Tracce gennaio 2012

e migliori elaborati per ciascuna materia

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    over the rainbow

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    Alcune comunicazioni di servizio:
    1) non copiare!!! Capitano frequenti casi di copia di sentenze, di pezzi di manuali o di note a senteza. Non ha senso, l'esercizio è proprio la rielaborazione e il ragionamento;
    2) mettere il proprio nick sia nel corpo del testo che nella mail che si invia.
    3) rispettare le scadenze.


    TEMA AMMINISTRATIVO
    Delineati i caratteri della influenza del diritto comunitario sul diritto nazionale, tratti il candidato dei vizi del provvedimento amministrativo contrastante con il diritto sovranazionale. Si soffermi, in particolare, il candidato sugli strumenti di tutela e sulle tecniche di accertamento dei vizi del provvedimento.

    NOTA: la traccia si fonda sul ragionamento e sulla interpretazione della legge (opera cui e' chiamato il giudice), non su sterminati resoconti di sentenza delle Corti Supreme.

    TRACCIA OPZIONALE

    La novazione nel diritto amministrativo.

    ASSEGNO per febbraio: Le forme dell'attività amministrativa
    *******

    TEMA CIVILE
    Premessi adeguati cenni sulle fonti dell'obbligazione, tratti il candidato delle ccdd. fonti atipiche.

    Assegno per febbraio: il contratto e i terzi.

    ********

    TEMA PENALE
    A scelta tra due tracce:

    - "Successione di norme penali e modifiche mediate della legge penale con particolare riferimento ai reati propri"
    - "La violenza sessuale di gruppo: struttura ed elemento soggettivo del reato; configurabilità della compartecipazione eventuale ed applicabilità delle norme codicistiche in tema di concorso di persone"

    Assegno: Le cause di giustificazione. I reati di pericolo

    Edited by togasana - 13/1/2012, 22:53
     
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    over the rainbow

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    Migliore civile gennaio
    Premessi adeguati cenni sulle fonti dell'obbligazione, tratti il candidato delle ccdd. fonti atipiche.

