Tracce temi Novembre 2012

tracce e migliori elaborati del mese

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    Tracce in diritto civile:

    Principale
    1) Premessi adeguati cenni sulla alternatività soggettiva nel rapporto contrattuale, si soffermi il candidato sul contratto da persona da nominare con riferimento al nascituro e alla persona giuridica in via di formazione

    Opzionale: da svolgere solo se si è svolta la traccia principale:
    2) La costituzionalizzazione del diritto privato e la sua implicazione per i diritti della personalità

    Assegno novembre : la forma del contratto
     
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    Traccia in diritto penale
    Il candidato, operata una esauriente classificazione, illustri funzione e disciplina delle circostanze del reato. Si soffermi più nello specifico sul regime della loro imputazione, anche con riferimento alle ipotesi di concorso di persone nel reato, e in particolare sui rapporti intercorrenti tra art. 59 e art. 60 c.p.

    ASSEGNO PER IL MESE DI NOVEMBRE: IL SOGGETTO ATTIVO - immunità - responsabilità enti - delega di funzioni - qualifiche soggettive; CONCORSO DI PERSONE - in particolare elemento soggettivo - 116 e 117 - agente provocatore - comunicabilità delle circostanze - concorso esterno nei reati associativi - reati contratto, reati in contratto
     
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    Tracce di amministrativo

    Tracce di diritto amministrativo

    1) Interessi di fatto ed interessi semplici. Il candidato si soffermi, in particolar modo, sulle azioni popolari.

    2) I procedimenti amministrativi ad impulso d'ufficio: l'atto di delibazione. Natura giuridica e impugnabilità dello stesso.

    3) L'elemento fiduciario nelle concessioni.




    Edited by togasana - 2/11/2012, 22:55
     
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    le tracce del mese di novembre sono state pubblicate.
    ogni mese ha una discussione ad hoc, poiché contiene le tracce ed i migliori elaborati del mese di riferimento.

    ps. la sezione del corso è una sezione nella quale (per ragioni di ordine) è parso opportuno (da sempre) permettere ad una sola persona di aprire nuove discussioni, ciò però non toglie che nelle discussione aperte ciascuno di voi possa intervenire, scrivendo di dubbi e perplessità o osservazioni o anche messaggi per i commissari (che leggeranno prima che glieli inoltri io).

    pss. devono ancora arrivare le ultime correzioni die temi di civile per ottobre, perciò stiako tardando a pubblicarne i migliori.

    :) buona giornata
     
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  5. brooke007
     
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    Toga scusa forse sbaglio discussione anzi sicuramente ma ho una domanda da porti.
    Potrei sapere dai commissari del corso temi dove approfondire gli argomenti del tema n. 1 di amministrativo? Grazie.
     
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    Traccia in diritto penale
    Il candidato, operata una esauriente classificazione, illustri funzione e disciplina delle circostanze del reato. Si soffermi più nello specifico sul regime della loro imputazione, anche con riferimento alle ipotesi di concorso di persone nel reato, e in particolare sui rapporti intercorrenti tra art. 59 e art. 60 c.p.
    L’art. 27 Cost. è il faro che deve guidare l’operatore del diritto nell’interpretazione delle norme del diritto penale. Tale disposizione, sancendo la personalità della responsabilità penale, prevede il ripudio per qualsiasi forma di responsabilità per fatto altrui ed, inoltre, esige la presenza del nesso psichico intercorrente tra soggetto agente e fatto, con conseguente illegittimità di ipotesi di responsabilità oggettiva.
    Il terzo comma della disposizione costituzionale indica la finalità della sanzione penale, ovvero la rieducazione del condannato. Pertanto, in ossequio a quanto indicato dal legislatore costituente, la pena, dovendo tendere al reinserimento in società del reo, dev’essere individualizzata. All’uopo un ruolo decisivo viene riservato al giudice, qualificato dal legislatore alla stregua di un sarto incaricato di cucire addosso al singolo la pena più adeguata alle circostanze del caso concreto. Nello svolgimento di tale compito viene riconosciuto un ambito di discrezionalità in cui l’organo giudicante può muoversi nel rispetto dei limiti fissati dalla legge. Trattandosi di discrezionalità e non invece di livero arbitrio, il legislatore ha , però, richiesto nell’art 132 c.p. che l’uso di tale potere sia motivato.
    Ai fini dell’applicazione della pena e della sua individualizzazione, il giudice non può non tener conto delle circostanze. Tale termine designa elementi significativi ulteriori e diversi rispetto a quelli costitutivi del reato. Con il vocabolo testé menzionato si intendono generalmente sia le circostanze cosiddette proprie che quelle improprie. E’ necessario distinguerle. Rientrano nella prima categoria gli elementi la cui individuazione e valutazione è opera del legislatore, mentre le circostanze improprie sono individuate dal giudice. Queste ultime trovano la loro disciplina nell’art 133 c.p. e guidano il giudicante nella determinazione in concreto, entro i limiti edittali, della pena applicabile ad un dato reato in quanto integrato nei suoi elementi costitutivi essenziali. Le circostanze proprie, invece, consistono in elementi ulteriori che accedono al reato già perfetto determinando una maggiore o minore gravità, con conseguente aggravio o riduzione di pena potenzialmente esorbitante i limiti edittali. La distinzione tra elementi costitutivi del reato e circostanze riecheggia quella civilistica tra elementi essenziali (art.1325 c.c.) ed accessori del contratto.
    E’ opportuno, ora, soffermarsi sulle circostanze cosiddette proprie partendo dalle varie classificazioni enucleabili. In primo luogo a seconda dell’effetto prodotto sulla pena si distinguono le circostanze aggravanti che comportano un aumento della sanzione penale e quelle attenuanti che, al contrario, la diminuiscono.
    In relazione all’ambito applicativo le circostanze si distinguono in generali e speciali. Le prime trovano la loro disciplina nel libro I, titolo III, capo II e sono applicabili alla generalità dei reati. Al loro interno si possono differenziare due sottocategorie: le circostanze comuni e quelle generiche. Le circostanze comuni sono tipizzate dal legislatore che individua la aggravanti all’art 61 c.p. nei numeri 1-11-quater, e le attenuanti ai numeri 1-6 dell’art 62 c.p. Le circostanze generiche, invece, sono disciplinate nella sola forma delle attenuanti nell’art 62-bis c.p. In riferimento ad esse il legislatore utilizza una formula aperta al fine di consentire all’organo giudicante, indipendentemente dalle circostanze di cui all’art. 62 c.p., di meglio adattare la pena al caso di specie, prendendo in considerazione circostanze idonee a giustificare un’ulteriore diminuzione della sanzione penale.
    Le circostanze speciali ,invece, indicate dal legislatore nelle singole norme di parte speciale, sono destinate a trovare applicazione esclusivamente nelle fattispecie incriminatrici che le richiamano. Peraltro, dall’analisi del codice penale emerge come, sovente, le disposizioni incriminatrici richiamino le stesse circostanze comuni con diverse finalità. In alcune occasioni la singola circostanza comune è richiamata per prevedere un aumento o una diminuzione della sanzione penale diverso rispetto a quello contenuto nella prima parte del codice penale ( in tal senso art. 640 comma 2 c.p., art.648 comma 2 c.p., art 289-bis comma 4 c.p.) o una specie di pena diversa (art. 576 comma 1 n. 1 c.p.). Altre volte, invece, si tratta di un mero rinvio alla circostanza comune ed alla relativa variazione di pena prevista nella parte generale (art. 323-bis c.p.) oppure di un rimando che comporta altresì una modifica del regime di procedibilità ( art 624 comma 3 c.p. e 646 comma 3 c.p.) o, ancora, l’esclusione della punibilità (art 599 comma 2 c.p.).
    A parte tali richiami alle comuni, non mancano, come sopra indicato, ipotesi di circostanze speciali diverse rispetto ad esse (artt. 625, 625-bis, 640-bis, 575, 577 c.p.).
    Ulteriore criterio distintivo delle circostanze del reato è ravvisabile nel quantum di variazione della pena. Si distinguono, in tal senso, le circostanze ad effetto comune che importano un aumento o una diminuzione fino a un terzo della pena che dovrebbe essere inflitta per il reato commesso, le circostanze ad effetto speciale la cui variazione è superiore ad un terzo ed, infine, quelle ad efficacia speciale per le queli la legge stabilisce una pena di specie diversa.
    Infine, il legislatore distingue tra circostanze soggettive ed oggettive enucleando le diverse ipotesi nell’art 70 c.p.
    Un profilo di assoluto rilievo è rivestito dai criteri di imputazione delle circostanze. Nell’impianto originario del codice Rocco era previsto il medesimo regime sia per le attenuanti che per le aggravanti, le quali venivano imputate al reo per il solo fatto di accedere al reato, a titolo di responsabilità oggettiva.
    Una modifica del sistema è intervenuta con la legge 19/1990 che ha previsto una disciplina differenziate. In particolare mentre è rimasta ferma l’imputazione delle attenuanti a titolo di responsabilità oggettiva, per le aggravanti il legislatore ha, invece, richiesto che esse debbano essere conosciute o quantomeno conoscibili. L’art 59 c.p., così come riformato, con riguardo alle aggravanti, ha quindi accolto la responsabilità soggettiva.
    Si tratte di una rivisitazione legislativa vivamente caldeggiata da dottrina e giurisprudenza in seguito all’entrare in vigore della Costituzione, in particolare dell’art. 27, e delle linee guida dettate nella storica sentenza Corte Costituzionale 364/1988.
    Il legislatore nella medesima disposizione codicistica specifica che alcuna rilevanza può essere accordata alle circostanze aggravanti o attenuanti erroneamente ritenute esistenti, le quali non vengono quindi valutate contro o a favore del reo.
    La sopra descritta disciplina generale del regime di imputabilità delle circostanze in alcuni casi viene derogata dal legislatore, talvolta in senso più favorevole, talaltra peggiorativo. Partendo dal caso di deroga in senso più favorevole si può esaminare l’ipotesi in cui il reo cada in errore sulla persona dell’offeso.
    Qualora si versi in tale fattispecie, l’art 82 c.p. prevede che il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere, ma viene fatta salva la disciplina dell’art. 60 c.p. quanto all’applicazione delle circostanze. Giova procedere all’analisi di tale disposizione. Essa disciplina il regime di imputazione di alcune circostanze soggettive, in particolare quelle che riguardano le condizioni o le qualità della persona offesa e quelle che attengono al rapporto tra offeso e colpevole nell’ipotesi in cui il rea cada in errore sulla persona dell’offeso. Il comma 1 della disposizione in analisi esclude l’applicazione delle aggravanti delle specie suddette, non ritenendo quindi sufficiente il criterio di imputazione della colpa, diversamente dall’art 59 comma 1 c.p. L’art 60 comma 2 c.p., inoltre, prevede un’ulteriore deroga al regime ordinario, in particolare prevedendo in relazione alle attenuanti (sempre concernenti le condizioni, qualità o rapporti predetti) che qualora siano erroneamente supposte esse sono comunque valutate a favore dell’agente.
    A ben vedere si tratta quindi di un trattamento di maggior favore rispetto a quello ordinario. Ciò è dovuto alla particolarità dell’ipotesi in analisi. Nel caso di errore della persona offesa il legislatore si mostra indifferente al fatto che l’offesa sia stata cagionata ad un soggetto diverso rispetto a quello nei cui confronti era diretta, in tal modo attribuendo a titolo di dolo un fatto di reato in realtà sorretto dalla sola colpa. Tuttavia attenua tale rigidità in regime di circostanze mostrando di attribuir euna qualche rilevanza all’errore de quo solo su tale fronte.
    Tuttavia, il trattamento di favore trova un limite nelle ipotesi previste dal terzo comma dell’art 60 c.p. Tale disposizione, invero, prevede che la disciplina meno rigida prevista nei primi due commi dell’art 60 c.p. non possa trovare applicazione nel caso in cui si tratti di circostanze riguardanti l’età ( art 61 n. 11- ter c.p., art 605 commi 3 e 4 c.p., art 612- bis comma 3 c.p.) o altre condizioni fisiche o psichiche (art 61 n. 5 c.p., art 579 c.p., art 609 septies c.p.). La ragione è evidente: trattasi di casi di gravità tale per cui non può che riespandersi il più rigido regime di cui all’art. 59 c.p.
    Un ultimo cenno che appare opportuno attiene alle ipotesi in cui la deroga al regime ordinario è in senso peggiorativo. In tal senso depone il regime di imputazione delle circostanze in caso di concorso di persone nel reato. L’art 110 c.p. ha una funzione estensiva dell’area di penale rilevanza, consentendo di punire soggetti che abbiano partecipato alla realizzazione del reato ponendo in essere condotte atipiche altrimenti non rientranti nella fattispecie monosoggettive. E’ interessante chiedersi se e, eventualmente, a che titolo vangano imputate le circostanze ai concorrenti nel reato. Il riferimento normativo contenuto nel codice penale è l’art 118. Tale disposizione prevede espressamente che le circostanze che aggravano o diminuiscono la pena concernenti motivi a delinquere, l’intensità del dolo o il grado della colpa e le circostanze inerenti la persona del colpevole (che attengono all’imputabilità e alla recidiva) sono valutate solo riguardo alla persona a cui si riferiscono e non si estendono, quindi, ai correi. Per tali particolari ipotesi di circostanze soggettive quindi si applicano gli ordinari criteri di responsabilità ai sensi dell’art 59 c.p. con esclusivo riferimento al singolo. Rimangono escluse da tale previsione le circostanze oggettive e le restanti ipotesi di circostanze soggettive, ovvero le condizioni o qualità personali del colpevole e i rapporti tra colpevole e offeso. Da una lettura a contrario dell’art 118 c.p. si ricava che esse, sia aggravanti che attenuanti, si estendono ai concorrenti a titolo di responsabilità oggettiva. Tale interpretazione è in linea con l’art 117 c.p. Le circostanze escluse dall’art 118 c.p. comportano una variazione di gravità o tenuità del fatto nel suo complesso e pertanto è apparso ragionevole al legislatore la loro estensione ai correi, diversamente da quelle invece ivi previste le quali limitano il loro rilievo nella particolarità del rapporto che lega quel reo al fatto.
    Concludendo, è agevole osservare come , posta la disciplina generale del regime di imputazione delle circostanze del reato nell’art 59 c.p., il legislatore la deroga in senso favorevole o peggiorativo. Sulla modifica in senso favorevole nulla quaestio, mentre i problemi potrebbero sorgere nell’ipotesi residua. L’applicazione delle aggravanti ai concorrenti nel reato a titolo di responsabilità oggettiva sembra non tenere in considerazione l’art. 27 Cost, il faro che deve illuminare l’interprete nell’interpretazione delle norme di diritto penale.

