Tracce temi ottobre 2012

tracce e migliori elaborati del mese

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    Diritto Civile
    1) Premessi adeguati cenni sui diritti della personalità, si soffermi il candidato sull'ammissibilità di deduzione degli stessi nell'ambito del negozio, con particolare riferimento al contratto di meretricio e al contratto di maternità surrogata.

    2) Premessi adeguati cenni sulla relazione tra autonomia contrattuale e gli atti di disposizione del proprio corpo si soffermi sulla liceità e meritevolezza dei contratti sul corpo umano.

    Sono tutte tracce principali.

    Assegno del mese di novembre: la formazione del contratto


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    Diritto amministrativo

    1) Proponibilità della domanda risarcitoria nell'ambito del rito sull'accesso.

    2) La violazione del termine nei procedimenti amministrativi restrittivi.

    3) Gli organi collegiali: collegi reali e virtuali, di valutazione e di ponderazione, prova di resistenza, ordine del giorno e processo verbale.
    Dica il candidato se il consigliere comunale assuma la qualifica di controinteressato nel giudizio di annullamento della delibera consiliare.



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    Diritto Penale

    1) Tema principale:
    Premessa l'individuazione di ruolo e funzione del principio di offensività, il candidato si soffermi sulla rilevanza di detto principio nel nostro ordinamento con riferimento particolare alla sua operatività nell'ambito dei delitti di attentato e sopratutto nei reati di pericolo, con attenzione al ruolo della ritrattazione nell'ambito dei delitti contro l'amministrazione della giustizia.

    2) Tema opzionale:
    Premessi cenni sulla struttura del delitto tentato in generale e sulla sua configurabilità in relazione alle diverse categorie di reato, il candidato si soffermi sulla distinzione tra le nozioni di desistenza e di recesso attivo, anche con riferimento alle principali ipotesi di ravvedimento previste dal nostro ordinamento.


    assegno di novembre: REATO CIRCOSTANZIATO - imputazione delle circostanze, circostanza putativa, art. 60 - distinzione circostanze elementi costitutivi - circostanze nel concorso di persone - rapporti circostanze elementi 133
    - RECIDIVA
    - PRESCRIZIONE DEL REATO e altre cause di estinzione

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    ricordo, peraltro, che le tracce sono formulate dai commissari (tutti vincitori del concorso in magistratura) e da loro corrette, mentre io (umile aspirante come voi) cooordino solo l'organizzazione e la moderazione nel forum. :)


    *****
    nel mentre ci potete votare in top forum (pulsantino sotto immagine di Falcone e Borsellino) :D

    Edited by togasana - 4/10/2012, 23:23
     
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    nel messaggio precedente troverete le tracce delle 3 materie per questo nuovo mese.

    qualcuno è ancora in attesa delle correzioni di settembre, pazientate ancora un po': ci sono arrivati molti temi nella notte di domenica e, quindi, i commissari devono avere qualche giorno in più per leggerli :)
     
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    Migliori elaborati di diritto amministrativo

    2) La violazione del termine nei procedimenti amministrativi restrittivi
    La soluzione delle problematiche connesse all’inosservanza del termine del procedimento, nella particolare ipotesi in cui quest’ultimo sia diretto all’emanazione di provvedimento restrittivi, è strettamente collegata alla natura giuridica del termine di conclusione del procedimento medesimo.
    Dal carattere ordinatorio piuttosto che perentorio del termine dipende, infatti, la sopravvivenza o meno in capo alla PA del suo potere di provvedere tardivamente, la sorte di un eventuale atto adottato fuori termine e l’esistenza di un obbligo risarcitorio per il danno cagionato da tale ritardo.
    A tal proposito va anticipato che la normativa di riferimento non offre un grande aiuto perché non è possibile rinvenire al suo interno alcuna specifica disposizione che indichi in generale quali siano le conseguenze derivanti dalla violazione del termine nei procedimenti diretti all’emanazione di atti restrittivi della sfera giuridica del privato.
    Il legislatore, infatti, negli ultimi venti anni, si è sicuramente adoperato nell’offrire al privato uno strumentario sempre più ampio per reagire all’inerzia amministrativa, attribuendo una crescente importanza al valore della certezza temporale della conclusione del procedimento e al suo doveroso rispetto da parte della PA, ma non si è mai preoccupato di differenziare i rimedi a seconda del tipo di procedimento interessato dalla violazione.
    Nonostante questa lacuna normativa, al fine di verificare se al carattere restrittivo piuttosto che ampliativo di un procedimento corrispondano poi anche una differente natura giuridica del suo termine conclusivo e, quindi, delle diverse ed opposte conseguenze in termini di esaurimento del potere amministrativo, è comunque necessario partire dall’analisi della disciplina generale esistente per dedurre la logica del sistema e, quindi, possibili soluzioni interpretative.
    Ebbene, le tappe legislative più importanti del processo di responsabilizzazione della PA rispetto al suo obbligo di provvedere sono rappresentate, innanzitutto, dalla l.n. 241/90 - la quale ha introdotto un’esplicita previsione normativa del dovere della pubblica amministrazione di concludere i procedimenti mediante l’adozione di un provvedimento espresso - e, poi, dalle successive modifiche apportate alla stessa dalle leggi nn. 105/2000, 80/2005, 69/2009.
    Con questi interventi riformatori il legislatore ha aumentato progressivamente l’efficacia dell’obbligo di provvedere, predisponendo un apposito rito sul silenzio, eliminando l’obbligo di previa diffida e il temine di decadenza per la proposizione del ricorso, consentendo al giudice del silenzio un sindacato più penetrante della mera verifica della scadenza del termine e ridefinendo in maniera sempre più rigorosa i termini procedimentali.
    In particolare, per qualsiasi procedimento amministrativo, sia ad iniziativa d’ufficio che di parte, a prescindere dall’efficacia ampliativa o restrittiva della sfera giuridica dei destinatari dell’atto, vi deve essere la previsione (per legge o regolamento) del termine entro il quale esso deve concludersi. Detto termine, ove non specificatamente determinato da ciascuna amministrazione, resta fissato nella misura standard (in via suppletiva e in una misura tale da indurre le amministrazioni a provvedere) che era prima di 90 giorni e che, con la riforma del 2009, è stato ridotto a 30.
    Quella di qualificare il silente comportamento della PA come inadempimento alla mera scadenza del termine previsto rappresenta però soltanto uno dei rimedi approntati dall’ordinamento a favore del cittadino. Il legislatore, infatti, ha altresì scelto di sottoporre a vaglio autorizzatorio non più preventivo ma successivo tutte le attività di cui all’art. 19 l.n. 241/90 e di generalizzare l’istituto del silenzio assenso per tutte quelle che invece sono ancora soggette ad un vaglio preventivo da parte della PA.
    Tralasciando i meccanismi di cui agli artt. 19 e 20 che riguardano evidentemente solo i titolari di interessi pretensivi, è invece l’istituto del silenzio-inadempimento ad interessare indistintamente sia i procedimenti restrittivi avviati d’ufficio che quelli ampliativi ad istanza di parte.
    Sul punto si è anticipato in premessa che l’art. 2 l.n. 241/1990 è una disposizione generica che non fa differenze tra l’ipotesi ampliativa e quella restrittiva, sebbene i due procedimenti portino ad esiti opposti: in presenza di interessi legittimi oppositivi, infatti, un problema di tutela si pone non nell’ipotesi in cui la PA ometta di esercitare il potere, ma semmai nei casi in cui il potere sia esercitato in ritardo, oltre il termine finale del procedimento.
    Ricorrendo tale fattispecie, ci si deve chiedere, in particolare, se la scadenza del termine senza che la PA abbia emanato il provvedimento faccia nascere o meno in capo al privato una pretesa avente ad oggetto la garanzia di integrità della propria sfera giuridica.
    Ebbene, il vuoto normativo esistente in materia ha favorito l’emergere e il consolidarsi di un indirizzo giurisprudenziale secondo cui i termini fissati per l’esercizio del potere amministrativo sono da considerare sempre ordinatori, tranne i casi in cui la decadenza sia espressamente comminata.
    Ciò significa che, a prescindere dal tipo di procedimento amministrativo, il decorso del tempo non comporta mai la consumazione del potere, né l’illegittimità del provvedimento.
    L’orientamento che sostiene l’assoluta irrilevanza dell’inosservanza del termine nei procedimenti sia ampliativi che restrittivi ha recentemente trovato un addentellato normativo nella possibilità di conversione del rito introdotta dall’art. 117, comma 5, c.p.a..
    Secondo i fautori di questa tesi, infatti, la possibilità che la PA possa porre fine alla propria inerzia anche una volta che sono decorsi i termini procedimentali sarebbe confermata dalla previsione del nuovo codice del processo amministrativo secondo cui, se nel corso del processo del silenzio interviene un provvedimento sopravvenuto, lo stesso può essere impugnato con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento.
    In contrasto con tale consolidata posizione giurisprudenziale, si è però orientata un’attenta dottrina che, sul versante opposto, sottolinea l’importanza della diversa tipologia del procedimento al fine di stabilire la natura del termine.
    Sostengono infatti alcuni commentatori che, a fronte dei diversi interessi sottesi, non può restare privo di conseguenze il fatto che la tempistica non venga rispettata in un procedimento restrittivo piuttosto che in uno ampliativo: ed invero, in un caso, il destinatario vuole che il provvedimento limitativo non adottato non lo sia nemmeno in futuro e che la sua sfera giuridica rimanga in tal modo integra; nell’altro, al contrario, il privato continua a volere che il potere amministrativo venga esercitato seppure tardivamente e che, dinanzi all’inerzia della PA, il giudice del silenzio sancisca l’inadempimento amministrativo e la fondatezza della propria istanza.
    Secondo i fautori di questo orientamento, quindi, quando un procedimento è iniziato su istanza di parte, tra questa e la PA si instaura un vero e proprio rapporto obbligatorio che fa sorgere in capo al destinatario un diritto soggettivo ad ottenere il provvedimento entro il termine.
    In queste ipotesi, pertanto, il termine ha la funzione di tutelare l’interesse pretensivo dell’istante alla corretta adozione del provvedimento, pena il risarcimento del danno da inadempimento. Similmente a quanto accade nei rapporti obbligatori civilistici, il termine per l’adempimento è semplicemente ordinatorio e alla sua scadenza la PA conserva il potere di provvedere, se sussiste un interesse in tal senso della controparte (il destinatario del provvedimento ampliativo), salvo il risarcimento del danno cagionato dal ritardato adempimento.
    Quando invece il procedimento è stato avviato d’ufficio e mira all’adozione di un provvedimento negativo per il privato, la PA ha un potere privato di natura sostanziale di provvedere e il destinatario si trova in uno stato di soggezione rispetto a tale potere fino alla scadenza del termine previsto. Conseguentemente, una volta che il procedimento è stato avviato, il destinatario del provvedimento restrittivo vanterebbe il diritto a che la sua sfera possa essere ristretta solo entro il termine procedimentale, e non successivamente.
    Il termine procedimentale, quindi, non è posto a tutela di un interesse pretensivo, ma funge, piuttosto, da limite all’esercizio legittimo del potere, con il risultato che la sua scadenza fa sorgere il diritto del destinatario alla perdurante integrità della sua sfera giuridica.
    Se questa è la sua funzione, quindi, il termine procedimentale dovrà necessariamente avere natura decadenziale-perentoria con la conseguente illegittimità di un eventuale provvedimento tardivo.
    A viziare il provvedimento adottato fuori termine potrebbe essere sia la carenza di potere, che lo renderebbe nullo, sia la violazione di legge per causa della quale sarebbe invece annullabile.
    Sostenendo la prima tesi, il termine opererebbe come elemento negativo della fattispecie e l’invalidità potrebbe essere fatta valere con un’azione di nullità, non soggetta a termine di decadenza dinanzi al GO.
    Secondo l’opzione dell’annullabilità, invece, il termine opererebbe come una modalità temporale dell’esercizio del potere e il provvedimento sarebbe impugnabile per illegittimità dinanzi al GA nell’ordinario termine del ricorso.
    In questi casi, quindi, l’obbligo del risarcimento danni individuabile a carico della PA non scaturisce dall’inadempimento, ma, al contrario, dall’adozione di un provvedimento che non doveva/poteva più essere adottato.
    Ebbene, se si recepiscono le indicazioni di questa dottrina e si analizzano attentamente la nuova disciplina dei rapporti tra cittadino e PA e la crescente importanza attribuita dalla ln 241/90 al principio della certezza temporale dell’azione amministrativa, risulta sempre più difficile continuare a sostenere il tradizionale orientamento giurisprudenziale dell’irrilevanza della violazione del termine in caso di provvedimenti restrittivi.
    Diversamente, si potrebbe invece sostenere che è proprio la logica del sistema a condurre ad una conclusione diversa rispetto a quella cui perviene la giurisprudenza maggioritaria: ed infatti, così come nei procedimenti ampliativi vale la regola sancita dal nuovo art. 20 ln 241/90, secondo cui la scadenza del termine consuma il potere (determinando l’accoglimento dell’istanza presentata dal privato), allo stesso modo, anche nei procedimenti restrittivi, la scadenza del termine potrebbe e dovrebbe comportare la consumazione del potere, con conseguente annullamento del provvedimento tardivo.
    In altri termini, se è vero che il valore della certezza del tempo dell’azione amministrativa rappresenta un principio generale, sanzionato in materia di procedimenti ampliativi con la regola del silenzio-assenso, si potrebbe allora sostenere che, pure nell’ambito dei procedimenti restrittivi, l’importanza attribuita al tempo dalle recenti riforme legislative induca a capovolgere la tradizionale regola giurisprudenziale e ad affermarne una nuova per cui tutti i termini devono essere considerati perentori, a meno che una espressa previsione legislativa non attribuisca ad essi natura ordinatoria.
    In ultimo, preme interrogarsi sui confini applicativi del dibattito giuridico sull’inosservanza dei termini: se esso sia riferibile soltanto ai procedimenti limitativi tradizionalmente considerati tali - vale a dire a quelli da cui derivi una lesione ad utilità già acquisite all’interno del patrimonio giuridico del privato, quale è il caso dei procedimenti sanzionatori ed ablatori – o se, piuttosto, sia estendibile anche a quelli che, sebbene sorti su istanza di parte ed aventi ad oggetto un interesse pretensivo, risultano comunque sostanzialmente restrittivi per il privato perché il provvedimento finale prevede la mancata acquisizione di un bene o il prodursi di un minor vantaggio a carico di chi possiede un interesse concreto ed attuale in tal senso, oppure crea un’obbligazione a carattere positivo o negativo nei confronti del destinatario.
    Si ritiene di poter rispondere positivamente a questo interrogativo perché un tardivo provvedimento sanzionatorio o ablatorio ed un ritardato diniego di permesso di costruire, a prescindere dalla legittimità del loro contenuto, sono entrambi accomunati dal fatto di produrre per il privato interessato un danno per il solo ritardo con cui è stato adottato il provvedimento negativo.
    Secondo alcuni, infatti, il ritardo procedimentale di cui all’art. 2 bis l.n. 241/1990 sarebbe risarcibile anche quando il provvedimento amministrativo sfavorevole per il privato viene adottato oltre il termine di definizione del procedimento, potendo il destinatario aver subito dei danni per non aver appreso, entro i termini previsti, della non accoglibilità dell’istanza.
    Tale riconoscibilità del danno da mero ritardo procedimentale è tanto più comprensibile se si considera il valore e la dignità di bene della vita che oggi la giurisprudenza attribuisce al tempo, che costituisce un fattore essenziale dei piani finanziari di qualsiasi attività economica e che, pertanto, conduce all’interpretazione del ritardo come un vero e proprio costo per il privato.

