privatizzati, affinchè il mutamento di veste degli enti non finisse per ridondare a sfavore dell’utenza e del mercato.

    Il rischio da scongiurare con la creazione di autorità indipendenti è che con la nascita di enti in forma societaria la finalità di lucro finisca con il prevalere su quella propria dell’ente; tuttavia è necessario evidenziare che la società-ente pubblico, pur rimanendo titolare dei poteri pubblici dell’ente da cui proviene, conferiti per il raggiungimento di certe finalità (ad es. il trasporto di persone), deve adeguare la gestione del servizio alla forma societaria, che ha finalità di lucro.

    In altri termini, secondo una tesi, sarebbe compatibile con l’aggettivo pubblica quella formula societaria la cui gestione è improntata al raggiungimento della parità di bilancio, sebbene l’ente svolga un servizio pubblico.

    Tale soluzione appare, secondo la tesi riportata, il giusto punto di equlilibrio tra le finalità pubbliche dell’ente (societario) e quelle proprie della formula utilizzata (ad es., S.p.a.).

    Potrà quindi dirsi che un ente sia ancora pubblico nonostante la sua nuova forma societaria a patto che la finalità lucrativa non prevalga su quella pubblica dell’ente e che quest’ultimo, oltreché detenere il capitale societario, sia in grado di esercitare una forte influenza sulla società.

    L’ultimo requisito, tuttavia, potrà dirsi sussistente non soltanto alla luce dei poteri spettanti all’ente in quanto detentore del capitale; se così fosse si ridurrebbe l’influenza dell’apparato amministrativo sull’attività della società a quella esercitabile dal comune azionista.

    Così non è, seguendo la tesi prevalente, l’ente deve esercitare sulla società un controllo penetrante, assicurato, ad es., dal potere dell’amministrazione di nominare e revocare gli amministratori della società, e di indirizzare l’operato di questi ultimi al fine del raggiungimento dei fini pubblicistici propri dell’ente.

    Le questioni controverse che accompagnano la trasformazione formale degli enti pubblici in società, spesso svolgenti servizi pubblici, hanno riguardato, inoltre, la concreta praticabilità della soluzione accennata sopra, secondo cui la società pubblica dovrebbe comunque raggiungere la parità di bilancio.

    Sul punto, giova richiamare quanto evidenziato in dottrina in merito al servizio di trasporto pubblico svolto da una società in mano pubblica (ad es., Ferrovie dello Stato, ovvero da altra società controllata da enti locali), che difficilmente riuscirà a compensare le spese di erogazione del servizio con il prezzo pagato dall’utenza, conseguendone l’inefficienza del servizio ovvero la sua scarsa qualità.

    Al fine di rimediare a tale evidenziato inconveniente è consentito normativamente (ad es., L. 422/97) all’ente detentore del capitale societario di finanziare la società in perdita a causa dei ridotti ricavi della gestione.

    Le società pubbliche (ad es. Enel, Ferrovie dello Stato ecc.) sono, infatti, concessionarie ex lege dei servizi originariamente spettanti all’ente ora trasformato.

    Tale ultima osservazione, tuttavia, espone il fenomeno ad ulteriori critiche, evidenziando taluno che il finanziamento da parte dell’ente in favore della società concessionaria comporta il venir meno, in tale campo, del criterio di distinzione tra concessioni ed appalti.

    La concessione si caratterizza, infatti, per l’offerta di un servizio accompagnata dalla corresponsione di un prezzo da parte dell’utenza, senza alcun onere economico per il concedente; chiaro come il finanziamento della società da parte dell’ente, anche se solo al fine del pareggio di bilancio, finisca per avvicinare tale fenomeno all’appalto, ove è l’amministrazione a corrispondere il quantum del servizio.

    A fronte della innegabile veridicità dell’osservazione, si evidenziano le ragioni sociali sottese a tale scelta del Legislatore, posto innanzi all’alternativa se consentire l’aiuto economico pubblico a talune società svolgenti servizi pubblici, che in alternativa non potrebbero soddisfare le esigenze dell’utenza, ovvero negarlo.

    Sempre in merito agli enti privatizzati svolgenti servizi pubblici, è opportuno precisare che questi, oltreché essere concessionari ex lege del servizio, sono anche cessionari dei beni a ciò necessari; alla luce di quanto detto in merito alla natura pubblicistica della società concessionaria ex lege, potranno qualificarsi pubblici tali beni funzionali al servizio pubblico, con la conseguente applicabilità del relativo regime giuridico.

    Tra le svariate problematiche sorte a seguito della privatizzazione degli enti pubblici, oltre quelle descritte, giova sofermarsi sulla questione afferente all’obbligo di tali organismi societari di rispettare le procedure di evidenza pubblica nell’affidamento di appalti o concessioni o ancora di procedere all’assunzione di dipendenti a mezzo di una procedura pubblicistica comparativa.

    La soluzione alla prima problematica è da individuarsi guardando al Codice dei Contratti Pubblici, attuativo delle direttive comunitarie nn. 17 e 18 del 2004.

    Al riguardo, merita di soffermarsi sulla questione afferente alla possibile qualificabilità di un ente in forma societaria come organismo di diritto pubblico.

    Tale nozione è importata dall’ordinamento sovranazionale comunitario, attento alla formazione di un mercato unico europeo e promotore della libera circolazione dei prodotti e dei mestieri; requisiti per l’identificazione di un organismo di diritto pubblico sono la personalità giuridica, lo svolgimento di attività di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale, il controllo pubblico, attuabile a mezzo di finanziamenti alla società, di nomina dei componenti del consigli di amministrazione ecc..