    Ottimo tema. Non sono del tutto corrette le considerazioni riguardo l'imputazione delle circostanze aggravanti ex art 118, poiché l'art. 59 è norma di parte generale e, salvo esplicita deroga (caso art. 60), fa valere la sua forza in ogni ramo dell'ordinamento, quindi anche sull'imputazione delle circostanze in ambito concorsuale, per cui le attenuanti si applicheranno automaticamente in favore di tutti i concorrenti, le aggravanti saranno applicabili solo se conosciute o conoscibili. Però si rende conto di questo quando giustamente dice che il regime da lei descritto sembra non tenere in considerazione l'art. 27 Cost. Questo era fondamentalmente il nocciolo della questione, che è stato colto già dalla prima riga del tema ed è stato portato avanti con logica e coerenza. 13

     
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    nel pubblicheroò le uniche due sufficienze dui amministrativo.

    anche per civile, dovremmo esserci.
    (dovrebbe mancare un solo tema).

    Edited by togasana - 10/12/2012, 22:44
     
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    forumista alle prime armi

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    :ebravoilnostrofulserone: non vedo l'ora di leggere le tracce svolte di amministrativo...
     
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    le pubblico dopo pranzo di civile ed amministrativo.
    perdonate il ritardo, ma in questi giorni sono stata un po' tanto impegnata :)
     
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    Migliori in diritto amministrativo:
    Interessi di fatto ed interessi semplici. Il candidato si soffermi, in particolar modo, sulle azioni popolari.

