Corte Costituzionale sui requisiti d'accesso

non più necessaria l'iscrizione all'albo

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  1. Nimrod1
     
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    CITAZIONE (Sarevok @ 17/10/2010, 12:02)
    CITAZIONE (Nimrod1 @ 16/10/2010, 18:17)
    Siccome, caro Sarevok, mi sono accorto di avere omesso di rispondere al primo dei tuoi interrogativi, posso dirti che:

    per tutti i ricorrenti ammessi con riserva al concorso, la sentenza emananda del TAR è stata già eseguita dato che hanno ottenuto di partecipare. La PA non deve fare alcunchè. Il giudizio di incostituzionalità era necessario solo per legittimare ex post la loro avvenuta partecipazione. Null'altro.

    per coloro che, invece, non hanno partecipato con riserva non avendo domandato la tutela cautelare (ma abbiamo già detto che non c'è alcun caso) ma solo chiesto l'accoglimento del merito, c'è da dire che chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato.
    E' chiaro che, nei loro confronti, il giudicato è ineseguibile dato che il concorso 500 è chiuso. Niente prove scritte nè orali. Potranno solo chiedere, magari in sede di ottemperanza, il danno da ineseguibilità del giudicato sub specie di danno da perdita di chances che, a mio sommesso avviso è comunque da denegare palesemente ex art. 1227 comma II c.c., dato che, se avessero usato un minimo di diligenza nonchè di buona fede, non l'avrebbero patito.
    Come già detto, è chiaro che se c'è anche un solo ricorrente che versa in questa condizione, il TAR Lazio dovrà necessariamente accogliere nel merito, non potendo dichiarare il SDI.

    Quando 2 anni fa discutemmo nel forum del problema di incostituzionalità, ricordo che fosti l'unico a convenire circa il fatto che l'annullamento in parte qua del bando di concorso ha effetti solo inter partes e non già erga omnes.
    Oggi lo si è visto. ;)

    Non sapevo che ci fossero state le ammissioni con riserva. Chi è stato ammesso in forza di ordinanza cautelare ed è stato poi bocciato ormai non potrà giovarsi della pronuncia di incostituzionalità, a meno che non impugni anche la bocciatura (i pazzi ci sono).
    Non credo che esista un escluso che abbia fatto ricorso senza istanza cautelare, ma inove mai esistesse, allorché sarà accolto il suo ricorso, credo che abbia tutto il diritto, in forza dell'effetto conformativo del giudicato, a partecipare al concorso, svolgendo le prove scritte.
    Il fatto che il concorso allo stato sia concluso non può precludere il suo giusto diritto a parteciparvi
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    Né ritengo che egli potrebbe chiedere il risarcimento del danno per perdita di chances, visto che l'accoglimento del ricorso lascia integra di per sé la possibilità di partecipare e vincere e che quindi non vi è alcuna chance persa.

    su questo dissento del tutto. Non ci potrebbe mai essere una organizzazione concorsuale ad hoc, perchè gli interessi pubblici non possono certo esser postergati rispetto ad un dormiens che, pur avendo avuto a diposizione la tutela giurisdizionale per salvaguardare del tutto i suoi interessi (leggasi tutela cautelare), ha rifiutato di azionarla per colpa o (presumibilmente) dolo.
    Puoi stare certo che, se agisse in ottemperanza per ottenere la fissazione di prove scritte ad hoc, il ricorso verrebbe bocciato. Garantito al limone. Un saggio avvocato proporrebbe un bel 2043, appellandosi alla clemenza di Palazzo Spada, affinchè dimentichi che non è risarcibile il danno che il creditore avrebbe evitato se si fosse comportato con l'ordinaria diligenza.
     
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  2. Luke79.79
     
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    Come al solito..concordo in pieno!
     
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  3. Sarevok
     
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    CITAZIONE (Nimrod1 @ 17/10/2010, 16:45)
    CITAZIONE (Sarevok @ 17/10/2010, 12:02)
    Non sapevo che ci fossero state le ammissioni con riserva. Chi è stato ammesso in forza di ordinanza cautelare ed è stato poi bocciato ormai non potrà giovarsi della pronuncia di incostituzionalità, a meno che non impugni anche la bocciatura (i pazzi ci sono).
    Non credo che esista un escluso che abbia fatto ricorso senza istanza cautelare, ma inove mai esistesse, allorché sarà accolto il suo ricorso, credo che abbia tutto il diritto, in forza dell'effetto conformativo del giudicato, a partecipare al concorso, svolgendo le prove scritte.
    Il fatto che il concorso allo stato sia concluso non può precludere il suo giusto diritto a parteciparvi
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    Né ritengo che egli potrebbe chiedere il risarcimento del danno per perdita di chances, visto che l'accoglimento del ricorso lascia integra di per sé la possibilità di partecipare e vincere e che quindi non vi è alcuna chance persa.

    su questo dissento del tutto. Non ci potrebbe mai essere una organizzazione concorsuale ad hoc, perchè gli interessi pubblici non possono certo esser postergati rispetto ad un dormiens che, pur avendo avuto a diposizione la tutela giurisdizionale per salvaguardare del tutto i suoi interessi (leggasi tutela cautelare), ha rifiutato di azionarla per colpa o (presumibilmente) dolo.
    Puoi stare certo che, se agisse in ottemperanza per ottenere la fissazione di prove scritte ad hoc, il ricorso verrebbe bocciato. Garantito al limone. Un saggio avvocato proporrebbe un bel 2043, appellandosi alla clemenza di Palazzo Spada, affinchè dimentichi che non è risarcibile il danno che il creditore avrebbe evitato se si fosse comportato con l'ordinaria diligenza.

    Domanda: ricorso accolto. Come deve comportarsi l'amministrazione nell'eseguire il giudicato, soprattutto se c'è un ottemperanza? Fa finta di nulla? Perché è questo quello che dici.
    Oppure, fammi capire, dovrebbe emanare un bel provvedimento in cui si dice: "Eh caro mio, avevi la tutela cautelare, non l'hai utilizzata, ora sono caxxi tuoi, perché c'è l'interesse pubblico che non può essere postergato (un bell'esempio di burocratese inutile, tra l'altro)"; in sostanza, avevi perfettamente ragione, avevi tutto il diritto a partecipare ma mo' lo prendi in saccoccia (perché questa è la soluzione che postuli).
    Evviva l'effettività della tutela giurisdizionale. E pensi pure che il GA accoglierebbe una soluzione simile!
     
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  4. Luke79.79
     
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    E secondo te cosa si dovrebbe fare?..quale sarebbe la soluzione giuridicamente sostenibile?
     
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  5. Sarevok
     
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    CITAZIONE (Luke79.79 @ 17/10/2010, 20:00)
    E secondo te cosa si dovrebbe fare?..quale sarebbe la soluzione giuridicamente sostenibile?

    Non nego che il problema è complesso, ma il 2043 c.c. non mi sembra giuridicamente sostenibile.
    La tutela risarcitoria deve essere richiesta eventualmente dal ricorrente vincitore in sede di ottemperanza.
    Se lui la chiede, vedo un problema insormontabile.
    Al di là del fatto che potrebbe essergli in effetti eccepito il 1227 c.c. per la mancata attivazione della tutela cautelare, non credo (al di là di quanto pensano molte anime belle) che unilateralmente il ricorrente possa rinunciare al diritto a vedere eseguita la sentenza a favore del risarcimento del danno, imponendo così una prestazione diversa all'Amministrazione rispetto a quella scaturente dalla sentenza.
    Qualche furbo dirà: eeehhh, ma nell'espropriazione succede, il popritario ricorrente che ha ottenuto l'annullamento degli atti della procedura ablatoria può rinunciare alla proprietà chiedendo il risarcimento del danno invece della rtrocessione del fondo. Seee buonanotte, è come paragona una cureggia a Chanel n. 5 (devo spiegare il perché? non lo faccio per non tediare).
    E poi, dove sta il danno? se si parla del danno da ritardo, insorto tra il provvedimento impugnato e l'esecuzione della sentenza favorevole, ok, nulla quaestio. Ma altrimenti che altre voci di danno ci sono? Qualcuno abbaia: la perdita di chance. Ma se l'esecuzione della sentenza ti permette di fruire in concreto della chance, dove diavolo sta il danno?
    Ma soprattutto: se lui non chiede il risarcimento, pretendendo la semplice ottemperanza alla pronuncia?
    La PA non può tirare in ballo l'interesse pubblico, non c'è alcuna comparazione o attività discrezionale da porre in essere, solo la doverosa esecuzione di una sentenza con i suoi effetti. Punto. Non mi sembra che vi sia né un'impossibilità materiale, né giuridica ad eseguire il giudicato (solo in tal caso potrebbe parlarsi di risarcimento come misura equivalente per ristorare la perdita di un bene della vita che non può più essere ottenuto).
    Ergo, l'unica doluzione mi pare quella che il ricorrente abbia diritto ad eseguire le prove.
     
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  6. Luke79.79
     
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    Quindi sostieni che sidovrebbero fare delle prove scritte solo per i ricorrenti? O anche per gli altri non iscritti all'albo non ricorrenti?
     