    Evidente che l’inclusione della nozione di organismo pubblico tra le amministrazioni aggiudicatrici contemplate dal Codice dei Contratti Pubblici, impone a quell’ente privatizzato che ne presenti gli elementi l’obbligo di procedere all’affidamento di lavori servizi e forniture a mezzo di procedure pubblicistiche.

    La finalità del vincolo imposto a tali organismi nella scelta dell’aggiudicatario è quella di evitare che società operanti per fini non commerciali o industriali, che operano, quindi in assenza dei rischi del mercato, scelgano il contraente in modo puramente discrezionale, non avendo interesse ad una valutazione della migliore offerta.

    Medesima è la conclusione cui giungere nel caso di società con capitale pubblico che non sono organismi di diritto pubblico; tali enti, ivi comprese, quindi, le società detenute da enti pubblici, pur svolgendo un’attività di produzione di beni non destinati ad essere posti sul mercato, devono rispettare le procedure di evidenza pubblica (art. 32 Cod. Contratti Pubbl.).

    Infine, quanto all’ipotesi in cui l’ente privatizzato svolga attività commerciale o industriale , presentando i requisiti per la sua qualificazione come impresa pubblica, secondo parte della dottrina, la scelta del contraente non potrebbe che rispettare i principi dell’evidenza.

    Tuttavia, merita di essere riportata l’opinione di quanti osservano che la nozione di impresa pubblica è contenuta all’art. 3 Codice Contratti Pubblici, e non è invece contemplata tale nozione nella parte del codice che si occupa dell’ elencazione delle amministrazioni aggiudicatrici (art. 32).

    Se ne desume l’assenza di vincolo alcuno per le imprese pubbliche nella scelta del contraente, anche alla luce dell’osservazione che tali organi societari operano come soggetti privati, sopportando i rischi del mercato, così facendo venir meno il pericolo che l’introduzione delle procedure di evidenza tendono a prevenire: che una società che non sopporta i rischi del mercato, poiché in mano pubblica, affidi senza gara lavori, servizi o forniture a soggetti non in grado di garantire l’esecuzione del contratto.

    Ciò è pacifico nel caso in cui l’impresa pubblica operi in uno dei settori ordinari; i settori speciali sono così qualificati in considerazione dell’oggettivo servizio interessato(distribuzione gas, servizio trasporto ecc.) che ne rende la disciplina eccentrica rispetto a quella dei settori ordinari.

    L’eccentricità si coglie con l’osservazione della non inclusione dell’impresa pubblica tra le amministrazioni aggiudicatrici nei settori ordinari e, al contrario, la sua inclusione tra gli enti aggiudicatori contemplati dall’art 207 Codice Contratti Pubblici (che si riferisce ai settori speciali).

    Ne consegue che ad es. l’ente pubblico (privatizzato) svolgente il servizio di distribuzione del gas(Eni), dovrà rispettare la procedura pubblicistica per l’affidamento di lavori servizi e forniture strettamente connessi al servizio speciale di distribuzione del gas, non già nel caso in cui l’affidamento inerisca a settori oridinari (ad es. affidamento del servizio di vigilanza sulle stazioni Eni), come detto, non essendo compresa l’impresa pubblica tra le amministrazioni aggiudicatrici nei settori ordinari.

    La questione che, senza pretese di esaustività, si è ricostruita, non avrebbe ragione di porsi se il processo di privatizzazione non si fosse arrestato ad una fase fredda; in presenza di una privatizzazione sostanziale degli enti pubblici svolgenti attività di impresa nessun vincolo procedurale potrebbe essere imposto alla scelta del contraente.

    In altri termini, la dismissione del patrimonio societario da parte dell’ente, comportando la perdita del controllo dell’impresa, farebbe venir meno la possibilità di qualificare detto organo come pubblico.

    Medesima è la conclusione cui giungere in merito all’obbligo degli enti privatizzati di procedere all’assunzione di dipendenti a mezzo di procedure comparative pubblicistiche, soluzione imposta dall’arresto ad una fase fredda del processo di privatizzazione degli enti pubblici.

    Oltre quelle menzionate, sono diverse le questioni controverse sorte in conseguenza della suddetta privatizzazione formale degli enti pubblici; tra queste, quella relativa al riparto di giurisdizione tra G.A. e G.O. sull’impugnazione dell’atto di revoca dell’amministratore di una società in mano pubblica.

    Come detto, tra gli indici di riconoscimento della pubblicità dell’ente societario, vi è quello della nomina discrezionale dei membri del consiglio di amministrazione della società, che consente all’ente, detentore del capitale societario, un controllo penetrante sull’attività sociale.

    Ebbene, se non sono stati prospettati dubbi sulla spettanza delle questioni afferenti all’impugnativa dell’atto di nomina all’autorità giurisdizionale amministrativa, lo stesso non può dirsi in riferimento alla revoca dell’incarico in discorso.

    L’atto di nomina degli amministratori è, infatti, espressione di poteri discrezionali rinvenibili in capo agli organi dell’ente, intendendo come tali quei soggetti legati da un rapporto di servizio con l’ente ed abilitati a manifestare all’esterno la volontà dello stesso.