    Tradizionalmente la giurisdizione amministrativa si connota come giurisdizione di diritto soggettivo, vòlta cioè ad apprestare tutela a situazioni giuridiche soggettive individuali (diritti o interessi legittimi). Tale carattere informa il sistema di giustizia amministrativa sin dall'istituzione (avvenuta nel 1889) della quarta sezione del Consiglio di Stato, come rivela l'art. 3 della relativa legge istitutiva, dal quale emerge il fisiologico legame tra l'attivazione dell'apparato giurisdizionale e l'esigenza di proteggere una specifica posizione giuridica. Con l'avvento della Costituzione, il collegamento con una concreta "vicenda di vita" è perspicuamente sancito dagli artt. 24, 103 e 113 Cost., che ribadiscono una connessione stringente tra il rimedio giurisdizionale e l'istanza di tutela di diritti soggettivi e interessi legittimi.
    A fondamento dell'impostazione tradizionale stanno, altresì, il principio di divisione dei poteri (in particolare, di separazione tra sfera amministrativa e giurisdizionale), nonché la considerazione che, altrimenti opinando, sarebbe pressoché inevitabile l'estensione della giurisdizione al merito, una volta rotto l'argine rappresentato dalla riserva di amministrazione rispetto alla giurisdizione. A conferma della descritta soluzione è possibile addurre i ripetuti fallimenti dei tentativi, fomentati da una parte della dottrina e tradottisi in proposte legislative mai entrate in vigore, di introdurre la figura del pubblico ministero nel processo amministrativo. Tale innovazione avrebbe consentito al giudizio amministrativo di svolgere una funzione "sociale", in quanto avrebbe proiettato la giurisdizione verso l'affermazione di un puro sindacato di legalità, disancorato dall'obiettivo di tutelare una posizione individuale ma finalizzato all'attuazione del generale interesse alla legittimità dell'azione amministrativa. Ad un simile esito si è opposto anche un altro principio fondante del diritto amministrativo: il principio dispositivo, in virtù del quale il ricorrente conserva la disponibilità del giudizio, potendo pure rinunziarvi, senza che alcun altro soggetto - neppure se, in ipotesi, portatore di un interesse superindividuale - possa opporsi alle sue scelte relative alla gestione della vicenda processuale.
    Per vero, taluno ha adombrato che la "tenuta" del sistema sarebbe minacciata da alcune recenti "fughe in avanti" del legislatore verso un modello di giurisdizione di tipo oggettivo: quali che siano il significato e l'importanza che si intendano attribuire a questi interventi normativi (v. la disciplina dell'azione di classe; le sanzioni alternative irrogabili anche d'ufficio dal giudice ex art. 123 codice del processo amministrativo; i poteri dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato sugli atti amministrativi che determinino distorsioni della concorrenza ai sensi dell'art. 21-bis l. n° 287/90), essi non sembrano poter stravolgere l'assetto della giurisdizione amministrativa come strumento di tutela di quelle sole istanze e aspirazioni che presentino caratteri (differenziazione, qualificazione) tali da distinguerle da quelle generiche aspirazioni presenti allo stato "diffuso" nella società e la cui intollerabile "vaghezza" ne decreta l'irrilevanza per il diritto. E' questo il caso dell'interesse di fatto, vale a dire di quell'interesse che appartiene a qualsiasi cittadino e che ha ad oggetto il buon andamento dell'azione amministrativa, il suo svolgersi in maniera imparziale e nel rispetto dei limiti di legge, in modo da realizzare il soddisfacimento dell'interesse pubblico generale. Ora, proprio la connotazione astratta, generica e indifferenziata di una simile posizione, il suo essere oltremodo indefinita e, dunque, insuscettibile di distinguersi dall'interesse del quisque de populo a che la pubblica amministrazione non decampi dal perseguimento degli obiettivi di legittimità e buon andamento fa sì che il diritto si disinteressi degli interessi di mero fatto (mutuando una terminologia civilistica, si potrebbe parlare di aspettative di mero fatto, in quanto tali giuridicamente irrilevanti).
    Da questi ultimi vanno peraltro distinti i cc.dd. interessi semplici (detti anche "interessi amministrativamente protetti"), consistenti nella pretesa a che il soggetto pubblico orienti il proprio comportamento a regole non giuridiche di buona amministrazione, correttezza ed equità, insomma ai parametri che compongono la nozione di merito amministrativo. Rispetto agli interessi di fatto in senso stretto sussiste, infatti, un'importante differenza, atteso che gli interessi semplici non sono irrilevanti per il diritto; al contrario, essi sono giustiziabili, sia pure entro i limiti in cui l'ordinamento eccezionalmente prevede ipotesi di giurisdizione estesa al merito.
    In definitiva, con riguardo agli interessi di fatto in senso stretto, l'accoglimento di un modello processuale incentrato sulla natura individuale della posizione giuridica soggettiva che si intenda azionare in giudizio osta alla possibilità di dare cittadinanza ad aspirazioni che, per quanto nobili nei fini, non riescono ad emanciparsi dalla propria ontologica "fragilità" strutturale. Diverso è il discorso per quanto riguarda gli interessi semplici: il vizio di merito è infatti, come detto, giustiziabile, ancorché entro limiti alquanto ristretti.
    Si è visto come l'adozione di un paradigma oggettivo di giurisdizione proietterebbe il processo amministrativo verso traguardi di "socialità" altrimenti ad esso preclusi: a venire in rilievo in simili evenienze sarebbero, infatti, situazioni non schiettamente individuali, quanto - piuttosto - la pretesa generale al buon andamento della p.a., insuscettibile di essere incasellata nelle selettive maglie dell'interesse legittimo in quanto concretante un interesse di mero fatto che si appunta in capo al quivis de populo e che, per questa ragione, è destinato a rimanere sconosciuto al diritto. Un'importante deroga a quanto detto sinora è rappresentata dalle ipotesi di azione popolare presenti all'interno dell'ordinamento: in via di prima approssimazione, l'espressione in questione designa i casi in cui è eccezionalmente accordata la possibilità di agire in giudizio a chi, alla stregua degli ordinari criteri di accesso alla giustizia amministrativa, non sarebbe legittimato in quanto privo della titolarità di una posizione giuridica qualificata. I primi casi di azione popolare rimontano al diritto romano, laddove mancassero organi pubblici istituzionalmente preposti alla cura di determinati interessi della collettività. Ai fini di una considerazione unitaria dell'istituto de quo sembrano potersi isolare due caratteristiche generali dello stesso:
    1) la mera legittimazione, ovvero una facoltà processuale cui non corrisponde una situazione soggettiva qualificata sottostante. Tale deroga ai normali criteri è motivata dalla finalità di aumentare le occasioni di tutela di un determinato interesse pubblico. Corollario di tale ratio è l'irrilevanza delle ragioni per cui l'attore popolare decide di intraprendere la strada del giudizio e, conseguentemente, del carattere "disinteressato" o meno del suo intervento (non di rado, del resto, difficilmente accertabile in termini obiettivi e incontrovertibili);
    2) l'altro elemento comune alle varie ipotesi di azione popolare è la c.d. fungibilità degli attori popolari, che possono aggiungersi o sostituirsi l'uno all'altro (ad es., mediante rinunzia, intervento, etc.) senza che ne derivino significative conseguenze di ordine processuale. Talvolta ciò è espressamente previsto dalla normativa che disciplina le azioni popolari; anche in mancanza di una base testuale, peraltro, è possibile approdare al medesimo risultato in via interpretativa: se è vero, infatti, che chi esercita un'azione popolare non fa valere una propria situazione giuridica, egli non può ritenersi soggetto all'onere di esercitare e coltivare il ricorso personalmente, senza poter beneficiare della (o subire la) "interferenza" di altri soggetti.
    Una distinzione seguìta in dottrina e diffusa in giurisprudenza è quella tra azione popolare di tipo "correttivo" e di tipo "sostitutivo" (detta anche surrogatoria, suppletiva, procuratoria): nella prima chi agisce assume un ruolo di contrasto con il soggetto pubblico, del quale vuole contestare determinate attività o condotte; la seconda postula invece l'inerzia della p.a. e riflette la legittimazione straordinaria dell'attore (come confermano la costante giurisprudenza e la prevalente dottrina, che negano l'ammissibilità di azioni popolari "atipiche").
    Si può ora passare ad esaminare le diverse ipotesi di azione popolare presenti all'interno del sistema: l'analisi offrirà più di uno spunto per saggiare la bontà dei criteri utilizzati per delineare i tratti costitutivi dell'istituto in commento. Si tralasceranno le fattispecie oggi non più in vigore perché espunte dall'ordinamento e si concentrerà l'attenzione su quelle di diritto pubblico (merita quindi non più di un cenno un'azione che esula dall'àmbito del diritto amministrativo, ossia quella normata dall'art. 3, c. 11, l. n° 67/87, che legittima a proporre l'azione di nullità contro gli atti di concentrazione nella stampa quotidiana, per effetto dei quali un soggetto assume una posizione dominante sul mercato dell'editoria).
    La ricognizione può prendere le mosse dalle azioni popolari a tutela delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza (cc.dd. IPAB) e dei poveri: esse sono regolate da una normativa alquanto risalente (l. n° 6972/1890, c.d. "legge Crispi", e relativo regolamento di esecuzione - r.d. n° 99/1891) e hanno limitata rilevanza pratica (tra l'altro, la vicenda delle IPAB ha subìto i condizionamenti di una rilevante pronunzia della Corte costituzionale, che ha eliminato il monopolio pubblico in subiecta materia); nondimeno, mette conto parlarne in quanto la disciplina presenta indubbi profili di interesse ai fini ricostruttivi dell'istituto dell'azione popolare. Si fa riferimento, in particolare, agli artt. 117 e 121 del citato regolamento esecutivo, ove si prevede - rispettivamente - l'esercizio dell'azione anche con atto di appello, con ricorso per cassazione e domanda di revocazione, e la legittimazione di chiunque a proseguire un'azione popolare che altri abbia introdotto, con ciò offrendosi una prima conferma sul piano normativo della cennata fungibilità degli attori popolari.
    Maggior rilevanza pratica riveste senz'altro la disposizione che consente a ciascun elettore di far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia. Configurata originariamente nell'art. 225 r.d. n° 148/15 (che limitava la legittimazione attiva ai contribuenti, con una previsione che venne poi dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell'art. 3 Cost.), transitata poi nell'art. 7 l. n° 142/90 e infine accolta nell'art. 9 d. lgs. n° 267/00 (c.d. Testo unico in materia di enti locali, da ora in poi TUEL), l'azione in parola ha costituito il crocevia di molteplici questioni interpretative, alcune delle quali tutt'ora irrisolte, stante, tra l'altro, una formulazione normativa piuttosto scarna, che si limita a rendere oggi obbligatoria l'integrazione del contraddittorio nei confronti del comune/provincia e a ribadire il principio per cui, in caso di soccombenza, il peso delle spese grava sull'attore popolare, a meno che - novità, questa - l'ente, costituendosi, abbia aderito alle azioni e ai ricorsi promossi dall'elettore (la finalità sottesa a quest'ultima previsione è evitare che l'ente locale possa trovare comodo "appoggiarsi" all'azione intentata dal singolo cittadino senza che da tale adesione possano derivare conseguenze onerose di sorta).
    Le prime incertezze ermeneutiche affiorano allorché si tenti di definire la natura giuridica della situazione azionata dall'attore popolare: ad avviso di un'autorevole dottrina, questi farebbe valere una situazione soggettiva qualificata; più nel dettaglio, si tratterebbe di un atto di esercizio della sovranità popolare. Altri, invero, reputa inappropriato il richiamo alla sovranità, atteso che qui verrebbe in rilievo un'attività di pertinenza meramente locale (comunale o provinciale), talché a voler parlare di sovranità si sarebbe costretti ad ammettere il paradosso che la stessa possa essere concretamente esercitata in maniera diversa (e cono esiti financo contrastanti tra loro) nello spazio. Questo secondo orientamento reputa, pertanto, più corretto affermare che nel caso di specie rileverebbe la mera legittimazione a far valere una posizione giuridica che è e resta altrui. A supporto di questa impostazione militerebbe un altro dato: il TUEL allarga nuovamente l'azione a tutte le giurisdizioni (non più solo quella amministrativa) e consente anche l'esperimento di ricorsi amministrativi, ergo dovrebbe ritenersi scongiurato il pericolo di un'interpretazione ingiustificatamente restrittiva della disposizione. Peraltro, che l'ipotesi sia di stretta interpretazione paiono confermarlo i dubbi di legittimità costituzionale avanzati da qualche autore in relazione alla circostanza che la norma consente un'"intrusione" del singolo cittadino in scelte squisitamente discrezionali dell'amministrazione locale, concretante una vulnerazione del diritto di agire in giudizio ex art. 24 Cost., traguardato nell'ottica negativa del (diritto di) non azionare giudizialmente la propria posizione. Simili argomentazioni non hanno lasciato insensibile la giurisprudenza, che si è impegnata in una preziosa attività di definizione dei contenuti dell'azione plasmata dall'art. 9 TUEL. Così, in linea con la natura suppletiva comunemente riconosciuta alla norma de qua, sul versante applicativo si afferma che la stessa presuppone l'inerzia della p.a.: ove il comune abbia già provveduto, pertanto, in nessun caso il cittadino potrebbe sostituirsi alla volontà da questo manifestata, pena la lesione del principio democratico rappresentativo. Dalla mera inerzia va distinta l'acquiescenza dell'ente locale, che priva l'elettore della legittimazione a ricorrere, esprimendo il significato di una rinunzia del comune ad azionare i propri interessi. Più precisamente, è possibile una distinzione ulteriore tra l'acquiescenza, che incide su un potere non ancòra esercitato (con la conseguenza di rendere inammissibile il ricorso dell'attore popolare) e la rinunzia, che interviene a rapporto processuale già instaurato e determina l'improcedibilità del ricorso. La differenza può forse riverberarsi su un ulteriore profilo, relativo alla revoca della rinunzia: a differenza dell'acquiescenza, infatti, la rinunzia non produce automaticamente i suoi effetti, dovendo essere dichiarata dal giudice. Ciò ha indotto parte della dottrina e della giurisprudenza ad ammettere che l'ente locale possa revocare la rinunzia sino a quando il giudice non abbia preso atto della stessa. Secondo un altro orientamento, invece, il carattere unilaterale della rinunzia comporterebbe che essa sia destinata ad operare non appena perfezionatasi.
    Sempre nell'ottica di un'ermeneusi restrittiva della norma in commento, la giurisprudenza ha precisato che essa si limita a prevedere un'ipotesi eccezionale di legittimazione attiva del cittadino elettore, a tutela della posizione giuridica del comune dal rischio di pregiudizi che potrebbero derivare allo stesso per effetto di atti, attività o comportamenti che fossero posti in essere da altri soggetti privati o amministrazioni pubbliche. Ne deriva che tale strumento non è utilizzabile:
    a) per resistere ad azioni giudiziarie promosse da terzi contro l'ente;
    b) da parte dei cittadini per far valere l'illegittimità di atti emanati dall'ente che siano asseritamente sfavorevoli nei loro confronti (es. permesso di costruire rilasciato a favore di un vicino).
    Chi si muove nel solco dell'orientamento che attribuisce al privato la mera legittimazione processuale riconosce all'ente sostituito la preminenza sull'attore popolare (dunque, tra questi e il comune non v'è quella piena fungibilità che opera invece nel rapporto tra i vari attori popolari). Il comune conserva, pertanto, la facoltà di rinunziare al ricorso, di "diminuire" la domanda dell'attore popolare (es. rinunziando a singoli motivi) e di "incrementarla" (es. tramite la proposizione di motivi aggiunti).
    Un altro aspetto su cui la norma tace è quello relativo al destino dell'attore popolare una volta che il comune abbia assunto il ricorso: alla tesi di chi ritiene che egli debba essere necessariamente estromesso dal giudizio si affianca la diversa e più "moderata" opinione di chi reputa che il suo ricorso si converta in intervento ad adiuvandum.
    Un'ulteriore questione controversa attiene all'esperibilità o meno dell'azione popolare a tutela di interessi collettivi. Propendono per la soluzione negativa coloro i quali evidenziano che, a ragionare altrimenti, risulterebbe pregiudicato il principio democratico rappresentativo che si è visto essere strettamente collegato con le scelte discrezionali dell'ente locale, che potrebbe anche decidere di non agire in giudizio. Consentire la sostituzione del comune ad opera del singolo cittadino vanificherebbe, secondo questa scuola di pensiero, l'essenza stessa del suddetto principio, atteso che finirebbe per revocare in dubbio la qualità di ente esponenziale della collettività municipale che contraddistingue l'ente locale. In senso opposto si è affermato che proprio siffatta qualità, nella misura in cui fa del comune il rappresentante di interessi che appartengono ai cittadini, imporrebbe di considerare arbitraria e irragionevole l'interpretazione che precludesse l'utilizzabilità dell'azione popolare quale mezzo di tutela degli interessi collettivi: in questa prospettiva devono leggersi quelle sentenze di merito che hanno escluso la rilevanza dell'acquiescenza prestata dal comune rispetto alla praticabilità dello strumento surrogatorio. In definitiva, la ratio sottostante alla struttura del rimedio in oggetto - vale a dire, lo scopo di impedire che, tramite l'azione popolare, possa darsi ingresso ad un agere distonico rispetto alle finalità istituzionali dell'ente locale, ciò che si è tradotto nella modifica normativa che ha reso il comune contraddittore necessario, e che si riflette sulla pacifica accezione in chiave sostitutiva anziché correttiva, i.e. di contrasto dell'istituto -; detto scopo - si diceva - non sembra poter essere compromesso qualora attraverso l'actio popularis si miri al conseguimento di interessi generali.
    Tutt'altro che infrequenti nella pratica sono anche le azioni popolari in materia di elezioni: al riguardo l'ermeneuta è chiamato a districarsi in un groviglio di disposizioni disseminate tra TUEL (art. 70), legislazione di settore (d.p.r. n° 570/60; d.p.r. n° 223/67; l. n° 108/68) e codice del processo amministrativo (art. 130, c. 1, lett. a) e b), c.p.a., ove la previsione della possibilità di impugnare l'atto di proclamazione degli eletti - rispettivamente - di comuni, province e regioni e al Parlamento europeo). Anche per queste azioni ci si chiede che consistenza abbia la pretesa che si intende garantire mediante il loro esercizio: al riguardo, si ripropone la distinzione tra chi ritiene che l'attore popolare patrocini una situazione giuridica qualificata (diritto soggettivo pubblico funzionalizzato) e chi opina che questi agisca invece a tutela di un interesse generale. In favore della seconda opzione si è rilevato che il carattere personale della posizione giuridica protetta va circoscritto al momento in cui si esercita il diritto di elettorato attivo, i.e. a quando si esprime il proprio voto; tutto ciò che viene dopo (es. interesse alla regolarità delle operazioni elettorali) sarebbe invece da ricondursi ad una situazione giuridica di portata meta-individuale, la cui differenza qualitativa ben può essere còlta ove si ponga mente al fatto che la sua cura concreta potrebbe portare, ad es., all'affermazione dell'ineleggibilità del candidato in favore del quale si sia precedentemente votato.
    Si è avuto modo di riflettere intorno al carattere derogatorio delle azioni popolari rispetto ad alcuni princìpi cardine del diritto e del processo amministrativo. Si è quindi focalizzata l'attenzione sulla necessità di dare un'interpretazione restrittiva di uno strumento processuale altrimenti difficilmente coniugabile con l'architettura di fondo che innerva il sistema di giustizia amministrativa. Tra gli istituti che più di altri tradiscono i timori del legislatore nei confronti del modello dell'azione popolare v'è sicuramente l'accesso: la legge, infatti, evita di strutturare la pretesa all'ostensione dei documenti amministrativi a guisa di interesse tutelabile in maniera indiscriminata, ma richiede, al contrario, che l'istante vanti un interesse "diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata", oltre che collegata al documento al quale chiede di poter accedere. Sul punto, taluno ha icasticamente parlato di abbandono del modello dell'azione popolare, dal momento che si introduce il cennato filtro: vero che la situazione giuridicamente tutelata non deve necessariamente avere la consistenza del diritto soggettivo o dell'interesse legittimo; vero, altresì, che l'accessibilità di un atto non è per forza preordinata alla sua impugnazione, la giurisprudenza riconoscendo il diritto di accedere anche ad atti ormai inoppugnabili; tutto ciò premesso, è peraltro evidente come non sia sufficiente un interesse di mero fatto, dal momento che, diversamente, l'accesso non sarebbe più correlato alla tutela di situazioni rilevanti per il diritto, ma diverrebbe uno strumento utilizzabile al generico fine di verificare la conformità dell'attività amministrativa ai canoni di legge; il che è espressamente escluso dalla stessa l. n° 241/90, laddove prevede (art. 24, c. 3) che "non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni". Questo aspetto viene costantemente ribadito dalla giurisprudenza, che esclude l'esperibilità di un accesso sorretto da finalità esclusivamente "esplorative". Al riguardo, è tanto più significativo che da queste cadenze argomentative i giudici non si discostino neppure quando sono chiamati a pronunciarsi su fattispecie che coinvolgono gruppi associativi, statutariamente deputati alla cura di interessi facenti capo alla collettività di riferimento. In casi del genere, infatti, la giurisprudenza riconosce bensì che il diritto di accesso va declinato in termini particolarmente ampli in quanto strumentale alla protezione di situazioni giuridiche facenti capo ad una vasta platea di soggetti, ma puntualizza sùbito dopo che ciò non si traduce mai in una dilatazione dei contorni di tale istituto sino al punto di trasformarlo in azione popolare. Così, ad es., la qualità di ente esponenziale di una collettività di consumatori e/o utenti non giustifica un generalizzato e onnicomprensivo diritto di accedere a documenti che non incidano in via diretta e immediata sulle concrete modalità di erogazione del servizio. Degno di nota è poi il fatto che (ex art. 2, c. 2, d.p.r. n° 184/06) la p.a. non è tenuta ad effettuare elaborazioni di dati in suo possesso al fine di soddisfare la richiesta ostensiva.
    I princìpi sinora visti in punto di accesso assumono tonalità diverse allorché sia chiesto di accedere all'informazione ambientale detenuta dalle autorità pubbliche: in questa materia, infatti, assume carattere particolarmente pregnante l'esigenza che l'informazione ambientale sia sistematicamente e progressivamente posta a disposizione del pubblico, come sottolinea sin dal suo esordio (si veda l'art. 1) il d. lgs. n° 195/05, di attuazione della direttiva 2003/4/CE sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale. Ai sensi del successivo art. 3 d. lgs. cit., l'informazione ambientale è messa a disposizione di chiunque ne faccia richiesta, "senza che questi debba dichiarare il proprio interesse". Trattasi, dunque, di una legittimazione "atitolata". Peraltro, come la più recente giurisprudenza non ha mancato di evidenziare, tale previsione non esime il richiedente dallo specificare, in sede amministrativa, la natura dell'interesse che intende azionare, e tanto al fine di evitare che una legittimazione riconosciuta al precipuo fine di tutelare interessi di matrice ambientale venga surrettiziamente piegata al perseguimento di finalità di carattere meramente patrimoniale.
    Infine, analoga estensione riceve il diritto di accesso dei consiglieri comunali e provinciali, concepito a maglie larghe dal legislatore (v. art. 43, c. 2, TUEL) e corrispondentemente inteso in dottrina e in giurisprudenza, dove si precisa che il triplice ordine di limitazioni testé viste (artt. 22, c. 1, lett. b) e 24, c. 3, l. n° 241/90; art. 2, c. 2, d.p.r. n° 184/06) non opera in maniera rigida. Nondimeno, è appena il caso di osservare che si tratta di una fattispecie sagomata sulla particolare qualità dei soggetti istanti (per l'appunto, consiglieri comunali o provinciali, dunque non il quivis de populo), il che indubbiamente "annacqua" il connotato propriamente "popolare" dell'azione.