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  7. Sarevok
     
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    CITAZIONE (Luke79.79 @ 17/10/2010, 21:35)
    Quindi sostieni che sidovrebbero fare delle prove scritte solo per i ricorrenti? O anche per gli altri non iscritti all'albo non ricorrenti?

    sì, ovviamente solo per coloro che vantano una pronuncia favorevole, per gli altri nisba, hanno perso il treno.

    CITAZIONE (Sarevok @ 17/10/2010, 21:42)
    CITAZIONE (Luke79.79 @ 17/10/2010, 21:35)
    Quindi sostieni che sidovrebbero fare delle prove scritte solo per i ricorrenti? O anche per gli altri non iscritti all'albo non ricorrenti?

    sì, ovviamente solo per coloro che vantano una pronuncia favorevole, per gli altri nisba, hanno perso il treno.

    Caro Luke, mi correggo perché, melius re perpensa, ho notato che si potrebbe eccepire una cosa al mio ragionamento (un qualcosa che però non ha niente a che vedere con la predominanza dell'interesse pubblico). Precedentemente ho detto che non sussiste un'impossibilità giuridica ad eseguire il giudicato.
    Credo di aver detto una cosa molto contestabile.
    Mi spiego.
    Se il ricorrente vincitore deve fare le prove, che titoli di elaborati gli si danno? non gli si può dare quelli già dati, perché già li conosce; non possiamo dargli titoli nuovi e diversi rispetto a quelli già dati perché sarebbe violata la par condicio tra candidati. non ci sono terze possibilità.
    Ergo probabilmente l'impossibilità giuridica sussiste davvero e quindi, forse, in ultima analisi egli ha diritto solo al risarcimento del danno per equivalente.
     
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  8. arcobaleno83
     
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    CITAZIONE (perasperaadastra @ 16/10/2010, 14:54)
    SENTENZA N. 296

    ANNO 2010



    REPUBBLICA ITALIANA
    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
    LA CORTE COSTITUZIONALE

    composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
    ha pronunciato la seguente
    SENTENZA

    nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150», come sostituito dall’art. 1, comma 3, lettera b), della legge 30 luglio 2007, n. 111 (Modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, nel procedimento vertente tra T. E. ed altri e il Ministero della Giustizia con ordinanza dell’11 novembre 2008, iscritta al n. 20 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2009.
    Visto l’atto di costituzione di M. M.;
    udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;
    udito l’avvocato Carmelo Giurdanella per M. M.

    Ritenuto in fatto

    1.— Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 51 e 104, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150», come sostituito dall’articolo 1, comma 3, lettera b), della legge 30 luglio 2007, n. 111 (Modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario).
    1.1.— Il remittente premette, in punto di fatto, di essere investito della domanda di annullamento, previa sospensione, del bando di concorso per esami a 500 posti di magistrato ordinario, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, IV serie speciale, n. 23, del 21 marzo 2008. Deduce, inoltre, che l’articolo 2, lettera g), punto 6, del bando individua, quale requisito di ammissione al concorso, l’iscrizione del candidato all’albo degli avvocati.
    Il giudice a quo ritiene che tale prescrizione realizzi una «ingiusta discriminazione» nei confronti di quei candidati che – come le ricorrenti nel giudizio principale – risultino aver conseguito l’abilitazione allo svolgimento della professione forense, ma che non vogliono o non possono iscriversi nel suddetto albo.
    Ritenuta la citata previsione del bando una «pedissequa riproduzione» dell’art. 2, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 160 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 3, lettera b), della legge n. 111 del 2007, il TAR del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale di tale norma, disponendo nel contempo l’ammissione delle ricorrenti, con riserva, al concorso, in attesa di «pronunzia definitiva sull’istanza cautelare», oltre che «della decisione di merito».
    1.2.— Tanto premesso, il giudice a quo osserva che il sistema configurato dal d.lgs. n. 160 del 2006, pur a seguito delle modifiche operate dalla legge n. 111 del 2007, ha mantenuto il suo impianto di fondo, «ed in particolare l’opzione in favore del concorso di secondo grado, riservato quindi a soggetti aventi requisiti culturali e/o professionali specifici».
    Rileva, inoltre, che tale opzione «non costituisce un’assoluta novità, bensì l’approdo di un travagliato progetto di riforma», alle cui origini si pone l’articolo 17, comma 113, della legge 5 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo). Tale norma delegava il Governo ad emanare una nuova disciplina del concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria, sulla base dei seguenti princìpi e criteri direttivi: «semplificazione delle modalità di svolgimento del concorso e introduzione graduale, come condizione per l’ammissione al concorso, dell’obbligo di conseguire un diploma biennale esclusivamente presso scuole di specializzazione istituite nelle università, sedi delle facoltà di giurisprudenza».
    In attuazione della delega – prosegue il remittente, nel ricostruire analiticamente l’evoluzione normativa intervenuta in materia – venne emanato il decreto legislativo 17 novembre 1997, n. 398, recante «Modifica alla disciplina del concorso per uditore giudiziario e norme sulle scuole di specializzazione per le professioni legali, a norma dell’articolo 17, commi 113 e 114, della legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo)». In particolare, ai sensi dell’art. 6 di tale decreto legislativo (che ebbe a sostituire il testo dell’art. 124 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, recante «Ordinamento giudiziario»), si scelse di condizionare l’ammissione al concorso – relativamente agli iscritti al corso di laurea in giurisprudenza, a decorrere dall’anno accademico 1998/1999 – al possesso del diploma di specializzazione per le professioni legali, stabilendosi soltanto in via residuale la possibilità di ammissione dei candidati muniti della sola laurea in giurisprudenza. Infatti, unicamente nell’ipotesi in cui le domande di partecipazione al concorso presentate dai candidati fossero risultate «inferiori a cinque volte il numero dei posti per i quali il concorso è bandito», era previsto che fossero ammessi – previo, peraltro, superamento della prova preliminare ed in misura pari al numero necessario per raggiungere il rapporto anzidetto – «anche i candidati in possesso della sola laurea in giurisprudenza».
    Successivamente, tuttavia, la citata disposizione – rammenta il TAR remittente – venne modificata, optando il legislatore per la eliminazione della prova preliminare, in forza di quanto previsto dall’articolo 9, comma 9, della legge 13 febbraio 2001, n. 48 (Aumento del ruolo organico e disciplina dell’accesso in magistratura).
    Su questo sistema si è innestato, innovandolo profondamente, il già citato d.lgs. n. 160 del 2006, come modificato dalla successiva legge n. 111 del 2007, la cui disciplina si caratterizza sia per il venir meno della «preferenza accordata, quale canale privilegiato di accesso alla selezione, alla frequenza delle scuole di specializzazione nelle professioni legali» (concepite, in origine, quale «quale strumento di formazione» comune «a tutti gli operatori del diritto»), sia per la riconosciuta «eterogeneità dei titoli di ammissione al concorso rispetto alla qualificazione tecnico-professionale propria del magistrato».
    In particolare, come detto, il legislatore ha individuato nell’iscrizione all’albo forense una delle condizioni per l’ammissione al concorso, disattendendo «l’originario progetto governativo» che, invece, «richiedeva l’esercizio della professione per almeno tre anni», in conformità alle indicazioni fornite dal Consiglio superiore della magistratura nel parere reso il 31 maggio 2007.