    Valutazione complessiva: 14

    Singole voci:

    a) aderenza alla traccia: ottimo

    b) completezza contenutistica: buono

    c) livello di approfondimento: buono

    d) forma: buono

    Il giudizio relativo alle singole voci può consistere in: eccellente, ottimo, buono, discreto, sufficiente, insufficiente.

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    3) Gli organi collegiali: collegi reali e virtuali, di valutazione e di ponderazione, prova di resistenza, ordine del giorno e processo verbale.
    Dica il candidato se il consigliere comunale assuma la qualifica di controinteressato nel giudizio di annullamento della delibera consiliare
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    Nell’àmbito delle collegialità amministrative, l’espressione organo collegiale individua quell’ufficio nel quale si ha la fusione delle volontà dei singoli componenti in una decisione unitaria riferibile esclusivamente al collegio nel suo complesso, che in tal modo manifesta all’esterno la volontà dell’ente di appartenenza. I membri degli organi collegiali possono essere tali di diritto, o perché individuati tramite elezioni, ovvero nominati da un’autorità superiore, designati da altro ente o, ancòra, cooptati da coloro che già fanno parte dell’organo. Si distingue poi tra membri effettivi, supplenti (per il caso di impedimento dei primi) e aggregati (per il disimpegno di funzioni di carattere tecnico).
    Un’importante distinzione in tema di organi collegiali è quella tra collegi reali e collegi virtuali: nei primi non è ammessa l’astensione, nel senso che devono essere presenti tutti i componenti affinché l’organo sia legittimamente costituito; in altri termini, il c.d. quorum strutturale è pari alla totalità degli appartenenti, che rappresenta la condicio sine qua non perché l’organo possa validamente deliberare. Diversamente, i collegi virtuali possono deliberare anche se non è presente la totalità dei membri, purché sia raggiunto il quorum strutturale (che in genere è il 50 + 1%). Dal quorum strutturale va distinto il c.d. quorum funzionale, i.e. il numero di componenti che devono essere presenti perché l’organo possa approvare la proposta di deliberazione. In dottrina, accanto a chi intende la dicotomia collegi reali/virtuali come sinonimica di quella collegi perfetti/imperfetti, v’è chi preferisce declinare quest’ultima sul quorum strutturale e riferire invece la prima al quorum funzionale.
    Sorge il problema di come sceverare, nel silenzio della legge, collegi reali e collegi virtuali: all’opinione di chi ravvisa una presunzione a favore del carattere reale dell’organo si affianca la tesi di chi, sulle orme della giurisprudenza, valorizza la (eventuale) previsione di membri supplenti, sì da garantire che, tramite siffatta fungibilità, l’organo operi sempre al completo dei suoi componenti.
    Un’altra rilevante differenza intercorre tra collegi di valutazione e collegi di ponderazione; essa corre lungo la linea che divide collegi reali e virtuali, come rivela il fatto che per collegi di valutazione si intendono gli organi composti da membri provvisti di esperienze e competenze specifiche (al riguardo si parla anche di collegi tecnici o professionali) che la legge vuole siano comunque considerate, talché di norma trattasi di collegi reali (si pensi, ad es., ad una commissione di gara o di concorso). L’espressione collegi di ponderazione designa, invece, organi i cui componenti sono portatori di interessi confliggenti, e al riguardo la riconduzione nel paradigma dei collegi virtuali indica che alla mancata partecipazione al procedimento deliberativo il legislatore attribuisce il significato di una semplice rinunzia a far valere, in quel caso concreto, l’interesse di cui il soggetto astenutosi è latore.
    L’universo degli organi collegiali è retto da un principio-cardine, quello secondo il quale prima di annullare la deliberazione per un vizio incidente sulla regolarità della partecipazione e/o del voto occorre verificare se, eliminando – con un giudizio “controfattuale” – la manifestazione di volontà viziata, si perviene comunque al medesimo risultato, rectius se il quorum della deliberazione permane (c.d. prova di resistenza). Se la risposta è positiva, significa che il vizio è irrilevante, ergo la deliberazione terminale non può essere annullata.
    La regola appena enunciata conosce, tuttavia, un’importante eccezione, relativa alle ipotesi in cui la legge codifichi un obbligo di astensione in presenza di un conflitto di interessi. Al riguardo, occorre premettere che una simile evenienza è intesa in senso lato dalla giurisprudenza, che non esita ad annullare provvedimenti assunti sol che ricorrano “in astratto” gli estremi della suddetta situazione, senza chiedersi neppure se la stessa abbia potuto influire concretamente sulla definizione dell’assetto di interessi finale (la giurisprudenza costituzionale e civile giunge ad attribuire rilevanza financo al conflitto potenziale). La stessa finalità – preservare la genuinità della statuizione amministrativa da ogni pericolo di indebite contaminazioni – permette di comprendere come mai i giudici non ritengano possibile limitare la portata demolitoria della pronunzia di annullamento alla sola parte di decisione che riguardi il soggetto incompatibile ma ritengano, all’opposto, che la violazione di una previsione di conflitto di interessi comporti l’annullabilità in toto del provvedimento: al verificarsi di una simile ipotesi nessuna prova di resistenza è ritenuta esperibile, l’unica conseguenza possibile essendo l’invalidazione dell’atto amministrativo.
    L’attività dell’organo collegiale ha inizio con la convocazione, che chiama a raccolta i componenti dell’organo per un giorno, ora e luogo dati intorno ad un determinato ordine del giorno. Quest’ultimo costituisce un documento assai rilevante, in quanto fissa - per così dire - il thema decidendum, ovvero elenca in maniera analitica gli argomenti che saranno oggetto di discussione. Si afferma al riguardo l’esistenza di un principio di tendenziale immodificabilità dell’ordine del giorno: così, nel corso della seduta non sarà possibile, nemmeno su richiesta della maggioranza dei partecipanti, deliberare su punti in esso non previsti (in tal senso, espressioni del tipo “varie ed eventuali” contenute nell’avviso di convocazione dell’assemblea dovrebbero essere intese come mere clausole di stile, stante la loro assoluta genericità). Non manca, peraltro, chi reputa legittime eventuali previsioni regolamentari (contenute nei regolamenti di organizzazione dell’organo) che riconoscano una tale possibilità, previa deliberazione della maggioranza. Se si eccettua siffatta “apertura”, l’unico caso in cui si ritiene possibile derogare all’immodificabilità dell’ordine del giorno è quello della c.d. assemblea totalitaria, in cui, cioè, tutti i componenti dell’organo sono presenti e tutti concordano sulla modifica o sulle modifiche all’o.d.g.
    Le deliberazioni assunte vengono raccolte nel processo verbale: esso non coincide con l’atto collegiale (tant’è che non deve essere necessariamente sottoscritto da tutti coloro che abbiano partecipato alla seduta, essendo sufficiente la firma del segretario e del presidente), bensì è l’atto che documenta l’attività compiuta. La giurisprudenza ha precisato che il verbale non deve obbligatoriamente contenere l’elencazione minuziosa dei singoli aspetti nei quali si è articolato l’agere del soggetto pubblico, ma è sufficiente che riporti quanto è necessario al fine di consentire la verifica della correttezza dell’azione amministrativa svolta. Ne deriva, altresì, che non è dato individuare un “contenuto minimo” del verbale valevole in ogni caso, dovendosi piuttosto distinguere a seconda del tipo di deliberazione: così, ad es., l’indicazione della durata del processo deliberativo, che in sé e per sé potrebbe apparire scarsamente significativa, è invero suscettibile di assumere ben altra consistenza ove si verta in àmbito concorsuale (potendo essa qui “indiziare” la non sufficiente attenzione profusa nella correzione degli elaborati).
    Il quesito se il consigliere comunale assuma la qualità di controinteressato nel giudizio di annullamento della delibera consiliare può essere affrontato prendendo le mosse dalla casistica sviluppatasi intorno alle ipotesi normative che configurano obblighi di astensione (v., ad es., art. 78 d. lgs. n° 267/2000). Al riguardo, sul versante applicativo si è data l’ipotesi della revoca dalla carica di presidente del consiglio comunale alla cui adozione abbia partecipato un consigliere stretto congiunto del soggetto “revocato”: ci si chiede se quest’ultimo abbia l’onere di notificare il ricorso a questi in quanto controinteressato. Un’altra ipotesi è quella dell’impugnazione della variante al piano regolatore generale alla cui discussione e approvazione abbiano partecipato alcuni consiglieri comunali aventi un interesse alle destinazioni di piano (e che, in considerazione di ciò, si sarebbero dovuti astenere): ci si chiede se il ricorso giurisdizionale avverso tale variante debba essere notificato ai consiglieri comunali indebitamente non astenutisi.
    A tali interrogativi una consolidata giurisprudenza amministrativa dà risposta negativa, escludendo che i consiglieri comunali che hanno agìto in violazione di un obbligo di astensione assumano la qualifica di controinteressati nel giudizio in cui si fa valere l’illegittimità della delibera assunta con la loro partecipazione. A tale conclusione i giudizi approdano sottolineando come, in simili evenienze, ai consiglieri comunali faccia difetto la qualità di controinteressato tanto in senso formale quanto in senso sostanziale (elementi, questi, la cui simultanea presenza è invece – com’è noto – requisito indefettibile perché sia abbia propriamente un controinteressato): sotto il primo profilo, essi non sono espressamente menzionati nell’atto impugnato, né risulta immediata la loro identificabilità; quanto all’aspetto sostanziale, vale a dire la titolarità di un interesse differenziato da quello del quisque de populo a conservare gli effetti del provvedimento impugnato, la sua mancanza è fatta discendere dalla circostanza che detti consiglieri comunali non vengono in rilievo alla stregua di soggetti privati, sui quali un interesse di tal fatta si appunti in maniera diretta, ma come componenti di un’entità pubblica (l’organo assembleare) alla quale l’atto è riferibile in via esclusiva.
    La questione se il consigliere comunale sia controinteressato nel giudizio di impugnazione della delibera del consiglio si è presentata all’attenzione dei giudici anche in fattispecie in cui non si configurava un obbligo legale di astensione. E’ il caso in cui viene emanato un atto che dispone la decadenza di Tizio dalla carica di consigliere comunale; il consiglio nomina Caio in surroga di Tizio, che impugna il provvedimento di decadenza: ci si chiede se egli debba notificare il ricorso anche a Caio. In giurisprudenza è stato patrocinato un orientamento secondo cui sussisterebbe l’onere di notificare il ricorso anche al primo dei non eletti (nell’esempio, Caio), la cui qualità di controinteressato discenderebbe dalla circostanza che questi si sostituisce ope legis all’eletto decaduto, per effetto della stessa deliberazione di decadenza. Un’altra interpretazione giurisprudenziale esclude invece che il primo dei non eletti sia contraddittore necessario, in considerazione del fatto che il provvedimento che dichiara decaduto il consigliere Tizio offre a Caio la semplice occasione di essere eletto in sostituzione del primo. In capo a questi si appunterebbe, pertanto, un interesse di mero fatto, atteso che la sua nomina in surroga, lungi dal conseguire de plano alla decadenza del consigliere eletto, è destinata a passare per il tramite di una puntuale verifica circa la ricorrenza dei presupposti di eleggibilità e di compatibilità (una “spia” in tal senso sembra essere l’art. 38, c. 4, d. lgs. n° 267/2000, che prevede che, in caso di surrogazione, i consiglieri entrano in carica non “automaticamente”, ma previa adozione della relativa deliberazione da parte del consiglio). In proposito, paiono potersi riproporre le cadenze argomentative sopra esposte in merito alla non ricorrenza, in casi di questo genere, dell’aspetto tanto formale che sostanziale della nozione di controinteressato: il primo dei non eletti non è né individuato nell’atto né agevolmente individuabile; la domanda giurisdizionale del ricorrente non è direttamente rivolta ad ottenere una pronunzia pregiudizievole nei confronti di costui, bensì soltanto a conservare il proprio status di consigliere comunale.