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    Singole voci:
    a) aderenza alla traccia: eccellente
    b) completezza contenutistica: buono
    c) livello di approfondimento: ottimo
    d) forma: eccellente


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    L’elemento fiduciario nelle concessioni.
    La nozione di fiducia era originariamente posta a fondamento del trasferimento da parte della pubblica amministrazione di poteri ad essa spettanti a soggetti privati (concessioni traslative) ovvero della costituzione in capo a privati di posizioni giuridiche nuove (concessioni costitutive).
    Attraverso le concessioni, infatti, si viene ad ampliare, secondo una tesi, la sfera giuridica del concessionario, attribuendo al medesimo nuovi poteri e facoltà (al contrario di quanto avviene attraverso le autorizzazioni amministrative, qual è ad es. il permesso di costruire, finalizzate alla sola rimozione di un ostacolo all’esercizio di un diritto di cui era già titolare il soggetto autorizzato).
    L’istituto concessorio trova fondamento nell’esigenza di soddisfare bisogni della collettività cui l’amministrazione, per i ridotti mezzi economici ed organizzativi, non possa provvedere; a fronte della ridotta capacità della pubblica amministrazione le concessioni consentivano, attraverso il trasferimento di poteri in capo a soggetti estranei all’amministrazione, il soddisfacimento di esigenze legate alla collettività, ad. es, quelle urbanistiche.
    A tal riguardo, a mezzo di concessioni poteva essere attribuito ad es., fiduciariamente, a privati il compito di costruire un parcheggio in zone cittadine e gestirlo, in assenza di alcun onere economico a carico dell’amministrazione; l’assenza di spesa alcuna a carico dell’amministrazione trova la propria giustificazione nella stessa struttura delle concessioni, che affidano al concessionario il compito di costruire un opera e di gestirla ottenendo un corrispettivo dall’utenza.
    È stato ed è ancor oggi questo il carattere distintivo della concessione rispetto all’appalto, l’assenza di corrispettivo da parte dell’amministrazione in favore del concessionario che, come detto, otterrà dall’utenza il prezzo dell’utilizzo del servizio.
    Se quanto detto in merito al carattere distintivo delle concessioni rispetto all’appalto possa ritenersi corretto in rapporto all’odierna disciplina, giova precisare che all’origine della sua nascita la concessione si caratterizzava anche per la sua autoritatività, cui si connetteva la suddetta scelta fiduciaria del concessionario.
    Nei primi decenni del 1900 l’istituto in discorso ha trovato largo utilizzo da parte delle amministrazioni, sino ad essere esteso ad ipotesi di discutibile inquadramento in tale genus; il riferimento è costituito dal passaggio dalle concessioni di costruzione e gestione di opere pubbliche a quello di concessioni di sola costruzione.
    Nulla quaestio nella prima delle citate ipotesi, potendovi riscontrare i caratteri della concessione ed attribuendosi al privato il compito di provvedere alla costruzione di una certa opera ed alla gestione della medesima, così ottenendo il concessionario dei ricavi dal prezzo del servizio fruito dall’utenza, diversamente, è stata non poco critica la dottrina dell’epoca in merito all’inquadramento in tale figura delle concessioni di sola costruzione, da ritenere, al contrario, contratti di appalto.
    La concessione di sola costruzione, veniva ritenuta appartenente al più ampio genus concessorio in ragione del trasferimento di poteri, ad es. espropriativi, al concessionario, operante in sostituzione dell’amministrazione.
    La dottrina citata, pur prendendo atto dell’avvenuto trasferimento dei poteri suddetti dall’amministrazione al privato, non mancava di rilevare come in tal modo venisse meno il carattere proprio della concessione: la possibilità di sfruttare un’opera o un servizio ottenendo dall’utenza il corrispettivo che, nella specie, era corrisposto direttamente dall’amministrazione (come avviene negli appalti).
    Con l’elaborazione pretoria della concessione di sola costruzione, infatti, si otteneva l’effetto di affidare fiduciariamente, su base provvedimentale, la costruzione di una certa opera ad imprese scelte discrezionalmente.
    L’abbandono dell’istituto giurisprudenziale della concessione di sola costruzione e dell’interpretazione dell’istituto concessorio in generale quale espressione di scelte fondate sulla fiducia che l’amministrazione nutre nei confronti di taluni soggetti o imprese è conseguenza della forte influenza esercitata dall’ordinamento comunitario.
    È del 1971 la prima direttiva comunitaria che si è occupata della nozione di concessione e che ha chiarito la natura di tale istituto, da ricondurre, unitamente all’appalto, a quello contrattuale, con esclusione anche in tale ambito di scelte discrezionali del concessionario.
    Ne è conseguito il deciso superamento della tesi asserente la natura provvedimentale della concessione a cui accedeva un contratto avente lo scopo di disciplinare il rapporto concessorio e la qualificazione dell’istituto de quo quale species del più ampio genus dei contratti.
    Descritta la genesi delle concessioni, occorre attualizzare le questioni accennate, distinguendo i diversi tipi di contratti di concessione al fine di esaminare entro quali limiti possa ancora oggi parlarsi di elemento fiduciario.
    Le concessioni possono avere ad oggetto servizi, beni, beni e servizi congiuntamente; nell’ambito delle concessioni di servizi occorre, inoltre, distinguere i servizi locali da quelli di rilievo nazionale.
    Nell’ambito delle concessioni di rilievo nazionale, quelle ex lege si caratterizzano per la scelta effettuata dal Legislatore di attribuire a taluni soggetti particolari compiti gestori, è il caso, ad es. della R.A.I., concessionaria (ex lege) del servizio radiotelevisivo.
    Nella delineata ipotesi potrebbe, seppur in modo lato, parlarsi di scelta fiduciaria del concessionario, seppur non possa negarsi che, nel caso della concessione R.A.I., tale scelta legislativa sia da ricondurre ad un atto politico, libero nei fini ed insindacabile, non già a scelte discrezionali fondate sulla fiducia nel concessionario, aventi il fine del raggiungimento del pubblico interesse.
    Sempre nel campo dei servizi di rilievo nazionale è possibile rinvenire margini di operatività di scelte fiduciarie, seppur, come evidenziato, sin dal 1971 l’Italia sia stata vincolata dalla definizione comunitaria delle concessioni, da intendersi quali istituti aventi natura contrattuale e non provvedimentale, con il conseguente vincolo che l’amministrazione incontra nella scelta del contraente, non più effettuata su base fiduciaria ma a seguito di procedure pubblicistiche di evidenza.
    A tal riguardo, la scelta fiduciaria del concessionario, espunta dalla prassi amministrativa nazionale per effetto del diritto sovranazionale, trova margini di reviviscenza a seguito dell’elaborazione ad opera dei Giudici della Corte di Giustizia della figura dell’affidamento in house.
    Sebbene il vigente Testo Unico in materia di contratti pubblici contempli l’obbligo per l’amministrazione di scelta del concessionerio a seguito di una procedura di evidenza, che impone di invitare almeno cinque soggetti a partecipare alla gara indetta per l’affidamento del servizio ovvero dei lavori (concessione di costruzione e gestione), seguendo l’orientamento inaugurato dai giudici comunitari, tale regola è suscettibile di deroghe potendo l’amministrazione optare per l’affidamento in house.
    L’affidamento senza gara è, tuttavia, vincolato alla presenza di taluni presupposti, costituiti dal controllo da parte dell’amministrazione sul soggetto affidatario e dallo svolgimento da parte del concessionario della propria attività in favore dell’amministrazione.
    Il controllo analogo sussiste, quindi, nell’ipotesi in cui l’affidatario sia una società partecipata totalmente dall’amministrazione che esercita sulla medesima un controllo pari a quello di cui essa è titolare nei confronti dei propri organi.
    Tale controllo deve quindi andare oltre i poteri conferiti all’amministrazione in quanto detentrice del capitale sociale; secondo una tesi non sarebbe sufficiente il potere di nomina e revoca dei membri del consiglio di amministrazione della società, richiendendosi poteri più incisivi.
    Prescindendo da ulteriori questioni relative all’in house, è sufficiente quanto detto al fine di evidenziare margini di scelte discrezionali dell’amministrazione nell’affidamento in house anziché a mezzo di procedura di evidenza pubblica dei servizi di rilievo nazionale.
    Sempre in tema di servizi nazionali merita di essere menzionata la questione afferente alle concessioni di beni e servizi congiuntamente alle società costituite a seguito della privatizzazione di taluni enti pubblici.
    Tale questione si riconnette alla concessione ex lege (esaminata in riferimento alla R.A.I.), verificatasi ad es., a seguito della privatizzazione dell’ente Ferrovie dello Stato, trasformato in s.p.a. con intervento legislativo risalente agli inizi degli anni novanta.
    Con previsione legislativa è stata, infatti, disposta la trasformazione in s.p.a. delle Ferrovie dello Stato e la concessione alla società del servizio di trasporto nazionale e dei beni ad esso funzionali.
    Tuttavia, anche per tale concessione(come per quella R.A.I.) è possibile evidenziare la non sussistenza di una vera e propria scelta fiduciaria discrezionale, travando tale opzione la propria ratio in ragioni politiche, libere nei fini, non giustiziabili (l’atto politico è infatti sottratto alla tutela giurisdizionale, potendo essere censurato per soli profili di costituzionalità) e non già indirizzate al raggiungimento di fini pubblici.
    Tanto precisato in riferimento alle concessioni di servizi e beni di rilievo nazionale, volgendo l’attenzione alle concessioni di servizi pubblici locali, prescindendo da un’analisi storica dettagliata delle svariate modifiche che hanno interessato il T.UE.L., è sufficiente evidenziare che l’originaria disciplina lasciava libera l’amministrazione nella scelta della procedura da seguire per l’affidamento dei servizi pubblici locali, potendo essere affidati, indistintamente, mediante procedura di evidenza ovvero a società in house, sempreché ve ne fossero i presupposti evidenziati in precedenza.
    L’ampia discrezionalità dell’amministrazione tra una scelta comparativa delle offerte e l’affidamento diretto ad una società partecipata dall’ente su base fiduciaria deve essere rimeditata alla luce dell’attuale disciplina legislativa.
    Il recente D.L. n. 138/2011 ha limitato la possibilità di ricorrere all’istituto dell’in house nell’ipotesi in cui il servizio da affidare abbia un valore inferiore alla somma di 200.000 euro annui.
    Con la conseguenza che è circoscritto entro il margine di valore indicato il rilievo che l’elemento fiduciario conserva nell’ambito delle concessioni di servizi a favore di società a capitale interamente pubblico, sulle quali l’ente locale esercita un controllo analogo a quello esercitato sui propri organi e fruisce dell’attività della società, esclusivamente rivolta a vantaggio dell’ente.
    Se, come evidenziato, l’originaria ampia scelta fiduciaria del concessionario abbia subito sempre maggiori condizionamenti e limitazioni ad opera del diritto comunitario, attento alla salvaguardia della concorrenza posta a fondamento delle regole del mercato, un settore ancora in parte indenne da detta influenza è quello afferente alle concessioni di beni pubblici del demanio marittimo.
    Nell’ambito delle concessioni di beni pubblici quali spiagge, approdi per le navi che svolgono servizi pubblici in regime privatistico ecc., la scelta del concessionario è ancor oggi fondata sull’elemento fiduciario, seppur siano intervenute modifiche della disciplina, ancora una volta per effetto dell’influenza dell’ordinamento comunitario.
    L’attuale disciplina delle concessioni di beni pubblici marittimi consente, infatti, all’amministrazione di scegliere intuitu personae il concessionario, sulla base della valutazione della sua idoneità ad assicurare un migliore sfruttamento del bene pubblico a vantaggio dell’utenza.
    Le concessioni di beni pubblici marittimi, ancor oggi, presentano la medesima struttura un tempo rinvenibile nelle concessioni di sola costruzione: al provvedimento, concretizzazione di scelte autoritative discrezionali su base fiduciaria accede un contratto.
    Tale accordo, accessorio al provvedimento, ha la funzione di disciplinare le condizioni di utilizzo del bene, il canone posto a carico del concessionario e da corrispondere all’amministrazione ecc..
    Le concessioni di beni, quindi, si caratterizzano per l’attribuzione al concessionario del diritto di sfruttare economicamente un bene pubblico, ottenendo ricavi dai fruitori del servizio offerto e pagando all’amministrazione un canone.
    Tuttavia, anche in tale ipotesi, i margini della scelta fiduciaria del concessionario vengono compressi dalle previsioni normative che richiedono la presenza di talune caratteristiche nella persona del concessionario.
    Sul punto, ad es., in tema di concessioni di aree portuali per l’approdo delle navi che svolgono servizi pubblici di trasporto, eccetto che ci si trovi in presenza di concessioni di servizi e beni ex lege (come nell’esaminato caso delle ferrovie di stato), le imprese private che aspirano ad ottenere la concessione dell’approdo devono garantire l’efficienza del servizio e l’impermeabilità della società svolgente il servizio ad influenze di tipo mafioso.
    Chiaro come i limiti alle concessioni suddetti finiscano per condizionare, circoscrivere ed indirizzare la scelta fiduciaria del concessionario.
    Merita menzione, inoltre, l’esigenza di adeguamento della disciplina nazionale delle concessioni di beni pubblici marittimi alle istanze sovranazionali che richiedono l’esperimento di procedure pubblicistiche ai fini della scelta del concessionario.
    A tal riguardo, è opportuno evidenziare che con L. n 25 del 2010 è stato abrogato il diritto di insistenza del concessionario contemplato dall’art 37 cod. nav., che, in caso di piu’ domande di concessione, attribuiva una preferenza nel rilascio della stessa in favore del soggetto che potesse garantire il migliore sfruttamento del bene, così aprendo la strada a valutazioni discrezionali dell’amministrazione che poteva ritenere maggiormente garante dello sfruttamento del bene il soggetto già titolare di una concessione in scadenza rispetto a nuovi istanti.
    Ne deriva che, in presenza di diverse istanze volte ad ottenere la concessione di un bene del demanio marittimo, non potrà l’amministrazione ritenere prevalente l’interesse alla conferma dell’affidamento al concessionario scelto su base fiduciaria; con la citata previsione (L. n. 25/2010), tuttavia, è disposto il prolungamento delle concessioni in atto sino al 2015.
    Se ne deduce che sino al 2015 dovrebbe permanere il rilievo della fiducia posta a fondamento della concessione del bene del patrimonio marittimo e, tuttavia, talune decisioni dei tribunali amministrativi hanno ritenuto illegittima la proroga delle concessioni in atto in presenza di istanze di soggetti diversi dal concessionario ed aventi ad oggetto il medesimo bene.
    Nonostante la proroga legislativa della durata delle concessioni di beni marittimi sino al 2015, in considerazione dell’abrogazione del diritto di insistenza di cui all’art. 37 cod. nav. talune decisioni hanno annullato la proroga delle concessioni disposta dall’amministrazione in presenza di più istanze volte all’ottenimento della concessione marittima del medesimo bene.
    In prospettiva futura, pertanto, salvo il consolidarsi di tale orientamento, seguendo il quale in ogni ipotesi di pluralita’ di istanze volte all’ottenimento della concessione del medesimo bene marittimo occorrerà una valutazione comparativa delle diverse offerte e delle qualità degli “aspiranti concessionari”, a decorrere dal 2015 dovrebbero cessare le concesioni in atto e si renderebbe necessaria una procedura comparativa ai fini della scelta del concessionario.
    Tuttavia, sempre che il Legislatore non decida di intervenire sulla disciplina esistente in modo radicale (prevedendo in ogni caso la necessità di una procedura di evidenza), è possibile concludere che anche per i beni appartenenti al demanio marittimo la scelta sia operata su base fiduciaria in ipotesi di singola istanza volta ad ottenere in concessione beni del patrimonio marittimo, facendosi luogo ad una scelta comparativa soltanto in presenza di più istanze volte ad ottenere in concessione il medesimo bene.