    1.3.— Orbene, della scelta compiuta dal legislatore con la norma censurata risulterebbe, secondo il remittente, «arduo comprendere la finalità», avendo l’iscrizione all’albo «valenza puramente formale». Essa nulla aggiungerebbe «alla particolare qualificazione e/o esperienza richiesta agli aspiranti magistrati ordinari che hanno conseguito l’abilitazione, atteso che l’iscrizione medesima non è subordinata all’effettivo esercizio della professione di avvocato e non postula, quindi, nemmeno l’attualità dell’esperienza dalla stessa derivante».
    L’irragionevolezza della previsione, inoltre, risulterebbe confermata dal fatto che «la peculiare formazione degli abilitati all’esercizio della professione forense è omogenea o comunque affine a quella richiesta al magistrato, laddove, viceversa, l’accesso al concorso è consentito anche ai possessori di titoli che non necessariamente denotano il possesso di peculiari competenze tecniche (come i funzionari e dirigenti amministrativi aventi l’anzianità prescritta) ovvero ancora hanno natura prettamente scientifica (come i dottori di ricerca)».
    Inoltre, essendo «il criterio ispiratore della riforma» di «stampo pluralistico», giacché il legislatore ha scelto di valorizzare pregresse esperienze «eterogenee rispetto alla professione di magistrato», l’esclusione degli abilitati alla professione forense non iscritti all’albo degli avvocati appare al remittente «irrazionale ed arbitraria».
    Significativo, al riguardo, risulterebbe – secondo il TAR del Lazio – «il raffronto con l’accesso consentito ai diplomati presso le scuole di specializzazione delle professioni legali», giacché il diploma da essi conseguito è valutato ai fini del compimento della pratica per l’accesso alla professione forense (e notarile) per il periodo di un anno (secondo quanto previsto del Decreto del Ministro della giustizia 11 dicembre 2001, n. 475, recante «Regolamento concernente la valutazione del diploma conseguito presso le scuole di specializzazione per le professioni legali ai fini della pratica forense e notarile, ai sensi dell'articolo 17, comma 114, della legge 15 maggio 1997, n. 127»).
    Orbene, la circostanza che i diplomati presso le suddette scuole di specializzazione, mentre accedono, per ciò solo, al concorso per magistrato ordinario «sono comunque tenuti a compiere un anno di tirocinio per l’ammissione all’esame di avvocato» dovrebbe essere intesa, secondo il giudice a quo, nel senso che «il superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato costituisca un quid pluris rispetto al diploma», conseguentemente, sarebbe del tutto irrazionale ammettere costoro al concorso «e che lo stesso non sia previsto per coloro che abbiano conseguito l’abilitazione alla professione di avvocato».
    Infine, osserva il TAR del Lazio, non deve essere dimenticato che «la disciplina dell’accesso in magistratura ordinaria ha incidenza diretta sui valori costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza», sanciti per l’ordine giudiziario dall’art. 104, primo comma, Cost.
    Se, dunque, il legislatore può legittimamente porsi alla ricerca di un «punto di equilibrio tra il perseguimento di una composizione pluralistica e paritaria del potere giudiziario e la creazione di un corpo magistratuale altamente qualificato e professionale», a tale obiettivo non sembra, tuttavia, rispondere la norma censurata. Essa subordina la partecipazione al concorso ad «un requisito di ordine meramente formale il quale viene in definitiva a costituire soltanto una incomprensibile, e ingiusta, barriera frapposta a soggetti i quali posseggono una formazione tecnica omogenea a quella richiesta per l’esercizio della funzione cui aspirano». A costoro, infatti, viene preclusa «la chance di pianificare un nuovo percorso di vita e professionale sol perché, allo stato, si trovano ad esercitare attività per le quali è stabilita l’incompatibilità con l’esercizio della professione di avvocato», secondo quanto previsto dall’articolo 3 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore).
    1.4.— Non conferente, invece, appare – secondo il TAR rimettente – la comparazione stabilita dalle ricorrenti, sempre in ordine alla ragionevolezza della norma censurata, con la disposizione transitoria di cui all’art. 2, comma 5, del d.lgs. n. 160 del 2006, che contempla l’accesso diretto al concorso dei laureati iscrittisi all’università prima dell’anno accademico 1998-1999.
    Nel premettere che «il legislatore gode di ampia discrezionalità nel collocare nel tempo le innovazioni normative», il TAR del Lazio osserva che la disposizione suddetta non appare «manifestamente discriminatoria o irragionevole», giacché essa tende ad un obbiettivo «di tutela delle aspettative di quanti abbiano iniziato il proprio percorso formativo, e correlativamente pianificato la propria esistenza, in epoca anteriore all’avvio del travagliato iter di riforma» della disciplina dell’accesso in magistratura.
    1.5.— In forza delle considerazioni sopra illustrate il TAR del Lazio ha, dunque, sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 51 e 104, primo comma, Cost., dell’articolo 2, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 150 del 2006, come sostituito dall’art. 1, comma 3, lettera b), della legge n. 111 del 2007, «nella parte in cui richiede, ai fini dell’ammissione al concorso per magistrato ordinario, che gli abilitati all’esercizio della professione forense siano anche iscritti al relativo albo professionale».
    2.— Con atto depositato in cancelleria il 18 febbraio 2009 è intervenuta in giudizio M. M., parte ricorrente nel giudizio a quo, insistendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale – per violazione degli artt. 3 e 51 Cost. – della norma censurata e dell’art. 2, lettera g), del bando di concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, IV serie speciale, n. 23 del 21 marzo 2008.
    2.1.— Ribadisce la parte privata che «la previsione del requisito meramente formale dell’iscrizione all’albo degli avvocati», quale condizione per l’ammissione al concorso in magistratura, «costituisce soltanto una incomprensibile e ingiusta barriera frapposta a soggetti che, pur possedendo una formazione tecnica omogenea a quella richiesta per l’esercizio delle funzioni di magistrato, esercitano attività ritenute incompatibili con la professione di avvocato».
    Ricorrerebbe, dunque, un primo vizio di costituzionalità per «palese violazione del principio di eguaglianza per disparità di trattamento», atteso che l’esclusione di soggetti comunque abilitati all’esercizio della professione forense integrerebbe una limitazione non fondata «su finalità o interessi coerenti e conformi alla Costituzione».
    Difatti, i titoli di ammissione al concorso dovrebbero essere individuati dal legislatore «nel rispetto dei canoni di ragionevolezza e coerenza», in modo da garantire l’osservanza «dei principi costituzionali di non discriminazione e di accesso ai pubblici uffici in condizioni di eguaglianza».
    Nel caso di specie, per contro, tali condizioni non risultano soddisfatte, sicché la Corte costituzionale – nel vagliare la ragionevolezza della censurata disposizione legislativa (scrutinio che implica «un apprezzamento di conformità tra la regola introdotta e la causa normativa che la deve assistere»; sentenza n. 89 del 1996) – non potrà che pervenire alla declaratoria di illegittimità della stessa.
    2.2.— Ripropone, per il resto, la parte privata le ragioni – già fatte valere nel giudizio principale – volte a contestare la legittimità dell’impugnato bando di concorso nella parte in cui detta una previsione analoga a quella di cui all’articolo 2, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 160 del 2006.