    Valutazione complessiva: 14

    Singole voci:

    1) Aderenza alla traccia: eccellente

    2) Completezza contenutistica: sufficiente

    3) Livello di approfondimento: buono

    4) Forma: ottimo

    Bravo!!


    Il giudizio relativo alle singole voci può consistere in: eccellente, ottimo, buono, discreto, sufficiente, insufficiente.

    *****
    mea culpa: ci sono due temi idonei per la prima traccia, dei quali pubblicheremo solo il migliore


    1)Proponibilità della domanda risarcitoria nell’ambito del rito sull’accesso.


    Nell’argomento in esame i profili di natura strettamente processuali, correlati all’esperibilità dell’azione di ristoro nel rito speciale dell’accesso ex art. 116 c.p.a., si intersecano con profili di matrice schiettamente sostanziale, compendiati negli artt. 22 e ss., l. n. 241/1990, che contengono la disciplina del diritto all’ostensione dei documenti amministrativi.
    Ne deriva che prima di scrutinare la tematica inerente il giudizio dell’actio ad exhibendum, torna utile effettuare una sintetica ricognizione sulla natura e sulla funzione del diritto d’accesso.
    In particolare, il potere riconosciuto dalla l. n. 241/1990 ai cittadini di visionare e estrarre copia di atti amministrativi costituisce il portato del principio di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97, comma 1, Cost., nonché dei principi di pubblicità e trasparenza cristallizzati nell’art. 1 della citata l. n. 241/1990.
    Esso, infatti, per un verso, consente agli amministrati un controllo sull’operato dei soggetti pubblici e, quindi, garantisce la trasparenza e l’imparzialità dell’azione amministrativa e, per altro verso, ha quale ulteriore corollario di presidiare il buon andamento dell’attività pubblica, in quanto la previa conoscenza degli atti con i quali l’esercizio del potere amministrativo ha preso forma, può indurre il destinatario di una statuizione amministrativa sfavorevole a non gravare la determinazione reiettiva.
    Più in generale, l’introduzione del diritto d’accesso ha determinato il definitivo superamento di un’azione amministrativa incentrata sulla segretezza dell’operato della p.a., cui era intimamente connessa una deresponsabilizzazione dei funzionari pubblici.
    La descritta democratizzazione dell’azione amministrativa, sub specie di diritto d’accesso, non può però costituire uno strumento surrettizio per monitorare in maniera generalizzata l’esercizio dei pubblici poteri (art. 24, comma 3, l. n. 241/1990) -con il rischio di rallentarne l’attuazione e di pregiudicare quello stesso buon andamento che tende a presidiare- cosicché il legislatore, nei richiamati artt. 22 e ss., l. n. 241/1990 si è preoccupato di regolamentarne le modalità di esercizio.
    La disciplina in questione individua pertanto i casi in cui la tutela di peculiari interessi pubblici esclude la possibilità di ottenere l’accesso agli atti ovvero ne sia consentito il differimento ad opera della p.a. procedente, giusta l’art. 24, l. n. 241/1990.
    In consonanza, poi, con la scelta del legislatore di impedire che l’ostensione degli atti si trasformi in un’azione popolare e, quindi, in un pervasivo sindacato circa le modalità di esercizio dei pubblici poteri, l’art. 22, comma 1, lett. b), l. n. 241/1990 statuisce che l’istante deve avere un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridica soggettiva tutelata e collegata al documento del quale si richiede la copia.
    In sostanza, l’actio ad exhibendum deve essere espressione di interesse di rilevanza giuridica, facente capo al cittadino e connesso con l’attività amministrativa in termini di attualità e concretezza, escludendosi, quindi, che la pretesa alla conoscenza dei documenti amministrativi possa essere avanzata da un soggetto estraneo al procedimento per il quale si chiede la visione degli atti.
    Molto controversa, poi, è la natura del diritto d’accesso.
    Nel dibattito dottrinale e nell’evoluzione giurisprudenziale registratasi sul punto, si è assistito, prima, ad una polarizzazione di due contrapposte tesi che qualificano, rispettivamente, l’actio ad exhibendum in termini di diritto soggettivo e di interesse legittimo e, successivamente, ad un approdo pretorio, autorevolmente espresso dall’Adunanza Plenaria, che muta la prospettiva di analisi del problema.
    Quanto all’opzione ermeneutica incline a ravvisare nell’accesso agli atti amministrativi la natura di diritto soggettivo, essa trova fondamento, prima facie, proprio nella definizione, ex art. 22, l. n. 241/1990, quale “diritto” del potere assegnato agli amministrati di estrarre copia della documentazione amministrativa.
    Oltre al presupposto dell’interpretazione letterale della locuzione “diritto di accesso”, si afferma inoltre che la p.a., a fronte dell’istanza ostensiva presentata dal privato, non eserciterebbe un potere discrezionale ma, al contrario, un potere di natura vincolata, dovendosi limitare ad un mero riscontro circa la sussistenza dei presupposti fissati ex lege per la conoscenza degli atti amministrativi, al cui ricorrere il diritto di accesso deve trovare compiuta attuazione.
    Ulteriore argomento a sostegno della tesi in esame, si ravvisa nella giurisdizione esclusiva riconosciuta al giudice amministrativo -prima dall’art. 25, comma 5, l. n. 241/1990 e, attualmente, dall’art. 133, comma 1, lett. a), n. 6), c.p.a.- in materia di controversie inerenti il diniego di accesso. Si rileva, infatti, come la qualificazione esclusiva della giurisdizione del g.a. si giustifichi proprio in ragione della natura di diritto soggettivo dell’esercizio del potere di accesso agli atti amministrativi.
    La tesi appena analizzata è stata disattesa da una pronuncia dell’Adunanza Plenaria, con cui il Supremo Consesso amministrativo ha postulato che la situazione giuridica soggettiva legittimante l’ostensione degli atti è in realtà un interesse legittimo interesse.
    In tale prospettiva, si assume che alcun rilievo, in senso contrario, possa assegnarsi alla definizione letterale di “diritto d’accesso” stabilita dal legislatore, in quanto il nome iuris non può essere vincolante per l’interprete, laddove dal regime giuridico di un istituto emerga, come nel caso di specie, una diversa qualificazione giuridica dell’istituto medesimo.
    A sostegno delle conclusioni appena evidenziate, la circostanza che il potere esercitato dalla p.a. in presenza di un’istanza ostensiva non è vincolato ma discrezionale, come emerge, ad esempio, nelle ipotesi in cui la p.a. valuti opportuno differire l’accesso agli atti richiesto dal privato, ai sensi dell’art. 24, comma 4, l. n. 241/1990. Né, comunque, un ipotetico potere vincolato facente capo all’amministrazione sarebbe ostativo alla configurazione di un interesse legittimo, qualora detto potere fosse specificamente preordinato alla cura di un interesse pubblico e non privato.
    Si rileva, infine, che la stessa previsione di una giurisdizione esclusiva del g.a. in presenza di controversie inerenti l’accesso agli atti non esclude la natura di interesse legittimo dell’accesso, ma trova fondamento nel potere di condanna all’ostensione degli atti riconosciuto al giudicante, affermandosi, ancora, che a favore delle tesi in esame militerebbe anche la natura impugnatoria del giudizio in materia.
    La delineata contrapposizione circa la natura dell’accesso agli atti, in termini di interesse legittimo ovvero diritto soggettivo, è stata superata da altra pronuncia dell’Adunanza Plenaria, che, non prendendo posizione in merito alla querelle sopra citata, ha tuttavia evidenziato come il diritto di accesso sia un potere strumentale assegnato al privato e finalizzato a consentire la conoscibilità dell’operato della p.a., rispetto ad una posizione soggettiva di cui il medesimo privato è portatore.
    In sostanza, il Supremo Consesso amministrativo, mutando come sopra cennato la prospettiva di analisi, valorizza l’accesso agli atti in termini di strumento di tutela a fronte di una situazione giuridica soggettiva ad esso sotteso.
    Tanto chiarito circa funzione è natura del diritto di accesso, occorre ora soffermarsi sulle caratteristiche generali della tutela risarcitoria in seno al processo amministrativo, per poi, quindi, scrutinarne l’esperibilità in seno al giudizio d’accesso.
    Ciò posto, il sostrato giuridico sul quale si svolgerà l’analisi è rappresentato dagli artt. 6 e 13 C.e.d.u., 24 e 113 Cost., nonché 1, c.p.a., circa il principio di effettività della tutela giurisdizionale, del quale l’azione risarcitoria rappresenta paradigmatica espressione.
    Alle richiamate prescrizioni, si affiancheranno gli artt. 7, 30, 87, 116 e 133 c.p.a., i quali, in combinato disposto con l’art. 25, comma 4, l. n. 241/1990, racchiudono la puntuale disciplina dei presupposti per l’esperimento dell’actio ad exhibendum, il regime giuridico di quella risarcitoria e del rito speciale in materia di accesso, individuando, al contempo, la forma di giurisdizione assegnata al g.a.
    Seguendo, pertanto, lo sviluppo argomentativo appena evidenziato, può subito rilevarsi come la tutela risarcitoria abbia trovato definitivo ingresso nel processo amministrativo solo a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 205/2000.
    Tale legge, sulla scia del d. lgs. n. 80/1998 -con cui si era previsto sotto l’influenza del diritto comunitario il potere risarcitorio del g.a. in alcune materie assegnate alla giurisdizione esclusiva- nonché sulla scia della storica sentenza delle Sezioni Unite n. 500/1999, che ha riconosciuto la tutela in esame all’interesse legittimo, ha assegnato al g.a. il potere di condanna al ristoro nell’ambito della giurisdizione amministrativa.
    Si è così giunti ad un completamento degli strumenti di protezione attribuiti al privato nei confronti del potere pubblico, affrancando in via definitiva il processo amministrativo da una concezione meramente impugnatoria.
    Proprio l’esigenza di garantire al cittadino una totale protezione dall’esercizio illegittimo dell’attività amministrativa, quale proiezione del principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui agli artt. 6 e 13 C.e.d.u. e 24, 113 Cost., ha imposto la descritta introduzione dell’azione di ristoro quale ulteriore forma di reazione avverso le comportamenti amministrativi illegittimi, costituenti illecito.
    Sul punto, la Corte Costituzionale ha statuito che il potere di condanna al risarcimento del danno, riconosciuto al giudice amministrativo, non rappresenta un’ipotesi di giurisdizione esclusiva ma, invece, costituisce una forma di tutela finalizzata a completare le la protezione della situazione soggettiva pregiudicata dall’azione amministrativa.
    L’evoluzione normativa e giurisprudenziale appena tratteggiata ha trovato una definitiva collocazione nel codice del processo amministrativo.