    Non altrettanto concordi sono le opinioni in relazione al riparto di giurisdizione tra G.A e G.O. delle questioni afferenti alla revoca dell’incarico di amministratore di società pubbliche.

    A fronte di una tesi asserente la natura privatistica di tale atto, incidente in senso eliminativo sugli effetti del precedente conferimento di incarico, con conseguente devoluzione delle relative questioni alla giurisdizione ordinaria, opposta opinione rinviene in detta revoca i caratteri del provvedimento di secondo grado di matrice pubblicistica, deducendone la competenza del G.A..

    La tesi pubblicistica, oltreché sostenere la rinvenibilità dei caratteri del provvedimento autoritativo nell’atto di revoca, evidenzia come, quantomeno in relazione alla revoca degli amministratori di società pubbliche svolgenti servizi pubblici, non può dubitarsi della sussistenza della giurisdizione del G. A.; nel settore dei servizi pubblici già dal D.l.gs. n. 80/98 (oggi dal c.p.a.) è prevista la giurisdizione esclusiva del G.A..

    Tuttavia, in considerazione della vincolatività per il G.A. delle statuizioni della Suprema Corte di Cassazione in tema di riparto di giurisdizione, occorre prendere atto dell’orientamento di quest’ultima, che ritiene l’atto di revoca incidente sul contratto di servizio esistente tra società e amministratore, le cui controversie sono devolute all’autorità giurisdizionale ordinaria poiché in esse non sono coinvolti profili pubblicistici di esercizio del potere.

    Ulteriore questione legata alla persistente natura pubblicistica degli enti privatizzati, è quella della configurabilità o meno di un danno erariale in presenza di perdite economiche cagionate da amministratori poco prudenti nella gestione societaria.

    Anche in tale ipotesi può essere premesso che la questione non si porrebbe se il processo di privatizzazione degli enti pubblici fosse portato a compimento con la dismissione del capitale societario; in tal caso, infatti, oltreché potersi escludere l’applicazione delle norme che obbligano all’evidenza pubblica la società nell’affidamento di lavori, servizi e forniture, potrebbe escludersi la possibilità di aggettivare il danno cagionato all’organo societario come ererariale.

    In assenza di una effettiva privatizzazione degli enti pubblici è stato compito degli interpreti individuare i presupposti per la prospettazione di un danno all’erario come conseguenza del danno cagionato alla società pubblica.

    Presupposto per la responsabilità erariale è la sussistenza di un rapporto di servizio tra l’ente e l’autore del danno.

    Il fenomeno della privatizzazione degli enti pubblici, tra gli altri, ha provocato l’effetto espansivo della nozione di rapporto di servizio, originariamente riferibile al vincolo intercorrente tra l’ente ed i suoi dipendenti ed oggi esteso anche a quello tra ente e società in mano pubblica.

    Chiaro come tale estensione della nozione di rapporto di servizio finisca con l’ampliare l’ambito della giurisdizione contabile e, tuttavia, giova precisare che, attenta dottrina evidenzia come non ogni danno all’organo societario possa considerarsi un danno per l’ente detentore del capitale azionario; occorre, a tal proposito, tener distinto il danno diretto all’ente, al quale consegue la responsabilità erariale, da quello indiretto, connesso alla perdita di valore delle quote di partecipazione, che comporta responsabilità ai sensi delle norme codicistiche.

    Il danno erariale sarà,inoltre, proporzionale alla quota di capitale detenuta dall’ente; ne consegue la non prospettabilità di alcun danno per l’ente pubblico in presenza di un nocumento arrecato ad una società partecipata in minima parte dall’amministrazione.

    Sul punto, a risolvere ogni dubbio è intervenuto il Legislatore (art 16 bis D.L. n. 31/08), che ha subordinato la reponsabilità dagli amministratori della società per il danno cagionato all’erario alla partecipazione dell’ente al capitale societario in misura almeno pari al cinquanta per cento.

    Può , quindi, escludersi la giurisdizione contabile per tutti i danni cagionati da amministratori di società partecipate dall’ente in misura inferiore al cinquanta per cento, spettando tali controversie alla competenza del G.O..

    Tale tesi è, tuttavia, smentita da opposto orientamento, seguendo il quale, se è vero che la nozione di rapporto di servizio può essere estesa al vincolo che lega l’ente alla società partecipata, lo stesso non può sostenersi riguardo al legame sussistente tra gli amministratori della società partecipata e l’ente.

    Se ne deduce che l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori che abbiano cagionato un danno alla società (mala gestio) dovrà essere intrapresa innanzi al G.O., applicando le disposizioni codicistiche di cui agli artt. 2393 c.c. e 2393 bis c.c., non già innanzi alla Corte dei Conti.

    Diversamente, sussisterà sempre la giurisdizione contabile in caso di danno all’immagine dell’ente conseguente alla commissione di un reato da parte degli amministratori della società, anche se questa sia partecipata dall’ente in misura inferiore al cinquanta per cento.

    Ciò in considerazione del nocumento arrecato all’ente detentore del capitale sociale, che subisce un danno all’immagine in conseguenza della commissione di un reato da parte dell’amministratore societario a prescindere dalla misura della quota di partecipazione.

    In conclusione, può evidenziarsi ulteriormente come il filo che unisce tutte le eterogenee questioni che si è cercato di descrivere sia costituito dal mancato completamento del processo di privatizzazione degli enti pubblici.