    Considerato in diritto

    1.— Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 51 e 104, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150», come sostituito dall’articolo 1, comma 3, lettera b), della legge 30 luglio 2007, n. 111 (Modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario).
    1.1.— Il remittente premette, in punto di fatto, di essere investito della domanda di annullamento, previa sospensione, del bando di concorso per esami a 500 posti di magistrato ordinario, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, IV serie speciale, n. 23, del 21 marzo 2008. Deduce, inoltre, che l’articolo 2, lettera g), punto 6, del suddetto bando individua, quale requisito di ammissione al concorso, l’iscrizione del candidato all’albo degli avvocati.
    Ad avviso del giudice a quo tale prescrizione realizzerebbe una «ingiusta discriminazione» nei confronti di quei candidati che – come le ricorrenti nel giudizio principale – risultano aver conseguito l’abilitazione allo svolgimento della professione forense, ma che non vogliono o non possono iscriversi nel suddetto albo.
    Orbene, poiché la citata previsione del bando costituisce una «pedissequa riproduzione» dell’art. 2, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 160 del 2006, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 3, lettera b), della legge n. 111 del 2007, il TAR del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale di tale norma, disponendo nel contempo l’ammissione delle ricorrenti, con riserva, al concorso, in attesa di «pronunzia definitiva sull’istanza cautelare», oltre che «della decisione di merito».
    1.2.— Secondo il TAR remittente, la censurata disposizione legislativa violerebbe gli artt. 3, 51 e 104, primo comma, Cost., giacché subordinerebbe – in modo irragionevole – la partecipazione al concorso per magistrato ordinario ad «un requisito di ordine meramente formale», introducendo «una incomprensibile, e ingiusta, barriera frapposta a soggetti» (coloro i quali abbiano conseguito l’abilitazione allo svolgimento della professione forense, senza essere però iscritti nell’albo degli avvocati) che pure «posseggono una formazione tecnica omogenea a quella richiesta per l’esercizio della funzione cui aspirano».
    L’irragionevolezza della norma sarebbe resa evidente, innanzitutto, dal fatto che la «valenza puramente formale» dell’iscrizione all’albo nulla aggiungerebbe «alla particolare qualificazione e/o esperienza richiesta agli aspiranti magistrati ordinari che hanno conseguito l’abilitazione, atteso che l’iscrizione medesima non è subordinata all’effettivo esercizio della professione di avvocato e non postula, quindi, nemmeno l’attualità dell’esperienza dalla stessa derivante».
    Il carattere irragionevole della disposizione censurata sarebbe reso evidente, altresì, dalla circostanza che «la peculiare formazione degli abilitati all’esercizio della professione forense è omogenea o comunque affine a quella richiesta al magistrato, laddove, viceversa, l’accesso al concorso è consentito anche ai possessori di titoli che non necessariamente denotano il possesso di peculiari competenze tecniche (come i funzionari e dirigenti amministrativi aventi l’anzianità prescritta) ovvero ancora hanno natura prettamente scientifica (come i dottori di ricerca)».
    Infine, l’irragionevolezza della disciplina in esame emergerebbe dal confronto con quanto previsto per i diplomati presso le Scuole di specializzazione per le professioni legali, i quali – mentre accedono al concorso per magistrato ordinario per il solo fatto di aver conseguito tale diploma – «sono comunque tenuti a compiere un anno di tirocinio per l’ammissione all’esame di avvocato». Tale circostanza, difatti, denoterebbe come «il superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato costituisca un quid pluris rispetto al diploma» di specializzazione, di talché sarebbe del tutto irrazionale ammettere al concorso per magistrato ordinario coloro che abbiano conseguito detto diploma, mentre analoga possibilità non è prevista, invece, «per coloro che abbiano conseguito l’abilitazione alla professione di avvocato».
    2.― È intervenuta una delle ricorrenti nel giudizio a quo, insistendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale – per violazione degli artt. 3 e 51 Cost. – della norma censurata, oltre che dell’art. 2, lettera g), del bando di concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, IV serie speciale, n. 23 del 21 marzo 2008.
    3.― Preliminarmente, deve chiarirsi come oggetto del presente scrutinio sia la sola disposizione di legge censurata dal TAR del Lazio, non potendo il sindacato di questa Corte estendersi ad atti diversi da quelli indicati dall’art. 134 Cost., né – in ogni caso, su sollecitazione di parte – oltre i limiti del thema decidendum individuato nell’ordinanza di rimessione.
    4.— La questione è fondata.
    4.1.— In limine, deve osservarsi, quanto alle procedure di reclutamento degli appartenenti alla magistratura ordinaria, come le scelte compiute, negli ultimi anni, dal legislatore – sulla scorta di quanto previsto dall’articolo 17, comma 113, della legge 5 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo), che delegava il Governo ad emanare una nuova disciplina del concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria – abbiano subìto una progressiva evoluzione. In effetti, come ha esattamente precisato l’ordinanza di rimessione, ad una iniziale tendenza ad attribuire rilievo preminente ai diplomi rilasciati dalle scuole di specializzazione per le professioni legali, ha fatto seguito un’opzione del tutto diversa, incentrata sulla eterogeneità dei titoli di ammissione al concorso rispetto alla qualificazione tecnico-professionale propria del magistrato.
    Ne è scaturito un percorso non sempre lineare, come conferma proprio il contenuto della disposizione ora oggetto di scrutinio, la quale si presenta viziata da palese irragionevolezza, anche in relazione a quanto emerge dai lavori preparatori che hanno condotto alla sua approvazione.
    4.2.— Sul punto occorre rammentare che il testo del disegno di legge governativo, dal quale è scaturita la legge n. 111 del 2007, individuava, tra i titoli di ammissione al concorso, non la mera iscrizione del candidato all’albo degli avvocati, ma l’effettivo esercizio della professione forense protratto da almeno tre anni.
    Come si legge, infatti, nella relazione introduttiva al disegno di legge de quo, l’esistenza di un «comune humus culturale» con gli appartenenti all’ordine giudiziario era stata «ritenuta condizione necessaria e sufficiente» per l’inclusione – tra i soggetti legittimati a partecipare alle procedure di selezione per l’ingresso nella magistratura ordinaria – anche «degli avvocati con almeno tre anni di iscrizione all’albo professionale» (A.S. 1447, in particolare, il punto 5). L’obiettivo governativo era, dunque, di dare vita ad «una tipologia di accesso strutturata in gran parte sulla falsariga di un concorso di secondo grado tendenzialmente omogenea a quella stabilita per le altre magistrature», avendo il legislatore già individuato tra i soggetti legittimati a partecipare al concorso – per l’accesso alla magistratura sia amministrativa (articolo 14, primo comma, numero 6, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, recante «Istituzione dei tribunali amministrativi regionali») che contabile (articolo 12, primo comma, lettera d, della legge 20 dicembre 1961, n. 1345, recante «Istituzione di una quarta e una quinta Sezione speciale per i giudizi su ricorsi in materia di pensioni di guerra ed altre disposizioni relative alla Corte dei conti») – anche coloro che svolgono la professione forense da un congruo lasso di tempo, stimato, in entrambi questi casi, in non meno di cinque anni.
    4.3.— Orbene, se l’intenzione di valorizzare una pregressa esperienza professionale sarebbe stata ragionevole (nonché coerente con la configurazione, quale concorso di secondo grado, di quello previsto per l’accesso alla magistratura ordinaria), non può dirsi altrettanto della scelta, in concreto compiuta dal legislatore, di limitare la partecipazione al concorso per magistrato ordinario esclusivamente agli iscritti all’albo che non abbiano riportato sanzioni disciplinari, senza, però, alcuna individuazione di un periodo minimo di iscrizione o di esercizio professionale.
    Come, infatti, osserva correttamente il remittente, la disposizione censurata attribuisce rilievo decisivo ad «un requisito di ordine meramente formale», l’iscrizione all’albo forense, del quale non si comprende l’idoneità a rivelare il possesso, in capo all’aspirante magistrato, di una maggiore attitudine all’esercizio della funzione giudiziaria rispetto a quanti risultino “solo” abilitati a svolgere la professione di avvocato.
    Devono, inoltre, essere poste in rilievo – in aggiunta al descritto profilo di intrinseca irragionevolezza – le conseguenze paradossali che scaturiscono dalla norma censurata e che costituiscono non già evenienze puramente contingenti ed accidentali, da ricollegare ad un suo funzionamento patologico, bensì effetti diretti del suo contenuto precettivo.
    La disposizione de qua, infatti, se consente la partecipazione al concorso a chi risulti appena iscritto, al limite persino da un solo giorno, nell’albo forense, la preclude, invece, a quanti abbiano conseguito l’abilitazione, si siano iscritti all’albo ed abbiano svolto la professione addirittura per alcuni anni, per poi doversi cancellare in ragione della sopravvenienza di taluna delle cause di incompatibilità di cui all’articolo 3, secondo comma, del regio decreto-legge n. 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore).
    4.4.— La manifesta irragionevolezza della norma censurata e la conseguente violazione dell’art. 3 Cost. ne comportano, dunque, l’illegittimità costituzionale, dovendo ritenersi assorbite le ulteriori censure formulate dal remittente.
    Pertanto, la norma censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede, tra i soggetti ammessi a partecipare al concorso, anche coloro che abbiano soltanto conseguito l’abilitazione all’esercizio professionale. Resta peraltro, fermo che continua ad essere preclusa l’ammissione al concorso medesimo di coloro che, iscritti all’albo forense, risultino aver riportato sanzioni disciplinari nel corso del loro esercizio professionale.
    Per Questi Motivi
    LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, recante «Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150», come sostituito dall’articolo 1, comma 3, lettera b), della legge 30 luglio 2007, n. 111 (Modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario), nella parte in cui non prevede tra i soggetti ammessi al concorso per magistrato ordinario anche coloro che abbiano conseguito soltanto l’abilitazione all’esercizio della professione forense, anche se non siano iscritti al relativo albo degli avvocati.
    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 ottobre 2010.
    F.to:
    Francesco AMIRANTE, Presidente
    Alfonso QUARANTA , Redattore
    Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
    Depositata in Cancelleria il 15 ottobre 2010.
    Il Direttore della Cancelleria
    F.to: DI PAOLA

    scusate l'ignoranza...appena laureata, ma ciò significa che basta l'abilitazione alla professione forense per partecipare e chi sta frequentando la sspl sta perdendo tempo e soldi
    grazie per le risposte
     
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  9. Sarevok
     
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    Carissima neo laureata, è esattamente come dici tu! Ma tieni presente che in linea di massima è più veloce fare i due anni della SSPL che superare l'esame di avvocato (due anni di tirocinio, esame a dicembre, correzione degli scritti dopo 6 mesi circa, poi l'orale, se poi uno sventuratamente non supera l'esame buonanotte).
    Benvenuta tra i dottori in giurisprudenza e in bocca al lupo.
     
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  10. Satanspond
     
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    User deleted


    CITAZIONE (Nicola2005 @ 16/10/2010, 19:05)
    CITAZIONE (Nimrod1 @ 16/10/2010, 18:17)
    Quando 2 anni fa discutemmo nel forum del problema di incostituzionalità, ricordo che fosti l'unico a convenire circa il fatto che l'annullamento in parte qua del bando di concorso ha effetti solo inter partes e non già erga omnes.

    Sicuro? :rolleyes: :P

    Non ero su queste frequenze radio nè ho partecipato a quella discussione che sarebbe interessante ripescare, ma tale conclusione mi sembra del tutto evidente .

    Non credo, a titolo del tutto personale che le prove siano ripetibili, anche per chi chiese la tutela cautelare . Occorerebbe un bando ad hoc . Ci si renda conto dell'assurdità .

    Credo si possa richiedere il risarcimento del danno per equivalente in sede d'ottemperanza ( ed in chiave civile extracontrattuale ), con incerte possibilità di successo .

    Questa Pronunzia, lo ripeto, secondo me è capitale per il futuro dell'accesso al Concorso .


    'Notte a tutti .

    ***



    GIOVANNI VIRGA

    Sull’ammissibilità o meno dell’azione di risarcimento
    dei danni proposta con ricorso per ottemperanza



    SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Gli orientamenti della giurisprudenza del Consiglio di Stato, delle Sez. Unite della Cassazione e del Presidente del Consiglio di Stato. 3. Critica dei vari orientamenti. L’unicità dell’azione risarcitoria e la necessità che essa sia esaminata da un singolo giudice.

    1. Premessa.

    Una delle (tante) questioni che finora non hanno trovato ancora una definitiva - e direi anche soddisfacente - soluzione nell’ambito della complessa problematica della risarcibilità della lesione di interessi legittimi riguarda l’ammissibilità o meno di una azione di risarcimento dei danni proposta per la prima volta con ricorso per l'esecuzione del giudicato.