    In particolare, l’art. 7, nel perimetrare la giurisdizione amministrativa, disciplina nei commi 4 e 5 il potere risarcitorio del g.a., rispettivamente, nella giurisdizione di legittimità ed esclusiva.
    Le modalità di esercizio di siffatta azione sono, poi, regolamentate dall’art. 30, il quale ne prevede l’esperibilità contestualmente ad altra azione ovvero anche in via autonoma, possibilità, quest’ultima, ammessa in ogni caso laddove si verta in materie sottoposte alla giurisdizione esclusiva del g.a. e, a determinate condizioni, qualora, invece, sussista la giurisdizione di legittimità (art. 30, commi 1, 2 e 3, c.p.a.).
    Ciò chiarito circa le coordinate normative dell’azione risarcitoria, occorre ora analizzare il rito in materia di accesso, per poi scrutinare proprio l’esperibilità dell’azione di ristoro in tale ambito processuale.
    Necessario premettere che, secondo quanto previsto dall’art. 25, comma 4, l. n. 241/1990, il privato che abbia esercitato il diritto d’accesso è legittimato ad impugnare il diniego espresso opposto dalla p.a., ovvero il diniego tacito, maturato allo spirare dei trenta giorni dalla presentazione dell’istanza.
    Competente a conoscere della controversia è, come già precisato, il g.a. in funzione di giurisdizione esclusiva, giusta l’art. 133, comma 1, lett. a), n. 6, c.p.a.
    Tale ipotesi di giurisdizione esclusiva risulta, a detta della dottrina, conforme alle prescrizioni fissate dalla Corte Costituzionale nelle sentenza n. 204/2004, e poi trasfuse nell’art. 7, comma 1, c.p.a., in quanto la giurisdizione in questione rappresenta una materia “particolare”, giusta l’art. 103, comma 1 Cost., rispetto ad una più ampia, espressione dell’esercizio di un potere pubblico facente capo alla p.a.
    La giurisdizione così delineata ha ad oggetto un rito, quello appunto sull’accesso di cui all’art. 116 c.p.a., che è collocato tra i giudizi definiti dal codice del processo amministrativo “speciali”, in quanto connotati da tratti di peculiarità rispetto alla orinaria disciplina giuridica del processo prevista dagli artt. 40 e ss. c.p.a.
    In particolare, il giudizio in parola ha carattere impugnatorio, atteso che impone al ricorrente di gravare il diniego di accesso opposto dalla p.a. nel termine di trenta giorni dalla conoscenza della determinazione o dalla formazione del silenzio diniego, e ciò mediane notificazione tanto alla p.a. medesima quanto ad almeno un controinteressato (art. 116, comma 1, c.p.a.).
    Utile rilevare, sul punto, come, secondo l’insegnamento della giurisprudenza, il controinteressato vada individuato alla luce dell’art. 22, comma 1, lett. c), l. n. 241/1990, cioè in un soggetto la cui riservatezza potrebbe essere pregiudicata dall’ostensione degli atti richiesti dall’istante.
    Il rito in esame si svolge in camera di consiglio, giusta l’art. 87, comma 2, lett. c) c.p.a., con conseguente dimezzamento dei termini processuali e la sentenza cui approda il giudicante investito dalla controversia sarà in forma semplificata, ex art. 74 c.p.a., con motivazione che potrà esplicarsi in un sintetico riferimento ad un punto di fatto o di diritto valutato come risolutivo, ovvero con il mero richiamo ad un precedente conforme.
    La statuizione del g.a. potrà essere reiettiva, laddove il giudice ritenga che correttamente la p.a. resistente abbia denegato l’accesso agli atti al ricorrente, ovvero di accertata fondatezza della pretese avanzata dal deducente, così da condannare la p.a. ad un facere consistente nell’ostensione dei richiesti documenti.
    Dall’analisi dei tratti salienti della disciplina del rito speciale sull’accesso, emergono due aspetti: la celerità del giudizio in questione, connotato da una contrazione della tempistica processuale e da una delibazione calibrata sulla legittimità o meno del diniego di ostensione; il silenzio del legislatore circa l’esperibilità in tale ambito processuale della domanda risarcitoria.
    Il profilo da ultimo evidenziato risulta, nello specifico, conforme al previgente regime giuridico, in quanto l’abrogato art. 25, comma 5, l. n. 241/1990, al pari dell’attuale art. 116 c.p.a., nulla statuiva in ordine all’azione di ristoro. Al contempo, però, il rito sull’accesso si differenzia, sul profilo in esame, da altro rito speciale, quello cioè sul silenzio di cui all’art. 117 c.p.a., ove invece il legislatore nell’ultimo capoverso prevede l’esperibilità congiunta dell’actio contra silentium e dell’azione di ristoro.
    Alla luce di tali presupposti, occorre quindi vagliare l’esperibilità dell’azione risarcitoria a fronte di un illegittimo diniego ostensivo della p.a., e ciò sia sul versante strettamente sostanziale, sia sul versante processuale.
    Sul profilo sostanziale, in ragione della segnalata esigenza di dare compiuta attuazione al principio di effettività della tutela giurisdizionale, non si ravviano ostacoli dogmatici e normativi a configurare un ristoro dei pregiudizi subiti dal privato a causa di un diniego illegittimo di ostensione da parte della p.a.
    Ad ogni evidenza, peraltro, affinché possa configurarsi una responsabilità della p.a., riconducibile ad un esercizio illegittimo dell’attività amministrativa, non è sufficiente, sulla scorta dell’insegnamento della sentenza delle Sezioni Unite n. 500/1999, che sia acclarata l’illegittimità di tale esercizio, essendo anche necessario che detto esercizio illegittimo assuma il crisma di un illecito di natura aquiliana, ai sensi dell’art. 2043 c.c.
    Ne deriva che ai fini del riconoscimento del risarcimento dei danni patiti dall’amministrato che si sia visto opposto un illegittimo diniego di ostensione ad opera della p.a. procedente, è necessario che ricorrano gli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale, in termini di condotta, colpa o dolo, pregiudizio e nesso eziologico tra attività della p.a. e pregiudizio.
    Ciò comporta, in concreto, che a fronte di una statuizione del g.a. che accerti l’illegittimità del diniego di accesso, il ricorrente vittorioso dovrà allegare e dimostrare di aver subito un pregiudizio causalmente riconducibile all’illegittima condotta tenuta dalla p.a., in aderenza al principio dispositivo vigente nel processo amministrativo in materia di onus probandi, nei casi in cui il petitum non sia una domanda di annullamento.
    V’è, però, che l’interesse del privato vulnerato da un illegittimo diniego di accesso risulta soddisfatto già dal decisum del g.a. che condanni la p.a. procedente all’ostensione degli atti, cosicché aderendo a quell’orientamento giurisprudenziale incline ad escludere un ristoro per equivalente in favore del ricorrente il cui bene della vita sia già stato conseguito per l’effetto della pronuncia del g.a., non dovrebbe residuare alcuno spazio risarcitorio.
    In ogni caso, l’eventuale accoglimento della domanda di risarcimento è strettamente subordinata, come appena osservato, alla dimostrazione da parte del deducente che egli, a causa dell’originario illegittimo diniego, abbia subito un pregiudizio.
    Chiariti i profili sostanziali del dell’azione risarcitoria conseguente ad un illegittimo diniego di accesso della p.a., si rende ora necessario vegliarne l’esperibilità in sede di rito speciale sull’accesso.
    Si è già evidenziato in precedenza come l’art. 116 c.p.a., a differenza dell’art. 117 in tema di giudizio sul silenzio, taccia in merito all’eventuale azionabilità del risarcimento del danno in sede di rito speciale sull’accesso.
    L’art. 117 c.p.a., peraltro, pur postulando l’esperibilità congiunta dell’actio contra silentium e dell’istanza di ristoro, statuisce, tuttavia, che in presenza di cumulo di azioni, il g.a. potrà limitarsi ad accertare la fondatezza della prima domanda, per poi trattare quella risarcitoria previa conversione del rito speciale in rito ordinario.
    La disciplina appena esposta in tema di giudizio sul silenzio pone in evidenza come il problema dell’esperibilità dell’azione risarcitoria in sede di rito sull’accesso, al pari del rito sul silenzio, sia quello dell’idoneità del giudizio in questione a consentire al giudicante investito della controversia un adeguato scrutinio dell’istanza di ristoro.
    Infatti, come evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa, la struttura del rito sull’accesso -incentrata su una tempistica processuale contratta e una delibazione in camera di consiglio che epiloga in una sentenza in forma semplificata- sembra non conciliarsi con l’approfondito vaglio di merito correlato all’esame di una domanda risarcitoria.
    Quanto appena evidenziato non comporta, tuttavia, che l’eventuale congiunta proposizione dell’azione di ristoro e dell’actio ad exhibendum in sede di rito sull’accesso implichi una declaratoria di inammissibilità della richiesta risarcitoria.
    A dispetto, invero, del più volte rilevato silenzio dell’art. 116 c.p.a. circa la proponibilità in quella sede dell’istanza di ristoro, soccorre, all’uopo, l’art. 32 c.p.a., a mente del quale è sempre possibile nello stesso giudizio la proposizione di un cumulo di domande connesse e, qualora dette domande soggiacciano a riti diversi, troverà applicazione in rito ordinario, salve le eccezioni in materia di riti abbreviati.
    Il precetto appena indicato costituisce un’esplicazione del principio di concentrazione delle domande, di cui all’art. 7, comma 6, c.p.a., corollario, a sua volta del principio di effettività della tutela giurisdizione, in quanto il pieno soddisfacimento delle pretese avanzate dal ricorrente deve coniugarsi anche con un processo da concludersi in termini ragionevoli (art. 111, comma 2, Cost.), e la concentrazione delle azione davanti al g.a. depone in tal senso.
    Sulla scorta delle superiori considerazioni, pertanto, la proposizione congiunta dell’actio ad exhibendum e della domanda risarcitoria in sede di giudizio sull’accesso agli atti determina la conversione del giudizio in parola in rito ordinario.
    Per completezza di trattazione può, infine, evidenziarsi come a diversa conclusione possa giungersi alla luce di un orientamento minoritario emerso nella giurisprudenza amministrativa di prime cure.
    Si è, infatti, sostenuto come la specialità del rito, nella specie era quello sul silenzio, non è ostativa alla proposizione e all’esame di una domanda risarcitoria, laddove la fondatezza della stessa istanza di ristoro sia agevolmente evincibile ex actis.
    In sostanza, seguendo tale opzione ermeneutica, a fronte dell’esperimento contestuale dell’azione avverso il diniego di accesso e di quella risarcitoria, il giudice, una volta vagliata la fondatezza della prima, potrebbe comunque scrutinare in camera di consiglio anche la seconda, qualora dalle emergenze documentali risultasse evidente il pregiudizio patito dal ricorrente.
    In tal modo, la celerità e la sommarietà del giudizio sull’accesso non costituirebbero un limite ad un eventuale condanna della p.a. al risarcimento del danno.