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    a) aderenza alla traccia: eccellente
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    per l'altra traccia non sono pervenuti temi o almeno non sufficienti :)

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    per civile c'è da attendere un pochino :)
     
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    le correzioni dei temi di civile sono un po' più lente del solito, complici gli impegni della correttrice e il copioso numero di temi giunti...perciò, pazientate. :)
    grazie
     
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  11. mirose81
     
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    ma i temi di civile erano tutti insufficienti? :huh:
     
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    Le fonti atipiche delle obbligazioni civili con particolare riguardo alle obbligazioni da contatto sociale.

    Il referente normativo per la trattazione delle fonti atipiche delle obbligazioni rappresenta la norma di esordio della disciplina codicistica sulle fonti in generale (art. 1173 c.c.). Ed è da tale norma che bisogna partire per analizzare la portata di un giudizio di atipicità con riferimento alle fonti del sistema odierno.
    La specificazione normativa sulle fonti delle obbligazioni risulta fondamentale ai fini del soddisfacimento di quell’esigenza di certezza che sta alla base di ogni rapporto giuridico.
    La previa conoscibilità della fonte di un rapporto obbligatorio evita ai consociati di rimanere giuridicamente vincolati da obblighi non scientemente assunti e consente, inoltre, di conoscere in anticipo la disciplina regolante ciascuna fattispecie.
    L’art. 1173 c.c. ha innovato rispetto al codice previgente, accogliendo la tripartizione di derivazione romanistica, risalente a Gaio.
    Come espressamente sancito «le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico ».
    In particolare, quest’ultima categoria (le “varie causarum figurae” di Gaio) è quella potenzialmente più aperta e consente di leggere il sistema in chiave evolutiva. Infatti, la massiccia dose di indeterminatezza che la caratterizza, ha portato la dottrina a considerarla referente del principio di atipicità che, invero, pervaderebbe l’intero sistema delle fonti. Basti pensare alla possibilità riconosciuta all’autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.) di creare contratti atipici, soggetti ad una valutazione di meritevolezza degli interessi regolati non dissimile da quella richiesta nella parte conclusiva dell’art. 1173 c.c.
    Ovvero si consideri la clausola generale dell’ingiustizia del danno (art. 2043 c.c.), parametro con cui si condiziona l’insorgenza dell’obbligazione risarcitoria alla sussistenza di una situazione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela dall’ordinamento.
    Ma come è stato possibile giungere ad una definizione di atipicità del sistema delle fonti? ( evita interrogativi diretti)
    Il codice del 1865 aveva adottato uno schema rigido, recependo la quadripartizione giustinianea, che contemplava, accanto alla legge e al contratto, le due figure ambigue dei quasi delitti e quasi contratti. Quest’ultime due categorie sono, oggi, state ricollocate rispettivamente nell’area dell’illecito e in quella degli altri atti o fatti.
    Inoltre, nel codice odierno, è scomparso il riferimento alla fonte legale, considerato un’aggiunta pleonastica del codice previgente. L’omissione della legge dal prospetto delle fonti non ne esclude, però, il ruolo di fonte, ma lo ridimensiona a quello di mero filtro di compatibilità di ciascuna fattispecie con l’ordinamento.
    Presumibilmente il legislatore del ’42, con il richiamo all’ordinamento, intese porre un limite di ammissibilità alle fattispecie produttive di obbligazioni, con conseguente esclusione delle fonti atipiche.
    Pertanto, gli altri atti o fatti (leciti) dovevano comprendere solo ipotesi normativamente previste, come le promesse unilaterali, la gestione di affari altrui, la ripetizione dell’indebito, l’arricchimento senza causa.
    Successivamente si è valorizzato un diverso significato del prefato disposto.
    Si è, infatti, asserito che il giudizio di compatibilità con l’ordinamento, pur costituendo una sorta di limite, consente di superare lo schema rigido tradizionale in favore di un sistema aperto e idoneo ad accogliere fattispecie non direttamente previste in norme puntuali, ma in grado di generare rapporti obbligatori di cui l’ordinamento non può disinteressarsi.
    D’altronde in favore dell’atipicità milita un significativo riscontro: l’assenza nel codice di un’espressa previsione del principio di tipicità, ribadito invece altrove, come nel caso dei diritti reali, per cui vige la regola del numerus clausus. Analogo silenzio è serbato dalla Costituzione che all’art. 23 parla semmai di prestazioni “imposte in base alla legge” più che di prestazioni “previste dalla legge”.
    La questione dell’ammissibilità delle fonti atipiche è stata approfondita con riferimento ai c.d. rapporti contrattuali di fatto, di matrice tedesca.
    Tale categoria è stata elaborata in Germania alla fine degli anni ’40 e introdotta dalla dottrina italiana solo dopo l’entrata in vigore del codice civile.
    I teorici tedeschi avevano prospettato l’idea di relazioni contenutisticamente simili ai rapporti contrattuali, ma nascenti da una fonte diversa dal contratto. Precorrendo i tempi la dottrina tedesca, seguita da quella italiana, tentava di superare il tradizionale assunto per cui un’obbligazione contrattuale trae origine solo da un contratto formale, assumendo come contrattuale ogni rapporto in cui si determini un vincolo di corrispettività.
    L’elaborazione più interessante di tale principio è contenuta nella teorica, ribattezzata dalla dottrina italiana, del «contatto sociale qualificato».
    Con l’espressione «contatto sociale» si intende un rapporto socialmente tipico, che ingenera nei soggetti coinvolti un obiettivo affidamento, dal momento che l’ordinamento lo qualifica e vi riconnette una serie di obblighi specifici di comportamento attivo.