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    3) livello di approfondimento: sufficiente
    4) forma: buono
    Il giudizio relativo alle singole voci può consistere in: eccellente, ottimo, buono, discreto, sufficiente, insufficiente.


    migliori in civile:

    1) Premessi adeguati cenni sulla alternatività soggettiva nel rapporto contrattuale, si soffermi il candidato sul contratto da persona da nominare con riferimento al nascituro e alla persona giuridica in via di formazione

    L’alternatività può essere definita come la possibilità di scegliere tra due o più soluzioni. La radice della parola è “altro” ovvero “diverso, differente” e, in sede giuridica, implica la possibile opzione tra due o più elementi in rapporto di parità. L’unica norma del codice civile ad occuparsi esplicitamente della alternatività è l’art. 1285 c.c. che detta la disciplina delle obbligazioni alternative a cui è dedicata la sezione II del capo VII. La loro caratteristica peculiare è la possibilità di una parte del rapporto obbligatorio – solitamente il debitore – di eseguire o ricevere una delle due prestazioni dedotte in obbligazione. L’alternatività è, dunque, oggettiva e implica la scelta tra due o più (ex art. 1291 c.c.) opzioni pariordinate. Dottrina e giurisprudenza hanno, poi, elaborato la figura dell’obbligazione con facoltà di scelta alternativa; la differenza con la categoria disciplinata dagli artt. 1285 e ss. è o rapporto tra le due (o più) prestazioni che è, in questa seconda ipotesi, di subordinazione. La prestazione dedotta in obbligazione è, infatti, una soltanto ma il debitore ha facoltà di liberarsi eseguendone una diversa. Ne consegue che, al contrario di quanto previsto dall’art. 1288 c.c. per l’obbligazione alternativa, l’impossibilità della prestazione principale libera il debitore.
    Ciò premesso occorre chiedersi se sia ammissibile un’alternatività che riguardi l’elemento soggettivo del contratto ovvero le parti. La nozione di parte non è contenuta nel codice e, pertanto, nel prosieguo, si farà riferimento a quella elaborata dalla dottrina che distingue tra parte in senso formale, ovvero chi stipula il contratto, e parte in senso sostanziale ovvero colui nella cui sfera giuridica il contratto produce effetti. Normalmente le due qualifiche si concentrano in capo allo stesso soggetto, ma la stessa disciplina codicistica prevede e norma le eccezioni a tale regola (esempio classico è il contratto concluso dal rappresentante).
    La nozione di contratto di cui all’art. 1321 c.c. sembrerebbe escludere l’ammissibilità dell’alternanza soggettiva dato che l’accordo è un incontro di volontà e, pertanto, i soggetti che lo concludono dovrebbero essere determinati ab origine. L’accordo sembra più compatibile con le vicende successorie che coinvolgono l’elemento soggettivo (si pensi alla cessione del contratto) piuttosto che con l’alternatività soggettiva.
    E’ necessario, a questo punto dell’analisi, sgombrare il campo da possibili confusioni con figure affini a quella del contratto con alternatività soggettiva.
    Anzitutto tale non può considerarsi il contratto stipulato a seguito di offerta al pubblico (art. 1336 c.c.) in quanto in questo caso sebbene l’accordo sia concluso dopo una proposta rivolta ad un numero indeterminato di soggetti, le parti sono determinate al momento della stipula senza che residui alcuna ambiguità soggettiva. L’accordo si conclude, quindi, in un momento successivo alla formulazione dell’offerta ma la parte è unica per ciascun contratto stipulato e non è sostituibile con effetti ex tunc.
    Non sussumibile nella categoria è anche il contratto concluso dal rappresentante in relazione al quale più che di alternatività soggettiva è corretto parlare di non coincidenza tra parte in senso formale e parte in senso sostanziale. Tanto è confermato dalla rilevanza degli stati soggettivi (vizi della volontà, mala fede, ignoranza) della parte in senso formale ovvero del rappresentante e della produzione di tutti gli effetti del contratto da questi concluso esclusivamente in capo al rappresentato che ne è parte in senso sostanziale. I due soggetti non sono alternativi, tant’è che in caso di contratto concluso dal rappresentante senza averne i poteri o eccedendo i limiti delle facoltà conferitogli con la procura il contratto non è valido e, salvo ratifica, non solo non produce effetti in capo al rappresentante ma a questi non si sostituisce il rappresentante. La sostituzione, poi, per poter integrare l’alternatività soggettiva dovrebbe avere effetti ex tunc, come stabilito dall’art. 1285 c.c.
    Questa caratteristica esclude dalla nozione di contratto con alternatività soggettiva anche quello ex art. 1406 c.c. e ss. dato che in capo al cedente continuano a sussistere obblighi di garanzia (latu sensu intesa) che il legislatore si premura di individuare con l’art. 1410 c.c.
    Certamente più vicino alla nozione di alternatività soggettiva è il contratto simulato, in caso di simulazione soggettiva con interposizione fittizia, dato che quando l’accordo non si realizza, perché manca l’adesione del terzo, il contratto si conclude tra l’interponente e l’interposto. Se, invece, l’accordo è efficace, parte del rapporto è il terzo. Parlare di alternatività è, però, anche in questo caso, improprio in quanto l’acquisto della qualità di parte è legato alla valida ed efficace conclusione di un accordo “accessorio” al contratto che non nasce alternativo ma può diventarlo in presenza di una patologia dello stesso.
    Ciò chiarito resta sa esaminare la possibilità di configurare come contratto con alternatività soggettiva quello per persona da nominare di cui all’art. 1401 e ss. La giurisprudenza ha sposato tale orientamento affermando anche con una recente pronuncia che la riserva della nomina del terzo comporta una indeterminatezza soggettiva ovvero una fattispecie di contratto a soggetto alternativo. Questa tipologia contrattuale (rectius questo modo di atteggiarsi del contratto) prevede la possibilità di una delle parti di nominare un altro soggetto che diventa unico titolare del rapporto e in capo a cui si producono gli effetti dello stesso ex tunc. Si tratta, ovviamente, di una fictio iuris grazie alla quale si realizza l’alternatività soggettiva in quanto ab origine è possibile che sia parte del contratto colui che l’ha stipulato o il soggetto da questi nominato.
    Il contratto per persona da nominare è nato per tutelare l’anonimato dei notabili che volevano acquistare beni all’asta mantenendo l’anonimato, dato che la partecipazione alle aste pubbliche era ritenuta sconveniente. Questo strumento giuridico consentiva loro di ottenere l’immediato trasferimento del bene nel loro patrimonio per effetto dell’efficacia retroattiva della nomina. Evitando il doppio trasferimento e consentendo di dilazionare la nomina esso si è rivelato anche un efficace mezzo di elusione fiscale tanto da rendere necessaria l’introduzione di un termine brevissimo per la nomina nelle aste pari a soli tre giorni. Oggi gli artt. 1401 e ss. trovano applicazione prevalentemente con riferimento ai contratti preliminari, fattispecie oggetto anche delle (poche) pronunce della giurisprudenza di legittimità.
    Una recente sentenza della Cassazione ha ammesso la possibilità che il nominato non esista al momento della stipula del contratto per persona da nominare, ritenendo che tale esistenza sia necessaria solo al momento della designazione ex art. 1402 c.c., anche perché la nomina si considera atto non recettizio,
    Nettamente contrario a tale opzione interpretativa autorevole dottrina (Gazzoni) che evidenzia come il nominato debba necessariamente esistere al momento della stipula in quanto essa rappresenta il dies a quo per la retrodatazione degli effetti della nomina: è evidente che tali effetti possono prodursi dal momento della stipula solo se il soggetto esisteva in quel momento.
    Per il prosieguo dell’analisi è opportuno distinguere l’ipotesi in cui il nominato sia un persona fisica da quella in cui la riserva venga sciolta a favore di una persona giuridica e, in particolare, di una società. Nella prima ipotesi soccorre all’interprete la disciplina in materia di donazione e successione al concepito e al nascituro. In entrambe le ipotesi, esclusa la titolarità della capacità giuridica generale che si acquista con la nascita, si ammette la titolarità di specifici diritti patrimoniali. Di particolare interesse è il disposto degli artt. 462 e 784 c.c. che disciplinano, rispettivamente, la capacità di succedere e di ricevere per donazione dei concepiti. L’operatività del contratto per persona da nominare in favore del concepito sarebbe ammissibile se si ritenesse che nelle more siano i genitori a fare le veci del non nato: la sostituzione dello stipulante con il nominato potrebbe, infatti, realizzarsi ex tunc in quanto il diritto o l’obbligo derivante dal contratto sarebbe temporaneamente in capo ad uno dei genitori che, in analogia a quanto previsto in caso di successione o donazione, potrebbero accettare la nomina e amministrarne gli interessi. La particolarità del caso sarebbe rappresentata dalle conseguenze del mancato verificarsi dell’evento (futuro e incerto) della nascita che comporterebbe l’inefficacia della nomina e la produzione degli effetti del contratto in capo allo stipulante.
    L’applicazione analogica delle disposizioni succitate, però, può ammettersi solo se tali norme non sono considerate eccezionali perché in tal caso vigerebbe il divieto di cui all’art. 14 disp. prel. c.c.
    Per risolvere i dubbi interpretativi la giurisprudenza di legittimità non è di particolare aiuto, in quanto le poche sentenze della Suprema Corte riguardano una diversa fattispecie ovvero la riserva di nomina a favore di una società costituita successivamente alla stipula del contratto.
    La Corte di Cassazione, però, come detto supra, ammette tale ipotesi individuando il momento in cui il nominato deve necessariamente esistere nella designazione, momento che può essere anche di molto successivo a quello della stipula, non essendovi alcuna disposizione in merito (salvo l’art. 583 c.c. in materia di aste giudiziarie). Le perplessità dell’interprete sulla pronuncia della Cassazione – come già detto supra – sono legate alla retroattività (al momento della nomina) degli effetti del contratto in capo al nominato, ai sensi dell’art. 1404 c.c. Se per il nascituro è possibile ipotizzare che il soggetto su cui ricadono gli effetti del contratto nelle more della nomina sia il genitore (rectius i genitori), altrettanto non può dirsi per le società.
    E opportuno, però, chiedersi quali ostacoli pratici si frappongano alla ammissibilità della nomina a favore di un soggetto non ancora esistente o non dotato di capacità giudica (il nascituro esiste ma non può essere titolare di diritti o obblighi salvo quanto detto supra).
    Si consideri, ad esempio, l’ipotesi più frequente nella prassi ovvero un contratto preliminare per persona da nominare. Gli obblighi e i diritti principali che sorgono in capo allo stipulante fin dalla nomina sono rispettivamente quello di concludere il definitivo e la possibilità di ottenere l’esecuzione del contratto ex art. 2932 c.c. Ammettendo la riserva di nomina in favore della costituenda società e data per ovvia la previsione del termine per la stipula in un momento successivo alla nomina (e quindi all’esistenza della società stessa), il meccanismo previsto dall’art. 1404 c.c. può operare senza difficoltà. Se l’obbligo di stipulare il contratto viene adempiuto, infatti, sarà la società – ormai parte del contratto – a concludere il definitivo. Se, invece, la controparte azionerà l’art. 2932 c.c. sarà sempre la società ad essere convenuta in giudizio ed, eventualmente, condannata anche al risarcimento dei danni cagionati fin dalla stipula del contratto. Qualora, invece, la società non fosse costituita resterebbero in capo allo stipulante tutti gli effetti del contratto.
    L’alternativa, del resto, non convince. Esclusa la configurabilità di un contratto con riserva di nomina – in caso di nascituri o società costituende – si dovrebbe, infatti, applicare la disciplina del contratto a favore di terzo o della cessione oppure, nel rispetto della volontà dei contraenti, ipotizzare un contratto atipico a cui si applicherebbero, in ogni caso, le disposizioni di cui agli artt. 1401 e ss.