    Talvolta, il legislatore, oltre che attento, si mostra lungimirante.
    Il coniare norme dalla formulazione ed espressione volutamente generiche, vaghe, elastiche ben risponde all’esigenza di adeguare (giammai piegare) lo strumento legislativo alle esigenze ed istanze valoriali di cui si fanno portatori i consociati.
    Mediante l’utilizzo di tali strumenti tecnico – concettuali, è possibile attuare un raccordo (rectius, contemperamento) tra norma positiva e valori etico - sociali; difatti, grazie alla natura elastica di talune norme giuridiche o delle clausole generali in esse custodite, tali valori ispirano determinati modelli giuridici, permanentemente recepiti nel sistema normativo, così consentendo al giudice di interpretare (attraverso un’attività cd. di auto - integrazione) i principi sottesi al diritto in chiave evolutiva.
    Lo sconfinato tema delle obbligazioni ne è un esempio.
    Principiando proprio dalla norma che individua le fonti del rapporto obbligatorio, ossia l’art. 1173 del Codice civile, si evince ictu oculi come il sistema tripartito elargito risulti caratterizzato da estrema atipicità. Ciò ha reso possibile “calarlo” nella moderna economia industriale, oggi globalizzata, affannosamente impegnata alla ricerca di forme giuridiche sempre più adeguate alla velocità di produzione e circolazione dei beni ed, in ultimo (ma non per ultimo), ispirata alla tutela dei diritti e/o valori fondamentali della persona.
    La prefata norma si colloca comodamente all’interno del libro quarto del Codice, la sedes materiae specifica delle obbligazioni (artt. 1174 – 1320 c.c.).
    Non è dato, però, rinvenire all’interno dell’impianto codicistico una norma che definisca il concetto di “obbligazione”. Tanto, anche nel Codice previgente del 1865 nonché in quello napoleonico del 1804.
    Le numerose ed accese dispute dottrinali in ordine agli elementi costituivi dell’obbligazione hanno, in tutta evidenza, indotto il legislatore ordinario a rinunciare ad una sua puntuale definizione. Tale scelta, lungi dall’apparire arrendevole, si è rivelata callida, giusta (lungimirante, appunto): anziché coniare una nozione di “obbligazione”, anziché “congelarla” quasi fosse un dato immutabile nel tempo, si è preferito individuarne i caratteri ed elementi essenziali; ciò ha prodotto il duplice vantaggio di ricomprendere nel concetto di “obbligazione” le molteplici e diverse tipologie di rapporti obbligatori rinvenibili nel tessuto sociale nonché di prestare ascolto al “canto delle sirene” proveniente dalle sempre più pressanti istanze giurisprudenziali; a questo si aggiunga la forza onnipervasiva che oramai il diritto comunitario esplica nel diritto interno (civile, e non solo).
    Anche l’autonoma rilevanza giuridica (ergo, disciplina) delle obbligazioni è dato di recente acquisizione, se si pensa che nel Codice civile del 1865 esse non trovavano collocamento e regolamentazione autonomi.
    Il che non deve sorprendere.
    Ad assumere centralità sul piano economico – giuridico era il diritto di proprietà, di talchè le obbligazioni serbavano una funzione ancillare al cospetto dei diritti reali. Al contrario, come ut supra lumeggiato, l’inserimento della materia delle obbligazioni all’interno del libro quarto dell’attuale Codice denota un marcato “ammiccamento” del legislatore alla peculiare funzione assolta dalle stesse: non più considerate nell’ottica dei modi di acquisto della proprietà, le obbligazioni assurgono a paradigma di tutte le relazioni intersoggettive ed assumono un’importanza centrale quali mezzi di circolazione della ricchezza.
    Ordunque, il libro quarto alza il sipario sulla subiecta materia, svelando quali sono le fonti delle obbligazioni, a mezzo dell’art. 1173 c.c. Si definiscono “fonti delle obbligazioni” le fattispecie idonee a dar luogo all’insorgenza del vincolo obbligatorio, vale a dire il contratto, il fatto illecito ed “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.
    La elargita suddivisione solo prima facie ricalca quella gaiana prospettata nelle “Res cottidianae”, giacchè, valutando cum grano salis la lettera della norma de qua, si scorge subito la mancanza delle due categorie del quasi – contratto e del quasi – delitto: entrambe espunte, entrambe confluite in parte nel genus dei fatti illeciti, in parte nella “pancia” degli altri atti o fatti produttivi di obbligazioni.
    Non può all’uopo sottacersi l’opinione di coloro che elevano anche le trattative a fonte delle obbligazioni, in considerazione del fatto che la loro instaurazione determina, in capo ai soggetti che entrano tra loro in contatto, il sorgere dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede (oggettiva) e correttezza; l’orientamento prevalente, invece, riconduce la fase delle trattative nel più vasto (e consono) tema della responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c., e, più nello specifico, al procedimento di formazione del contratto. Il riferimento è alla formazione cd. progressiva (in contrapposizione a quella cd. istantanea ove, addirittura, può mancare il partner contrattuale), che precede la conclusione del contratto e vede i paciscenti impegnati nell’elaborazione del programma contrattuale da traguardare quale effetto finale, e non strumentale, dell’incontro delle rispettive volontà manifestate.
    Ciò posto, colpisce l’espunzione della legge dal catalogo delle fonti delle obbligazioni; pertanto, anche la norma consuetudiniaria ben può valere a qualificare una determinata vicenda quale fonte del rapporto obbligatorio.
    A compasso allargato, si osservi che il contratto, prima fonte del vinculum obbligatorio, è in apicibus un fatto.
    In maniera pregevole quanto icastica, Carnelutti definiva il contratto quale “fatto che regola oltre ad essere regolato”. La conseguenza, tutt’altro che secondaria, da trarre è la seguente: il contratto, prim’ancora che fonte di obbligazioni, incontro di consensi, modus di acquisto della proprietà, è il mezzo che l’ordinamento elargisce ai consociati onde autoregolamentare i propri interessi. Non solo. Esso costituisce espressione e specificazione dell’autonomia contrattuale di cui godono i soggetti di qualunque sistema giuridico degno di poter essere definito civile e democratico; in quest’ottica, il grimaldello costituzionale pietrificato all’art. 41 della Legge Fondamentale riconosce ed, altresì, garantisce la libertà di iniziativa economica privata, così sancendo solennemente la libertà di essere immuni da interferenze non volute nella propria sfera giuridico – economica nonché la libertà di determinarsi o meno alla contrattazione, finanche scegliendo lo schema negoziale reputato più conveniente.
    E sempre sulla scia dell’insegnamento autorevole di Carnelutti, il contratto è fatto regolato dall’ordinamento giuridico: è interesse dell’ordinamento accertare il significato rilevante (ed eventualmente meritevole di tutela) di una determinata intesa negoziale, altrimenti lasciata alla mercè delle parti. A tal fine, l’avvento della moderna teoria della causa in concreto (da ultimo, avallata dalla Suprema Corte, Sez. Un., del 2008), intesa come la sintesi reale degli interessi che il contratto è diretto a realizzare (al di là del modello tipico adoperato), diviene strumento nelle mani del giudice per controllare la liceità dello stesso, ossia la sua conformità alle regole dell’ordinamento giuridico nonché agli scopi dallo stesso ritenuti meritevoli di protezione. Peraltro, rilevando come ragione concreta della dinamica contrattuale, il controllo sulla causa del contratto è controllo tanto sull’atto, quanto sul rapporto e tanto sullo scopo cristallizzato dai contraenti all’atto della stipulazione, quanto sulla sua perseguibilità o sopravvenuta mancanza nel corso di tutta la vicenda contrattuale.
    L’art. 922 del Codice civile definisce il contratto anche come uno dei modi di acquisto della proprietà ed, infine, l’art. 1173 lo annovera, come suesposto, tra le fonti delle obbligazioni.
    Per “fatto illecito” deve, invece, intendersi quel comportamento umano, commissivo od omissivo, che causi ad altri un danno ingiusto. Non, quindi, un qualsiasi comportamento, bensì quella precipua condotta che, sulla falsariga della disciplina penalistica dettata dagli articoli 40, 42 e 43 c.p., sia sorretta da un coefficiente soggettivo, sub specie di dolo o colpa, si traduca in una lesione del principio generale del neminem laedere e provochi, infine, in un danno sine iure e contra ius, tale, insomma, da provocare una reazione (giuridica) da parte dell’ordinamento.
    A tacer d’altro, il venir meno del dogma della irrinunciabilità della colpa, la consapevolezza della tutelabilità dei diritti inviolabili salvaguardati all’interno della Grundnorm (in primis, a mezzo art. 2 Cost.) nonché il moltiplicatesi delle potenzialità espressive della persona umana (con conseguente inondazione dei casi di lesione dell’altrui sfera giuridica) hanno consentito di coniare forme di responsabilità sempre più lontane dal canone della colpa (si pensi alla normativa in tema responsabilità del produttore, D. Lgs. n. 286 del 2005, cd. Codice del Consumo) o, addirittura, di leggere talune ipotesi speciali di responsabilità, ex art. 2047 ss. c.c., in chiave oggettiva. Si tratta, in altri termini, di ipotesi di responsabilità da fatto illecito che rinunciano o attenuano il profilo della necessità della colpa e della relativa prova a carico del danneggiato. In particolare, nelle ipotesi cd. di colpa presunta si assiste ad un’inversione dell’onere della prova, essendo la colpa presunta iuris tantum (tanto si evince, ad esempio, in tema di responsabilità dei padroni e dei committenti, ex art. 2049 c.c.); di contro, nelle ipotesi di vera e propria responsabilità oggettiva, è la particolare relazione con la res o il dovere di sorveglianza e controllo su determinate fonti di pericolo a fondare la responsabilità risarcitoria.