    Una prima applicazione pratica del principio suddetto è attestata dalla sentenza della Cassazione n. 589 del 1999, che rappresenta un interessante revirement rispetto all’orientamento tradizionale.
    La questione affrontata dalla Corte aveva ad oggetto la natura della responsabilità di un medico-chirurgo, dipendente da una struttura ospedaliera, per l’esito negativo di un intervento.
    Tradizionalmente e secondo i principi consolidati in tema di rappresentanza volontaria, il medico operante in una struttura sanitaria era considerato organo dell’ente ospedaliero e, come tale, i suoi atti erano riferibili direttamente all’ente, che ne rispondeva ex art. 1228 c.c. In capo al medico residuava, eventualmente, una responsabilità ex art. 2043.
    Tale tesi ha prestato il fianco a diverse critiche.
    Innanzitutto il medico non può essere paragonato al “quisque de populo” dell’illecito aquiliano. Egli non è, infatti, un extraneus che senza titolo si ingerisce nella sfera giuridica altrui, ma parte di un rapporto qualificato che preesiste alla nascita dell’obbligazione risarcitoria, accessoria e secondaria rispetto all’obbligazione principale.
    Inoltre, sul medico non grava il generico dovere di neminem laedere, che implica una mera astensione da comportamenti nocivi, bensì specifici obblighi attivi per la cui violazione può incorrere in una responsabilità per culpa in non faciendo.
    Dal momento in cui il medico accetta il paziente, pur non avendo concluso con esso alcun formale contratto, assume una serie di obblighi c.d. di protezione del diritto fondamentale della salute, in virtù del dovere di solidarietà sancito dall’art. 2 Cost.
    Non trovando fonte in un contratto detti obblighi sono stati definiti senza prestazione, pur essendone ontologicamente assimilabili. Infatti, il medico dipendente deve assolvere, con la diligenza richiesta dalla natura della sua professione, gli specifici obblighi inerenti al ruolo che gli compete e che sono medesimo contenuto del contratto d’opera professionale che, di regola, stipula col paziente.
    In questo modo la responsabilità del medico è sganciata da quella dell’ente e viene considerata alla stregua di una responsabilità da inadempimento, con importanti risvolti in tema di disciplina applicabile.
    Senza dubbio una qualificazione contrattuale della responsabilità medesima giova alla parte debole del rapporto, che può usufruire di un termine prescrizionale più lungo e di un regime favorevole in tema di onus probandi. Inoltre, i danni risarcibili non sono più limitati agli eventi peggiorativi, ma includono la lesione dell’aspettativa per i mancati miglioramenti.
    La fondamentale pronuncia del ’99 ha dato la stura per l’estensione della fattispecie ad altri ambiti in cui, a prescindere da un previo contratto, si instauri tra le parti una relazione qualificata, che richieda l’adempimento di determinati obblighi di protezione in capo alla parte forte del rapporto.
    Il principio è stato, altresì, applicato dalla giurisprudenza di legittimità alla responsabilità dell’insegnante per le autolesioni dell’alunno. La Cassazione nel 2002 ha negato che, in un caso simile, possa trovare applicazione la presunzione di responsabilità ex art. 2048 co. 2, limitata ai soli casi di danni inferti dall’incapace a terzi.
    Sebbene un contratto esista solo tra i genitori dell’alunno e l’istituto scolastico, il precettore si fa carico non solo degli obblighi tipici della sua professionalità (istruire ed educare) e che adempie in virtù del rapporto di dipendenza con la scuola, ma in ragione del contatto sociale assume, implicitamente, anche gli obblighi accessori di vigilanza e controllo, per evitare che il minore si procuri, da solo, danni alla persona.
    Più di recente la Corte ha applicato il medesimo principio con riferimento all’attività del mediatore immobiliare (ex. art. 1754 c.c.) e delle agenzie di rating, che data la particolare professionalità che li caratterizza, ingenerano nei soggetti con cui si relazionano un legittimo affidamento sulla correttezza del loro operato. Pertanto, pur essendo soggetti terzi al rapporto contrattuale, non possono essere considerati estranei, perché condizionano il gioco di mercato attraverso le loro informazioni.
    In tutti questi casi gli operatori professionali sono chiamati a rispondere in via contrattuale secondo il regime sopra descritto.
    Ancora in dubbio è la qualificazione della responsabilità precontrattuale, ricondotta per un verso nella categoria della responsabilità aquiliana, per altro riferita all’ipotesi del contatto sociale. Le pronunce più recenti sembrano orientarsi nel considerare le trattative come una relazione qualificata, cui l’ordinamento riconnette gli specifici obblighi di cui all’art. 1337 c.c., posti a protezione degli interessi dei futuri contraenti. Diversamente la giurisprudenza europea opta per la qualificazione extracontrattuale.
    Infine un’ipotesi di responsabilità contrattuale da contatto sociale, consolidata in giurisprudenza, pare ormai sconfessata dalla riforma legislativa. Si fa riferimento alla responsabilità della P.A. per i danni cagionati dall’attività amministrativa illegittima.
    Infatti l’art. 30 comma 2 del nuovo c.p.a. ha stabilito testualmente che “Può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria..” riportando la responsabilità della P.a. nel genus di quella extracontrattuale.
    Come si desume, la fattispecie del contatto sociale risulta applicabile a svariati settori e rappresenta una risorsa fondamentale per arricchire il sistema delle fonti, tramite il richiamo a principi fondamentali dell’ordinamento.
    Senza dubbio la sua applicazione è in perenne evoluzione, dato lo sviluppo del settore professionale, ed è proprio il pericolo di questa potenziale espansione illimitata a preoccupare i teorici della materia.
    Un eccessivo ampliamento del principio in questione finirebbe, infatti, per stravolgere la summa divisio tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, relegando quest’ultima ad un’ipotesi residuale, ricomprendente i soli casi responsabilità obiettiva, in cui, effettivamente, non si instaura alcun legame tra le parti.