    La soluzione della questione ha rilevanza non solo pratica (dato che, nel caso di risposta positiva al quesito, sarebbe possibile chiedere il risarcimento dei danni approfittando della "scorciatoia" del giudizio di ottemperanza, il quale ha un iter molto più celere rispetto a quello del giudizio ordinario), ma anche teorica, atteso che la soluzione del quesito presuppone ed implica non solo l’esatto inquadramento dell’azione di risarcimento dei danni nell’ambito del giudizio amministrativo, ma anche l'individuazione della funzione ormai svolta dal giudizio di ottemperanza.

    La posizione della giurisprudenza in ordine a tale questione non è stata univoca, anche se, come diremo subito, negli ultimi mesi, specie dopo la decisa presa di posizione del Pres. de Roberto nel corso dell’ultima cerimonia ufficiale di inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio di Stato, si sono succedute delle pronunce che hanno negato la possibilità di proporre l’azione di risarcimento dei danni con ricorso per esecuzione del giudicato.

    2. Gli orientamenti della giurisprudenza del Consiglio di Stato, delle Sez. Unite della Cassazione e del Presidente del Consiglio di Stato.

    Cercando di ricostruire la posizione della giurisprudenza in argomento e limitando l’esame solo alla giurisprudenza del Consiglio di Stato e delle Sezioni Unite della Cassazione, va constatato che:

    a) in un primo tempo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (v. Sez. IV, sentenza 1 febbraio 2001 n. 396, in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/private/cds/cds4_2001-396.htm e Sez. VI, sentenza 18 giugno 2002 n. 3332, ivi, pag. www.lexitalia.it/private/cds/cds6_2002-06-18-2.htm) si era orientata nel senso di ritenere inammissibile "una domanda di risarcimento del danno che, sebbene conseguente ad una pronuncia di annullamento, venga proposta per la prima volta in sede di giudizio di ottemperanza", atteso che "il giudice dell’ottemperanza in materia di risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi è chiamato ad un intervento principalmente esecutivo del contenuto del giudicato formatosi nel corso del giudizio di cognizione; più precisamente, il giudizio di ottemperanza è idoneo ad aggiungere un ulteriore contenuto cognitivo (cioè sostanziale) al giudicato già formatosi, solo entro limitati ambiti, che riguardano solo il quantum e non anche l’an del risarcimento".

    Secondo questo primigenio orientamento, infatti, il giudice dell’ottemperanza è chiamato ad un intervento prettamente esecutivo del contenuto del giudicato formatosi nel corso del giudizio di cognizione; solo entro limitati ambiti il giudizio di ottemperanza è idoneo ad aggiungere un ulteriore contenuto cognitivo (cioè sostanziale) al giudicato già formatosi, peraltro limitato al quantum e non anche all’an del risarcimento.

    Interessante è la motivazione della seconda delle due pronunce citate (si tratta della sentenza n. 3332/2002, Est. Chieppa), con la quale la Sez. VI si dà anche carico di esaminare gli argomenti ex adverso addotti con una sentenza del T.A.R. Campania Napoli (Sez. I, sentenza 4 ottobre 2001 n. 4485), con cui era stato rilevato, al fine di affermare la ammissibilità dell’azione di risarcimento del danno proposta per la prima volta con il giudizio di ottemperanza, che l’esame della domanda risarcitoria deve ritenersi subordinato al previo esame della richiesta di esecuzione, il cui accoglimento può in alcuni casi elidere del tutto l’area del danno risarcibile, con la conseguenza che solo il giudice dell’ottemperanza, con i suoi ampi poteri di cognizione estesi anche nel merito, è in grado di sciogliere l’alternativa tra la via dell’esecuzione in forma specifica – se ancora possibile – e quella risarcitoria per equivalente, nel caso in cui la prosecuzione dell’azione amministrativa abbia ormai impedito la prima strada.

    La Sez. VI, con la richiamata decisione, pur dichiarando "apprezzabili" le considerazioni svolte dal T.A.R. Campania, e pur ritenendo che tali considerazioni "possano anche condurre ad una rivalutazione della questione dell’ammissibilità di un ricorso cumulativo contenente sia la richiesta di esecuzione del giudicato sia la domanda risarcitoria a condizione che, in applicazione del principio di conservazione e di conversione degli atti processuali, sussistano i presupposti di contenuto e forma previsti per un’ordinaria azione cognitoria, quale quella risarcitoria", ha ritenuto tuttavia che il principio del doppio grado del giudizio costituisce un limite invalicabile nell’esame della prospettata questione, con la conseguenza che deve confermarsi l’inammissibilità di una domanda risarcitoria proposta per la prima volta in sede di giudizio di ottemperanza di una decisione del Consiglio di Stato e quindi in un unico grado di giudizio.

    In sostanza, anche alla stregua delle due pronunce citate, la posizione della giurisprudenza del Consiglio di Stato, fin dall’origine, non era del tutto monolitica: mentre infatti, con la prima pronuncia citata, la Sez. IV si è limitata ad affermare l’inammissibilità dell’azione di risarcimento del danno proposta per la prima volta con ricorso per ottemperanza, fondando tale statuizione sull’asserita possibilità per il giudice dell’ottemperanza di determinare solo il quantum e non anche all’an del risarcimento, con la seconda decisione citata, la Sez. VI finisce per limitare l’applicazione del principio ai soli casi in cui la domanda risarcitoria sia stata proposta per la prima volta in sede di giudizio di ottemperanza di una decisione del Consiglio di Stato e quindi in un unico grado di giudizio, fondando tale conclusione sul rispetto del principio del doppio grado del giudizio.

    Con la stessa pronuncia, tuttavia, si dichiara che la questione dell’inammissibilità va "riconsiderata" nel caso in cui la domanda di risarcimento dei danni sia stata proposta con ricorso per ottemperanza innanzi al T.A.R. e sia proposta assieme alla domanda di esecuzione in forma specifica.

    B) Dopo queste prime due pronunce, si sono invece succedute nel tempo altre due decisioni (Sez. V, sentenza 25 febbraio 2003 n. 1077, in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/private/cds/cds5_2003-02-25.htm e, più recentemente, Sez. IV, sentenza 30 gennaio 2006 n. 290, ivi, pag. www.lexitalia.it/p/61/cds4_2006-01-30.htm) che hanno invece ritenuto senz’altro ammissibile la proposizione dell’azione di risarcimento del danno con il ricorso per ottemperanza, affermando che "con la nuova formulazione dell’art. 7, comma 3, della L. TAR, la funzione del processo di ottemperanza di realizzare l’assetto di interessi delineato dalla pronuncia irrevocabile di annullamento di provvedimenti illegittimi, è stata arricchita e completata dal potere attribuito al giudice amministrativo di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno, sia attraverso la reintegrazione in forma specifica che per equivalente".

    E’ stato pertanto ritenuto che sussiste la competenza giurisdizionale del giudice dell’ottemperanza in ordine alla richiesta di restituzione-risarcimento avanzata a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che ha annullato gli atti di una procedura espropriativa, costituendo tale giudizio la naturale "prosecuzione" del precedente.

    C) A complicare ulteriormente il quadro complessivo, si è inserita la nota (e contestata) sentenza delle Sez. Unite della Cassazione (sentenza 23 gennaio 2006 n. 1207, in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/p/61/casssu_2006-01-23.htm) con la quale il massimo organo regolatore della giurisdizione ha affermato, tra l’altro, che: "la connessione legale tra tutela demolitoria e tutela risarcitoria è peraltro subordinata all’iniziativa del ricorrente, il quale resta libero di esercitare in un unico contesto entrambe le azioni passando attraverso il giudizio di ottemperanza per ottenere il risarcimento del danno, ovvero di riservarsi l’esercizio separato dell’azione risarcitoria dopo aver ottenuto l’annullamento dell’atto o del provvedimento illegittimo, proponendo la sua domanda al giudice ordinario, cui compete in via generale la cognizione sulle posizioni di diritto soggettivo".

    La sentenza in questione, come già notato in un precedente intervento ("Un dissidio (forse) componibile", in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/p/61/virgag_contrasto.htm), ammette, sia pure obiter, che l’azione risarcitoria possa essere proposta dopo l’annullamento dell’atto innanzi allo stesso giudice amministrativo mediante un ricorso per ottemperanza.

    D) L’affermata possibilità di ottenere il risarcimento del danno in sede di ottemperanza è tuttavia stata decisamente contestata in un passo della relazione sullo stato della giustizia del Pres. de Roberto (pubblicata in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/articoli/deroberto_2006.htm).

    Ha osservato testualmente il Pres. de Roberto (punto 10 della relazione) che: "sebbene tale statuizione (delle Sezioni Unite, secondo cui ai fini dell’esercizio dell’azione risarcitoria innanzi al giudice amministrativo andrebbe utilizzato il giudizio di ottemperanza: n.d.r.) possa, forse, non ritenersi vincolante per il giudice amministrativo (la Corte di cassazione, come giudice regolatore della giurisdizione può definire solo i limiti esterni della potestas decidendi delle altre giurisdizioni e non le modalità processuali con le quali il contenzioso di queste ultime viene gestito) deve rilevarsi l’assoluta inadeguatezza di un processo, come quello di ottemperanza, a porsi quale congegno chiamato a garantire la tutela dei diritti compromessi dopo l’annullamento dell’atto amministrativo".

