Posts written by prelegato

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    L'unica cosa che non convince e' che, guarda caso, quelli che sanno scrivere, che sanno fare un buon tema e che dimostrano di padroneggiare la materia e la logica sono sempre un numero quasi coincidente (in difetto e mai in eccesso per aggiunta) ai posti messi a concorso. E ciò indipendentemente dal numero dei consegnanti. Guarda caso al concorso del 2011 dove i consegnanti sono stati circa 1750 gli idonei erano in percentuale più alta rispetto al concorso del 2010 dove i consegnanti furono circa 3000. Ma in entrambi casi si arrivo' a coprire il numero dei posti. Questi dati fanno pensare che al di la' dei temi e delle capacita' di ognuno i giochi siano gia' scritti nel momento in cui si conosce il numero delle consegne.
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    Intervengo ancora una volta perchè, da quello che leggo, ritengo che il senso dei miei interventi non sia stato compreso.
    Almeno fino in fondo.
    Cercherò allora di spiegarmi in altro modo e di essere più chiaro e diretto (poi prometto che non interverrò più).
    Innanzitutto quando parlo di "integrazione" intendo rifermi ad un sindacato sul contratto rimesso, ovviamente, ad una fonte esterna rispetto all'autonomia privata.
    Il sindacato opera, quindi, come limitazione all'autonomia privata.
    In secondo luogo affermo che l'integrazione (rectius sindacato) del contratto può avvenire in una molteplicità di modi: non solo, cioè, andando a colmare delle carenze presenti all'interno dello statuto negoziale, ma anche eliminando o aggiungendo clausole o sostituendo clausole nulle.
    Soffermiamoci ora sul primo contratto e cioè sul c.c.
    E' ovvio che in tale contesto l'integrazione/sindacato sul contratto avviene nel 99% dei casi attraverso le norme imperative e cioè d'imperio.
    Questo per il rapporto di parità che lega le parti e di cui abbiamo abbondamente detto.
    Ed è ovvio che, in tale contesto, l'intervento del giudice è praticamente inesistente giacchè l'intervento correttivo e quindi sindacatorio sul contratto opera solo in via cogente attraverso la norma imperativa.
    L'art. 1339, l'art. 1419, 2 comma, l'art. 1815, 2 comma rappresentano un sindacato sul contratto che si attua attraverso la norma imperativa.
    In questi casi, cioè, lo statuto negoziale è di per sè completo ma tuttavia non risponde a quel fine sociale (si pensi ad es. ai prezzi imposti o anche all'equo canone) che l'ordinamento reputa premimente e, come tale, in grado di imporsi anche ad una difforme volontà privata.
    In questi casi, cioè, il contratto non viene dichiarato nullo ma viene modificato proprio nel suo contenuto: siamo in presenza di un sindacato ordinamentale sul contratto!
    Le norme poc'anzi citate rientrano tra i casi di legge che richiama il 1374.
    In questo contesto l'equità così come la buona fede e la proporzionalità hanno rilevanza pari a zero poichè l'assunto è sempre dato dall'uguaglianza formale tra le parti: si può intervenire dall'esterno sull'autonomia privata solo con norma imperativa.
    L'ottica e la visuale cambiano nel secondo e nel terzo contratto che si basano, invece, su una disuglianza sostanziale tra le parti.
    Ed è allora proprio in questi settori che cominciano a valorizzarsi i concetti di equità, proporzionalità e buona fede fino ad allora rimasti ai margini dell'ordinamento.
    Se nel primo contratto l'intervento sindacatorio/integrativo sul contratto poteva avvenire solo con norma imperativa, negli altri contratti (che rappresentano, tra l'altro, solo una sorta di evoluzione del contratto determinata dal nuovo mercato) si ampliano i poteri sindacatori del giudice attesa la sproporzione di potere che caratterizza i paciscenti.
    La tecnica è sempre quella sindacatoria/integrativa del 1374 solo che essa avviene non più con norma imperativa ma in via d'equità che è l'altra fonte di integrazione/sindacato del contratto in assenza di norma imperativa.
    L'equità, cioè, opera, per certi versi, sullo stesso piano dell'illiceità (e quindi della norma imperativa) ma in concreto e non in astratto.
    Solo che in questi casi non si può integrare/sindacare il contratto con norma imperativa giacchè non c'è una norma imperativa da imporre ai privati, non c'è in definitiva alcuna illiceità da sanare o da sindacare.
    Ci sono comportamenti tenuti dalle parti che, atteso il loro diverso "status" e, quindi, la loro diversa forza contrattuale, QUANTUNQUE LECITI, possono determinare abusi.
    In definitiva mentre nel primo contratto si può sindacare solo l'illiceità, cioè la contrarietà a norma imperativa, attraverso un'integrazione del contratto che può avvenire o sostituendo clausole nulle o eliminando clausole (tutte fattispecie da ricondurre al 1374), nel secondo e nel terzo contratto si può intervenire, anche in assenza di illiceità, attraverso un giudizio di equità contro comportamenti che generano abusi.
    L'art. 7, 3 comma, D. Lgs 231/02 è speculare all'art. 1419, 2 comma solo che mentre in quest'ultimo l'integrazione del contratto (sub specie di sostituzione di clausola nulla) può avvenire solo con norma imperativa, nell'atro invece avviene in via equitativa.
    In entrambi casi siamo in presenza di un'integrazione del contratto da ricondurre all'art. 1374.H
    Ps lo stesso discorso vale anche per la buona fede ex art. 1375: anche quest'ultima opera un'integrazione/sindacato del giudice sui comportamenti privati che, quantunque leciti e rispettosi della legge, vadano a violare il principio solidaristico di cui all'art. 2 Cost.
    E anche il 1375 viene ricondotto nell'alveo dell'art. 1374. E sempre in quest'ottica si spiega la riducibilita' ex officio della clausola penale: il giudice, cioè, interviene in via integrativa/sindacatoria per perseguire un fine che trascende la volontà delle parti e che e' dato dal rispetto dei doveri di correttezza e buona fede.
    Ora spero che sia più chiaro il senso dei miei interventi.
    Saluti