    GIUDIZIO 13++
    La trattazione appare più che sufficiente anche se a tratti scolastica ed eccessivamente narrativa, il candidato mostra di conoscere bene l’argomento, manca tuttavia quel collegamento giuridico degli istituti che avrebbe portato ad una votazione superiore.
    Il candidato ha comunque ben compreso il problema conoscitivo, sotto il profilo lessicale, a parte qualche piccola irregolarità, il tema è scorrevole e di facile lettura.



    - Obbligazioni solidali e vicende transattive.

    Le obbligazioni solidali rappresentano di certo la tipologia più significativa tra leobbligazioni soggettivamente complesse, nelle quali la parte contrattuale è formata da una pluralità di debitori o creditori. La solidarietà,in particolar modo quella passiva, svolge una funzione di rafforzamento della posizione creditoria dal momento che,se uno deidebitorisi dovesse rivelare insolvente, il creditore potrà rivolgersi agli altri condebitori ed ottenere il soddisfacimento dell’intero credito.
    Il ruolo cardine della speciesde quanella sistematica delle obbligazioni si concreta in una disciplina normativa puntuale e completa, la quale offre sicuramente un rilevante contributo ai problemi di ordine applicativo chepone la presenzadi più paciscenti.Questioni relative al rapporto tra condebitori, perchè colui al quale verrà richiesto l’adempimento per l’intero avrà interesse ad ottenere dagli altri il rimborso di quanto pagato in eccedenza rispetto alla propria quota; al rapporto tra concreditori, perché colui che avrà ottenuto l’intero credito dovrà corrispondere agli altri la quota di loro spettanza. Ed infine, con riguardo al rapporto tra parti contrapposte, nel quale si potrebbe verificare una commistione tra la prestazioni oggetto del vincolo unisoggettivo e la medesima prestazione oggetto dell’obbligazione solidale.
    A testimonianza della centralità giuridica che il legislatore ha voluto attribuire obbligazioni solidali la scarna normativa avente ad oggetto le altre tipologie di obbligazioni soggettivamente complesse: parziarie, indivisibili, collettive, in comunione. Le obbligazioni parziarie sonodisciplinate dall’art.1304 c.c. quale contraltare giuridico delle obbligazioni che le precedono. Per converso, in ordinealle obbligazioni indivisibili l’art. 1318 c.c. rimanda alla disciplina delle obbligazioni solidali. Le obbligazioni collettive non vengono neppure tipizzate, non comportando particolari conseguenze in punto di disciplina, se non quelle relative all’ adempimento della prestazione in maniera congiunta.
    Parte della dottrina riconosce identità concettuale anche alle obbligazioni in comunione ex art. 1100 c.c., mentre altri neganola categoria, assumendo che la comunione sia una figura giuridica riferibile solamente ai diritti reali. Ne deriverebbe che con riguardo ai rapporti obbligatori tra comunisti si dovrebbe discorrere più propriamente di contitolarità del credito.
    Venendo alla tematica di cui si discute, giova premettere che il rapporto tra obbligazioni solidali e il contratto di transazione si inserisce nella più ampia problematica degli effetti che alcuni istituti spiegano nella sfera giuridica dei condebitori e concreditori solidali che ne sono stati parte ed in quella di coloro che ne sono rimasti estranei, dominata dal principio generale della non estendibilità a questi ultimi degli effetti sfavorevoli.Ma procediamo con ordine. (troppo informale)
    Nell’articolo di apertura della sezione codicistica dedicata alle obbligazioni solidali, il legislatore opera la distinzionetra solidarietà passiva e solidarietà attiva (art.1292 c.c.). Nella prima, più debitori sono obbligati per la medesima prestazione ed eventualmente singolarmentecostretti all’adempimento per l’intero. La conseguenza giuridica dell’obbligo imposto al singolo è la liberazione di tutti gli altri debitori dal vincolo obbligatorio. Viceversa nella solidarietà attiva, ciascun creditore ha diritto a chiedere l’adempimento per l’intero, con conseguente liberazione del debitore nei confronti di tutti gli altri creditori.
    Il vincolo della solidarietà si presume iuris tantumin presenza di più condebitori, mentre la solidarietà attiva deve necessariamente risultare dal titolo o dalla legge: regola che si pone perfettamente in linea con la funzione di garanzia, propria delle obbligazioni solidali, sopra menzionata.
    Quanto agli elementi dai quali è possibile evincere il vincolo della solidarietà, èl’art.1292 c.c. a tracciarne le linee essenziali. Indiscutibile lapresenza di una pluralità di creditori, di debitori o di entrambi.
    Maggiori contrasti sono sorti circa la qualificazione di elementi costitutivi o meno dell’idem debitume dell’eadem causa obligandi. In ordine alla medesima prestazione, nonostante il chiaro riferimento operato dell’art.1292 c.c., dubbi sono stati avanzati da quella linea di pensiero che non ne ritiene necessaria la sussistenza quale oggetto dell’obbligazione solidale. Si richiama, al riguardo, la disposizione di cui all’art.1944c c.c. che sancisce la solidarietà dell’obbligazione del fideiussore con quella del debitore principale, nonostante la prestazione cui è tenuto il garante non necessariamente coincida con la prestazione principale.