    "Ed invero l’ottemperanza (processo rivolto a consentire la realizzazione di obblighi che hanno ottenuto in sede di cognizione la loro puntuale definizione) si presenta come istituto che per l’incompletezza del contraddittorio, la sommarietà dei mezzi istruttori utilizzabili, la gestione in un unico grado, la posizione dominante riservata al commissario ad acta (figura di difficile decifrazione: organo amministrativo o longa manus del giudice?) mal si presta a divenire la sede per l’accertamento dell’an e del quantum del danno provocato al diritto dalla esplicazione del potere".

    E) Dopo questo intervento, sono state depositate alcune decisioni (v. per tutte da ult. Sez. V, sentenza 21 giugno 2006, n. 3690, in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/p/61/cds5_2006-06-21-2.htm, con commento adesivo di O. CARPARELLI, Risarcimento del danno innanzi al G.A. a cognizione piena; v. anche C.G.A., sentenza 22 marzo 2006, n. 93, ivi, pag. www.lexitalia.it/p/61/cga_2006-03-22-2.htm) secondo le quali "è inammissibile una domanda di risarcimento del danno derivante da lesione di interessi legittimi, proposta per la prima volta in sede di giudizio di ottemperanza, atteso che il giudizio di ottemperanza è riservato alla esecuzione delle decisioni passate in giudicato, sicché, mediante il giudizio di ottemperanza può essere data esecuzione ad una condanna al risarcimento del danno che sia stata già emessa nell’apposito giudizio cognitorio".

    Con la sentenza della Sez. V da ult. citata è stato inoltre aggiunto che "nel caso di domanda di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, la pretesa dell’istante alla concentrazione nel giudizio di ottemperanza della fase cognitoria e della fase esecutiva, è ammessa soltanto per quelle ipotesi di danno che si siano verificate successivamente alla formazione del giudicato e proprio a causa del ritardo nella esecuzione della pronuncia irretrattabile" (v. nello stesso senso in prec. Sez. VI, sentenza 8 marzo 2004 n. 1080, in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/p/cds/cds6_2004-03-08-3.htm).

    Per affermare il principio si è fatto riferimento al primigenio orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo il quale non poterebbe operarsi una traslazione in sede di ottemperanza di tutto il giudizio risarcitorio, indifferentemente per l’an e per il quantum, in quanto, se così fosse – oltre a risultare violata la chiara disposizione del citato art. 35, commi 1 e 2 del D. L.vo n. 80 del 1998, come modificati dall’art. 7 della L. n. 205 del 2000 – verrebbe ad essere del tutto pretermessa la verifica di sussumibilità della situazione concreta nell’astratta fattispecie complessa di cui all’art. 2043 c. c., applicabile, mutatis mutandis, anche al danno ingiusto prodotto dalle Pubbliche amministrazioni, e che postula, tra l’altro, l’accertamento di un pregiudizio effettivo, patrimonialmente valutabile, che sia collegato da un nesso di causalità immediata e diretta con l’illegittimità del provvedimento amministrativo da cui la lesione sia derivata.

    E così si è tornati al primo orientamento, che in genere negava l’ammissibilità dell’azione di risarcimento proposta per la prima volta con ricorso per ottemperanza, facendo leva sul fatto che il giudizio per esecuzione del giudicato è limitato alla sola (e stretta) esecuzione di una sentenza passata in autorità di cosa giudicata, il che presuppone ed implica che l’an del risarcimento debba essere accertato con apposito giudizio di cognizione.

    Nessuna delle pronunce citate ha sentito la necessità di deferire la soluzione della questione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Eppure tale esigenza derivava non solo e non tanto dal fatto che, come già detto, la giurisprudenza sul punto non è mai stata del tutto univoca, ma anche dalla circostanza che il prevalente orientamento negativo della giurisprudenza sembra confliggere con una recente sentenza emessa proprio dell’Adunanza Plenaria (sentenza 29 aprile 2005, n. 2, in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/p/51/cdsadplen_2005-04-29.htm), con la quale è stato affermato che, "nel caso di annullamento in sede giurisdizionale degli atti inerenti alla procedura di espropriazione per pubblica utilità (dichiarazione di pubblica utilità e occupazione di urgenza), il proprietario dell’area può chiedere - mediante il giudizio di ottemperanza - la restituzione del bene piuttosto che il risarcimento del danno per equivalente monetario, anche se l’area è stata irreversibilmente trasformata a seguito della realizzazione dell’opera pubblica".

    Con questa sentenza, che si occupa specificamente della possibilità per il proprietario espropriato di conseguire - mediante ricorso per ottemperanza - la restituzione del bene nel caso di annullamento in s.g. degli atti inerenti alla procedura di espropriazione per pubblica utilità, è stato sia pure per incidens, affermato che, con lo stesso giudizio di ottemperanza è possibile ottenere, in alternativa alla restituzione del bene, il risarcimento del danno, così ammettendosi implicitamente che la domanda di risarcimento del danno può essere proposta, in alternativa a quella di esecuzione in forma specifica, con il ricorso per ottemperanza.

    3. Critica dei vari orientamenti. L’unicità dell’azione risarcitoria e la necessità che essa sia esaminata da un singolo giudice.

    Anche se il deferimento della questione all’Adunanza Plenaria sarebbe oltremodo opportuno, al fine di pervenire ad una soluzione univoca della questione, vanno a questo punto esaminati i vari argomenti fin qui esposti per affermare ovvero per negare la possibilità di chiedere il risarcimento del danno mediante il giudizio di ottemperanza.

    In proposito, anzi, sono individuabili, anche alla stregua di quanto in precedenza detto, tre posizioni:

    1) un primo orientamento (da considerare prevalente) tende a negare recisamente la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni con il ricorso per esecuzione del giudicato, facendo leva essenzialmente su due argomenti:

    a) la natura dello stesso giudizio di ottemperanza, nel quale il giudice è chiamato ad un intervento principalmente esecutivo del contenuto del giudicato formatosi nel corso del giudizio di cognizione; ciò presuppone ed implica che l’accertamento dell’an della domanda di risarcimento abbia trovato già definizione in apposito giudizio di cognizione proposto in via ordinaria;

    b) la struttura del giudizio di ottemperanza, il quale (come rilevato dal Pres. de Roberto) "si presenta come istituto che per l’incompletezza del contraddittorio, la sommarietà dei mezzi istruttori utilizzabili, la gestione in un unico grado, la posizione dominante riservata al commissario ad acta .... mal si presta a divenire la sede per l’accertamento dell’an e del quantum del danno provocato al diritto dalla esplicazione del potere".

    2) un diverso orientamento ritiene invece senz’altro ammissibile l’azione di risarcimento dei danno proposta per la prima volta con il ricorso per esecuzione del giudicato, facendo riferimento al principio dell’unicità dell’azione risarcitoria, la quale, se è senza dubbio proponibile in forma specifica con il ricorso per ottemperanza, deve essere del pari ritenuta ammissibile mediante lo stesso ricorso anche se la relativa domanda tenda ad ottenere un risarcimento per equivalente monetario;

    3) un terzo orientamento, per così dire intermedio, pur sembrando a tratti propendere per la ammissibilità dell’azione di risarcimento del danno proposta per la prima volta nel giudizio di ottemperanza (specie nel caso in cui la domanda di risarcimento per equivalente monetario sia stata avanzata assieme a quella di risarcimento in forma specifica), tuttavia nega tale possibilità nel caso in cui la domanda risarcitoria sia stata proposta con ricorso per esecuzione del giudicato proposto innanzi al Consiglio di Stato, dato che in tale ipotesi verrebbe violato il principio del doppio grado di giudizio.

    Tutti gli orientamenti fin qui esposti (e riassunti, in via di larga sintesi) finiscono per far leva su argomenti di indubbia rilevanza, ma che tuttavia non sembrano, ex se, risolutivi.

    Vero è infatti che il giudizio di ottemperanza si incentra sull’esecuzione di una sentenza passata in autorità di giudicato, ma, come da tempo chiarito dalla giurisprudenza del C.G.A. e del Consiglio di Stato, ciò riguarda il caso in cui il giudizio di ottemperanza abbia come oggetto una sentenza del giudice civile.

    Nel caso invece in cui il giudizio di ottemperanza abbia come oggetto una sentenza emessa dal giudice amministrativo, così come da tempo rilevato da autorevole dottrina (v. per tutti S. GIACCHETTI, Il giudizio d'ottemperanza nella giurisprudenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa, in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/articoli/giacchetti_ottemperanza.htm; id., L'esecuzione delle statuizioni giudiziali nei confronti della P.A. e la foresta di Sherwood, ivi, pag. www.lexitalia.it/articoli/giacchetti_esecuzione.htm), il giudice dell’ottemperanza non si limita a dettare misure di "stretta esecuzione", ma può anche adottare misure di vera e propria "attuazione" del giudicato, colmando gli "spazi vuoti" della sentenza di cognizione, dando luogo al noto fenomeno del "giudicato a formazione progressiva".