    GIUDIZIO 14
    Il candidato ha pienamente compreso le problematiche legata alla traccia e le sviluppa in maniera logica, guidando la commissione in ogni passaggio.
    Sotto il profilo formale il linguaggio giuridico risulta correttamente impiegato, tuttavia dalla lettura si ha la sensazione di leggere più che un tema lo schema di un atto, ciò in quanto la modalità di stesura usata appare un po' povera. Si tratta comunque di una valutazione che non incide sulla validità contenutistica dell'elaborato.


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    2) Premessi adeguati cenni sulla alternatività soggettiva nel rapporto contrattuale, si soffermi il candidato sul contratto per persona da nominare con riferimento al nascituro e alla persona giuridica in via di formazione.

    Il contratto è definito dall’art. 1321 c.c. come l’accordo tra due o più parti per costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale tra di loro. Il termine “parte”, come noto, non si identifica con il soggetto di diritto (persona fisica, ente di fatto o persona giuridica), bensì, individua il centro di imputazione di interessi su cui si produrranno gli effetti giuridici del contratto. Questa può, quindi, essere unisoggettiva o plurisoggettiva. Si distingue, altresì, tra parte in senso formale, intesa quale autore dell’atto, la quale manifesta la volontà di vincolarsi; dalla parte in senso sostanziale, il vero centro di imputazione degli effetti prodotti dal contratto. Normalmente il medesimo soggetto riunisce entrambe le qualifiche ma si danno numerosi casi di distinzione, opportunamente regolati dall’ordinamento giuridico. Mentre la parte in senso formale deve necessariamente essere determinata nel momento della stipula, al fine della nascita del vincolo giuridico; la seconda può essere determinata anche in seguito, come avviene in ipotesi di rappresentanza in incertam personam.
    Il fenomeno dell’alternatività soggettiva nel rapporto contrattuale si riscontra nei casi di sostituzione della parte sostanziale. E’ bene premettere che l’alternatività, nell’ambito del diritto delle obbligazioni e dei contratti, è espressamente disciplinata dal legislatore con riferimento all’oggetto del contratto (nello specifico, nell’ambito dell’oggetto delle obbligazioni). Segnatamente, trattasi dell’obbligazione alternativa (artt. 1285 ss c.c.). La medesima si riscontra allorquando nell’obbligazione sono dedotte più di una prestazione ed il debitore si libera adempiendo, a sua scelta, l’una o l’altra. La suddetta si distingue dall’obbligazione con facoltà alternativa, la quale si caratterizza per la deduzione nel rapporto obbligatorio di una sola prestazione, ma per la possibilità riconosciuta al debitore di adempiere eseguendo una diversa prestazione.
    Per quanto invece attiene all’alternatività relativa al soggetto del rapporto contrattuale, tale fenomeno, in difetto di espressa definizione codicistica, riecheggia, come anticipato, in tutti i casi di sostituzione della parte sostanziale, sebbene, in senso stretto, potrebbe individuarsi nelle sole ipotesi in cui la sostituzione della parte, costituisce l’effetto di una scelta posta in essere dal contraente originario, come si verifica nel contratto per persona da nominare.
    Intesa in senso ampio, questa può essere l’effetto di un atto inter vivos oppure di una successione mortis causa. Concentrando l’analisi sugli atti inter vivos, in cui trova collocazione il contratto per persona da nominare, le parti originarie del contratto possono determinare la sostituzione della parte sostanziale attraverso l’utilizzo di alcuni istituti espressamente disciplinati dal codice civile. Innanzitutto occorre menzionare l’istituto della rappresentanza ( artt. 1387 ss. c.c.). Un’ipotesi di sostituzione si ravvisa, tuttavia, esclusivamente nei casi di rappresentanza c.d. indiretta e di rappresentanza senza potere.
    La prima si verifica allorquando il rappresentante agisca in nome proprio ma nell’interesse del rappresentato. Diversamente dalla rappresentanza diretta, nel cui ambito il rappresentato assume immediatamente il ruolo di parte sostanziale, in quella indiretta, parte formale e sostanziale è, nell’immediato, il rappresentante, in quanto solo la spendita del nome (contemplatio domini), sorretta dal potere rappresentativo, consente l’imputazione degli effetti al dominus. Ne consegue che, quest’ultimo diviene parte sostanziale del contratto, stipulato per suo conto dal rappresentante, sostituendosi al medesimo, solo a seguito dell’adempimento volontario da parte del rappresentante ovvero dell’esperimento da parte del dominus delle azioni giudiziali afferenti il rapporto gestorio sottostante (nell’ipotesi di mandato: art. 1706 c.c.).
    La rappresentanza senza potere, invece, si riscontra allorquando il falsus procurator agisce in nome e per conto del rappresentato, in difetto di valida procura. Consegue che, il contratto stipulato dal falso rappresentante rimane quiescente, ovverosia non produce alcun effetto fino all’eventuale ratifica del falso rappresentato. In presenza di ratifica, quest’ultimo acquista la veste di parte sostanziale in via retroattiva, dalla data di stipulazione del contratto (art. 1399 c.c.).
    Un ulteriore caso di sostituzione della parte sostanziale si verifica a seguito della cessione del contratto (artt. 1406 e ss. c.c). Diversamente dai casi sopra citati, la cessione del contratto determina la sostituzione della parte con effetti ex nunc, ossia decorrenti dalla data del negozio in oggetto e non dalla data della stipula del contratto originario (art. 1407 c.c.).
    Seppur affine, esula, invece, dall’alveo di operatività del fenomeno in esame, il contratto a favore di terzi (artt. 1411 s.s..c.c.), in quanto il terzo non acquista la qualità di contraente, bensì esclusivamente di destinatario degli effetti del negozio.
    Ciò premesso, occorre concentrare l’analisi sul contratto per persona da nominare, al fine di evidenziare, all’esito dell’indagine, le problematiche sottese all’operatività dell’istituto con riferimento al nascituro e alla persona giuridica in via di formazione.
    Il contratto per persona da nominare è disciplinato dagli articoli 1401 e seguenti del codice civile. Esso non costituisce un contratto a sé stante, bensì uno schema regolamentare generale adattabile a qualsiasi contratto. Si caratterizza per la presenza, a latere della pattuizione principale, di un patto accessorio con il quale si attribuisce, in via immediata, allo stipulante, la facoltà di sostituire a se, un terzo, nominato successivamente, che diverrà parte sostanziale del contratto (c.d. clausola di riserva), purchè quest’ultimo abbia preventivamente conferito procura allo stipulante, oppure accetti la nomina. Ne consegue una scissione tra parte formale (stipulante), determinata, e parte sostanziale (terzo, successivamente alla nomina, o stipulante in caso di auto designazione o nomina invalida), indeterminata.
    L’istituto ha origini antiche, era nato nella prassi commerciale per consentire a soggetti abbienti di partecipare alle vendite all’asta senza rendere pubblica la loro presenza. Esso ha un ambito di applicazione generalizzato eccetto i contratti c.d. intuito personae (salvo consenso della controparte) ed i negozi di secondo grado.
    Per quanto attiene alle modalità operative, lo stipulante deve comunicare la dichiarazione di nomina (negozio unilaterale recettizio), accompagnata dall’eventuale procura preventiva del nominato, al promittente, entro il termine di tre giorni dalla stipula, salvo che le stesse abbiano pattuito un termine più lungo. Nel medesimo termine (non è tuttavia richiesta la contestualità), il nominato, che non abbia conferito procura preventivamente, deve accettare la nomina. La brevità del termine è stata prevista dal legislatore al fine garantire la certezza dei rapporti giuridici, nonché la celerità dei traffici. Nonostante i contraenti originari possano stabilire un termine più lungo, è opportuno evidenziare che ai fini fiscali, il superamento del termine legislativamente previsto, è considerato quale consolidamento del negozio in capo ai contraente originario, con conseguente ulteriore trasferimento all’atto della nomina. Ciò ha determinato una progressiva riduzione nell’utilizzo dell’istituto de quo in relazione ai contratti traslativi. Ampi margini di operatività si riscontrano, invece, nell’ambito dei contratti preliminari, spesso non soggetti a registrazione.
    Per quanto concerne la forma, il legislatore richiede che la dichiarazione di nomina, la procura o l’accettazione rivestano la medesima forma utilizzata dalle parti per il contratto (art. 1403 c.c.).
    In presenza di dichiarazione di nomina tempestiva e valida, il terzo nominato diviene parte sostanziale del contratto, sostituendosi allo stipulante con effetti ex tunc, ossia decorrenti dalla data della stipula originaria (art. 1404 c.c.). Qualora, invece, la dichiarazione fosse invalida, intempestiva, non accompagnata da valida procura o accettazione, il contratto produrrà i suoi effetti, sempre dalla data della stipula, tra i contraenti originari.
    Premesso ciò per quanto attiene alla disciplina, lo schema regolamentare de quo, pone notevoli problematiche in merito all’individuazione della sua natura giuridica. In materia, si sono succedute numerose tesi dottrinali senza mai giungere ad una ricostruzione unitariamente condivisa.
    Una prima voce dottrinaria definisce l’istituto come un contratto condizionato, nello specifico, sottoposto a duplice condizione. Gli effetti del medesimo sarebbero, infatti, per lo stipulante, risolutivamente condizionati e, per il terzo, sospensivamente condizionati, alla dichiarazione di nomina (preventivamente autorizzata o successivamente accettata). Trattasi di orientamento minoritario in quanto si contesta l’improprio richiamo della condizione, caratterizzata, come noto, dall’incertezza dell’evento dedotto e della precarietà degli effetti, caratteristiche che nell’istituto in esame non si riscontrano in quanto il contratto produrrà pur sempre i suoi effetti dalla data di conclusione, a prescindere dall’eventuale sostituzione dei contraenti.
    Ugualmente minoritario è l’orientamento che qualifica l’istituto in oggetto come fattispecie a formazione progressiva in quanto la pattuizione risulta perfezionata fin dall’inizio.
    Le tesi più accreditate collocano, da una parte, il contratto per persona da nominare nell’ambito della rappresentanza in incertam personam e dall’altra, evidenziandone i tratti distintivi, ne affermano l’autonomia. Nello specifico, coloro che escludono l’inquadramento di tale contratto (rectius, l’alternatività soggettiva che lo connota) nell’ambito della rappresentanza pongono in luce alcune differenze significative. Innanzitutto, lo stipulante assume, immediatamente, la veste di parte formale e sostanziale della pattuizione, diversamente dal rappresentante di cui all’art. 1387 ss .c.c. Lo stipulante, infatti, può essere titolare del potere di rappresentanza, conferitogli dal terzo, ma nel momento di conclusione del negozio, non lo esercita. E’, infatti, diversa la situazione di chi si riserva la contemplatio domini, in cui gli effetti del contratto si produrranno esclusivamente in capo al rappresentato (parte sostanziale), dalla vicenda in oggetto, in cui si presenta un’alternatività soggettiva “pura”, laddove gli effetti potranno prodursi, alternativamente, in capo a due soggetti differenti, che acquisteranno la veste di parte sostanziale con effetto retroattivo. In dottrina, vi è chi richiama, al riguardo, a titolo descrittivo, l’istituto dell’obbligazione con facoltà alternativa, con la differenza che in questo caso, la scelta non concerne l’oggetto ma il soggetto (rectius parte) del contratto.
    Si evidenza, altresì, la diversa disciplina prevista per la forma degli atti dall’art. 1403 e dall’art. 1392 c.c.
    L’adesione ad una di tali ultime due ricostruzioni maggiormente accreditate, non ha un valore meramente teorico, in quanto implica ripercussioni pratiche differenti.
    Si perviene a soluzioni differenti in relazione al problema dell’efficacia del contratto per lo stipulante. Secondo la prima ricostruzione, quale rappresentanza in incertam personam, gli effetti del contratto, per lo stipulante, sono sospensivamente condizionati alla scadenza del termine, salvo che quest’ultimo manifesti, prima della scadenza, la volontà di auto designarsi. Invece, abbracciando il secondo orientamento, dovrebbe ritenersi che gli effetti si producano immediatamente, salvo risolversi, in presenza di valida e tempestiva dichiarazione di nomina.
    Soluzioni divergenti si riscontrano anche in materia di capacità. Qualora si applichi la disciplina della rappresentanza deve ritenersi valido il contratto vietato allo stipulante (art. 1398, comma secondo, c.c.), mentre dovrà ravvisarsi l’invalidità aderendo alla seconda ricostruzione.
    Poste le necessarie premesse, è ora necessario interrogarsi sulla possibilità per il nascituro e la persona giuridica in via di formazione, di essere nominati parte sostanziale nel rapporto contrattuale, mediante l’utilizzo dell’istituto di cui all’art. 1401 c.c.
    Come noto, la possibilità di divenire titolare di situazioni giuridiche soggettive, nello specifico diritti ed obblighi, costituenti effetti giuridici di un contratto, è subordinato all’acquisto della capacità giuridica. Questa, come statuito dall’art. 1 del codice civile, si acquista al momento della nascita. Momento individuato, per le persone fisiche, nella fuoriuscita dal ventre materno e nell’inizio della respirazione polmonare. Prima di tale momento, i diritti che la legge riconosce al nascituro sono subordinati all’evento della nascita (art. 1, comma secondo, c.c.). Nello specifico, il codice civile, tutela, con finalità conservativa, gli interessi patrimoniali del nascituro, distinguendo tra nascituro concepito (artt. 462, primo comma; 643 secondo comma; 687, secondo comma; 715; 784 c.c.) e non concepito (artt. 462, terzo comma; 643, primo comma; 715; 784). In seguito all’avvento della Costituzione (artt. 2, 3, 31,32), alle fonti internazionali (Cedu art. 8) e comunitarie (artt. 2,3.8 carta di Nizza) e alla legislazione di settore (lg 40/2004; lg 194/78), la tutela del nascituro concepito è divenuta maggiormente incisiva. Da tale congerie di fonti normative, parte della dottrina e della giurisprudenza di legittimità ha desunto il riconoscimento di soggettività giuridica del concepito, distinta dalla capacità giuridica che verrà acquistata al momento della nascita. La medesima si distingue da quest’ultima, intesa quale capacità generale ed astratta di divenire titolare di situazioni giuridiche soggettive, e viene definita come centro di imputazione di alcuni interessi ritenuti meritevoli di tutela, che acquistano il rango di diritti già prima della nascita.
    Su altro fronte, si contesta il riconoscimento per tale via, di una capacità giuridica provvisoria ( c'è un errore sulla punteggiatura), in base alla premessa dell’equiparazione per le persone fisiche, gli enti di fatto e le persone giuridiche tra soggettività giuridica e capacità giuridica dal momento che la prima si esplica nella seconda. Il concepito costituirebbe esclusivamente una fattispecie a formazione progressiva, oggetto di tutela da parte dell’ordinamento ma non titolare di soggettività giuridica.
    Ciò posto, si pone il problema dell’eventuale nomina di un soggetto nascituro, non ancora nato al momento della stipula del contratto. Ricorrono due ipotesi, a seconda che il nascituro sia nato al momento della nomina e/o accettazione o che non sia ancora nato nemmeno in tale momento.
    In merito alla prima ipotesi si confrontano due tesi. Secondo la prima la nomina è ammissibile in quanto è sufficiente che il soggetto esista nel momento della nomina o accettazione. Per quanto riguarda il problema della capacità d’agire, esclusa la possibilità di una procura preventiva, il minore potrà accettare la nomina attraverso il proprio rappresentante legale.
    In senso opposto si esclude tale possibilità in virtù della retrodatazione degli effetti, prevista dall’art. 1404 e del disconoscimento della capacità giuridica provvisoria.
    Analogamente la nomina risulterebbe inammissibile nella seconda ipotesi dal momento che il nominato non potrebbe divenire titolare degli effetti del contratto per l’assenza della capacità giuridica.
    Simili problematiche si pongono con riferimento alla persona giuridica in via di formazione. Con tale concetto può intendersi sia l’ente collettivo prima dell’acquisto della personalità giuridica mediante l’iscrizione nel registro della persona giuridiche (art. 1 Dpr 361/2000), o mediante l’iscrizione nel registro delle imprese per le società costituite secondo uno dei tipi regolati nei capi III e s.s. del titolo V del libro IV, sia gli enti di fatto o società non ancora costituiti (a prescindere dall’iscrizione negli appositi registri per l’acquisto della personalità giuridica).
    In relazione alla prima ipotesi, posto che l’acquisto della personalità giuridica implica esclusivamente l’autonomia patrimoniale perfetta dell’ente, senza escludere la titolarità della capacità giuridica, ne consegue che la mancanza di personalità giuridica al momento della stipula o della nomina o accettazione, non impedisce al soggetto di diventare parte sostanziale del contratto.
    Qualora, invece, l’ente o la società non fosse ancora stata costituita al momento della stipula si pongono problematiche assimilabili a quanto descritto con riferimento al nascituro.
    Nel caso in cui fosse costituita dopo la stipula ma prima della nomina e/o accettazione, per la prima ricostruzione si ritiene ammissibile, per la seconda sopra esposta, non ammissibile in virtù della retroattività degli effetti. Nel caso in cui non fosse ancora costituita al momento della nomina, in virtù dell’impossibilità di diventare titolare di rapporti giuridici si determina l’inefficacia della dichiarazione di nomina con conseguente costituzione del rapporto tra i contraenti originari.
    GIUDIZIO 14
    Il candidato ha sviluppato, dimostrando una avanzata capacità giuridica, la traccia proposta.
    Sotto il profilo lessicale il linguaggio giuridico è correttamente impiegato e non si riscontrano particolari irregoalarità.