    Anche in relazione alla stessa causa dell’obbligazione, parte della dottrina, ne disconosce il ruolo di elemento caratterizzante la solidarietà, operando una rigorosa lettura dell’art.1292 c.c. che neppure la richiama.
    In punto di disciplina, il legislatore distingue ulteriormente trai rapporti esterni (tra creditore e debitore) ed i rapporti interni ( tra i singoli debitori o i singoli creditori).
    In relazione al rapporto tra posizione creditoria e debitoria, come già anticipato, la conseguenza principale della solidarietà è l’attribuzione al creditore del potere di scegliere il debitore cui chiedere l’adempimento dell’obbligazione (art.1292 c.c.). Deroga alla regola generale, solamente l’ipotesi in cui sia stato pattuito il c.d.beneficiumordinis o il beneficiumescussionis: in queste ipotesi il creditore dovrà preventivamente chiedere l’adempimento dall’obbligato designato o procedere all’esecuzione sui beni di quest’ultimo. Si parla al riguardo, più propriamente, di obbligazione sussidiaria, in contrapposizione all’alternanza soggettiva della solidarietà.
    Nell’ambito della solidarietà attiva, è l’art.1296 c.c. ad attribuire al debitore la facoltà di scelta del creditore nei confronti del quale adempiere, facoltà questa che viene meno nelle ipotesiin cui sia stato già prevenuto da altro creditore con domanda giudiziale.
    Completa la disciplina relativa ai rapporti esterni l’art.1297 c.c. che esclude l’opponibilità agli altri debitori o creditori delle eccezioni personali; si è concordi nel ritenere che sono eccezioni personale quelle che hanno ad oggetto il rapporto obbligatorio tra il singolo condebitore o concreditore. In particolare, con riguardo alle cause di invalidità del contratto, sono eccezioni personali quelle fondate sull’incapacità di agire o sul vizio del consenso.
    In ordine ai rapporti interni invece l’art. 1293 c.c. non esclude la solidarietà nel caso in cui la prestazione venga adempiuta con modalità differenti e l’art. 1298 c.c. indica la divisibilità in termini quantitativi della prestazione, con presunzione di uguaglianza delle singole quote.
    Ulteriorecorollario del rapporto solidale è il diritto al regresso cui ha titolo il debitore adempiente per l’intero, nei confronti dei condebitori solidali. Con l’azione di regresso il debitore adempiente potrà chiedere ai singoli condebitori la quota loro spettante, che ex art. 1297, co.2, c.c. si presumeuguale per tutti (fatta salva l’ipotesi in cui sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuni di essi).
    La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto valida l’esperibilità dell’azione di regresso congiunta proposta dai condebitori adempienti nei confronti degli altri. In particolare, la Suprema Corte ha dovuto risolvere il dubbio circa la possibilità o meno che il condebitore, contro il quale viene esercitata l’azione, possa opporre al richiedente di aver contribuito all’adempimento in misura minore rispetto alla quota a costui singolarmente spettante. La soluzione negativa è stata sposata dalla giurisprudenza più recente, la quale ha ritenuto che ciò che rileva ai fini dell’esercizio del diritto al regresso è che coloro che agiscono congiuntamente abbiano adempiuto per l’intero, risultando indifferente il singolo apporto di costoro, che rileverà solamente con riguardo ai loro rapporti interni.
    L’ultima parte della sezione codicistica in parolaè stata dedicata dal legislatore alla trattazione degli effetti che alcuni istituti giuridici spiegano sui paciscenti solidali.
    Si è cercato di contemperaredue esigenze fondamentali: il rispetto del principio di libera autonomia dei paciscenti che possono costituire, modificare, estinguere gli accordi intrapresi ed il principio generale, logico corollario del primo, secondo il quale il contratto ha forza di legge solo tra coloro che lo hanno programmato e definito.
    Se in relazione al rapporto obbligatorio unisoggettivo il mancato rispetto dei principi descritti può assumere rilievo solo nell’ipotesi, meramente eventuale, della lesione dei diritti dei terzi estranei al contratto, nelle obbligazioni solidali, la presenza di una pluralità di soggetti si assume come dato certo e, dunque, bisognoso di esser regolamentato a priori.
    Come già anticipato, il principio che permea la tematicade qua è quello secondo il quale gli effetti favorevoli si ripercuoto su tutti i condebitori o su tutti i concreditori, mentre quelli sfavorevoli solamente nella sfera di colui cui si riferiscono. Così avviene in relazione alla novazione, alla remissione del debito, alla compensazione, alla confusione, alla transazione.
    In ossequio al principio dell’intangibilità del giudicato tra le parti (art. 2909), l’art.1306 c.c. limita gli effetti della sentenza pronunciata tra il creditore ed uno dei condebitori o tra il debitore o uno dei concreditori, attribuendo agli altri la facoltà di opporla ai primi, sempre che non sia fondata su ragioni personali.
    L’unica deroga al principio in parola si registra in tema di interruzione della prescrizione del debito o del credito che spiega i suoi effetti, in ogni caso, indipendentemente dagli effetti favorevoli o sfavorevoli sulla posizione giuridica dei contitolari.