    Ma è in tema di danno non patrimoniale, ex art. 2059 del Codice, che si è registrato un intenso quanto proficuo dibattito.
    Il Supremo Consesso ripudia quella ricostruzione dogmatica che interpreta l’art. 2059 c.c. come autonoma fattispecie di illecito, o meglio, quell’eccesso di semplificazione che affida all’art. 2043 c.c. la riparazione del pregiudizio patrimoniale ed all’art. 2059 c.c. la compensazione del danno cd. morale; piuttosto, esso pone un filtro ulteriore alla risarcibilità dei vulnera non patrimoniali rispetto a quello già rinveniente nell’art. 2043 c.c. in relazione al danno in quanto tale.
    Tuttavia, la contrapposizione tra responsabilità da inadempimento e responsabilità extracontrattuale pare ancora un dato “duro a morire”.
    Sta di fatto che le Sezioni Unite della Cassazione, con la capitale sentenza n. 26972 del Novembre 2008, hanno sancito l’ultimo capitolo della “saga” del danno non patrimoniale: il pregiudizio non patrimoniale va risarcito non soltanto nei casi di espressa previsione da parte della legge ordinaria o delle norme comunitarie, ma ogni qualvolta la perdita dell’utilità della persona sia il frutto della lesione di un diritto inviolabile e costituzionalmente salvaguardato. Siffatta conclusione del giudice di legittimità rappresenta l’esito di un percorso argomentativo che, dopo aver proclamato l’unitarietà del danno non patrimoniale (non suscettivo di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate) e suggellato la concezione di clausola aperta dell’art. 2 Cost., si spinge fino al punto di proclamare, da una parte, l’irrisarcibilità dei danni cd. bagatellari (quelli, cioè, che non superano la normale soglia di tollerabilità), e, dall’altra, la risarcibilità del nocumento non patrimoniale anche nella materia della responsabilità contrattuale (a condizione che rilevi la lesione di un diritto/valore fondamentale dell’individuo).
    L’inciso “ogni altro atto o fatto”, oltre che da atipicità, risulta contraddistinto da una massiccia dose di indeterminatezza.
    Storicamente lo si è interpretato nel senso che esso si riferisce a fattispecie individuate in modo espresso dal legislatore, ospitate nelle norme che vanno dall’art. 1987 c.c. all’art. 2042 c.c.. Costituiscono, pertanto, fonte di obbligazioni cd. ex lege le promesse unilaterali, i titoli di credito (altri atti), la gestione di affari altrui, il pagamento dell’indebito e l’arricchimento senza causa (altri fatti).
    Ma, si sa, l’evoluzione sociale corre più veloce dell’innovazione legislativa. Ben presto, si è ritenuto che la categoria residuale di cui all’art. 1173 c.c. potesse accogliere una congerie di eventi e comportamenti i quali, pur non trovando riconoscimento in una disposizione di legge che all’uopo li definisca come fonti di obbligazioni, qualificano una determinata vicenda intersoggettiva come obbligatoria, come giuridicamente vincolante, ragion per cui l’ordinamento non può disinteressarsene.
    Guadate tali conclusioni, non sorprende affatto come proprio tale ultimo “contenitore” si sia rivelato utilissimo per l’individuazione di fonti cd. atipiche dell’obbligazione.
    L’uso del predetto termine, associato all’ultimo genus di fonti (cd. obbligazioni ex lege) non deve, però, trarre in inganno. L’intero sistema plasticamente forgiato all’art. 1173 c.c. è atipico: il legislatore, invero, ha consegnato agli interpreti e fruitori del diritto una norma che ben si presta alla manipolazione e conseguente individuazione di ulteriori fattispecie idonee a generare obbligazioni, e tanto con riferimento sia alle categorie del contratto e del fatto illecito, latamente intesi, sia con riguardo a quella residuale rappresentata dagli altri atti o fatti idonei a generare obbligazioni.
    Ma il pittore non può dipingere il suo quadro con la sola tela. Pertanto, gli strumenti (o i pennelli, per restare nel solco della metafora) che hanno permesso tale arricchimento del sistema delle fonti, pur senza individuarne di nuove, bensì interpretando in chiave evolutiva il pluricitato art. 1173 c.c., sono risultati essere: la clausola generale della buona fede (per il contratto), la clausola generale di cui all’art. 2 della Legge fondamentale (per il fatto illecito) e la responsabilità da contatto sociale qualificato (per “ogni altro atto o fatto”).
    Il pensiero, dunque, non corre solo alla responsabilità cd. da contatto sociale qualificato, ma anche alla desemplificazione che continua ad interessere il sistema della responsabilità aquiliana nonché al cammino evolutivo compiuto dal canone della buona fede, che, da mera affermazione retorica ed esortativa, si è elevata al rango di principio immanente dell’intero sistema giuridico.
    Tuttavia, a rappresentare la più incisiva ed apprezzata novità è, senza dubbio, la neo -coniata responsabilità da “contatto sociale qualificato”.
    Il dato squisitamente empirico non può che precedere quello normativo.
    Nella realtà di tutti i giorni, si riscontrano situazioni in cui un soggetto, pur non essendo parte di un rapporto obbligatorio strictu sensu inteso, si trova, in via di fatto, invischiato in una relazione (cd. contatto sociale qualificato) che lo espone ad un rischio specifico e più intenso rispetto alla generalità dei consociati. Vittima non già di un torto né di una condotta inadempiente, irrevocabile in dubbio è che a tale soggetto debba essere accordata tutela giuridica, tutela che passa attraverso il riconoscimento di una responsabilità in capo al danneggiante che, se pur di difficile inquadramento sistematico (e per certi versi ancora inesplorata), è ricondotta nell’alveo della responsabilità contrattuale, con conseguente applicazione, sotto il profilo probatorio, dell’art. 1218 c.c.
    La riconduzione della responsabilità ex contractu nello schema della responsabilità da inadempimento non è stata né celere né indolore.
    Certamente non poteva avanzarsi la tesi della natura extracontrattuale, in quanto generica responsabilità del “chiunque”, ergo del tutto insufficiente ad assicurare ristoro alla vittima.
    Eloquente in tal senso è una sentenza, resa dalla Suprema Corte a Sezioni Unite nel 2007, in cui risulta ben argomentata la “necessità” di non poter configurare come aquiliana la responsabilità di chi, entrando in contatto con terzi ed ingenerando nei medesimi un obiettivo affidamento, si comporta non come un quisque de populo tenuto, in maniera del tutto generica, a non ledere l’altrui sfera giuridica, bensì come soggetto gravato da specifici obblighi comportamentali in ragione della particolare qualità dell’attività svolta.
    Sulla scorta di tali embrionali osservazioni, ma anche al fine di avvantaggiare il danneggiato (rectius, debitore) sul terreno probatorio, la responsabilità de qua è stata attratta nell’orbita gravitazionale dell’art. 1218 del Codice. Pur mancando il fulcro del rapporto obbligatorio, id est la prestazione vincolante, la responsabilità da contatto sociale qualificato è essenzialmente una forma di inadempimento di un’obbligazione preesistente, altresì definita quale forma di responsabilità per inadempimento senza obblighi di prestazione.
    Così ricomposta, si spiega la ragione per la quale essa risulti ancor oggi osteggiata da parte della dottrina.
    In primis, taluni Autori ritengono che la formula, sebbene aperta, dell’art. 1173 c.c., ultima parte, non sia estensibile al di là delle ipotesi tradizionalmente ritenute produttive di obbligazioni; ad ogni modo, non v’è norma all’interno dell’ordinamento giuridico che preveda espressamente il contatto sociale come fonte di obbligazioni.
    In secundis, il dato normativo è chiaro, ergo efficace, nell’escludere l’ingresso nell’ordinamento delle obbligazioni senza prestazioni, sol se si consideri che l’art. 1174 c.c. configura la prestazione come elemento imprescindibile del rapporto obbligatorio, tant’è che l’art. 1218 c.c. sanziona, mediante la condanna al risarcimento del danno, il debitore che non esegua la prestazione.
    Infine, a luce meridiana, si evidenzia l’impossibilità di domandare l’adempimento o di agire per l’esecuzione forzata delle obbligazioni prive di prestazione, così interrogandosi sullo strumento in grado di garantire, in siffatte ipotesi, l’esecuzione coattiva della pretesa creditoria.
    Ciononostante, la locuzione “contatto sociale”, risalente agli scrittori tedeschi, (che discorrevano di rapporto contrattuale “di fatto o da contatto sociale”) è stata fatta propria dalla nostrana giurisprudenza di legittimità già da un decennio ed ha finito per indicare un rapporto socialmente tipico, capace di ingenerare nei consociati un obiettivo affidamento, in ragione del fatto che trattasi di un rapporto qualificato dall’ordinamento giuridico e da cui discendono specifici doveri di comportamento.
    Fonte della prestazione risarcitoria, come visto, non è né la violazione del generale principio del neminem laedere né l’inadempimento della prestazione contrattualmente assunta, ma la lesione di specifici obblighi di comportamento (protettivi, di informazione, di vigilanza, di custodia ecc…), tesi a garantire che siano tutelati gli interessi esposti a pericolo in occasione del contatto stesso.
    A titolo meramente esemplificativo, si pensi alla responsabilità del medico, dipendente della struttura sanitaria (pubblica o privata che sia) per danni cagionati al paziente o alla responsabilità dell’insegnante per il danno da autolesione dell’alunno frequentante l’istituto scolastico e, quindi, sottoposto alla sua vigilanza.
    Il dato caratterizzante comune ad ambedue le fattispecie è l’esercizio di una professione cd. protetta, insopprimibile, per il cui esercizio è necessaria una speciale abilitazione (e, nel caso del medico, alta professionalità), ingenerante affidamento nei consociati e che impone l’osservanza e adempimento di obblighi di comportamento specifici. Più dettagliatamente, in relazione alla figura professionale del medico, alla prestazione principale (diagnosi e cura) si riconnettono obblighi accessori, quali quello di informazione sulla natura ed i rischi connessi al trattamento terapeutico, di monitoraggio sul decorso della malattia, di attenta vigilanza nella fase post-operatoria; parimenti, per il praeceptor, il dovere complessivo di istruire ed educare si accompagna a quello più specifico di protezione e vigilanza sul discente onde evitare che cagioni un danno a se stesso.