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    Edited by togasana - 3/11/2012, 14:29
     
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    1) Premessa l’individuazione di ruolo e funzione del principio di offensività, il candidato si soffermi sulla rilevanza di detto principio nel nostro ordinamento con riferimento particolare alla sua operatività nell’ambito dei delitti di attentato e soprattutto nei reati di pericolo, con attenzione al ruolo della ritrattazione nell’ambito dei delitti contro l’amministrazione della giustizia.

    Il principio di offensività, non espressamente riconosciuto dalla Carta Costituzionale, costituisce una fondamentale direttrice nella costruzione della fattispecie di reato e nella sua interpretazione, rivolgendosi sia al legislatore nella creazione di fatti tipici ed offensivi sia all’interprete chiamato ad accertare la sussumibilità del fatto concreto sotto il modello legale.
    Si ritiene ormai pacificamente che esso trovi implicito riconoscimento sub artt. 25, co 2, Cost. il quale, sancendo il principio di legalità formale e sostanziale ed relativo corollario di irretroattività della norma penale incriminatrice, fa riferimento al fatto storico commesso e sub art. 27 co 3 Cost che stabilisce la finalità rieducativa della pena la quale verrebbe frustrata dall’impossibilità di muovere al presunto reo un rimprovero a titolo di colpa e dunque in assenza di un fatto di reato.
    Ancora la rilevanza dell’offesa si coglie dal confronto tra l’art. 25 co 3 e l’art. 27 co 3 Cost che rileva l’esistenza del cosiddetto “doppio binario” accolto dal Codice Rocco del 1930 quale compromesso tra la teoria classica ed il positivismo giuridico e in base al quale la pena costituisce la sanzione irrogabile a seguito dell’accertamento della commissione di un reato laddove la misura di sicurezza è applicabile quando, pur in assenza di un crimine, il soggetto manifesti tendenze alla pericolosità sociale ed è pertanto giustificata da esigenze preventive e contenitive rispetto a fatti che suscitano nella collettività particolare allarme sociale. Ne segue che mentre la durata della pena è certa ed è quella irrogata da giudice, quella della misura di sicurezza si prospetta tendenzialmente illimitata in quanto la stessa cessa in teoria con il venir meno della stessa pericolosità sociale.
    L’offesa, intesa come distruzione, diminuzione o perdita del bene giuridico tutelato dalla norma penale, si integra con il perfezionamento del reato e si esaurisce con la sua consumazione. Essa dunque presuppone una condotta estrinseca, ovvero una manifestazione di energia cinetica in grado di modificare la realtà. Tale ruolo è chiaro rispetto ai reati compiuti in forma attiva mentre rispetto ai reati cd omissivi, cioè che si perfezionano violando l’obbligo di attivarsi in una situazione in cui è la legge ad imporlo, l’offesa è intesa quale lesione non derivante da energia corporea, ma comunque ascrivibile all’agente in forza dell’inosservanza dell’obbligo imposto dalla legge medesima.
    Se dunque la materialità costituisce presupposto dell’offesa ne deriva la non punibilità di tutti i comportamenti come ad esempio le manifestazioni del pensiero o gli stati emotivi ex se inidonei a determinare una lesione del bene giuridico considerato. Ciò secondo quanto sancito dall’art. 21 Cost che consacra la libertà di manifestazione del pensiero in qualsiasi forma.
    Da ultimo se l’offesa al bene interesse tutelato dalla norma determina l’applicazione della sanzione restrittiva della libertà personale, tutelata quale bene fondamentale dall’art. 13 Cost, ciò che costituisce extrema ratio nel nostro ordinamento, la lesione considerata dovrà riguardare beni -interessi di pari rilevanza.
    In proposito si ritiene che non siano solo i beni costituzionalmente espressi ad essere tutelati attraverso la sanzione penale, ma anche quelli non incompatibili con la Costituzione che nella sua accezione materiale si presenta dinamica e suscettibile di essere interpretata in chiave evolutiva, ricomprendendo beni - interessi non direttamente esplicitati, ma ormai patrimonio acquisito della collettività.
    Dal quadro sopra riportato emerge dunque il ruolo di garanzia svolto dal principio di offensività nel nostro ordinamento, ponendosi quale limite alla punibilità rispetto a quei fatti che non siano lesivi di beni interessi - tutelati e criterio di selezione delle sole condotte realmente incidenti su detti beni -interessi. Ciò vale ad esempio non solo in ambito penale, ma anche civile dove il risarcimento del danno, sia contrattuale sia extracontrattuale, viene accordato solo in presenza di un danno patrimoniale che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento/ritardo così come dell’illecito, in forza del richiamo operato dall’art. 2056 cc agli artt. 1223 1224 1226 cc.
    Sul piano della normazione ordinaria il principio di offensività troverebbe fondamento sub artt. 1, 43 co 1 e 49 co 2 cp. L’art. 1 cp ribadisce il principio di legalità mentre l’art. 43 co 1, nella descrizione del dolo, fa riferimento all’evento dannoso o pericoloso risultato dell’azione o dell’omissione da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto.
    Di particolare interesse risulta essere l’art. 49 co 2 cp che descrive il reato impossibile per inidoneità dell’azione o inesistenza dell’oggetto.
    Tale norma è stata a lungo interpretata dalla dottrina tradizionale quale espressione di tentativo inidoneo, ovvero un doppione in negativo del tentativo ex art. 56 cp, che individua lo stadio minimo della punibilità nel compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, con esclusione degli atti meramente preparatori in considerazione della eccessiva distanza rispetto all’oggetto giuridico, ed al quale per altro si raccorda l’art. 115 cp che, previa clausola di salvezza, esclude la punibilità del semplice accordo criminoso laddove il reato non venga poi commesso.
    Tale punto di vista risulta ormai essere stato definitivamente abbandonato dalla cd teoria realistica dell’evento che ha avuto il pregio di recuperare un ruolo di autonomia alla fattispecie de qua sulla base di diversi rilievi tra i quali la distanza sotto il profilo della collocazione sistematica tra l’art. 49 cp rispetto all’art. 56 cp ed il fatto che le due norme non risultano sovrapponibili facendo l’art. 56 cp riferimento agli atti e non all’azione e rivolgendosi ai delitti e non ai reati.
    Dunque secondo l’orientamento più recente l’art. 49 co 2 cp fonderebbe a livello di normazione ordinaria il principio di offensività, chiamando l’interprete a ricercare caso per caso la concreta offesa al bene - interesse tutelato dalla norma a fronte di un fatto di reato, con conseguente scollamento tra tipicità ed offensività che risulterebbe esterna al reato (possibilità di un fatto tipico non offensivo).
    Tale posizione è stata tuttavia criticata dal momento che, così inteso il principio e dunque l’offesa quale elemento esterno alla fattispecie, l’interprete sarebbe autorizzato a ricorrere a criteri extranormativi per la verifica dell’esistenza del reato in evidente conflitto con i principi di legalità, tassatività e determinatezza. Pertanto si ritiene che il giudice sia in vero chiamato alla sola verifica della corrispondenza del fatto concreto al modello legale pur potendo in casi estremi sollevare questione di legittimità costituzionale avanti alla Corte Costituzionale.
    Così inquadrato il principio di offensività, occorre ora verificarne la compatibilità rispetto ai delitti di attentato e ai reati di pericolo, con attenzione da ultimo alla ritrattazione.
    Sia i delitti di attentato sia i reati di pericolo costituiscono ipotesi che si collocano ben prima della soglia del tentativo punibile ex art. 56 cp e dunque in potenziale conflitto con il principio di offensività per la eccessiva distanza tra l’azione e l’oggetto giuridico.
    I delitti di attentato o a consumazione anticipata sono caratterizzati dal fatto che qui la soglia del tentativo punibile costituisce già delitto consumato e trovano principalmente collocazione nel capo dei delitti contro la personalità dello Stato e contro la pubblica incolumità.
    A giustificare tale arretramento della soglia penalmente rilevante sono ragioni di opportunità politico-criminale in quanto si ritiene che laddove si sposti in avanti la punibilità il bene - interesse tutelato sarebbe irreparabilmente compromesso. Ciò ad esempio nel caso di cui all’art. 270 bis cp, previsto a tutela dell’integrità dell’ordine democratico che verrebbe irrimediabilmente compromesso laddove trovino principio di esecuzione i programmi di associazioni terroristiche eversive a tal fine costituite. I delitti di attentato sono strutturati sulla falsa riga del tentativo ex art. 56 cp richiedendo fatti o atti diretti e idonei a commettere determinati delitti.
    Tuttavia a seguito della riforma apportata dalla legge n. 85/2006 non può osservarsi una perfetta sovrapponibilità. Non sempre infatti nella descrizione dei delitti di attentato figura il requisito dell’idoneità, ad esempio presente nell’art. 283 cp (attentato contro la Costituzione dello Stato), che richiede un fatto diretto e idoneo a mutare la Costituzione ed assente invece sub art. 289 cp (Attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali), che si limita a descrivere atti violenti diretti ad impedire l’esercizio delle funzioni costituzionali.
    Al di là delle ragioni di tale asimmetria, risulta quindi che mentre il tentativo concerne atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, i delitti di attentato richiedono atti oggettivamente diretti ad un certo risultato vietato, ma non sempre la loro idoneità in termini di oggettiva probabilità. Ciò significa che nell’accertamento dei delitti di attentato così formulati il giudice dovrà valutare solo la direzione oggettiva degli stessi e dunque la possibilità del risultato e non la sua probabilità, escludendo il fatto solo laddove esso si presenti di impossibile realizzazione.
    Dunque la sovrapponibilità strutturale con il tentativo sussiste limitatamente alle ipotesi di delitti di attentato in cui gli atti descritti siano diretti ed idonei (art. 283 cp).
    Se come detto i delitti di attentato costituiscono una deroga rispetto al tentativo che fissa la soglia minima della punibilità di un fatto di reato, a sua volta l’art. 304 cp fa eccezione rispetto all’art. 115 cp, la quale pur si giustifica in virtù della maggior vicinanza dell’azione rispetto all’oggetto dal momento che qui l’accordo criminoso ha natura politica è ciò vale a ritenerlo sufficientemente dettagliato e quindi idoneo a destare allarme sociale a prescindere da un principio di esecuzione.
    Tra i delitti di attentato ed il tentativo punibile si collocano i reati di pericolo. Qui il bene – interesse viene tutelato non rispetto ad una lesione, ma alla esposizione al rischio di lesione.
    I reati di pericolo si giustificano a tutela della sicurezza e sono previsti in particolare nel capo dei reati contro la pubblica incolumità allo scopo di neutralizzare talune fonti di rischio, in crescente aumento parallelamente allo sviluppo tecnologico (ad es. inquinamento ambientale, infortuni sul lavoro), che minacciano beni primari.
    In tali ipotesi, sorrette dal dolo o dalla colpa a fronte del dolo intenzionale che supporta in via esclusiva il tentativo e i delitti di attentato inverandosi nella oggettiva direzione degli atti verso il risultato vietato, il pericolo può essere concreto, astratto o presunto.
    I reati di pericolo concreto costituiscono la categoria più aderente al principio di offensività in quanto è la stessa norma ad esplicitare il pericolo ed a chiamare il giudicante all’accertamento del medesimo. Così ad es. nel delitto di strage (art. 422cp), dove la norma richiede la verifica del pericolo procurato da atti posti in essere al fine di uccidere un numero indeterminato di persone. In tale ipotesi dunque la fattispecie risulterà integrata laddove alla luce di tutte le circostanze presenti e sulla base di un giudizio prognostico ex ante e in concreto, il giudice accerti la concreta esposizione a pericolo della pubblica incolumità. A seconda che il pericolo sia poi diretto, ovvero esponendo a rischio direttamente il bene tutelato, o indiretto, e quindi solitamente incidendo su beni materiali in via prodromica rispetto alle persone (ad es. art. 424 cp), si assisterà rispettivamente ad un avvicinamento o ad un allontanamento dal principio di offensività.
    Nei reati di pericolo astratto invece si osserva uno iato tra la tipicità e l’offesa in quanto qui il pericolo è implicito nella fattispecie e cioè nella condotta pericolosa posta in essere che, in base alla comune osservazione empirica su baste statistica, è in grado di determinare con certa probabilità un’offesa al bene giuridico. Tale valutazione è stata preventivamente effettuata dal legislatore e dunque è sottratta all’interprete. Tuttavia si ritiene che la presenza di dati statistici in punto di regolarità causale sia sufficiente a salvare la compatibilità costituzionale di siffatte fattispecie (ad es. art. 430 cp) previste come detto a tutela di beni primari.
    L’ultima categoria e la più discussa è quella dei reati di pericolo presunto dove il rischio non è neppure implicito, ma solo presunto dal legislatore iuris et de iure e dunque senza la possibilità di fornire la prova contraria, come ad es. avviene nel reato di incendio di cosa altrui (art. 423 co 1 cp), disciplinato diversamente da quello di cosa propria (art. 423 co 2 cp) dove il pericolo deve essere in concreto accertato. Dunque nell’ipotesi di incendio di cosa altrui il pericolo si presume, anche se l’esperienza dimostra in numerosi casi che il rischio di danni alla persona non ne sia conseguenza inevitabile.
    I reati di pericolo presunto dunque stridono maggiormente con il principio di offensività, estendendo la punibilità ad ipotesi in cui non solo manca un’offesa in termini di lesione, ma anche lo stesso pericolo di offesa ad un bene primario appare alquanto dubbia e per questo se ne auspica la riforma.
    Entrambe le ipotesi sopra esaminate (delitti di attentato e reati di pericolo), pur discostandosi dal principio di offensività, ottengono dunque copertura costituzionale in funzione della tutela di beni primari o sub primari che ove compromessi sarebbero del tutto irrecuperabili.
    Una nota in particolare si ritiene di dover riservare ai cd reati sospetto, ai reati ostativi e senza offesa che destano ad oggi maggiori perplessità sotto il profilo del rispetto del principio di offensività e ciò per la inconsistenza del pericolo di lesione del bene – interesse tutelato, che talvolta peraltro manca.
    I reati sospetto hanno una marcata funzione repressiva e si basano su comportamenti equivoci che per questo vengono sanzionati, in quanto sintomatici della commissione di un delitto. In tali ipotesi (ad es. art. 707 cp) l’agente non è in grado di giustificare la provenienza di oggetti di cui si trova in possesso (ad es. armi esplosivi o valori) e per questo si presume abbia commesso un reato. Qui oltre alla assenza di concrete prove di colpevolezza vi è anche l’inversione dell’onere della prova in contrasto con la presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva secondo l’art. 27 co 2 Cost. Infatti il presunto agente, che pur avrebbe la facoltà di restare in silenzio e non difendersi gravando sulla Pubblica Accusa la prova dell’esistenza di un reato, è costretto a dimostrare la propria innocenza.
    I reati ostacolo hanno funzione preventiva e presuppongono la commissione di determinati reati. In tali casi talune qualità personali del presunto reo (come aver riportato precedenti condanne per determinati reati) costituiscono valido presupposto per applicare tali norme (ad es art. 708 cp) con funzione preventiva ed in assenza di alcuna concreta lesione o messa in pericolo del bene tutelato.
    Nei reati senza offesa invece mancano sia l’offesa sia la vittima (ad es. lo sfruttamento della prostituzione di cui alla L 75/1958 che in nulla tutela il rispetto della dignità psico - fisica della donna) e il cui unico scopo è impedire certe situazioni per ragioni di opportunità politica e di convenienza sociale.
    Proprio per l’assenza di offesa alcuna tali fattispecie si pongono in conflitto con il principio di offensività, ma si ritiene costituiscano strumento di controllo sociale da parte dello Stato e per questo sono tutt’ora vigenti.
    L’offesa al bene interesse tutelato presenta vari stadi e talvolta l’ordinamento prevede trattamenti premiali allo scopo di impedire la sua massima espansione.
    E’ il caso della ritrattazione prevista dall’art. 376 cp nell’ambito dei reati contro l’amministrazione della giustizia e consentita tutte le volte in cui il soggetto, reo di avere commesso il reato di false informazioni a PM, false dichiarazioni al difensore, falsa testimonianza e falsa perizia o interpretazione, non oltre la chiusura del dibattimento ritratti il falso e manifesti il vero.
    In tali casi si tratta di reati di pericolo previsti a tutela del sano e integro svolgimento della funzione giurisdizionale, che verrebbe irrimediabilmente compromessa nella tempistica e distorta nel risultato qualora nel corso del procedimento fossero rese consapevolmente dichiarazioni false o comunque alterate. In tali casi l’ordinamento tuttavia consente al reo la cd chance del ponte d’oro, ovvero accorda l’impunità qualora non oltre la chiusura del dibattimento all’ammissione del falso seguano un comportamento collaborativo e dichiarazioni vere almeno soggettivamente, non essendo esigibile da alcuno la verità oggettiva.
    Secondo l’orientamento prevalente la ritrattazione integrerebbe una causa di esclusione della punibilità e non una causa di giustificazione che elide l’antigiuridicità del fatto ab initio, mentre nel presente caso un reato è già venuto ad esistenza ed è motivata da valutazioni di opportunità politico-criminale in base alle quali l’ordinamento, nella valutazione di superiori interessi quali l’esigenza di salvaguardare il corretto e utile esercizio della funzione giurisdizionale ancora recuperabile in uno con quella di evitare la condanna di soggetti innocenti, garantisce l’impunità a chi pur un reato ha già commesso. In tale ipotesi l’offesa, pur già integrata attraverso il falso subisce nella valutazione del legislatore uno slittamento in avanti fino a poter essere evitata in extremis attraverso la ritrattazione ed un comportamento collaborativo del reo.
    In conclusione si può osservare come, a fronte di un approccio formale e tendenzialmente rigido al principio di offensività, quale limite alla punibilità e fondamentale garanzia di legalità, si colloca l’esigenza di modularlo per far fronte ad interessi talvolta confliggenti ma costituzionalmente tutelati o di opportunità politico – criminale, fino a renderlo massimamente elastico, consentendo l’impunità a fronte di una lesione già perpetrata ma non ancora di massima espansione.
    Ed è probabilmente tale esigenza di flessibilità che fino ad oggi ha impedito la codificazione espressa di tale principio, che inevitabilmente lo irrigidirebbe, e che comunque come detto all’inizio rappresenta direttrice fondamentale per il legislatore come per l’interprete quale principio immanente al nostro ordinamento.


    E' impostato bene dall'inizio; dà il giusto rilievo agli aspetti importanti e lo fa in manieria ordinata e con le giuste cadenze; lo svolgimento altro non è che una logica evoluzione della buona impostazione. Piacevole lettura.
    13 ½



    ****
    2)Premessi cenni sulla struttura del delitto tentato in generale e sulla sua configurabilità in relazione alle diverse categorie di reato, il candidato si soffermi sulla distinzione tra le nozioni di desistenza e di recesso attivo, anche con riferimento alle principali ipotesi di ravvedimento previste dal nostro ordinamento.