    Per quanto attiene allavicende transattive, il legislatore del codice unitario ha attribuito ai condebitori o concreditori il diritto potestativo di profittare o meno della transazione avente ad oggetto il rapporto obbligatorio. La ratio della disposizione è da rinvenire nella volontà dellegislatore di lasciare alla libertà delle altre parti la valutazione in ordine alla convenienza dell’accordo transattivo.
    Prima di analizzare come le vicende transattive si ripercuotono sulle obbligazioni soggettivamente complesse, giova ripercorrerei tratti salienti di questo negozio, nella specie, d’accertamento, disciplinato dagli artt. 1965 ss. c.c.
    Ai sensi dell’art.1965 c.c., con l’accordo transattivo le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già iniziata o prevengono una potenziale lite. Con il termine “lite”, il legislatore ha voluto sottolineare che l’oggetto della transazione deve essere una situazione di disaccordo tra le parti, già oggetto di contenzioso processuale o potenzialmente verificabile in un prossimo futuro.
    Non necessariamente la transazione implica l’estinzione del precedente rapporto obbligatorio. Ciò avviene solamente nell’ipotesi di transazione novativa, la quale comportaai sensi dell’art. 1976 c.c. l’impossibilità di richiedere la risoluzione della transazione per inadempimento, salva l’ipotesi di un’espressa pattuizione in tal senso. Si è concordi nel ritenere che l’esclusione riguardisolamente la risoluzione per inadempimento (che non avrebbe ragion d’essere considerata l’estinzione delrapporto originario) e non la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta o per eccessiva onerosità, con riguardo alle quali valgono le regole generali.
    Parte della dottrina individua quale elemento costitutivo della transazione anche la presenza di una res dubia, ossia di una situazione di incertezza che viene regolata dalle parti con l’ accordo. Sul punto, altri, con più aderenza al dettato normativo, ritengono che non sia necessario che vi sia incertezza in ordine al rapporto contrattuale, ma semplicemente che sussista una situazione di contrasto tra le parti.
    Con riguardo agli effetti della transazione sui rapporti caratterizzati da solidarietà, il legislatore deroga alla regola generale secondo cui il contratto produce effetti solo sulle parti (art. 1372 c.c.)ed offre la possibilità ai condebitore ed ai concreditore di profittare dell’accordo raggiunto dal creditore o dal debitore in solido.
    È peraltro opinione condivisa che le parti della contratto di transazione non possano escludere l’estendibilità di tali effetti mediante l’apposizione di una clausola in tal senso. La dichiarazione “di volerne profittare” si qualifica quale diritto potestativo, che non può esser escluso dall’accordo tra parti diverse da quelle del rapporto nel quale il diritto opera.
    La giurisprudenza consolidata ritiene che l’art.1304 c.c. sia applicabile solamente all’ipotesi in cui la transazione non novativa abbiaad oggetto l’intero debito e non al caso in cui l’oggetto transatto sia la singola quota. In quest’ultimo caso, possibile solo ove la prestazione sia scindibile e solo allorché la solidarietà non sia stata pattuita nell’interesse di un condebitore, la transazione avrà l’effetto di estinguere l’obbligazione del debitore parte dell’accordo. Gli altri condebitori ne gioveranno solo per il fatto che vedranno ridotta la loro quota debitoria.
    Ne deriva, quale precipitato logico, che la dichiarazione di volontà di estendere gli effetti favorevoli della transazione sarà possibile solo nell’ipotesi in cui l’accordo abbia ad oggetto l’intero debito.
    In tali situazioni si è posto, dunque, il problema del calcolo del residuo cui sono tenuti i condebitori.In particolare, ci si è chiesti se il debito si riduca dell’originaria singola quota (oggetto di transazione)o, invece, di quanto il creditore abbia riscosso a seguito dell’accordo transattivo. La differenza tra le due ipotesi non è di poco conto, considerato che, se l’importo ottenuto è minore a quello originario, il creditore potrebbe esser ritenuto legittimato a chiedere agli altri debitori l’intera prestazione, decurtata di tale somma.
    Opinando diversamente,il residuo del debito dovrebbe esser calcolato mediante riduzione della singola quota oggetto di transazione.
    Orbene, le Sezioni Unite, intervenute di recente sulla questione hanno avallato la seconda soluzione: se il debitore transigente ha versato una quota corrispondente alla sua quota di debito o maggiore, il debito residuo verrà ridotto di tale importo. Viceversa, qualora lo stesso abbia versato meno della quota dovuta, gli altri vedranno decurtato il loro debito in misura corrispondente alla quota originaria.
    Soluzione questa che trova conforto nell’esigenza di non aggravare la posizione di coloro che non hanno partecipato all’accordo e del rispetto dell’art. 1298 c.c., il quale sancisce la presunzione di uguaglianza delle quote ideali dell’obbligazione solidale.

    Giudizio 17
    Il candidato mostra di comprendere il problema conoscitivo oggetto della traccia e lo sviluppa in maniera critica e con argomentazioni corrette e convincenti. La trattazione ha, altresì, il pregio di essere chiara e di facile lettura.


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11 replies since 1/1/2013, 22:16   1365 views
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