    pubblico la sola trattazione per il tema opzionale che sia prossima alla sufficienza, solo perché possiate avere un'idea dell'argomento :

    2) Premessi adeguati cenni sulla relazione tra autonomia contrattuale e gli atti di disposizione del proprio corpo si soffermi sulla liceità e meritevolezza dei contratti sul corpo umano.

    L’autonomia consiste nella facoltà dei soggetti di curare i propri interessi attraverso atti e negozi giuridici.
    L’art. 1322 c.c. rubricato “autonomia contrattuale” afferma che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto, nei limiti imposti dalla legge.
    Al secondo comma il legislatore si è preoccupato di chiarire la piena facoltà di concludere anche contratti non rientranti nella categoria dei contratti tipici, individuando solo un limite di tipo finalistico: i contratti devono, infatti, essere diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela, secondo l’ordinamento giuridico.
    I diritti della personalità sono quei diritti che appartengono all’individuo in quanto tale, trovano disciplina all’interno della nostra Costituzione nel disposto dell’art. 2 che sancisce l’impegno della Repubblica nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e all’interno dell’art. 3 il quale prevede che la Repubblica abbia tra i suoi compiti, quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscano il pieno sviluppo della persona umana
    Tradizionalmente ai diritti della personalità sono riconosciute le caratteristiche dell’assolutezza, imprescrittibilità, intrasmissibilità mortis causa e indisponibilità.
    Questo comporta come conseguenza l’illiceità di tutti gli atti posti in essere in violazione o lesione di tali diritti, quindi la sanzione sarà la nullità del negozio ex art. 1343 e 1418 comma 2 c.c.
    Infatti l’art. 1418 c.c., al secondo comma, dispone che tra gli elementi che producono la nullità del contratto vi sia l’illiceità della causa e cioè la sua contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume ed è indubbio che il valore della persona operi nel nostro ordinamento come principio di ordine pubblico e buon costume, trasmettendo agli atti giuridici, lesivi dello stesso, l’illiceità dell’aspetto causale ex 1343 c.c.
    In considerazione della loro specifica natura, i diritti della personalità si distinguono dagli altri diritti assoluti, perché il generale dovere di astensione riguarda in tale ipotesi anche il titolare del diritto stesso che è tenuto, al pari degli altri soggetti, al dovere di desistere dal compiere azioni capaci di ledere la propria persona.
    Il principio di inviolabilità della salute, di cui all’art. 32 Cost, si correla al diritto al rispetto all’integrità dell’individuo che rinviene un referente nell’art. 5 c.c. che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo, quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alle leggi, all’ordine pubblico o al buon costume.
    L’art. 5 c.c. afferma il generale principio di divieto di disposizione del proprio corpo, quando tale disposizione possa determinare una lesione del valore della persona.
    Si può notare come la stesura dell’art. 5 c.c. abbia risentito della vecchia impostazione vigente al momento dell’emanazione del codice del 1942 che era modellata sullo schema tipico del diritto soggettivo, visto come bene esterno rispetto all’individuo e non coincidente con lo stesso.
    Dunque se il valore della persona in se ha raggiunto all’interno del nostro ordinamento un riconoscimento primario e costituzionale, occorre domandarsi ai fini della trattazione, come esso si possa conciliare con l’autonomia negoziale.
    In particolare occorre verificare se il titolare del diritto della personalità possa disporre dello stesso.
    La norma non ha applicazione nei casi di contratti con cui il soggetto disponga, alieni o rinunci a diritti sul proprio corpo, che abbiamo visto sono nulli per illiceità della causa (un po' troppo informale).
    Quindi i casi afferenti all’art. 5 c.c. sono più che altro quelli di prestazione del consenso ad attività incidente sulle attribuzioni corporee, tali atti sono infatti consentiti solo se non si pongano in contrasto con i principi generali dell’ordinamento, in tema di tutela della persona e dignità umana, nonché con la morale vigente nel momento storico di riferimento.
    Quindi sicuramente saranno da considerare leciti gli atti di donazione degli organi necessari alla salute altrui, in quanto ispirati al principio costituzionale di solidarietà sociale, come ad esempio nel caso di trapianto del rene o di parte del fegato tra persone viventi, allo stesso modo sono validi gli atti di disposizione a titolo gratuito che non comportino una diminuzione permanente dell’integrità del corpo come nel caso di donazione di sangue o di midollo osseo.
    Inoltre, ovviamente, l’art. 5 c.c. non troverà applicazione relativamente agli atti dispositivi di parti staccate dal corpo come per esempio denti, capelli e unghie: infatti queste al momento del distacco diventano beni autonomi, suscettibili di godimento e di scambio, risulteranno anche validi gli atti di disposizione aventi ad oggetto parti del corpo suscettibili di riproduzione, anche se tali atti sono sempre incoercibili.
    Infine, per quanto riguarda il cadavere, non è consentita una commerciabilità del corpo dopo la morte, per rispettare la dignità dell’individuo e il sentimento di dignità verso i defunti, tuttavia il soggetto ancora in vita può disporne con testamento in riferimento alla cura della propria salma e per particolari profili come la tumulazione, etc.
    Va evidenziato come non sia possibile determinare a priori la liceità o illiceità degli atti dispositivi dei diritti personali, ma occorrerà verificare nel singolo caso concreto se gli stessi siano stati violati oppure no; ferme le ipotesi macroscopicamente lesive degli stessi, come ad es. nell’ipotesi di atti di cessione o trasferimento a titolo patrimoniale, per contrarietà al buon costume.
    Per interpretazione letterale dell’art. 5 c.c. gli atti di disposizione del proprio corpo fanno riferimento ad una terza persona che li dovrebbe ricevere, per un’interpretazione estensiva, minoritaria, dovrebbero ritenersi vietati anche suicidio, sciopero della fame, autosperimentazione scientifica e sterilizzazione volontaria.
    La tematica degli atti di disposizione del corpo, apre la strada alla questione del diritto alla vita e all’autodeterminazione in materia sanitaria.
    Non esiste nel nostro sistema giuridico una norma che tuteli in modo espresso il diritto alla vita, anche se lo stesso è ricavabile non solo da Convenzioni Internazionali ma, anche implicitamente, dagli art 2 e 32 Cost. e 589 c.p. che incriminando l’omicidio del consenziente, ci fa evincere che il diritto alla vita è prevalente rispetto ad ogni altro valore della persona.
    Il diritto all’integrità psicofisica inteso come garanzia dell’inviolabilità fisica della persona rinviene il suo referente costituzionale nel secondo comma dell’art 32 secondo cui nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. Viene poi prescritto che la legge non può, in nessun caso, violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
    Per quanto concerne il trattamento medico va sottolineato che le cure non possono essere imposte, tranne che nell’ipotesi del trattamento sanitario obbligatorio ex art 32 co 2 Cost,quindi vige il diritto di autodeterminazione e la necessità del consenso del paziente per essere sottoposto ad interventi o cure.
    Quindi assume fondamentale importanza in questo ambito, il cd. Consenso informato, consenso che, secondo quanto determinato dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, deve essere reale, effettivo, attuale, espresso, univoco, libero, consapevole e informato.
    È di grande attualità inoltre il problema relativo alla possibilità per il malato terminale di esprimere il dissenso rispetto alla prosecuzione delle cure che lo mantengono in vita.
    Emblematico si è dimostrato il caso di Piergiorgio Welby, malato terminale che richiedeva l’interruzione della ventilazione meccanica artificiale che lo teneva in vita e senza della quale lo stesso sarebbe morto, (mettilo il caso in forma impersonale non citare direttamente welby o al massimo metti il c.d. caso welby)su tale fattispecie si sono venute a delineare due correnti di pensiero da un punto di vista giuridico: secondo la prima, il nostro ordinamento già riconoscerebbe il diritto dell’individuo di rifiutare i trattamenti sanitari o di revocare il consenso prestato, la seconda invece ritiene che il diritto di autodeterminazione, pur essendo previsto nel nostro ordinamento, è tuttavia privo di addentellati normativi che ne disciplinino modalità attuative e dunque lo stesso non è in concreto tutelabile.
    La nota vicenda Englaro, invece, pone la questione relativa ai poteri spettanti al rappresentante legale nei casi in cui il rappresentato malato giaccia da tempo in stato vegetativo permanente. Ci si domanda se il rappresentante possa sostituirsi al malato per il compimento di atti personalissimi: la risposta, a seguito di una lunga diatriba deve ritenersi positiva a condizione che sia rispettata la volontà manifestata in vita dal paziente e la sua condizione di salute sia irreversibile.
    Va evidenziato come il vivace dibattito in materia stia portando verso la disciplina legislativa dell’istituto del testamento biologico, al momento non riconosciuto a livello normativo nel nostro ordinamento, documento scritto, tramite il quale un individuo potrà decidere liberamente sulla base del suo diritto all’autodeterminazione i trattamenti sanitari che vuole ricevere e quelli a cui vuole rinunciare, nell’ipotesi in cui intervenga uno stato di incapacità che impedisca la manifestazione della propria volontà e potrà inoltre indicare nello stesso un fiduciario che agisca al suo posto e nel rispetto della sua volontà.
    Altro caso interessante è quello delle trasfusioni di sangue per i testimoni di Geova il dissenso infatti deve essere manifestato espressamente non essendo sufficiente un dissenso generico preventivo, se non sia possibile riaffermarlo in una situazione di pericolo di vita.
    Si può concludere sostenendo che la granitica inconciliabilità tra autonomia negoziale e atti di disposizione del proprio corpo, e più in generale, diritti della personalità tout court, stia in qualche modo allentandosi, cedendo il passo alla tutela di diritti parimenti importanti quali il diritto all’autodeterminazione che necessita per la sua completa attuazione e fruibilità di una più ampia capacità dispositiva in capo al suo detentore, pur nel rispetto, che andrà verificato caso per caso, dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico e di quelli vigenti nella società nel momento storico di riferimento.
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    La trattazione della traccia non è sufficiente, ti limiti ad un elencazione casistica ma non ti soffermi mai sui principi generali e sulla compatibilità di questi con la tematica oggetto di traccia.
    Sotto il profilo lessicale si riscontra una certa informalità del linguaggio che non è coretto usare in sede concorsuale.
     