    L’art. 56, comma 1, c.p. configura la fattispecie di delitto tentato in capo a chiunque compie atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.
    La scelta di fondo compiuta dal legislatore attiene, pertanto, alla punibilità del delitto tentato sussistente come autonomo titolo di reato rispetto al corrispondente schema del delitto consumato, sottostante ad un’autonoma cornice edittale di pena quale quella definita dal secondo comma.
    Com’è agevole intuire dalla lettura della disposizione in commento, la struttura del delitto tentato poggia, sul piano oggettivo, sulla necessaria presenza di tre requisiti integrativi: l’idoneità degli atti compiuti, la direzione univoca della condotta tenuta dall’agente ed il compimento di atti esecutivi.
    Sotto il primo profilo, rilevano atti idonei a mettere in pericolo o a ledere il bene giuridico tutelato dalla corrispondente norma incriminatrice del delitto consumato, secondo la concezione oggettivistica del reato fondata sul principio di offensività a mente del quale non può avere rilevanza penale una condotta attiva o omissiva inidonea a mettere a repentaglio o a ledere anche solo potenzialmente un bene protetto dall’ordinamento penale.
    La valutazione di tale elemento implica la necessità di un giudizio di idoneità della condotta resa dall’agente ex ante ed in concreto alla stregua del quale il giudice, attraverso un “viaggio a ritroso”, deve domandarsi e pronosticare se, nel momento in cui è iniziata l’azione criminosa, la stessa fosse idonea ad offendere il bene giuridico protetto.
    L’opinione prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza postula l’impiego di un giudizio di prognosi a base parziale che tenga conto delle sole circostanze concrete conosciute o conoscibili dall’agente e da un osservatore imparziale al momento in cui ha avuto inizio l’iter criminis contrariamente all’opinione minoritaria fondata sulla opportunità di una prognosi a base totale la quale consideri pure le circostanze esistenti ma ignote e non conoscibili.
    Sotto il secondo profilo, si richiede che la condotta debba essere tale da avere una direzione univoca e non equivoca diretta al compimento dell’azione tipica.
    Sotto il terzo profilo, infine, si attribuisce rilevanza ai soli atti esecutivi, ovverosia a quelli con i quali ha inizio l’esecuzione del delitto che non viene portato a compimento, a nulla rilevando, secondo la tesi tradizionale (sebbene minata da alcune recenti pronunce di segno opposto), i meri atti preparatori (come ad esempio l’acquisto di un coltello che di per sé non manifesta nulla circa un eventuale intento criminoso dell’acquirente)
    Sul piano soggettivo, il delitto tentato implica un criterio di imputazione soggettiva fondato unicamente sul dolo con esclusione della colpa incompatibile con la struttura del tentativo cui si è accennato.
    L’inammissibilità di un tentativo colposo fa il paio con l’esclusione dall’ambito applicativo dell’art. 56 dei reati contravvenzionali stante il dettato della norma che fa riferimento ai soli delitti, salvo, tuttavia, ipotesi di contravvenzioni punite anche nella forma del tentativo per espressa previsione legislativa come quella che punisce “chiunque espatria o tenta di espatriare senza essere munito di passaporto …”
    Ciò premesso, occorre una breve disamina in ordine alla configurabilità del delitto tentato relativamente ai reati commissivi ed ai reati omissivi.
    Per quanto attiene ai primi, non vi è dubbio che gli atti esecutivi integranti il tentativo nell’ambito dei reati di mera condotta richiedono che l’agente abbia iniziato e non completato l’azione esecutiva coincidente con lo specifico modello di comportamento descritto dalla corrispondente norma di parte speciale relativa al delitto consumato (es nel tentativo di truffa richiedente artifici o raggiri, Tizio esibisce a Caio un documento falso al fine di indurlo in errore) mentre quelli richiesti ai fini della configurabilità del tentativo in seno ai reati di evento implicano che sia stata innescata la serie causale idonea a generare l’evento che, ovviamente (altrimenti si avrebbe il delitto nella forma consumata), non si verificherà. (es Tizio ha premuto il grilletto della pistola in direzione di Caio)
    Per quanto infine concerne i secondi, non sorgono dubbi in merito alla individuabilità del tentativo rispetto ai reati omissivi impropri laddove il garante ha dato inizio all’iter criminis attraverso il mancato compimento dell’azione doverosa, aumentando, così, il pericolo per il bene tutelato, salvo evitare il verificarsi dell’evento (l’infermiere somministra in ritardo il farmaco al paziente ma ciò non gli causa la morte)
    Invece, in relazione alla configurabilità del tentativo in seno ai reati omissivi propri sorgono molteplici perplessità: la giurisprudenza prevalente lo esclude in quanto ritiene che il mancato compimento dell’azione doverosa determina già il reato nella forma consumata (si pensi all’omissione di atti d’ufficio ed al decorso del termine di trenta giorni per adempiere) mentre talune correnti minoritarie reputano ammissibile il tentativo laddove, nonostante l’omissione, residua all’agente una chance ovvero un termine per potere utilmente adempiere (es Tizio omette inizialmente di soccorrere Caio ma poi indotto da fattori esterni coercitivi e non per sua libera scelta ritorna indietro e provvede al soccorso)
    L’ultimo esempio proposto introduce il tema della desistenza volontaria prevista dal terzo comma dell’art. 56 c.p. a mente del quale “se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena prevista per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso”
    E difatti, qualora Tizio, nel precedente esempio, provveda di lì a poco al soccorso, originariamente omesso, ponendo in essere l’azione dovuta per libera scelta e non per effetto di una coazione esterna deve ritenersi applicabile l’istituto in esame.
    Ed invero, la desistenza volontaria presuppone due elementi: una condotta di desistenza che si sostanzia nel mancato completamento dell’azione esecutiva iniziata ma non portata a termine e nella volontarietà della condotta stessa, intesa come spontaneità e libera scelta soggiacente al convincimento dell’agente di potere completare l’azione con successo.
    E’ evidente che tale ipotesi non troverebbe applicazione ove lo stesso fosse indotto a desistere per effetto di fattori esterni oppure del sopravvenuto convincimento di elementi di rischio tali da indurre qualunque persona ragionevole a dubitare delle probabilità di successo dell’azione criminosa.
    Il che, tuttavia, non significa necessariamente pentimento o definitivo abbandono del progetto delittuoso.
    Si pensi al caso di Tizio che introdottosi nell’abitazione di Caio riesce a scassinare la serratura della cassaforte; se, per libera scelta, questi, anziché impossessarsi dei gioielli ivi trovati, desiste dall’azione e si allontana dal luogo, trova applicazione l’art. 56, 3° c., cosicché il colpevole non risponderà del reato di tentativo di furto con scasso ma bensì di violazione di domicilio e di danneggiamento, atteso che gli atti da lui compiuti costituiscono già di per sé un reato diverso.
    La desistenza volontaria, pertanto, viene tradizionalmente ricostruita come una causa di esclusione della punibilità riconducibile a ragioni politico – criminali in senso stretto volte a garantire l’impunità (sotto il profilo del delitto tentato) a colui che desiste al fine di incentivare l’abbandono del progetto criminoso e ingenerare una controspinta psicologica rispetto allo stesso.
    Ne discende che un fatto antigiuridico e colpevole di tentativo esiste ma l’ordinamento presceglie di non sanzionarlo per le ragioni dianzi esposte.
    Va da sé che trattasi di una causa di non punibilità a carattere personale come tale idonea ad escludere la pena solo a favore di chi ha tenuto la condotta di desistenza e non a favore di eventuali concorrenti nel reato secondo l’impostazione di cui all’art. 119 c.p.
    A differenza della desistenza volontaria che attiene sia ai reati di mera condotta che ai reati di evento, il recesso attivo di cui all’art. 56, 4° c. opera solo in relazione ai reati di evento e riguarda, infatti, la condotta di chi volontariamente impedisce l’evento.
    In tal caso, tuttavia, il codice penale non prevede l’esclusione della punibilità ma bensì la diminuzione da un terzo alla metà della pena stabilita per il delitto tentato, la qual cosa lascia intendere che la figura in esame costituisce una circostanza attenuante del delitto tentato come tale rientrante in seno al giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 c.p.
    Si pensi al caso di Tizio che, dopo avere sparato a Caio, ne impedisce l’evento della morte soccorrendolo volontariamente, peraltro anche con l’eventuale aiuto di terzi.
    La fattispecie descritta sarà penalmente perseguibile a titolo di tentativo di omicidio ma, per effetto del recesso attivo dell’autore del fatto, opererà la circostanza attenuante anzidetta.
    Anche in tal caso, in applicazione dell’art. 118 c.p., deve ritenersi che l’ attenuante del recesso attivo si applichi al solo soggetto che ha volontariamente impedito l’evento e non si estenda ad eventuali concorrenti.
    La giurisprudenza pacificamente distingue la desistenza volontaria nei reati di evento dal recesso attivo ponendo il seguente limite discretivo: se il tentativo è giunto a compimento e si già innescato il processo causale diretto alla verificazione dell’evento lesivo o pericoloso, si avrà un’ipotesi di recesso attivo; se, invece, il tentativo è ancora incompiuto e non ha ancora avuto inizio la serie eziologica generatrice dell’evento opererà la desistenza volontaria.
    E’ chiaro, tuttavia, che, al di là delle distinzioni dogmatiche ed aprioristiche, non sempre le due figure sono così nettamente differenti nei casi pratici, fermo restando che la sussunzione della fattispecie concreta nell’una o nell’altra disposizione normativa produce effetti totalmente differenti sul piano del trattamento sanzionatorio.
    Tale prospetto critico è ulteriormente complicato dall’esistenza di alcune figure di recesso attivo per così dire speciali alle quali il legislatore riconnette l’esclusione della punibilità.
    In via esemplificativa, è opportuno ricordare che in ossequio all’art. 463 c.p. non è punibile chi, avendo commesso fatti di falsificazione di monete o di filigrane o di valori di bollo, riesce, prima che l’Autorità giudiziaria ne abbia notizia, ad impedirne la circolazione.
    Il quadro sinteticamente descritto deve essere, infine, completato con riferimento alle principali ipotesi di ravvedimento previste nel nostro ordinamento.
    A tale riguardo, giova indicare l’art. 62 n. 6 c.p. che, anzitutto, include fra le circostanze attenuanti comuni “l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni”
    Si tratta di una circostanza riconducibile ad una sorta di resipiscenza dell’autore del fatto il quale, prima che abbia avuto inizio il dibattimento, pone in essere una condotta diretta a neutralizzare ex post l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma violata mediante il risarcimento integrale del danno o le restituzioni (ad es. delle cose furtivamente sottratte alla vittima)
    Secondo la Consulta è sufficiente ad integrare tale elemento circostanziale anche l’ipotesi in cui la riparazione provenga da un terzo con l’assenso del colpevole (ad es. una compagnia assicuratrice)
    La seconda fattispecie contemplata dal numero 6 è quella relativa a chi, prima del giudizio, si è adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.
    Tale circostanza attenuante, per espressa previsione normativa, non è compatibile con l’attenuante del recesso attivo, e, quindi, non può cumularsi con la stessa.
    Il che lascia supporre che essa si applichi allorquando l’evento si è già verificato ed il reo pone in essere un’iniziativa spontanea ed efficace diretta ad eliminare o ad attenuare le conseguenze del reato.
    Ipotesi specifiche di ravvedimento previste dal legislatore possono essere rintracciate nella legislazione speciale in materia di stupefacenti (si pensi al caso di chi incriminato per il reato di cessione si sostanze stupefacenti si sia adoperato al fine di fare ritrovare alla polizia ingenti quantitativi delle stesse pronte ad essere immesse sul mercato)e in quella in materia ambientale ove è diminuita la pena di colui che si è successivamente prodigato per eliminare le conseguenze dannose o pericolose della condotta da lui posta in essere in violazione delle norme di tutela dell’ambiente.


    Bene la parte relativa alla struttura del delitto tentato in generale. Un po' meno bene la parte relativa alla configurabilità del tentativo in relazione alle diverse categorie di reato, perché si limita un po' troppo alla sola dicotomia reati omissivi/commissivi, e quella relativa alle principali ipotesi di ravvedimento previste nel nostro ordinamento, un po' povera. 12 - .
    Però questo era il tema opzionale; meglio cimentarsi prima con quello obbligatorio.


    *******

    i migliori complimenti sono per gli utenti che sembrano essere affezionati alle medesime espressioni, quali ad es.

    "La natura sovraindividuale del bene protetto e l’essenzialità della giurisdizione nell’assetto ordinamentale impongono al legislatore di anticipare la soglia di punibilità, incriminando anche semplici condotte di pericolo".

    ragazzi...non copiate dai libri delle espressioni che non conoscete o non ricordate, perché in sede d'esame non avrete altri testi se nno semplici codici.
    provate a misurarvi con voi stessi e - se così li vogliamo chiamare- limiti.
    i testi che usate voi,a quanto pare, li usano anche gli altri partecipanti al corso.
    evitate di sottoporvi a magre figure che non vi porteranno a niente e sforzatevi di utilizzare espressioni formali ma vostre. :)


    Edited by togasana - 4/11/2012, 20:12
     
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    1) Premessi adeguati cenni sui diritti della personalità, si soffermi il candidato sull'ammissibilità di deduzione degli stessi nell'ambito del negozio, con particolare riferimento al contratto di meretricio e al contratto di maternità surrogata.