    Ma la responsabilità da contatto sociale qualificato, ab origine formulata proprio in relazione alla figura professionale del medico, ha finito per estendersi ed essere ipotizzata anche in altre fattispecie (oltre a quella summenzionata dell’insegnante): si ponga mente alla responsabilità dell’istituto bancario per omesse, erronee o false informazioni economiche o che paghi l’assegno circolare a persone diverse dal beneficiario del titolo; all’attività di intermediazione mobiliare; alle informazioni professionali inveritiere; si è finanche parlato di “contatto amministrativo”, intendendo con tale espressione il rapporto che si instaura tra la Pubblica Amministrazione ed il cittadino, il quale può pretendere, nel corso dell’avviato procedimento, determinati comportamenti e/o attività da parte dell’Amministrazione ispirati ai canoni di tempestività, correttezza, adeguatezza, congruità, imparzialità ed efficienza, soprattutto nelle procedure di evidenza pubblica.
    Prima di esaminare nel dettaglio la folta casistica giurisprudenziale sviluppatasi intorno alla vexata quaestio, giova soffermarsi sulla rivisitazione della nozione usuale di “obbligazione”, senza la quale non sarebbe stato possibile coniare questa nuova forma di responsabilità.
    La teoria più remota scorgeva nell’obbligazione una relazione intersoggettiva caratterizzata da una posizione di supremazia del creditore nei confronti del debitore sottomesso. Invero, la norma di cui all’art. 1218 c.c. è figlia di una stagione in cui l’obbligazione, anche in senso figurato, veniva immaginata come una linea i cui estremi coincidevano con la prestazione dovuta dal debitore e con la pretesa creditoria. Se ne traeva che l’obbligazione non aveva altro contenuto che la prestazione principale e, di riflesso, la responsabilità ex art. 1218 c.c. era la conseguenza dell’inadempimento (od inesatto adempimento) di cui si era reso colpevole il debitore, secondo un rapporto meccanicistico di causa – effetto tra l’inadempimento della prestazione contrattuale ed il pregiudizio patito dal creditore.
    L’art. 1218 c.c. si colloca oggi in un nuovo orizzonte dogmatico ed in un mutato contesto normativo.
    Abbandonata definitivamente l’idea romanistica del rapporto obbligatorio quale rapporto lineare compreso fra gli estremi del debito e del credito, tradizionalmente intesi, l’obbligazione viene ad identificarsi in un rapporto complesso: accanto alla prestazione principale si coagula una costellazione di obblighi di natura accessoria la cui finalità è assicurare la piena realizzazione e tutela di tutti gli interessi per il soddisfacimento dei quali il vincolo è sorto o che comunque si ricollegano ad esso. La fonte di tali ulteriori obblighi non è il contratto, tantomeno il fatto illecito, bensì il cd. “contatto sociale” reputato rilevante in base ai principi ordinamentali vigenti, in primis i canoni comportamentali della buona fede e della correttezza.
    In seno alla più recente giurisprudenza di legittimità, si riscontrano significative pronunce in tema di responsabilità da contatto sociale qualificato. Alcune si rivelano più incisive, altre più caute; in alcune occasioni, è bastato precisare, valorizzandolo, il contenuto (ergo, l’importanza) dell’obbligo comportamentale che nel caso concretamente vagliato rilevava (così è avvenuto in ordine al dovere protettivo di vigilanza posto a carico dell’insegnante), mentre in altre ipotesi si è dovuto fare i conti con un rinnovato contesto normativo (si pensi a quelle decisioni che si sono richiamate al concetto di “contatto amministrativo qualificato”, a fronte del moderno contest di amministrazione partecipata rinveniente dalla Legge n. 241/1990). Ed ancora, non sono mancate stauizioni in cui, oltre ad aver preso chiara e ferma posizione in ordine al riconoscimento della responsabilità ex contractu, si è affrontato il tema del riparto dell’onere probatorio, giungendo a discorrersi, come si esaminerà dettagliatamente infra, di “vicinanza della prova”.
    In apicibus, i dictat elargiti dai giudici della Corte di Cassazione in tema di responsabilità da contatto sociale del medico sono quelli che meglio consentono di apprezzare lo sforzo teso all’estensione dell’ambito delle fonti atipiche delle obbligazioni anche ad obblighi sociali di prestazione.
    Fra tutte, rilevano due sentenze rese dal Supremo Consesso a Sez. Un., nel 2008 (nn. 577 e 581): ambedue hanno configurato la responsabilità del medico, dipendente della struttura ospedaliera, nei confronti del paziente come contrattuale, ancorchè non fondata su contratto, bensì sul contatto sociale; la seconda, inoltre, sul versante probatorio, ha aperto la strada alla teoria della “vicinanza della prova”.
    L’approdo ermeneutico ha imposto un’analisi a monte della genesi del rapporto tra paziente e medico, configurato come del tutto autonomo rispetto a quello (anch’esso contrattuale) che si instaura tra il paziente e l’ente ospedaliero in virtù del cd. contratto di spedalità; la distinzione tra i due rapporti spiega la diversità dei criteri d’imputazione della responsabilità dell’ente e di quella del medico: responsabilità oggettiva nel primo caso e responsabilità per colpa nel secondo.
    Un tanto premesso, definitivamente superato l’orientamento secondo cui, in mancanza di un contratto, il medico può essere chiamato a rispondere del “danno ingiusto” cagionato al paziente solo in via extracontrattuale, taluni Autori e parte della giurisprudenza hanno argomentato quanto segue: nel rapporto medico – paziente, esiste un momento in cui le parti stabiliscono se entrare in relazione; in caso affermativo, da quel preciso momento assumono impegni reciproci, pongono una regola di comportamento e si vincolano giuridicamente e vicendevolmente, sebbene la matrice negoziale del ridetto rapporto risulti indebolita. In realtà, osserva acutamente il giudice della nomofilachia, il contatto sociale surroga la consensualità tipica dell’accordo negoziale, giustificando il sorgere di vincoli contrattuali in tutto equivalenti a quelli scaturenti da un contratto di prestazione d’opera intellettuale.
    Siffatta ricostruzione nasce dalla constatazione che alla prestazione principale del medico, consistente nella formulazione di diagnosi e nella cura del proprio paziente, si accompagnino obblighi di natura accessoria, anche esterni alla prestazione principale de qua; del pari, anche l’obbligazione contrattualmente assunta dalla clinica (sia essa pubblica o privata) risulta complessa nonché organizzata e multisettoriale. Pertanto, così come su quest’ultima grava l’obbligo di prendersi cura dei pazienti, ma anche quello di fornire alloggio, alimentazione, farmaci, attrezzature idonee, quello di garantire la sicurezza degli impianti e di gestire le risorse umane, analogamente il medico, dipendente tanto dell’ente ospedaliero quanto di una clinica privata, è tenuto ad adempiere non solo quella prestazione principale di diagnosi e cura che l’ordinamento giuridico gli impone a tutela del cardinale diritto alla salute (art. 2 Cost.), ma anche quelle prestazioni accessorie teleologicamente orientate alla tutela di interessi che possono emergere e venire esposti a pericolo in occasione del “contatto qualificato” (si concretizzi esso nel ricovero così come in una mera visita ambulatoriale).
    I vantaggi sul piano eminentemente probatorio sono palesi e palpabili.
    Innanzitutto, il soggetto danneggiato (rectius, il paziente) è esonerato dall’onere di provare il compimento di un “fatto doloso o colposo” che abbia cagionato un “danno ingiusto”. Difatti, configurare la responsabilità da contatto sociale qualificato come contrattuale comporta l’applicazione, in tema di riparto dell’onere probatorio tra attore e convenuto, delle regole fissate dall’art. 1218 c.c.: così, la responsabilità (da inadempimento) del debitore (nel caso de quo, il medico) è presunta. Trattasi di una presunzione iuris tantum, vincibile dal debitore attraverso la prova della diligenza adoperata nell’adempimento delle proprie prestazioni e/o attraverso la prova dell’incolpevolezza dell’inadempimento. Al contrario, per il creditore – paziente sarà sufficiente dimostrare la sussistenza del danno patito derivante dall’inadempimento o dalla non correttamente adempiuta prestazione medica.
    Il discrimen con il regime probatorio apprestato ed imposto in tema di responsabilità aquiliana è sotto gli occhi di tutti. In ossequio al disposto dell’art. 2967 c.c., spetta al danneggiato che si dolga in giudizio del danno subito dimostrare l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito, vale a dire il fatto (inteso come comportamento commissivo od omissivo), il dolo o la colpa del “carnefice”, il danno ingiusto (ossia il concreto pregiudizio sofferto) ed, infine, il nesso eziologico tra il fatto ed il danno.
    Il lungo percorso interpretativo battuto in tema di responsabilità ex contractu ha, altresì, rappresentato l’occasione per riflettere sulla teoria della vicinanza della prova, prevalente tra gli operatori giuslavoristi, ma estensibile in altri campi attesa la sua ratio: parificare, nell’agone processuale, le posizioni del debitore e del creditore, in quanto, entrambi possono talvolta non disporre (o non disporre pienamente) dei fatti idonei a provare la propria pretesa in giudizio.