    In tale quadro generale, sembra ammissibile che nell’ambito delle misure non già meramente "esecutive", ma anche "attuative" che può dettare il giudice dell’ottemperanza a seguito di un giudicato di annullamento di un atto amministrativo, vi sia anche quella di condannare la P.A. al risarcimento del danno, tenuto peraltro conto del fatto che, così come chiarito dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 204 del 2004 (in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/p/corte/ccost_2004-07-06.htm) e ribadito di recente dalla stessa Corte con la sentenza n. 191 del 2006 (ivi, pag. www.lexitalia.it/p/61/ccost_2006-05-11.htm) "il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova materia attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione".

    In ogni caso, non è possibile scindere il risarcimento del danno in forma specifica da quello per equivalente monetario, dato che entrambi i tipi di risarcimento costituiscono due facce della medesima medaglia e talvolta concorrono insieme, dato che, da un lato il risarcimento in forma specifica costituisce la prima forma di risarcimento da accordare, e che, dall’altro, ove non sia possibile l’integrale risarcimento in forma specifica, può essere riconosciuto per la parte residua il risarcimento per equivalente monetario.

    Non è quindi possibile ritenere che è ammissibile un ricorso per esecuzione del giudicato con il quale si chiede il risarcimento in forma specifica, mentre non sarebbe possibile chiedere con lo stesso strumento il risarcimento per equivalente monetario.

    Del resto la stessa Adunanza Plenaria, con la citata sentenza n. 2/2005, pur affrontando una fattispecie peculiare (il risarcimento dovuto a seguito dell’annullamento degli atti della procedura di espropriazione per p.u.) ha dovuto ammettere che il privato danneggiato - proprio con lo stesso ricorso per esecuzione del giudicato - può chiedere la restituzione dell’area "anche se l’area è stata irreversibilmente trasformata a seguito della realizzazione dell’opera pubblica" ovvero, in alternativa, il risarcimento per equivalente monetario.

    L’unicità dell’azione risarcitoria (che risulta evidente nel caso in cui venga chiesta alternativamente ovvero cumulativamente il risarcimento in forma specifica e quello per equivalente monetario) induce a ritenere che, così come pacificamente è possibile chiedere mediante ricorso per ottemperanza il risarcimento in forma specifica, altrettanto dovrebbe ritenersi per il risarcimento per equivalente monetario.

    Nè vale opporre che solo per quest’ultimo sussiste l’esigenza di una pronuncia che accerti l’an, dato che tale presupposto è richiesto pure per accordare il risarcimento in forma specifica.

    Quindi, a meno di non volere affermare non è possibile chiedere mediante il giudizio di ottemperanza nè il risarcimento in forma specifica nè quello per equivalente (affermazione questa che, per quanto consta, nessuno finora è arrivato a fare), l’unicità dell’azione risarcitoria (nelle due forme previste) dovrebbe invece indurre a ritenere che, così come è ammissibile l’azione di risarcimento in forma specifica proposta con un ricorso per ottemperanza, altrettanto deve ritenersi nel caso di azione di risarcimento del danno per equivalente monetario proposta - cumulativamente od alternativamente - a quella di esecuzione in forma specifica.

    Rimangono a questo punto da esaminare gli argomenti che fanno leva sulla asserita "inadeguatezza" per così dire stutturale del giudizio di ottemperanza per negare l’ammissibilità dell’azione di risarcimento del danno per equivalente monetario proposta per la prima volta con ricorso per esecuzione del giudicato.

    Non vi è dubbio che - così come acutamente rilevato dal Pres. de Roberto, profondo conoscitore del processo amministrativo, nella già citata relazione - il giudizio di ottemperanza ha una struttura sotto alcuni profili inadeguata a fronteggiare le complesse problematiche che implica una domanda di risarcimento del danno.

    I vizi rilevati (incompletezza del contraddittorio, sommarietà dei mezzi istruttori utilizzabili, gestione in un unico grado), imporrebbero una profonda revisione in sede legislativa dell’istituto - nato, come è noto, per assicurare l’esecuzione delle sentenze del giudice civile e poi esteso, con una giurisprudenza garibaldina del Consiglio di Stato, alle sentenze del giudice amministrativo.

    Tuttavia le denunciate lacune e carenze non hanno impedito nel corso degli anni di utilizzare tale istituto, come già detto, addirittura per "colmare" le lacune del giudicato amministrativo, consentendo lo sviluppo della teorica del giudicato "a formazione progressiva".

    In ogni caso le rilevate carenze non sembrano tali da precludere l’utilizzo di tale rimedio processuale per chiedere il risarcimento del danno. In proposito va rilevato che:

    A) per quanto riguarda l’asserita incompletezza del contraddittorio, il Giudice delle leggi ha recentemente (v. la sentenza 9 dicembre 2005, n. 441, in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/p/52/ccost_2005-12-09.htm) ritenuto infondata la q.l.c dell’art. 91 del regolamento di procedura del 1907 nella parte in cui prevede la comunicazione integrale a cura della segreteria - piuttosto che la notifica - del ricorso per esecuzione del giudicato all’Amministrazione interessata.

    Con la stessa sentenza la Corte ha affermato che "il giudizio di ottemperanza non può più configurarsi come un procedimento caratterizzato da sommarietà e da un tenore non pienamente contenzioso (sicché, in passato, esso veniva definito "a contraddittorio attenuato"), essendo oggi invece pacifica la sua natura di procedimento contenzioso"; il che rende imprescindibile per esso il pieno rispetto del contraddittorio.

    Tale contraddittorio, secondo la Corte, può essere pienamente attuato mediante l’art. 91 cit., il quale prevede la comunicazione del ricorso a cura della cancelleria, atteso che, ai fini del rispetto del principio del contraddittorio, non è indispensabile la procedura di notificazione (con tutti i costi e le lentezze che tale strumento comporta), ma è necessaria e sufficiente la comunicazione dell’atto nella sua interezza; la comunicazione, quindi, al pari della notificazione, costituisce senz’altro mezzo idoneo ad assicurare quelle garanzie di conoscenza e di ufficialità necessarie per il rispetto dei princípi della difesa in giudizio ex art. 24, secondo comma, Cost. e del contraddittorio.

    B) Per quanto riguarda, invece, l’asserita sommarietà dei mezzi istruttori utilizzabili, è da rilevare che il giudizio di ottemperanza rientra nell’abito non solo della giurisdizione esclusiva ma anche in quella di merito e, pertanto, consente addirittura l’esperimento di mezzi istruttori maggiori rispetto a quelli ammissibili nell’ordinario giudizio di cognizione.

    C) Maggiore spessore ha l’argomento che fa riferimento al fatto che il giudizio di ottemperanza è previsto di norma come un giudizio in unico grado, proponibile direttamente al Consiglio di Stato nel caso di giudicato formatosi su una sentenza da quest’ultimo emessa, che ha riformato la sentenza di primo grado.

    Tale argomento ha indotto, come già rilevato, la Sez. VI (con la già citata sent. n. 3332/2002) a seguire una soluzione per così dire intermedia, che nega la possibilità di chiedere risarcimento del danno con ricorso per esecuzione del giudicato, nel caso in cui la domanda risarcitoria sia proposta per la prima volta in sede di giudizio di ottemperanza di una decisione del Consiglio di Stato e quindi in un unico grado di giudizio, dato che a ciò osterebbe "il principio del doppio grado del giudizio", il quale costituirebbe "un limite invalicabile".

    Va tuttavia osservato che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, il rispetto del doppio grado di giudizio non costituisce affatto un limite invalicabile per il legislatore. Valga per tutte il richiamo alla recente ordinanza 27 marzo 2003, n. 84 (in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/private/corte/ccost_2003-03-27-2.htm) con la quale la Corte ha affermato testualmente che "il legislatore gode di un’ampia discrezionalità nella regolamentazione dei diversi istituti processuali e nella previsione di forme differenziate di tutela con riguardo alla particolarità del rapporto dedotto in giudizio, nel rispetto del criterio della ragionevolezza; in particolare, non esiste un principio costituzionale del doppio grado della cognizione di merito, non inerendo tale istituto alla garanzia del diritto di difesa, sicché il legislatore può diversamente strutturare il giudizio di appello".

    D’altra parte, ha aggiunto la Corte, "la garanzia della difesa si realizza non tanto con la duplicità della cognizione della causa da parte di giudici di merito diversi, ma con la possibilità concreta che nel processo vengano prospettate le domande e le ragioni delle parti, che non siano legittimamente precluse".

    In ogni caso, ove il principio del doppio grado fosse ritenuto ormai insito nel principio costituzionale del giusto processo, nulla precluderebbe di sollevare questione di legittimità delle norme che individuano il giudice competente a decidere i ricorsi per esecuzione del giudicato, nella parte in cui prevedono la possibilità di adire direttamente il Consiglio di Stato nelle ipotesi in cui con il ricorso per ottemperanza sia stata avanzata anche una domanda di risarcimento del danno.

    Non si vede inoltre come si possa affermare (come ha fatto la giurisprudenza più recente), inammissibile una azione di risarcimento del danno proposta per la prima volta con ricorso per esecuzione del giudicato, ed affermare nel contempo che "nel caso di domanda di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, la pretesa dell’istante alla concentrazione nel giudizio di ottemperanza della fase cognitoria e della fase esecutiva, è ammessa soltanto per quelle ipotesi di danno che si siano verificate successivamente alla formazione del giudicato e proprio a causa del ritardo nella esecuzione della pronuncia irretrattabile".