    La traccia richiede di soffermarsi, preliminarmente, sulla definizione, sulle fonti, sulle ricostruzioni dogmatiche e sulle caratteristiche generali e specifiche dei diritti della personalità, per poi valutare in astratto la questione inerente la loro negoziabilità, con particolare riferimento al diritto all’integrità fisica, sotteso alle fattispecie di contratto di meretricio e maternità surrogata di cui si richiede specifica disamina.
    I diritti della personalità sono quei diritti immanenti alla persona umana in quanto tale, ossia, secondo la dottrina tradizionale, quei diritti per i quali l’uomo è uomo e non altro. Su tutti si menzionano il diritto alla vita ed alla libertà personale, all’integrità fisica, all’onore ed alla libertà di manifestazione del pensiero.
    La loro elaborazione dottrinale fu eminentemente di epoca illuminista sul piano filosofico, mentre l’elaborazione giuridica più approfondita si deve alla scuola pandettistica di area tedesca, anche se alcuni studiosi seicenteschi padovani avevano iniziato ad enuclearli quali diritti in senso proprio.
    Furono sanciti per la prima volta con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo statunitense per poi essere recepiti nelle costituzioni post-rivoluzionarie; nell’ambito penale (soprattutto con riferimento alla pena di morte) il dibattito durò per tutto il 1800; in ambito privatistico la discussione ebbe maggior rilievo all’inizio del 1900.
    In Italia, in particolare, è da ricordare come lo Statuto albertino non ne facesse menzione, così come il Codice del 1865; con il Codice del 1942 vi fu, invece, una regolamentazione degli atti dispositivi del proprio corpo che, ad oggi, risulta ancora vigente (artt. 5-10 c.c.).
    La Costituzione repubblicana li ha innalzati al massimo livello di tutela generale (art. 2 Cost.) e particolare, attraverso l’adozione di vari diritti di libertà (art. 13 e segg. Cost.), in alcuni casi sovrapponendo diritti personalissimi con diritti di libertà più generali, ma non così filosoficamente attinenti alla persona umana.
    Le convenzioni internazionali – ed in particolare la CEDU e la Carta di Nizza, ormai parti integranti dell’ordinamento europeo dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona – li hanno sanciti a livello mondiale nel secondo dopoguerra: un eminente filosofo giuspositivista, all’epoca, affermò che, una volta posti i diritti umani, si trattava di farli rispettare a livello mondiale.
    Sicchè, data per certa la copertura costituzionale ai massimi livelli dei diritti personalissimi, è ora opportuno considerare le teorie relative al loro inquadramento dogmatico.
    Le problematiche sono, essenzialmente, di due tipi: la prima è relativa alla natura unica o specifica dei diritti di cui trattasi: la questione, quindi, verte sulla riconducibilità ad un’eadem ratio e ad una natura unica dei diritti della personalità (teoria monistica) ovvero se essi debbano essere enucleati uno per uno, avendo sì delle caratteristiche comuni, ma essendo irriducibili ad un unico genus capace di generarli e ricomprenderli strutturalmente e normativamente (teoria pluralista).
    La seconda, invece, attiene alla natura dei diritti personalissimi; ci si chiede, cioè, se essi siano diritti soggettivi strictu sensu ovvero se non siano diritti di tipo particolare irriducibili alle categorie dei diritti soggettivi o potestativi.
    In ordine alla natura unitaria o frammentaria dei diritti in discorso deve dirsi che a favore della tesi monista si rinvengono argomenti di tipo sistematico e metodologico: la disciplina normativa trova tutta fondamento nella stessa fonte costituzionale (l’art. 2 Cost. citato); anche la matrice filosofica è la medesima.
    La teoria pluralista, al contrario, è sostenuta da chi ritiene opportuno mettere in luce alcune differenze sostanziali tra i vari diritti della personalità oltre che rilevare la frammentarietà delle specifiche fonti normative che il legislatore ha predisposto per offrire tutela alle singole figure.
    La teoria pluralista avrebbe il pregio pratico di consentire una relativizzazione di alcune caratteristiche dei diritti della personalità che la dottrina tradizionale considera assolute ed incontestabili: l’indisponibilità, l’irrinunziabilità, l’intrasmissibilità e l’imprescrittibilità.
    Orbene, se i diritti della personalità sono emanazione diretta dell’essere umano in quanto tale nel mondo giuridico e, di conseguenza, l’ordinamento li riconosce e tutela, è evidente che i caratteri debbano essere quelli sopra indicati.
    Se, viceversa, l’ordinamento, anche a fronte di un generale riconoscimento dei diritti della personalità in quanto genus, li enuclea nello specifico e li definisce chiaramente uno per uno, anche l’unitarietà e l’assolutezza di detti caratteri può essere messa in discussione ovvero, quantomeno, essere vagliata caso per caso, diritto per diritto.
    In particolare, a fronte dell’emergere di una serie di diritti della personalità di nuova generazione, si è iniziato a ritenerne negoziabili almeno alcuni.
    Ciò posto, alla suesposta questione si aggiunge il dibattito circa la natura di diritti soggettivi o di diritti di altro tipo dei diritti della personalità.
    E’ evidente come, se i diritti della personalità sono diritti soggettivi, essi possano essere, almeno in via teorica, essere soggetti a negoziazione, cosa che sarebbe, almeno in astratto, preclusa, laddove la natura giuridica fosse diversa e strutturalmente autonoma in virtù della scaturigine dei diritti in discorso.
    A favore della tesi della riconducibilità alla categoria dei diritti soggettivi militano molteplici argomenti: in primo luogo, i diritti soggettivi sono quelli caratterizzati dalla tutela più ampia offerta dall’ordinamento privatistico che, peraltro, non conoscerebbe altre figure dotate di maggior ampiezza.
    La problematica della ricostruzione dei diritti della personalità in termini di diritti soggettivi nasce, tuttavia, dalla considerazione per la quale il diritto soggettivo tradizionalmente più ampio è il diritto di proprietà, sulla base del quale la dottrina ha, via via, ricostruito tutti gli altri; è evidente come non si possano omologare le situazioni inerenti i diritti della personalità con la proprietà.
    La necessità di dare un inquadramento sistematico certo, coniugata alla ormai consolidata opinione che vede negoziabili certi diritti della personalità porta, ad oggi, a propendere per la tesi per cui anche i diritti in discorso andrebbero qualificati quali diritti soggettivi strictu sensu, seppur caratterizzati, in alcuni casi, da vincoli normativi o derivati dai principi generali dell’ordinamento.
    Atteso che, in generale, si ritiene che alcuni diritti della personalità possano essere negoziabili (si pensi al diritto all’immagine ovvero a quello alla riservatezza), discorso diverso deve essere effettuato con riferimento ai diritti inerenti vita ed integrità fisica.
    Con riferimento alla vita, è noto come, fino a pochi anni orsono, l’ordinamento ritenesse illecito penale il tentativo di suicidio; ad oggi, l’art. 579 c.p. prevede la figura dell’omicidio del consenziente.
    Il problema se ciascuno possa o meno disporre della propria vita intesa quale bene giuridico si pone – e concretamente si è posto – con riferimento alle disposizioni da lasciare in caso di trattamenti sanitari invasivi cui il soggetto titolare del diritto debba essere sottoposto in un momento in cui non era nelle condizioni fisiche di prestare il proprio consenso; altra ipotesi è quella relativa all’interruzione volontaria di un trattamento medico salva-vita da parte del paziente.
    In entrambe i casi è dato obiettivo che ciò che rileva, ai fini dell’inizio o della prosecuzione del trattamento medico, è una manifestazione di volontà che, di conseguenza, deve avere valore negoziale; è da chiedersi se possa essere un contratto.
    Ciò che rileva, ai fini della presente trattazione, è comprendere che se è astrattamente ipotizzabile un atto dispositivo della vita lecito e tutelabile, è, a fortiori, possibile disporre degli altri diritti della personalità, anche quelli relativi all’integrità fisica.
    E’ tuttavia necessario chiedersi, anche in questo caso, se la volontà negoziale possa essere un contratto tipico o atipico meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (è infatti evidente che contratti illeciti sono sempre possibili in concreto).
    La risposta deve essere positiva: è certamente valido e meritevole di tutela il contratto del paziente terminale con la casa di cura finalizzato ad ottenere un trattamento palliativo che preveda l’utilizzo di farmaci astrattamente dannosi per la salute e potenzialmente mortali, ma impiegati per rendere sopportabili le sofferenze causate dalla patologia mortale.
    Nell’esempio poc’anzi formulato il negozio, pur dispositivo di diritti personalissimi (vita ed integrità fisica) è valido, efficace ed ha natura patrimoniale per quanto attiene alla controprestazione posta a carico del paziente a favore della struttura sanitaria.
    Per quanto attiene, poi ai contratti di cui alla traccia, si deve rilevare come il contratto di meretricio veda (parziale) disciplina specifica (art. 2035 c.c. di cui si dirà a breve e l. 20.02.1958, n. 75, la c.d. legge Merlin), mentre il contratto di maternità surrogata, per vedere concreta applicazione, richiede riferimenti alla disciplina generale (art. 5 e segg. nonché 1321 e 1322 co. 2 c.c.).
    La prostituzione, nel nostro ordinamento, è attività di per sé non illecita sotto il profilo penale, ritenuta contraria al buon costume, non tutelata in via espressa, se non per implicito dalla suddetta legge del 1958, laddove si vietano lo sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione; è altresì prevista una tutela penale molto incisiva con riferimento ai reati di prostituzione minorile, laddove le fattispecie di reato prevedono quale soggetto agente anche il cliente e non solo lo sfruttatore od il favoreggiatore.
    Il contratto stipulato tra cliente ed esercente tale attività in assenza di fattispecie di reato, quindi, ha causa illecita in quanto contraria al buon costume e deve considerarsi nullo per illiceità della causa ex art. 1325 c.c.
    Sotto il profilo rimediale, deve segnalarsi la disciplina di cui all’art. 2035 c.c. che prevede l’irripetibilità della prestazione effettuata contra boni mores: la disciplina è speciale rispetto aa quella prevista dall’art. 1418 e segg. c.c. per i quali la sentenza dichiarativa di nullità comporta la derubricazione ad indebito oggettivo delle prestazioni effettuate in ottemperanza al contratto nullo.
    De iure condito la questione non appare discutibile, atteso che la dottrina e la giurisprudenza sono inamovibili sul ritenere contrario al buon costume il meretricio; una tutela ex art. 1218 c.c. dello stesso, infatti, potrebbe essere utilmente esperita solo se la causa di tale contratto non fosse considerata illecita per contrarietà al buon costume, così come avviene in ordinamenti diversi dal nostro.
    Infine, si dovrebbe tenere invece conto di come altri contratti simili trovino tutela: è il caso del contratto con l’agenzia di accompagnatori che metta a disposizione la compagnia di una persona senza dedurre nel negozio prestazioni sessuali.
    In conclusione, il meretricio è contratto a causa illecita per l’immoralità degli interessi concreti perseguiti dalle parti, non rilevando come, oggetto del contratto, sia la disposizione del corpo di chi offre prestazioni sessuali verso corrispettivo.
    Per quanto attiene al contratto di maternità surrogata, deve dirsi che lo stesso è venuto in rilievo solo in epoca recentissima, allorchè la tecnologia biomedica ha consentito di risolvere problematiche di fertilità attraverso interventi terapeutici di vario tipo.
    Il contratto in questione, dunque, può assumere connotati diversi a seconda delle modalità concrete con le quali la madre surrogata rimane incinta.
    Ciò posto, è da chiedersi se sia ipotizzabile un contratto lecito che abbia ad oggetto una maternità medicalmente procurata (quella naturale non può essere dedotta, sarebbe assimilabile al meretricio) che preveda, anche, una controprestazione economica.
    La risposta sembra dover essere negativa: se nel nostro ordinamento, ex art. 5 c.c., è possibile disporre di parti del proprio corpo, come la donazione di organi, a fini solidaristici (in ossequio all’art. 2 Cost.), ma ne è vietata la deduzione in negozi patrimoniali, l’eadem ratio si rinviene nel contratto di maternità surrogata.
    La disposizione del corpo umano infatti è, nel nostro ordinamento, vietata dall’art. 5 c.c., salvo che non avvenga per fini superiori ed è, tendenzialmente, considerata lecita solo in virtù di previsioni speciali poste sul piano legislativo: su tutte, la l. 26 giugno 1967, n. 458 sul trapianto (c.d. donazione) di rene, ma anche la l. 12 agosto 1993, n. 301, sugli innesti di cornea; infine, la l. 22 marzo 1978, n. 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza.
    Sicchè, in sé considerato, il contratto di maternità surrogata sarebbe contrario all’art. 5 c.c., salvo che non si effettui un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione ex art. 2 e 3 Cost., comparandola alle altre attività di disposizione del corpo espressamente autorizzate dall’ordinamento.
    Quel che è certo è che, avendo come elementi di comparazione negozi gratuiti, la gratuità dovrà caratterizzare anche la maternità surrogata.
    E’ infine doveroso chiedersi quale sia il rimedio all’inadempimento di un siffatto negozio gratuito: la dottrina tradizionale, tendenzialmente maggioritaria ancora oggi, vede quale rimedio all’inadempimento contrattuale dei negozi suddetti solo la tutela di carattere risarcitorio e non anche quella in forma specifica.
    La ratio è chiara: l’atto dispositivo è lecito ma non può essere imposto; la volontà del disponente ha carattere negoziale ma il vincolo obbligatorio caratterizzato da esecuzione forzata sarebbe certamente contrario a molti principi costituzionalmente stabiliti.
    Ciò posto, è altresì doveroso valutare ragioni, modi e tempi dell’inadempimento, con particolare riferimento al danno conseguenza.
    L’aver accettato di disporre di parte del proprio corpo può ingenerare un affidamento tutelabile nella controparte contrattuale che, per usufruire di tale situazione favorevole, può rinunciare ad altre analoghe possibilità, poi perse in ragioni della scelta effettuata.
    Sarebbe, in questo caso, configurabile almeno in astratto un danno da perdita di chance, risarcibile nella misura in cui lo stesso possa essere provato.

    Giudizio 14++

    La trattazione del traccia è superiore alla sufficienza, il tema risulta correttamente argomentato e il candidato mostra di aver compreso il problema conoscitivo oggetto del medesimo.
    Sotto il profilo redazionale, la lettura del tema risulta scorrevole e il linguaggio giuridico correttamente impiegato.