    L’assunto di partenza è quello secondo cui la distribuzione dell’onere della prova non può non tener conto, abimis, della possibilità concreta ed effettiva per l’una o per l’altra parte di offrirla. Di talchè, a fronte di difficoltà, spesso insuperabili, incontrate sia dal creditore (si pensi alla prova del fatto negativo dell’inadempimento) che dal debitore (tenuto a provare, di contro, l’avvenuto adempimento) nel provare i fatti dedotti in giudizio, l’onere della prova andrà ripartito tenendo conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d’azione.
    Ulteriore differenza tra i due regimi di responsabilità civile attiene al risarcimento del danno. In tema di responsabilità contrattuale il ristoro è limitato ai soli danni prevedibili al momento in cui l’obbligazione è sorta (art. 1225 c.c.), a meno che l’inadempimento abbia carattere doloso; nell’ipotesi di responsabilità contrattuale, invece, la prevedibilità del danno non è rilevante ai fini del risarcimento dello stesso: la norma cui ancorarsi ai fini della valutazione dei pregiudizi derivanti da fatto illecito è quella di cui all’art. 2056 del Codice civile, la quale, come risaputo, contiene un espresso rinvio agli artt. 1123, 1226 e 1227 c.c., e non anche all’art. 1225 c.c.
    Anche i tempi per esperire le rispettive azioni di risarcimento danni risentono del diverso regime di responsabilità entro cui operano. Rimanendo saldamente aggrappati alla fattispecie esaminanda, il termine entro cui il paziente potrà proporre azione di risarcimento del danno da inadempimento (o inesatto adempimento) è quello di prescrizione ordinaria (dieci anni, ex art. 2946 c.c.) valvole per il contratto e gli atti unilaterali. Diversamente, l’azione per il risarcimento del danno da fatto illecito soggiace ad una prescrizione quinquennale (così come statuito dall’art. 2947 c.c.).
    Il sentiero battuto dalla giurisprudenza di legittimità ai fini del riconoscimento anche in capo all’insegnante di una responsabilità da contatto sociale non è meno suggestivo.
    Con una pronuncia del 2002, le Sezioni Unite della Cassazione hanno posto fine all’annoso dibattito intorno alla portata restrittiva od estensiva della norma di cui all’art. 2048 c.c., che, come risaputo, fonda la responsabilità dei precettori nonché dei genitori, tutori e maestri d’arte per danni cagionati a terzi da minori capaci di intendere e di volere (in questo risiede la differenza con il precedente art. 2047 c.c.).
    Orami pacificamente, la giurisprudenza sostiene trattarsi di responsabilità per colpa presunta, comportante un’inversione dell’onere della prova a tutto vantaggio della vittima danneggiata.
    A rilevare in tale sede è il secondo comma della disposizione scomodata, a mente del quale la responsabilità dei precettori (e di coloro che insegnano un mestiere o un’arte) trova luogo solo allorchè il fatto illecito causato dal minore cagioni ad un terzo un danno ingiusto, e non anche nell’ipotesi in cui le conseguenze lesive ricadano sul minore medesimo. Siffatta interpretazione letterale (e restrittiva) della norma de qua si impone in quanto essa costituisce eccezione rispetto alla regola generale dell’art. 2043 del Codice civile.
    Tanto ha dato la stura ad un’attività di ricerca della fonte del dovere di vigilanza posto in capo all’insegnante, al fine di sottoporre al maglio dell’obbligazione risarcitoria anche i casi di danno cd. da autolesione dell’allievo. La tensione che anima tale ricerca viene, a ragione, ricondotta alla ratio che ispira ed, al contempo, anima l’intero sistema della responsabilità civile, vale a dire la riparazione di un danno meritevole di protezione e ristoro alla stregua dell’ordinamento giuridico complessivamente considerato.
    Senonchè, proprio dalla disamina dell’ordinamento latu sensu inteso, il referente normativo del dovere di vigilanza gravante sul praeceptor è stato rinvenuto nell’art. 350 del R.D. del 26.05.1928, n. 1297, secondo cui l’insegnante deve trovarsi all’interno dell’istituto scolastico “non meno di dieci minuti prima dell’inizio delle lezioni, per assistere all’ingresso dei suoi alunni”; deve, altresì, “sorvegliarli” anche durante il tempo delle lezioni integrative, delle attività sportive e della ricreazione; infine, è tenuto a rimanere nella scuola “finchè i suoi alunni non ne siano usciti”.
    Orbene, il dovere (protettivo) di sorveglianza si somma a quello primario di istruire ed educare, dovere che fonda l’obbligazione principale a carico dell’insegnante e che vale a rendere “qualificato” il rapporto che s’instaura con i discenti, secondo una visione della obbligazione come relazione intersoggettiva composita.
    Nel 2002 il Supremo Consesso prende aperta posizione affermando che tra insegnante ed alunno, al momento dell’iscrizione (e conseguente ammissione) presso l’istituto scolastico, sorge per “contatto sociale” un rapporto giuridico nell’ambito di cui il primo assume anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza.
    I precipitati in tema di onere della prova sono gli stessi già visti con riguardo alla figura professionale del medico.
    Taluni Autori hanno proposto l’estensione della tesi della responsabilità per violazione degli obblighi senza protezione anche ai rapporti tra cittadino e Pubblica Amministrazione, discorrendo di “contatto amministrativo”.
    In verità, non si è mai posto in dubbio che la responsabilità dell’Amministrazione per attività provvedimentale non sia quella del “chiunque” o del qualunque passante (art. 2043 c.c.); così come si è sempre dato per acquisito che, prim’ancora di un “danno”, sussista un “rapporto” tra privato e Pubblica Amministrazione.
    L’idea di una giustizia amministrativa “partecipata” (frutto anche dell’emanazione della L. n. 241/1990, novellata dalla L. n. 15/2005) ha reso il terreno scivoloso: i principi di tempestività, adeguatezza, imparzialità, congruità, efficienza ed economicità che guidano l’agere amministrativo sono divenuti criteri giuridici positivi. Il privato cittadino può pretendere il rispetto di tali criteri, in ragione del rapporto che lo lega all’Amministrazione e dell’affidamento che i comportamenti e le attività di questa ingenerano su di lui.
    Indipendentemente dall’utilità, dal risultato o, come si è preferito affermare, indipendentemente dal “bene della vita” cui l’interessato ambiva, lo sviluppo dei comportamenti e delle attività della Pubblica Amministrazione dà corpo ad un interesse del cittadino autonomamente suscettibile di lesione, ergo meritevole di risarcimento.
    All’indomani della illuminante sentenza n. 500/1999 del Supremo Consesso, apertamento espressosi in favore della risarcibilità degli interessi legittimi, la giurisprudenza amministrativa ha qualificato il rapporto tra cittadino e Pubbliche Amministrazioni come connotato da una responsabilità da contatto sociale, giungendo persino ad avanzare la possibilità di presumere la responsabilità dell’Amministrazione in presenza di un atto illegittimo, così onerando il danneggiato solo della prova del pregiudizio patito e della sua riconducibilità causale all’adozione o esecuzione del provvedimento viziato. Stando così le cose, l’Amministrazione può solo dimostrare la ricorrenza di un “errore scusabile”.
    Per incidens, alcuni rilievi conclusivi.
    Così come gli orientamenti giurisprudenziali più recenti si sono fatti carico dell’evoluzione che ha contrassegnato il tema della responsabilità civile, fino ad inglobare il “contatto sociale” nel novero delle fonti atipiche delle obbligazioni, in maniera più pregnante la giurisprudenza di legittimità ha preso atto del rinnovato ruolo svolto dalla buona fede nel sistema giuridico.
    Le argomentazioni che seguiranno funditus riguardano ovviamente l’obbligo, imposto al debitore ed al creditore, tramite l’art. 1175 c.c., di comportarsi secondo le regole della correttezza, unanimemente intesa come specificazione del più generale dovere di buona fede egemone in materia contrattuale (art. 1375 c.c.). E’ altresì ovvio, però, che, per quanto reiterabili in materia contrattuale, le riflessioni de quibus attengono precipuamente al tema delle obbligazioni.
    Ebbene, la concezione precettiva che elegge il canone della buona fede a principio cardine delle relazioni contrattuali ha consentito di assegnare alla stessa il ruolo di autonoma fonte di obbligazioni.
    E’ appena il caso di rammentare come l’orientamento primitivo ed ormai sorpassato considerava la buona fede (qui intesa in senso oggettivo, e non come stato soggettivo in cui versa chi ignora di ledere con la propria condotta l’altrui diritto) una mera affermazione teorica, priva di un reale contenuto precettivo ed avente funzione puramente esortativa e/o additiva.
    Sorpassato, anche l’indirizzo interpretativo che configurava la ridetta buona fede come norma giuridica sub – primaria, o meglio, come sintesi di regole di condotta aliunde poste e, pertanto, inidonea ad essere applicata in assenza di specifiche disposizioni.
    Il più moderno orientamento, invece, assegna alla buona fede un ruolo di primaria importanza, elevandola a principio immanente all’intero sistema giuridico, attesa la sua riconducibilità al dovere inderogabile di solidarietà sociale consacrato all’art. 2 della Carta Costituzionale nonché al principio di libera iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione.
    Per tale via, la regola comportamentale della buona fede diviene clausola generale avente funzione di temperamento dell’applicazione letterale delle disposizione codicistiche e di auto - integrazione dell’ordinamento, stante la sua attitudine ad individuare obblighi e divieti ulteriori rispetto a quelli già previsti dalla legge in capo ai consociati.
    Sotto tale ultimo profilo, si apprezza quella ricostruzione pretoria che ha scorto nella buona fede la fonte di non pattuiti obblighi in capo alle parti di un rapporto obbligatorio o negoziale, quand’anche non scaturenti da un contratto strictu sensu inteso.
    Ciò si riverbera inevitabilmente sul piano dei rimedi esperibili a fronte della violazione del dovere di buona fede in termini di risarcimento del danno e di exceptio doli generalis.