    L’asserita necessità del doppio grado di giudizio, dovrebbe sussistere anche nell’ipotesi di danno c.d. "successivo" (e cioè realizzatosi dopo la formazione del giudicato).

    In realtà, l’unica soluzione che sembra soddisfacente (sia sotto il profilo teorico, sia sotto quello pratico) è quella di affermare l’ammissibilità dell’azione di risarcimento del danno proposta per la prima volta con il ricorso per l'esecuzione del giudicato.

    Sotto il profilo teorico, perchè tale soluzione è rispettosa dal principio dell’unicità dell’azione risarcitoria.

    Quando parliamo di risarcimento del danno, il nostro pensiero corre subito al risarcimento del danno per equivalente monetario. Ci si dimentica invece che, come da tempo rilevato in dottrina (v. per tutti P. VIRGA, La reintegrazione in forma specifica, in questa Rivista, pag. www.lexitalia.it/articoli/virgap_reintegrazione.htm) il risarcimento per equivalente monetario costituisce una forma di risarcimento che presuppone ed implica l’impossibilità di accordare il risarcimento in forma specifica.

    Quest’ultima forma di risarcimento costituisce la principale forma di ristoro patrimoniale, mentre il risarcimento per equivalente monetario costituisce una forma subordinata che può essere esclusa nel caso in cui la prima sia pienamente satisfattiva delle pretese avanzate e che, comunque, può concorrere con essa nel caso in cui il risarcimento in forma specifica non sia integralmente satisfattiva.

    Scindere il risarcimento in forma specifica da quello per equivalente monetario - affermando che la prima forma di risarcimento sarebbe senz’altro ammissibile se chiesta con ricorso per ottemperanza, mentre la seconda sarebbe inammissibile se richiesta mediante il medesimo strumento - comporterebbe un accertamento duale (il primo riservato al giudice dell’ottemperanza ed il secondo rimesso al giudice di cognizione) assurdo, che costringerebbe, in ipotesi, il privato danneggiato prima (con ricorso per ottemperanza) a verificare se sia possibile ottenere un risarcimento in forma specifica e poi, una volta acclarata tale impossibilità, a rivolgersi (con ricorso ordinario), al giudice di cognizione per ottenere il risarcimento per equivalente monetario.

    Portando il ragionamento all’estremo, il giudice di cognizione innanzi al quale è stata direttamente proposta la domanda di risarcimento per equivalente, potrebbe dichiarare il ricorso inammissibile per non avere il privato danneggiato verificato (con il ricorso per ottemperanza) la possibilità di ottenere il risarcimento in forma specifica.

    L’assurdità dell’accertamento duale è evidente nel caso in cui la richiesta delle due forme di risarcimento sia avanzata non già in via alternativa, ma in via cumulativa (si pensi ad es. ad una richiesta di risarcimento del danno chiesta a seguito di annullamento dell’aggiudicazione di una gara di appalto, in forma specifica per ciò che concerne l’assegnazione dei lavori e per equivalente monetario per il ritardo con il quale tale assegnazione avviene).

    Se il giudice dell’ottemperanza è competente per la richiesta di risarcimento in forma specifica, altrettanto deve ritenersi per la richiesta di risarcimento per equivalente monetario, dato che solo lo stesso giudice è in grado di valutare sino a che punto ed in che misura può accordare l’una piuttosto che l’altra forma di risarcimento.

    Tale soluzione, oltre che coerente sul piano dei principi, risulta anche opportuna sotto il profilo pratico.

    Com’è noto, infatti, il giudizio di ottemperanza ha un iter molto più celere del giudizio ordinario. Costringere il ricorrente vittorioso, che ha lungo atteso la fissazione dell’udienza di merito innanzi al T.A.R. e magari, poi, innanzi al Consiglio di Stato, a "rimettersi in fila" proponendo un nuovo giudizio (con conseguente attesa delle nuove udienze di merito) per ottenere il risarcimento del danno, sembra oltremodo ingiusto e defatigante.

    www.lexitalia.it/articoli/virgag_risarcimento.htm

    Edited by Satanspond - 18/10/2010, 00:54
     
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  11. Bodhidharma
     
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    CITAZIONE (Satanspond @ 18/10/2010, 00:36)
    Questa Pronunzia, lo ripeto, secondo me è capitale per il futuro dell'accesso al Concorso .

    colgo l'occasione per porre un quesito:
    secondo voi, quanto inciderà sul numero dei partecipanti?
     
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  12. arcobaleno83
     
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    CITAZIONE (Sarevok @ 17/10/2010, 23:09)
    Carissima neo laureata, è esattamente come dici tu! Ma tieni presente che in linea di massima è più veloce fare i due anni della SSPL che superare l'esame di avvocato (due anni di tirocinio, esame a dicembre, correzione degli scritti dopo 6 mesi circa, poi l'orale, se poi uno sventuratamente non supera l'esame buonanotte).
    Benvenuta tra i dottori in giurisprudenza e in bocca al lupo.

    grazie tante gentilissimo
     
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    amor fati

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    CITAZIONE (Bodhidharma @ 18/10/2010, 17:10)
    CITAZIONE (Satanspond @ 18/10/2010, 00:36)
    Questa Pronunzia, lo ripeto, secondo me è capitale per il futuro dell'accesso al Concorso .

    colgo l'occasione per porre un quesito:
    secondo voi, quanto inciderà sul numero dei partecipanti?

    Mah, probabilmente verrà inoltrata qualche domanda in più, ma secondo me si presenteranno sempre sui 3000, centinaia più, centinaia meno...
     
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  14. Satanspond
     
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    CITAZIONE (Camilla B. @ 18/10/2010, 17:27)
    CITAZIONE (Bodhidharma @ 18/10/2010, 17:10)
    colgo l'occasione per porre un quesito:
    secondo voi, quanto inciderà sul numero dei partecipanti?

    Mah, probabilmente verrà inoltrata qualche domanda in più, ma secondo me si presenteranno sempre sui 3000, centinaia più, centinaia meno...

    Secondo me qualcuno in più .. Comunque circa 3000 son sempre le consegne . :)

    P.S. Mi son dimenticato un aspetto importante .
    Come è ovvio, l'aspetto "numerico" si noterà, soprattutto, a partire dalla fine dei bandi a "regime transitorio" .. ;-)
     
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  15. Nimrod1
     
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    CITAZIONE (Sarevok @ 17/10/2010, 19:44)
    CITAZIONE (Nimrod1 @ 17/10/2010, 16:45)
    su questo dissento del tutto. Non ci potrebbe mai essere una organizzazione concorsuale ad hoc, perchè gli interessi pubblici non possono certo esser postergati rispetto ad un dormiens che, pur avendo avuto a diposizione la tutela giurisdizionale per salvaguardare del tutto i suoi interessi (leggasi tutela cautelare), ha rifiutato di azionarla per colpa o (presumibilmente) dolo.
    Puoi stare certo che, se agisse in ottemperanza per ottenere la fissazione di prove scritte ad hoc, il ricorso verrebbe bocciato. Garantito al limone. Un saggio avvocato proporrebbe un bel 2043, appellandosi alla clemenza di Palazzo Spada, affinchè dimentichi che non è risarcibile il danno che il creditore avrebbe evitato se si fosse comportato con l'ordinaria diligenza.

    Domanda: ricorso accolto. Come deve comportarsi l'amministrazione nell'eseguire il giudicato, soprattutto se c'è un ottemperanza? Fa finta di nulla? Perché è questo quello che dici.
    Oppure, fammi capire, dovrebbe emanare un bel provvedimento in cui si dice: "Eh caro mio, avevi la tutela cautelare, non l'hai utilizzata, ora sono caxxi tuoi, perché c'è l'interesse pubblico che non può essere postergato (un bell'esempio di burocratese inutile, tra l'altro)"; in sostanza, avevi perfettamente ragione, avevi tutto il diritto a partecipare ma mo' lo prendi in saccoccia (perché questa è la soluzione che postuli).
    Evviva l'effettività della tutela giurisdizionale. E pensi pure che il GA accoglierebbe una soluzione simile!

    mi rammarica molto la spocchia con cui ti porgi.
    Hai mai sentito parlare di ineseguibilità sopravvenuta del giudicato? Eppure è il caso per eccellenza in cui la giurisprudenza amministrativa ammette una domanda nuova (risarcimento) in sede di ottemperanza proprio per emendare al pregiudizio dato dalle sopravvenienze.
    Il ricorso in ottemperanza con cui il candidato chiedesse al ministero di fargli fare gli scritti ad hoc verrebbe bocciato non per le motivazioni con cui velatamente hai provato a sbeffeggiarmi, ma semplicemente perchè la sua pretesa non è attuabile in rerum natura.
    La sentenza del TAR, infatti, gli riconosce (ex post) non una partecipazione ad un generico concorso per magistrato ordinario bensì gli riconosce di partecipare al (!!) concorso a 500 posti bandito con DM 27.2.2008. Ma, nelle more, il concorso a 500 posti è bello e concluso. Quindi che partecipi?
    Dopotutto, in materia di esclusioni concorsuali, la tutela cautelare serve proprio a questo: a scongiurare che le sopravvenienze di fatto rendano un giudicato non più eseguibile.

     
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