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    sempre civile:
    Premessi adeguati cenni sulla alternatività soggettiva nel rapporto contrattuale, si soffermi il candidato sul contratto da persona da nominare con riferimento al nascituro e alla persona giuridica in via di formazione.

    L'alternatività soggettiva nel contratto attiene al tema della determinazione delle parti contrattuali intese come centro di interessi nei cui confronti si producono gli effetti giuridicamente vincolanti del negozio.
    Il codice civile prevede che il contratto sia l'accordo fra due o più parti. con ciò si richiede implicitamente che le parti siano identificate ab origine.
    ciò rende dubbia la possibilità teorica di un'obbligazione contrattuale che abbia un contenuto oggettivo alternativo, ovvero sia assunta in modo alternativo da soggetti diversi.
    Dal punto di vista oggettivo, la legge prevede espressamente le obbligazioni alternative, le quali sono previamente individuate dalle parti, ed attraverso una manifestazione di volontà si verifica il fenomeno della concentrazione e il soggetto è liberato adempiendo essa (ovvero nell'ipotesi in cui essa sia diventata impossibile per causa a lui non imputabile). In particolare, il debitore si libera secondo una scelta che di regola spetta al debitore stesso, ma può spettare anche al creditore, a un terzo, o al giudice.
    Il fenomeno dell'alternatività soggettiva è altrettanto complesso. Si è qui in presenza di una pluralità di parti in senso sostanziale, le quali possono rivestire non in modo concorrente (l'una e l'altra) ma alternativo (o l'una o l'altra) la qualità di parti del contratto.
    La possibilità ontologica di una alternatività dal lato soggettivo deve fare i conti con il principio generale, informato alla certezza del diritto, della necessaria determinatezza o determinabilità dei soggetti nei cui confronti il contratto produce effetti giuridici vincolanti. Questo , muovendo da ragioni di certezza nelle relazioni giuridiche intersoggettive, richiede che al momento dell’assunzione dell’impegno contrattuale siano identificati o identificabili secondo criteri univoci i soggetti il cui centro di interessi verrà inciso dal negozio contrattuale.
    Inoltre essa deve fare i conti con il principio della relatività del contratto, in base al quale il contratto ha forza di legge fra le parti, ex art. 1372. Occorre cioè spiegare perché un contratto eventualmente stipulato da Tizio e da Caio potrebbe interessare, non solo come beneficiario (contratto a favore di terzo) ma addirittura come parte contrattuale colui che non abbia partecipato alla stipula.
    Infine, deve prendere atto dell'esistenza di taluni tipi di contratti in cui è decisivo l'elemento dell'intuitus personae, nel senso della infungibilità assoluta della identità della persona del contraente, sicché non è possibile immaginare alcuna alternativa.
    Per queste ragioni non è ravvisabile nell’ordinamento un principio generale che consente l’alternatività soggettiva, in quanto deroga parziale alla regola della determinatezza ab origine della parte contrattuale, dovendosi invece ritenere le ipotesi nominate dal codice come eccezionali e tassative.
    L'alternatività può essere originaria o successiva. Nel primo caso le parti sono informate ab origine della possibilità che più soggetti possano assumere la qualità in modo alternativo di parti del contratto. Sicché sembrerebbe salvaguardata l'esigenza di certezza del diritto.
    L'alternatività successiva pone problemi maggiori, nella misura in cui l'alternatività non è prevista in origine, e non è possibile stipulare il contratto essendo a conoscenza della possibilità dell'avvicendarsi di diversi soggetti nella qualità di parti in senso sostanziale. Si tratta di un problema innanzitutto di informazione
    Sicché tale previsione assomiglia più al fenomeno (non sussumibile ma affine a quello dell’alternatività soggettiva) della cessione del contratto, che è istituto previsto dalla legge (art. 1406 c.c.). Nel dettaglio, si prevede che una parte (cedente) possa cedere ad un terzo (cessionario) la propria posizione contrattuale, con riferimento a contratti a prestazioni corrispettive non ancora eseguite.
    La disciplina della cessione del contratto richiede che la parte originaria che conserva la propria qualità successivamente alla cessione (contraente ceduto) manifesti il proprio consenso alla cessione, in modo preventivo ovvero concomitante alla cessione, ovvero ancora successivo.
    Va sottolineato che l'efficacia del subentro del cessionario nella posizione del cedente è irretroattiva (si producono effetti ex nunc). ciò è reso evidente dalla natura dei contratti che possono formare oggetto della cessione, con riferimento ai quali è possibile immaginare una fase di esecuzione già esaurita e una fase non ancora esaurita, nei confronti della quale sola è possibile incidere con la cessione.
    Fenomeno non sussumibile nel fenomeno di alternatività soggettiva appare il contratto a favore di terzo, nel quale in realtà le parti originarie rimangono tali, e il terzo, pur dichiarando di voler profittare, non acquista mai la posizione di parte né in senso formale né in senso sostanziale.
    Si afferma spessissimo in letteratura che nel contratto per persona da nominare si realizza una alternatività soggettiva.
    Il contratto per persona da nominare, disciplinato dall'articolo 1401 c.c., si realizza quando un soggetto (stipulante) si riserva di nominare entro un termine altra persona quale parte sostanziale del contratto.
    La legge prevede che nel caso in cui non subentri la nomina ovvero sia invalida, ovvero ancora il terzo eletto non accetti, il contratto produce effetti solo fra le parti originarie.
    Caratteristica del contratto per persona da nominare è la situazione di incertezza soggettiva che la riserva di nomina produce, tale per cui per un periodo di tempo, che la legge si preoccupa di non dilatare eccessivamente per non aggravare l’incertezza medesima
    Delle due l'una: o lo stipulante rimane parte del contratto, o tale diventa l'eletto che abbia accettato.
    In dottrina si è molto discusso sulla natura giuridica di tale contratto.
    Talune ipotesi ricostruttive intravedono nella vicenda descritta dall'articolo 1401 c.c. una vicenda sostanzialmente unitaria, altri una vicenda binaria incentrata su due contratti distinti.
    Per alcuni, ricorrono in realtà due contratti, l'uno fra promittente e stipulante, e l'altro fra promittente e terzo eletto. Il primo dei due è sottoposto a condizione risolutiva, a carattere potestativo, rappresentata dalla accettazione da parte dell'eletto della nomina.
    Il secondo contratto è invece sottoposto a condizione sospensiva, sempre con riferimento alla nomina.
    Per altra tesi, invero minoritaria, si tratterebbe di vero e proprio collegamento negoziale.
    Le critiche a tale ricostruzione si incentrano sulla difficoltà di inquadrare una simile vicenda nel meccanismo condizionale previsto dalla legge. Invero, la condizione rappresenta un evento futuro e incerto che non condiziona la titolarità della veste di parte, ma esclusivamente gli effetti scaturenti dal contratto.
    Altra ricostruzione, oggi dominante anche in giurisprudenza, intravede una vicenda unitaria: il contratto originario resta unico, valido ed immediatamente efficace fra le parti originarie. L'intervento della accettazione fa semplicemente retroagire all'inizio (ex tunc) gli effetti del contratto, individuando definitivamente come titolare del rapporto contrattuale il soggetto nominato, e non più lo stipulante.
    La prevalente dottrina e la giurisprudenza sussumono la vicenda del contratto per persona da nominare nel più ampio quadro della rappresentanza. Lo stipulante in questa ottica costituisce un rappresentante, sia pure eventuale, del nominando/nominato. La accettazione costituisce invece una vera e propria ratifica, ex post, del contratto concluso.
    A sostegno di questa tesi milita la sedes materiae della disciplina del contratto per persona da nominare, che si colloca subito dopo la disciplina della rappresentanza, nonché anche la terminologia impiegata dal codice (il termine "procura" sembra essere impiegato in senso tecnico, allo stesso modo della procura-atto di conferimento del potere rappresentativo).
    Va precisato che nel contratto per persona da nominare gli effetti del contratto, per giurisprudenza prevalente, retroagiscono in capo al promittente e all’eletto, successivamente alla sua elezione.
    Il contratto è unico, solo che gli effetti si consolidano in capo all’eletto ovvero allo stipulante originario.
    Sicché se di alternatività si vuole parlare, bisognerebbe avere riguardo al lato effettuale piuttosto che a quello soggettivo. Sono gli effetti che si producono alternativamente sullo stipulante, nel caso di mancanza di electio amici o di invalidità della stessa, o di mancata accettazione da parte dell’eletto.
    Quanto alla persona del nascituro, occorre fare i conti con gli status soggettivi richiesti per la valida esplicazione della vicenda del contratto per persona da nominare.
    Si ritiene infatti essere necessario, sia dal lato dello stipulante che dal lato dell’eletto la titolarità della capacità di agire, e non solo della capacità naturale. Si tratta infatti di atto avente natura negoziale. Ciò peraltro va valutato al momento della stipula del contratto, dal momento che a) gli effetti potrebbero consolidarsi in capo allo stipulante e b) gli effetti potrebbero retroagire in capo all’eletto sin da quel momento.
    Come è noto il nascituro non dispone della capacità di agire, e pertanto non è in grado di rendersi conto delle conseguenze giuridiche dell’acquisto della qualità di parte contrattuale.
    Contrariamente alla disciplina del contratto a favore di terzo, nella quale si ritiene da parte consistente della dottrina e della giurisprudenza (e pur contro il parere di una autorevole voce dottrinale) che sia ammissibile una stipula a favore del terzo nascituro, derivandosi argomenti positivi dalla disciplina della donazione (art. 784 c.c.) e del testamento (art. 428 c.c.), e dal fatto che comunque il terzo non acquista la qualità di parte né in senso formale né in senso sostanziale, nel contratto per persona da nominare sembrerebbe non potersi prescindere dal possesso dello status giuridico minimo richiesto per l’accettazione. Ciò soprattutto perché evidenti indici normativi non si rinvengono in tal senso dal codice civile. L’ostacolo viene inoltre rinvenuto nella necessità di coniugare l’effetto retroattivo (ex tunc) dell’accettazione con l’acquisto (pro futuro) della capacità da parte del nascituro. A ciò si può aggiungere quello evidente della necessità di salvaguardare la certezza del diritto, che si scontra con la possibilità non peregrina che il soggetto non venga mai ad esistenza.
    E lo stesso discorso andrebbe fatto per la persona giuridica in corso di formazione, che non possiede ancora, in quanto l’iter costitutivo è ancora in essere, la capacità richiesta per poter adeguatamente ponderare le conseguenze di una eventuale accettazione.


    GIUDIZIO 15+
    Tema notevolmente superiore alla sufficienza, la traccia risulta armonica seppur il candidato avrebbe potuto dedicare maggiore attenzione alla casistica della persona giuridica.
    Ottime argomentazioni giuridiche, trattazione superiore.
    Lessico giuridico correttamente impiegato
     
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10 replies since 31/10/2012, 22:45   1543 views
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