    ADERENZA ALLA TRACCIA: l’eccellente elaborato dimostra piena comprensione della traccia e vi aderisce bene;
    COMPLETEZZA: il tema è notevolmente sopra la media quanto a contenuti. Risulta completo sia nella parte relativa alle fonti in generale, che su quella relativa alla fonte atipica analizzata del contatto sociale. Estremamente apprezzabile sul piano del ragionamento, dei collegamenti, della padronanza della materia.
    APPROFONDIMENTO: ottimo il livello di approfondimento, efficacemente riportata la giurisprudenza; molto bene gli esempi sui casi di contatto sociale;
    ERRORI O IMPRECISIONI: -
    LOGICITA’: filo logico-giuridico interessante e sostanzialmente corretto; logicità mantenuta anche quando si spazia allargando il ragionamento a questioni incidentali;
    FORMA: ottima capacità di scrittura, tema lineare e piacevole alla lettura;
    GIUDIZIO: il giudizio complessivo dell’elaborato è estremamente positivo: il tema dimostra ottima capacità di ragionamento, ottima conoscenza dell’argomento sottoposto, linguaggio tecnico-giuridico apprezzabile e stile scorrevole e lineare; a voler perfezionare l’elaborato si poteva trattare in maniera più diffusa la fonte atipica della buona fede (trattata in fine), e magari aggiungerne altre come ad esempio le lettere forti di patronage.
    VOTO: 18
     