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    2) Premessi adeguati cenni sulla relazione tra autonomia contrattuale e gli atti di disposizione del proprio corpo, si soffermi il candidato sulla liceità e meritevolezza dei contratti sul corpo umano.

    L’autonomia contrattuale è il potere, o meglio la libertà, che ciascun soggetto, parte di un rapporto, ha di decidere quale contenuto dare al contratto che li vincolerà. Essa è espressione, ma anche sinonimo, di libertà negoziale.
    L’autonomia contrattuale, sebbene non rinvenga una disciplina nella Carta Costituzionale, è fuor di dubbio assurta a valore costituzionale, mediante un rinvio, prima di tutto, agli articoli 2 e 3 in combinato disposto, che riconoscono e tutelano l’uguaglianza, non solo formale, ma e soprattutto anche sostanziale tra gli individui, e alla luce dei quali, dunque, si può affermare e fondare il diritto e la libertà di ciascuno di determinare il contenuto di un contratto.
    In secondo luogo, l’autonomia contrattuale incontra un riconoscimento costituzionale, se pur indiretto, nell’art. 41, secondo il quale l’iniziativa economica privata è libera.
    La libertà negoziale, tuttavia, non è assoluta.
    Invero, a fronte dell’istanze solidaristiche della nostra Carta Costituzionale, questa libertà deve tener di conto di quest’ultime, in un’ottica di bilanciamento, nel senso che la libertà di ciascuno incontra il limite proprio nel rispetto dell’altrui libertà.
    Peraltro, come si può leggere dagli stessi articoli 2 e 41 della Costituzione, il valore della solidarietà sociale prevale e si pone come limite alle libertà costituzionali.
    Di fatti, l’art. 2, nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, mentre, più specificamente, l’art. 41, dopo aver sancito la libertà di iniziativa economica privata, evidenzia che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da rendere danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (co. 2).
    L’autonomia contrattuale trova, invece, espressa disciplina nell’art. 1322 c.c., secondo il quale “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge” (co. 1).
    Questo primo comma fa riferimento, essenzialmente, alle ipotesi in cui si vanno a stipulare i c.d. contratti tipici, ovverosia quando si ricorre, per la predisposizione dell’accordo contrattuale, a schemi predeterminati dal Legislatore. In tali ipotesi, come detta la norma, la libertà contrattuale incontra il solo limite del rispetto della legge, nell’ambito della quale vi rientrano, è evidente, anche quelle disposizioni costituzionali anzi menzionate che tutelano e garantiscono l’osservanza del principio di solidarietà.
    Inoltre, se si aderisce all’orientamento che fa coincidere con il concetto di contenuto del contratto quello di oggetto, ne deriva che, affinché il contratto sia conforme alla legge, esso deve essere lecito, possibile, determinato o determinabile, ai sensi dell’art. 1346 c.c. (ma è una tesi minoritaria e tra l'altra smentita dal codice che differisce l'oggetto dal contenuto del contratto)
    Quanto al secondo comma dell’art. 1322 c.c., con esso si precisa che “le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.
    Tale ultimo disposto si riferisce, per contro, all’ipotesi in cui si ricorra ai c.d. contratti atipici, ovvero non previsti e disciplinati dal Legislatore, e rappresenta l’espressione massima dell’autonomia contrattuale delle parti. Tuttavia, con riferimento a questa tipologia il codice civile impone un ulteriore limite, oltre, ovviamente al rispetto della legge, consistente nella meritevolezza dell’interesse perseguito con il ricorso al contratto atipico.
    Meritevolezza che, alla luce dei valori costituzionali, dovrà necessariamente essere conforme all’istanza solidaristica espressa dagli artt. 2, 3 e 41 Cost.
    Inoltre, dalla lettura dell’art. 1322, secondo comma, c.c., si ricava che l’interesse è meritevole di tutela se è, prima di tutto, conforme alla legge, e che, diversamente, non lo sarà l’interesse contrario al buon costume (v. art. 2035 c.c.) o quello diretto a realizzare una causa illecita (v. art. 1343 c.c.).
    Il concetto di meritevolezza, dunque, non coincide con quello di liceità, dal che consegue che, se mentre i contratti atipici devono essere sottoposti ad un duplice vaglio, di liceità e di meritevolezza, riguardo a quelli tipici deve comunque essere accertata la liceità, se pur non la meritevolezza, che si presume implicita nella predeterminazione dello schema legale da parte del Legislatore (per il codice civile la tua affermazione non è corretta in quanto il vaglio di meritevolezza si applica sia per i contratti tipici che per quelli atipici, però si deve considerare che il codice è stato redatto sotto la vigenza della tesi bettiana, ad oggi comunque sostiene il doppio controllo anche Bianca, mentre Gazzoni relega la meritevolezza alla non futilità).
    Al concetto di autonomia contrattuale finora enucleato si può contrapporre quello di atti di disposizione del corpo, i quali, in sostanza, sono espressione di una diversa libertà, ovverosia di quella personale.
    Con essi, come si evince dalla nomenclatura, la persona può disporre del proprio corpo, o di parti di esso. Tuttavia, anche questo tipo di libertà, del pari espressamente disciplinata dal codice civile, all’art. 5, non è assoluta, in quanto, come dispone la norma, “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”.
    In altre parole, tale libertà incontra due ordini di limiti.
    In primo luogo, gli atti dispositivi del corpo non possono arrecare all’individuo una diminuzione permanente della sua integrità fisica.
    Da questa limitazione si deduce che gli atti di disposizione del corpo possono avere ad oggetto solo diritti disponibili, tra i quali non vi rientrano, come è ovvio, né la vita, né l’integrità fisica intesa nella sua interezza. Tale limitazione rinviene la sua ratio nel combinato disposto degli artt. 2 e 32 Cost., che tutelano, rispettivamente, il diritto fondamentale alla vita e quello alla salute.
    In secondo luogo, gli atti di disposizione del corpo non possono essere in contrasto con la legge (e in essa vi si riconducono anche i valori costituzionali, quindi, ancora una volta, il principio di solidarietà, ma anche i diritti inviolabili della persona), l’ordine pubblico ed il buon costume.
    Con ordine pubblico e buon costume si intendono quei valori etici, sociali e morali che appartengono ad una collettività e che si individuano con riferimento ad un dato contesto storico, in quanto insieme di principi dinamici ed in continua evoluzione.
    Con riferimento a quest’ultimo divieto va osservato come esso richiami gli stessi limiti previsti per la causa e l’oggetto del contratto.
    Ed infatti, gli atti di disposizione del corpo, sebbene prima di tutto rappresentino esplicazione massima della libertà personale, possono in concreto anche porsi come manifestazione della libertà contrattuale, ogni qual volta tali atti assumano le vesti di un contratto tra le parti.
    Dunque, in questi termini, gli atti di disposizione del corpo incontrano gli stessi limiti della libertà contrattuale, e non possono, quindi, avere una causa concreta (intendendo, con essa, la funzione economico individuale, ossia lo scopo in concreto perseguito dalle parti con un certo schema contrattuale, tipico o meno) illecita ex art. 1343 c.c., né, peraltro, essere sottoposti a condizioni illecite od impossibili, alla luce dell’art. 1354 c.c.
    Alla luce di quanto detto, ed in particolare della relazione che si può cogliere tra autonomia contrattuale ed atti di disposizione del corpo, occorre vagliare la liceità e la meritevolezza dei contratti sul corpo.
    Innanzitutto, con riguardo alla liceità, i contratti sul corpo sono leciti nei limiti in cui abbiano ad oggetto diritti disponibili, non comportino una menomazione permanente della integrità fisica (e, a maggior ragione, la morte) e non siano contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume, ai sensi dell’art. 5 c.c.
    Essi dovranno essere conformi alle disposizioni costituzionali (ed in particolare agli artt. 2, 3, 32) ed a quelle codicistiche (nello specifico, alle norme disciplinanti gli elementi essenziali del contratto, quali l’accordo, la causa, l’oggetto e la forma, quando richiesta a pena di nullità, di cui agli artt. 1325 e ss.).
    Con precipuo riferimento alla causa (ossia alla funzione economico individuale, allo scopo concreto del contratto) ed all’oggetto (ovvero al contenuto dell’accordo), essi dovranno essere leciti, possibili, determinati o determinabili.
    Tali elementi sono previsti a pena di nullità del contratto, come prevede l’art. 1418, secondo comma, c.c.
    Stesso regime di nullità si applica, in ossequio all’art. 1354 c.c., qualora sia apposta una condizione illecita al contratto sul corpo. Diversamente, sempre in applicazione dell’art. 1354 c.c., la condizione impossibile rende il contratto nullo se è sospensiva, mentre si ha come non apposta se è risolutiva. Nel caso, infine, che la condizione illecita o impossibile investa solo una clausola dell’accordo, si applicherà anche l’art. 1419 c.c. sulla nullità parziale.
    Alla luce di queste premesse si può osservare come sia da ritenersi lecito il contratto che ha ad oggetto un intervento chirurgico, anche estetico, dietro corrispettivo di un prezzo.
    Invero, sebbene l’intervento chirurgico comporti, inevitabilmente, una menomazione della integrità, essa è, oltre che volontaria, solo temporanea, e, comunque, è arrecata in vista di un miglioramento fisico del soggetto, che sia a scopo salutistico o meramente estetico.
    Tra l’altro, in queste ipotesi il consenso all’intervento è espressione, non solo di libertà personale, nella species di quella di autodeterminazione, ma e soprattutto, con riferimento agli interventi chirurgico-funzionali, di libertà alla salute e del diritto di curarsi, ex art. 32 Cost. e, con riguardo a quelli prettamente estetici, di quel diritto alla personalità che trova riconoscimento e tutela nell’art. 2 Cost.(la dottrina maggioritaria utilizza l'ancoraggio costituzionale per il consenso solo per i trattamenti medici volti ad incidere sulla salute, per quanto riguarda quegli estetici il consenso è ancora considerato come scriminante).
    I vantaggi perseguiti con questi accordi superano, pertanto, gli svantaggi ad essi connessi.
    È evidente, peraltro, come tali tipologie di contratti, stante gli interessi e gli scopi ad essi sottesi, siano altresì meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico.
    Stesse conclusioni potrebbero trarsi con riferimento ai contratti di maternità surrogata.
    Tali sono quegli accordi in cui una donna acconsente ad essere fecondata con l’ovulo già fecondato di un’altra coppia, la quale è incapace autonomamente di mettere alla luce un figlio, a portare avanti la gravidanza ed a partorire un bambino che, alla nascita, sarà affidato a coloro che, secondo l’accordo, sono i genitori.
    Per il favore verso questo contratto di disposizione del proprio corpo deporrebbe il fatto che esso non comporta alcuna menomazione permanente della integrità fisica ed è espressione massima dell’istanza solidaristica di stampo costituzionale.
    Invero, pare indubbia la meritevolezza di tale tipologia di atto, che consente a quelle coppie meno fortunate di mettere al mondo un figlio, se pur per il tramite di una madre surrogata.
    Ciò nondimeno, esso è contrario alla legge, dal momento che la legge sulla procreazione assistita n. 40/2004 pone espressamente il divieto di fecondazione eterologa. La ratio di questo divieto risiede nella convinzione, frutto, apparentemente, di un’etica e di una morale prettamente religiosa, che tale pratica snaturi la sacralità dell’atto, in sé, della procreazione.
    Altra ipotesi che può ricondursi ai contratti sul corpo sono i c.d. contratti di meretricio, con i quali una parte mette a disposizione il proprio corpo ed ha rapporti sessuali con un’altra parte in cambio di una controprestazione in denaro.
    Al riguardo, in via preliminare, è da osservarsi che, come si evince dalla legge sulla prostituzione n. 75 del 1958, l’atto di meretricio in sé non è illecito, mentre lo è solo lo sfruttamento o l’induzione alla prostituzione.
    Per contro, se pur non astrattamente contrario all’ordine pubblico, è da ritenersi indubbiamente tale rispetto al buon costume.
    Inoltre, tale contratto, se pur fondato sul consenso e dunque sulla libertà di autodeterminazione, appare in violazione dei valori costituzionali di dignità e personalità, considerato che la stipulazione di un tale tipo di contratto è generalmente dettata da esigenze di sostentamento e di vita che non si riesce altrimenti a soddisfare.
    Sotto il profilo della meritevolezza, poi, pare arduo ravvisarvi un interesse meritevole di tutela per l’ordinamento giuridico.
    Infine, altro caso da ricondursi ai contratti sul corpo è quello della vendita di organi (doppi, come nel caso di un rene), dietro corrispettivo di un prezzo.
    E’ evidente, tuttavia, come questa ipotesi sia indubbiamente da qualificarsi come illecita, come si evince dalla legge n. 91/1999 sui trapianti, che disciplina la donazione gratuita di organi post mortem.
    Inoltre, sebbene astrattamente si potrebbe sostenerne la meritevolezza a fronte di un ipotetico consenso prestato prettamente in forza di un’istanza solidaristica, se pur non fine a se stessa, perché connessa ad una retribuzione, l’esigenza di tutelare l’integrità fisica e la vita dell’individuo che intenda cedere un organo dal rischio che, a seguito di tale intervento, egli possa subire una grave e permanente menomazione, prevale comunque e far optare, dunque, per la illiceità per contrasto con l’art. 5 c.c.

    Giudizio 12-
    Il candidato si sofferma eccessivamente su tematiche non attinenti alla traccia, emergono inoltre dalla lettura dell'elaborato alcune irregolarità sotto il profilo giuridico.

     
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4 replies since 1/10/2012, 15:35   1772 views
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