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    è il solo tema pervenuto su questo argomento.
    lo pubblichiamo per informare almeno sui concetti-base inerenti alla traccia.

    La novazione nel diritto amministrativo

    Nel perseguire fini pubblici la P.A. adotta atti e provvedimenti amministrativi, caratterizzati dall’imposizione autoritativa di prestazioni obbligatorie. Può verificarsi che la P.A. ritenga utile curare gli stessi interessi attraverso istituti e norme di diritto privato, basandosi su schemi negoziali e contrattuali tipici della disciplina privatistica, e ciò accade sia in senso strumentale (laddove la P.A. provvede alla sua attività quotidiana), sia nella sua attività istituzionale, sia – infine – nella sua attività di diritto privato equivalente (posta in essere da enti autorizzati alternativamente a quella pubblica). Pertanto, in uno scenario in cui la P.A. e lo Stato agiscono come soggetti privati a livell paritetico possono rinvenirsi applicazioni ed articolazioni di istituti e/o fenomeni di diritto comune legati a vincoli obbligatori sorti tra i suddetti e altre parti (obbligazioni private quali ad es. il rapporto di pubblico impiego, la contrattazione collettiva, i contratti di scommessa o di prestito pubblico), ferma restando la possibilità di obbligarsi anche in qualità di soggetto pubblico, nell’ambito della sua attività funzionale, il quale resta dotato di potere iure imperio per cui in corso di procedimento non trova luogo un rapporto obbligatorio, bensì uno di diritto pubblico (obbligazioni pubbliche - si pensi ai servizi pubblici, concessioni, sovvenzioni, benefici, imposizione fiscale e all’attività tributaria in generale). Ormai è pacifica la sussistenza di obblighi di servizio relativamente a diritti soggettivi aventi ad oggetto le prestazioni di servizio pubblico oggi tutelabili ai sensi del d. lgs. 2005/206 (art. 2, comma 2. lett. g).
    Sussiste perciò un’attività amministrativa di diritto comune legata all’attività contrattuale, a propria volta ascrivibile al diritto pubblico o al diritto privato, in cui si innesta la problematica generale delle obbligazioni “pubbliche”, non da intendersi come categoria positiva differenziata da quelle private, ma come tertium genus, quindi disciplinata dal diritto comune, per quel che riguarda adempimento (arrt. 1176 e ss. cod. civ.), conseguenze dell’inadempimento (artt. 1218 e ss. cod. civ.) , responsabilità patrimoniale (artt. 2740 e ss. cod. civ.) e tutela del credito (artt. 2907 e ss. codi. civ.), salvo molteplici deroghe ed istituti propri che formano un corpus normativo vasto ed articolato, obbligazioni che nascono da una serie di fonti tipiche quali contratto, fatto illecito, altri fatti produttivi di obbligazioni ex lege e il provvedimento-accordo di diritto pubblico.
    Attesa quindi l’esistenza di una capacità di diritto comune per la P.A. si tratta di approfondire in generale la delicata questione del rapporto tra disciplina amministrativa e diritto comune e nello specifico analizzare come i vari strumenti, fenomeni ed istituti privatistici si articolano nell’ambito amministrativistico.
    Le obbligazioni pubbliche non hanno natura di obbligazioni, fin quando la P.A. non emana provvedimento che la costituisce debitrice, essa non è titolare di un debito, ma di un potere, in quanto tale incidente su un interesse legittimo. Ma, una volta costituite, si applica il diritto comune, soprattutto in merito a profili statici e strutturali del rapporto, ed eventuali deroghe avranno un significato non diverso da quello che assumono le disposizioni specifiche dettate per le obbligazioni private e riguarderanno gli aspetti dinamici attinenti all’esecuzione del contratto. E questo accade anche con riferimento ai poteri di autotutela di cui gode la P.A. potendo annullare o revocare i provvedimenti da cui il rapporto patrimoniale scaturisce.
    In particolare, questa disamina approfondirà un istituto che il codice civile riconosce come uno dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento: la novazione. Trattasi di un istituto già noto ai Romani e poi recepito nel codice del 1865, sulla base del modello francese che univa in un’unica figura la novazione oggettiva e soggettiva.
    Per novazione in senso oggettivo la dottrina maggioritaria (teoria soggettiva o negoziale) intende un contratto mediante il quale le parti estinguono l’obbligazione originaria sostituendo ad essa una nuova obbligazione con diverso oggetto o titolo (art. 1230 cod. civ.). Lo stesso nomen dato all’istituto indica la conversione del vecchio rapporto in uno nuovo (novatio enim a novo nomen accepit et a nova obligatione). Essa non sostituisce i soggetti, bensì estingue il rapporto obbligatorio mutandolo in altro rapporto, diverso per oggetto o titolo (aliquid novi).
    Per novazione in senso soggettivo si intende un contratto che sostituisce un nuovo debitore a uno originario, il quale viene liberato. Secondo alcuni essa rappresenta solo assunzione liberatoria di un obbligo altrui e quindi genus delle tre figure tipiche della delegazione, espromissione ed accollo, quali ipotesi di successione del debito e non novative in senso stretto.
    La novazione può sussistere al contempo sia come oggettiva che come soggettiva.
    La novazione secondo la teoria oggettiva o fattuale può invece essere intesa anche come vicenda sostitutivo-estintiva dell’obbligazione, quindi come vicenda estintiva o effetto ricollegabile a fattispecie diverse e non come negozio. Si discute sulla natura di tale effetto: se conseguenziale e secondario rispetto al fine principale della costituzione di un nuovo rapporto, se scindibile in due effetti estintivo e costitutivo o se elemento necessario della volontà delle parti (animus novandi) a prescindere dal grado di importanza o dalla connessione/distinzione.
    Pertanto la novazione è da considerarsi un contratto solutorio a titolo oneroso, che non ha carattere satisfattivo e la cui causa è rappresentata dall’interesse alla sostituzione dell’obbligazione con altra obbligazione. Si può avere novazione dell’obbligazione, per cui l’obbligazione originaria ha la sua fonte nel contratto (in cui l’obbligazione contrattuale è effetto del contratto e quindi la sostituzione di essa costituisce una modifica del contenuto contrattuale) o del contratto (la creazione della nuova obbligazione esclude la sopravvivenza del rapporto contrattuale per incompatibilità con la casa o per volontà delle parti).
    Nell’ordinamento civile la disciplina della novazione può ricondursi alla disciplina generale del contratto e alla parte relativa ai modi di estinzione delle obbligazioni, nonché alle norme riguardanti la capacità e la legittimazione delle parti, la formazione dell’accordo e incide significativamente sulle garanzie (privilegi, pegno e ipoteca). Suoi elementi costitutivi devono quindi essere la volontà delle parti (animus novandi), la causa (propria e costante quale interesse alla sostituzione quale che sia in concreto il contenuto specifico delle obbligazioni sottese al negozio), l’oggetto (aliquid novi). Sulla forma, o meglio sul formalismo legato all’istituto, pur non essendo necessarie espresse dichiarazioni di volontà l’intento novativo è requisito caratterizzante della novazione e deve essere inequivoco e certo, non essendo ammissibili operazioni ermeneutiche, per cui opera una presunzione novativa purché sia - anche in forma tacita – evidente la comune intenzione delle parti nel senso dell’animus novandi come rinnovazione dell’originario documento contrattuale, del consenso costitutivo del rapporto e della costituzione di un secondo rapporto obbligatorio in aggiunta al primo da cui si diversifica (aliquid novi).
    La novazione non va confusa con la dazione in pagamento di cui all’art. 1197 cod. civ., la quale si riferisce alla fase dell’esecuzione ed esaurisce completamente il rapporto obbligatorio al momento dell’esecuzione della prestazione sostitutiva da parte del debitore; con la compensazione volontaria o in generale con la remissione del debito; con la transazione di cui all’art. 1976 cod. civ., con la quale le parti estinguono integralmente il rapporto preesistente sostituendolo con un altro rapporto del tutto nuovo; e infine con la ricognizione di debito, con la quale si esonera un soggetto dall’onere di provare il rapporto fondamentale.
    In generale in capo ad una P.A. qualsiasi rapporto obbligatorio che si perfeziona in un contratto o in un provvedimento o che viene imposto per legge dà luogo ad un’attività dovuta, quella di adempimento del relativo obbligo (prestazione amministrativa). Teoricamente si potrebbe persino ipotizzare una novazione legale come nei condoni in ambito tributario o edilizio.
    Ipotesi di fenomeni simili a quelli novativi sono ravvisabili tutte le volte che la P.A. in regime di autotutela decide di ritirare o revocare un atto eventualmente sostituendolo con un altro nuovo. Tuttavia deve dubitarsi che sussista in queste ipotesi un animus novandi bilaterale e condiviso e che si versi in un caso di novazione in senso stretto.
    Probabilmente inquadrare la novazione in modo più corretto potrebbe essere nei casi di mutamento nei rapporti di lavoro, ad esempio nelle progressioni verticali o orizzontali, nelle conseguenti e nuove obbligazioni scaturenti dalla contrattazione collettiva, sempre che non si ricada nella vera e propria transazione, che accanto alla conciliazione, accordo bonario ed altre forme, rappresenta - di contro - il precontenzioso e non un modo di estinguere obbligazioni rispetto all’adempimento.
    Potrebbero verificarsi casi in cui convenzioni bilaterali o accordi sostituitivi vanno a sostituire provvedimenti originari. Quel che potrebbe qui rendere dubbia l’applicazione è che ab origine il rapporto non è bilaterale e tipico obbligatorio, per quanto si verifica un interesse del richiedente; non solo; spesso alla sovvenzione o convenzione espressa fa seguito un secondo contratto che regoli l’assetto patrimoniale dei reciproci interessi e che prospetta un collegamento tra provvedimento e contratto più che un aliquid novi.
     
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    Di seguito il miglior tema, valutato 14.

    SUGGERIMENTO

    I temi di questo mesi erano molto scarsi in media.
    Si sono riscontrati temi in cui non e' stata citata nemmeno una disposizione e temi in cui, in relazione al rapporto diritto comunitario/nazionale ci si "scorda" dell'art. 117 cost.
    Numerosissimi sono gli errori nel richiamare disposizioni abrogate del TCE.
    Il diritto comunitario e' materia di concorso e le commissioni mal tollerano svarioni come quelli riscontrati questo mese.
    Tutti i temi, anche quelli idonei, hanno dimostrato una scarsissima attenzione al dato normativo, riportando sterminati resoconti di giurisprudenza, utile in un tema così solo per inquadrare i rapporti diritto comunitario e diritto nazionale.


    Tema di diritto amministrativo
    Delineati i caratteri dell'influenza del diritto comunitario sul diritto nazionale, tratti il candidato dei vizi del provvedimento amministrativo contrastante con il diritto sovranazionale. Si soffermi, in particolare, il candidato sugli strumenti di tutela e sulle tecniche di accertamento dei vizi del provvedimento.

    Svolgimento:

    Con la sottoscrizione da parte dello Stato italiano dei trattati istitutivi delle Comunità Europee, prima, e dell'Unione Europea, poi, e con la conseguenza nascita di un ordinamento comunitario si è posto il problema di detrminare il tipo di rapporto intercorrente tra tale nuovo ordinamento comunitario, con le proprie fonti normative, e l'ordinamento statale interno.
    Sul punto esistono due diversi orientamenti, secondo un primo, seguito da parte della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, i due ordinamenti sarebbero tra di loro integrati e non separati. Tale teoria, denominata anche come concezione monistica, le fonti di origine comunitaria e quelle nazionali interne verrebbero a costituire un solo sistema giuridico regolato, poi, sulla base di un rapporto gerarchico tra norme comunitarie, che prevalgono su quelle interne in contrasto. Conseguenza di tale orientamento è che le fonti di origine comunitaria troveranno diretta applicazione all'interno degli stati membri e costituiranno esse stesse fonte immediata di obblighi e diritti. In base al principio di primazia del diritto comunitario sul diritto interno, le disposizioni interne contrastanti con il diritto comunitario dovranno essere disapplicate dal giudice nazionale cui è fatto obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario senza dover attendere la rimozione della norma interna da parte del legislatore o a seguito di una pronuncia della Corte Costituzionale.
    Un secondo e diverso orientamento, invece, ritiene che il rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamento interno debba essere ricostruito in termini di separatezza, per cui i due ordinamenti sarebbero autonomi e distinti, anche se tra loro coordinati sulla base delle regole di competenza e di riparto stabilite nei trattati istitutivi. Tale seconda teoria è seguita da parte della Corte Costituzionale ed ha, comunque, subito una evoluzione nel corso del tempo. Difatti, le prime pronunce della Corte Costituzionale, dopo l'adesione dello Stato italiano alle Comunità Europee, avevano negato addirittura una primazia del diritto comunitario su quello interno, relegando così la violazione delle norme comunitarie a mera violazione degli obblighi internazionali derivati dai trattati sottoscritti, senza che ciò potesse in alcun modo comportare una invalidità o una inefficacia della norma interna contrastante.
    Successivamente, la Corte Costituzionale ha cominciato a riconoscere il principio di primazia del diritto comunitario su quello nazionale, fondando ciò sulla possibilità prevista dall'art. 11 Cost. per lo Stato di concedere limitazioni alla sovranità a condizione di parità con altri stati. La norma interna in contrasto con il diritto comunitario sarebbe così stata affetta da illegittimità costituzionale per violazione dell'art. 11 Cost., con obbligo per il Giudice nazionale di sollevare questioni di legittimità costituzionale avanti la medesima Corte Costituzionale.
    Il controllo sulla norma anticomunitaria risultava così ammesso solo mediante un sistema accentrato e non diffuso. Solo in un secondo tempo la Corte Costituzionale ha accolto i principi espressi dalla allora Corte di Giustizia delle Comunità Europee, riconoscendo al giudice nazionale il potere di disapplicare direttamente la norma interna in contrasto con l'ordinamento comunitario. Il giudice, nella propria opera di interpretazione e applicazione della normativa interna, avrebbe dovuto valutare ogni possibile interpretazione conforme al diritto comunitario e solo in caso di esito negativo, vi sarebbe stata disapplicaizone della norma interna incompatibile con quella comunitaria, dal momento che è quest'ultima quella che deve prevalere.
    La Corte Costituzionale ha continuato comunque a confermare la ricostruzione del rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamento interno in termini di separatezza e autonomia seppure con coordinazione tra questi, non aderendo alla cd. teoria monistica di origine comunitaria. Per la Corte Costituzionale, poi, il fatto che l'ordinamento comunitario debba prevalere in caso di antinomia su quello nazionale non escludere che sussistano, in ogni caso, dei limiti invalicabili anche da tale primazia, determinati dal rispetto dei principi supremi e dai diritti inviolabili.
    La giurisprudenza costituzionale e la dottrina si sono occupate più volte dei rapporti tra ordinamento statale e ordinamento comunitario, con riguardo soprattutto alle antinomie tra norme, tuttavia l'antinomia tra i due ordinamenti può venire in rilievo anche tra le norme comunitarie e gli atti amministrativo statali.
    Difatti, la violazione del diritto comunitario può essere commessa non solo a seguito della emanazione di norme generali ed astratte contrastanti con il primo, ma anche attraverso l'esercizio della funzione amministrativa e l'emanazione di atti amministrativi.
    Le due diverse teorie sopra esposte, in tema di ricostruzione del rapporto tra l'ordinamento comunitario e quello interno, non solo prive di implicazioni nella qualificazione del vizio inerente l'atto amministrativo anticomunitario e il conseguente regime giuridico con i diversi strumenti di tutela offerti dal sistema nazionale.
    L'illegittimità comunitaria può derivare direttamente dal provvedimento amministrativo, che si pone esso stesso in contrasto con la norma comunitaria, oppure costituire un vizio mediato, allorquando il provvedimento sia conforme a una norma statale a sua volta contrastante con il diritto comunitario. In tale seconda ipotesi, l'illegittimità comunitaria è solamente indiretta e derivata.
    E' stato riconosciuto da parte della dottrina un parallelismo tra illegittimità comunitaria e illegittimità costituzionale dell'atto amministrativo, potendo anche in tale ipotesi aversi una incostituzionalità diretta od indiretta dell'atto emesso dalla Pubblica Amministrazione. Si avrà incostituzionalità diretta laddove si lamenti la lesione di una norma costituzionale da parte dell'atto amministrativo che è affetto da incostituzionalità propria.
    Nel caso in cui l'atto amministrativo impugnato violi la norma costituzionale perchè sia stato emanato sulla base di una norma, e quindi sia conforme a questa, sospetta di illegittimità costituzionale, l'atto amministrativo non è viziato in sé, ma è affetto da un vizio derivato e al sua impugnazione sarà occasione per sollevare questione di illegittimità costituzionale.
    Tale parallelismo tra atto anticomunitario e atto incostituzionale deriva dal rango sovralegislativo che sia la Costituzione che le norme comunitarie assumono nella gerarchia delle fonti dell'ordinamento interno. La differenza tra le due tipologie di illegittimità sta nel carattere sempre diffuso del sindacato di illegittimità comunitaria, rispetto a quello di incostituzionalità, laddove mentre la violazione diretta sarà sindacata e decisa dal Giudice Amministrativo, la violazione indiretta o derivata sarà valutata dalla Corte Costituzionale, cui sarà sollevata la relativa questione di illegittimità costituzionale della legge su cui l'atto amministrativo si fonda.
    L'adesione alla teoria dell'unitarietà del sistema giuridico fatta propria dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea o alla teoria dei sistemi giuridici separati, ma coordinati seguita dalla Corte Costituzionale non è priva di implicazioni con specifico riguardo proprio alla illegittimità comunitaria dell'atto amministrativo, al regime giuridico applicabile ed agli strumenti di tutela offerti dal sistema al cittadino.
    Con riguardo al caso di atto amministrativo in violazione del diritto comunitario, autorevole dottrina ha sottolineato come, considerando i due ordinamenti statale e comunitario come integrati, la norma comunitaria assuma rilievo quale parametro di legittimità dell'atto amministrativo evocando il modello di vizio per violazione di legge, in questo caso, comunitaria.
    Autorevole dottrina ha sottolineato come la teoria della separatezza degli ordinamenti portata alle sue estreme conseguenze porterebbe, invece, a frustrare il principio di supremazia del diritto comunitario su quello interno ed a negare che le norme comunitarie possano attribuire un potere amministrativo o disciplinarne il quomodo di esercizio. Applicando tale tesi la norma comunitaria non fungerebbe neppure da parametro di legalità dell'atto amministrativo, non potendosi riscontrare vizi di anticomunitarietà di quest'ultimo, dovendo la legittimità dell'atto essere valutata solamente sulla base della normativa statale. Unicamente nell'ipotesi di anticomunitarietà indiretta o derivata, seguendo tale orientamento, vi sarebbero delle conseguenze per l'atto amministrativo, che potrebbe essere affetto da nullità perchè fondato su di una norma affetta da illegittimità comunitaria che dovrà essere disapplicata da parte del giudice, venendo così l'atto stesso ad essere stato emanato senza norma e come tale nullo o inesistente. Tale tesi è stata fatta oggetto di critiche, in quanto sembra confondere i concetti di nullità ed inesistenza dell'atto amministrativo che invece dovrebbero essere tenuti distinti ed, inoltre, potrebbe al massimo risultare corretta l'individuazione di un vizio di nullità dell'atto unicamente in ipotesi di disapplicazione da parte del giudice di una norma statale anticomunitaria attributiva del potere amministrativo e ciò soprattutto dopo che il legislatore ha positivizzato il vizio di nullità dell'atto con le modifiche introdotte dalla legge n. 15 del 2005 alla legge n. 241 del 1990, prevedendolo in ipotesi di atto affetto da difetto assoluto di attribuzione.
    Aderendo, invece, alla teoria della integrazione dei due sistemi giuridici, la normativa comunitaria può diventare parametro di legittimità dell'atto amministrativo evocando così in caso di sua violazione da parte dell'atto stesso il vizio di violazione di legge, con la conseguente adozione dei rimedi propri previsti dall'ordinamento con l'impugnazione dell'atto e suo annullamento da parte del Giudice Amministrativo. La violazione di legge da parte dell'atto anticomunitario e la sua annullabilità, secondo tale orientamento, sarebbero riscontrabili sia in ipotesi di anticomunitarietà diretta che indiretta. Nel primo caso, la norma comunitaria fungerà da parametro nel giudizio di legittimità dell'atto, nel secondo caso, invece, il sindacato del Giudice amministrativo prevederà un passaggio intermedio dato dalla disapplicazione della norma statale anticomunitaria su cui l'atto si fonda ed a cui è purtuttavia conforme.
    La tesi del vizio di annullabilità dell'atto per violazione di legge con equiparazione della violazione del diritto comunitario a quello interno è quella seguita da parte della giurisprudenza amministrativa maggioritaria, con conseguente applicazione del relativo regime sostanziale e processuale nel rispetto dei principi propri del sistema impugnatorio con termini di decadenza pena l'inoppugnabilità dell'atto viziato.
    In ipotesi di violazione indiretta, invece, parte della giurisprudenza ha ritenuto di operare una distinzione circa il regime giuridico dell'atto a seconda della diversa natura della norma interna anticomunitaria, che dovrà essere disapplicata dal giudice. Secondo tale orientamento, la regola in caso di violazione del diritto comunitario da parte dell'atto amministrativo sarà quella della annullabilità con applicazione delle regole proprie del sistema impugnatorio relativi termini decadenziali e vincolatività dei motivi di ricorso. Per il Consiglio di Stato, che anche recentemente ha ribadito di voler seguire tale tesi, la regola di cui sopra subisce una eccezione in caso di violazione del diritto comunitario indiretta dell'atto per illegittimità comunitaria della norma interna attributiva del potere amministrativo da cui l'atto è derivato. Difatti, in caso di violazione indiretta del diritto comunitario il regime processuale applicabile sarà diverso e distinto a seconda che la norma interna anticomunitaria su cui l'atto si fonda sia attributiva del potere amministrativo o solamente regolatrice di tale potere, che è invece attribuito da altra norma statale non in contrasto con il diritto comunitario. Nel caso in cui la norma interna da disapplicare perchè anticomunitaria sia attributiva del potere amministrativo si avrà un vizio di nullità dell'atto amministrativo emanato in carenza di potere, con la conseguenza che l'atto non diventerebbe mai inoppugnabile.
    Se, invece, la norma statale che viola il diritto comunitario disciplina solamente il quomodo di esercizi del potere amministrativo, che ha la sua fonte altrove, l'atto è emanato sulla base di una legge interna non in contrasto con il diritto comunitario, ma è disciplinato da una legge anticomunitaria e come tale affetto da annullabilità. L'atto dovrà così essere impugnato entro i termini di decadenza previsti, divenendo altrimenti inoppugnabile.
    La teoria della regola del vizio di annullabilità per l'atto amministrativo anticomunitario rinviene anche un suo fondamento nell'art. 21 septies legge n. 241/1990 introdotto dalla legge n. 15/2005, che ha individuato un numerus clausus per l'ipotesi di nullità dei provvedimenti amministrativi, tra i quali non è prevista l'ipotesi di violazione del diritto comunitario. Da tale mancanza si è dedotta la volontà del legislatore di voler fare rientrare l'illegittimità comunitaria dell'atto nelle ipotesi di vizio di annullabilità.
    Con riguardo ai rapporti tra l’ordinamento comunitario e quello interno, dunque, l'orientamento giurisprudenziale maggioritario, che equipara l'atto amministrativo anticomunitario a quello affetto da vizio di violazione di legge e come tale annullabile, sembra fondarsi più sul riconoscimento di un rapporto di integrazione tra gli ordinamenti interno e quello comunitario che non di separatezza con mera coordinazione.
    Secondo una tesi minoritaria, il regime adottabile a fronte di un atto amministrativo anticomunitario sarebbe quello della disapplicazione dell'atto stesso nel medesimo modo in cui avviene per le norme interne, per cui l'atto non diverrebbe mai inoppugnabile.
    Tale tesi è stata criticata da parte della dottrina, in quanto, così operando, si rischierebbe di vedere frustrati i principi di affidamento e di certezza dei diritti.
    La Corte di Giustizia dell'Unione Europea stessa ha negato che la violazione del diritto comunitario da parte di una atto amministrativo di uno Stato membro debba comportare la sua disapplicazione al pari della violazione del diritto comunitario da parte di norme di legge. Ciò che conta, secondo la giurisprudenza comunitaria, è che vengano rispettati i principi di equivalenza tra sistema di fonte comunitaria e sistema di fonte interna e il principio di effettività della tutela.
    I giudici europei, pronunciandosi sulla illegittimità comunitaria di un bando di gara, hanno precisato che, solo qualora i termini di impugnazione dell'atto amministrativo previsti dall'ordinamento dello stato membro risultino eccessivamente brevi e rendano difficile l'impugnazione, il giudice nazionale debba ritenere ammissibili i motivi tardivamente impugnati. In tale ipotesi sarà possibile avere una disapplicazione delle norme processuali che impediscono il vaglio dell'atto amministrativo. Si tratta, tuttavia, non di disapplicazione amministrativa, ma di una disapplicazione normativa delle norme processuali che stabiliscono preclusioni e decadenze.
    La soluzione offerta dalla Corte di Giustizia conferma la tesi di autorevole dottrina per cui il diritto comunitario in sé non snatura i tratti tipici del sistema giurisdizionale del singolo stato, tra cui rientra nell'ordinamento italiano anche quello per cui l'atto amministrativo vada impugnato entro termini di decadenza stabiliti dalla legge e con le modalità proprie del sistema impugnatorio.
    Accanto al rimedio giurisdizionale con instaurazione del procedimento giudiziario e impugnazione dell'atto amministrativo affetto di regola da annullabilità, salva l'eccezionale ipotesi di vizio di nullità ricordata, la dottrina e la giurisprudenza si sono poste il problema se l'atto amministrativo, che viola il diritto comunitario, possa essere oggetto di riesame da parte della pubblica Amministrazione che lo ha emesso nell'esercizio del proprio potere di autotutela.
    A tale quesito, sia dottrina che giurisprudenza hanno dato una risposta positiva, ponendosi la questione se, posto che l'esercizio del potere di autotutela è espressione di potere discrezionale, in ipotesi di illegittimità comunitaria dell'atto il principio di prevalenza del diritto comunitario su quello interno e di effettività imponessero un esercizio vincolato di tale potere.
    Sono state in proposito elaborate due distinte teorie circa i presupposti e le modalità di esercizio di tale autotutela, una prima per cui di fronte ad un atto anticomunitario i presupposti di esercizio di tale potere sarebbero diversi rispetto a quelli stabiliti dal legislatore per l'ipotesi di violazione di una norma interna.
    Secondo altra tesi, invece, il regime di autotutela amministrativa non varierebbe nei suoi principi e modalità di esercizio a seconda che l'atto violi una norma nazionale o comunitaria.
    Nel sistema italiano il potere di autotutela è caratterizzato da discrezionalità e non obbligatorietà, come anche confermato dal disposto dell'art. 21 nonies legge n. 241/1990, laddove il legislatore ha chiaramente utilizzato la locuzione “può” in tema di annullamento d'ufficio, prevedendolo come possibile e non obbligatorio, subordinandolo alla necessaria preventiva valutazione dell'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione del vizio ed al ripristino della legalità con ponderazione degli interessi in gioco per destinatari dell'atto e suoi controinteressati potenzialmente coinvolti nella sua caducazione.
    A fronte di una illegittimità dell'atto di origine comunitaria, parte della dottrina ha ritenuto che l'annullamento o il riesame in genere in autotutela fossero non più discrezionali, ma atti obbligati da parte della Pubblica Amministrazione e ciò in adempimento dell'obbligo derivante dall'art. 10 del Trattato dell'Unione Europea di collaborazione. Secondo una parte della dottrina, poi, in ipotesi di vizio dell'atto per violazione del diritto comunitario, comunque, anche a non volere considerare in sé obbligatorio l'esercizio del potere in autotutela, lo stesso sarebbe comunque vincolato negli esiti, dovendosi ritenere sempre preminente l'interesse pubblico all'annullamento.
    Altra parte della dottrina, seguita anche dalla giurisprudenza amministrativa, ha escluso, invece, che la violazione del diritto comunitario comporti lo snaturamento del carattere discrezionale proprio dell'esercizio del potere di autotutela, con ciò permanendo la regola per cui dall'accertamento della illegittimità comunitaria dell'atto non discende automaticamente l'obbligo di annullamento. Secondo tale tesi, la mera illegittimità comunitaria non sarebbe poi neppure condizione di per sé sola sufficiente per annullare l'atto, essendo comunque necessario che la Pubblica Amministrazione dia conto dell'interesse pubblico concreto e preminente alla rimozione dell'atto rispetto agli interessi privati in gioco, pena la violazione del principio di affidamento e di certezza dei diritti.
    Anche la Corte di Giustizia ha escluso che dalla violazione del diritto comunitario da parte dell'atto amministrativo discenda un obbligo per la Pubblica Amministrazione di rimozione dell'atto illegittimo che trasformi il potere di autotutela da discrezionale in vincolato.
    Pertanto, alla luce dell'orientamento seguito anche di recente dalla giurisprudenza amministrativa, l'atto amministrativo anticomunitario potrà essere rimosso in autotutela secondo i presupposti di cui all'art. 21 nonies legge n. 241/1990, non dovendosi considerare come doveroso e vincolato l'annullamento. L'unica differenza rispetto al vizio per violazione del diritto interno sarà nella doverosità dell'avvio del procedimento di riesame, restando, comunque, discrezionale l'esito nel rispetto del principio di certezza e di affidamento delle posizioni giuridiche degli interessati e nella garanzia del rispetto del loro diritto al contraddittorio nel procedimento di riesame.
     
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