    Edited by prelegato - 8/6/2012, 19:54
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    CITAZIONE (NonProprioBello @ 7/6/2012, 10:04) 
    CITAZIONE (prelegato @ 6/6/2012, 23:16)
    Il richiamo che l'art. 1374 fa all'equità ha, allora, proprio questa finalità e cioè un controllo da parte del giudice sul rispetto di interessi superindividuali al pari delle norme imperative, dell'ordine pubblico e del buon costume.

    Se posso permettermi di intervenire... quando sopra dicevo che inoltrarsi in certi ragionamenti, pur non del tutto estranei al tema, avrebbe potuto essere pericoloso, intendevo fare riferimento proprio ad argomentazioni del tipo di quella sopra quotata.
    Il richiamo all'equità di cui al 1374 che tu fai, giustamente lo inserisci nell'ambito di un discorso relativo alla integrazione del contratto; poi lo ricolleghi ad un discorso relativo al sindacato del giudice a tutela di interessi superindividuali; scusa se semplifico ma lo faccio per non annoiare i commissari che ci stanno leggendo :P . Ad ogni modo, il passaggio che mi sembra fondamentale nella tua impostazione della traccia è quello in cui parli di equità e proporzionalità quale endiadi, sostanzialmente volta allo stesso superiore fine. Proprio questo ritengo potrebbe essere un punto debole del ragionamento non in sé (che anzi trovo brillante e coerentemente corretto) quanto in relazione alla traccia dettata. Ritengo, contrariamente a quanto da te affermato, che si trattasse, nell'ottica della commissione,non di una (passami il termine) sorta di superfetazione o meglio come dici tu una endiadi; ritengo che i due concetti, al contrario siano stati appositamente richiamati e tenuti distinti dalla commissione: equità e proporzionalità in questo caso non andavano avulsi dal loro oggetto: "del contratto". Ecco in che senso parlavo di rischio di avventurarsi in concetto troppo al di là dell'intenzione della commissione (sempre a mio parere, ovviamente). Allora, "equità del contratto" e "proporzionalità del contratto". Da lì occorreva partire ed io da lì sono partito. Infatti delle due l'una: o la commissione, come dici tu, voleva usarli come una endiadi, oppure voleva nettamente contrapporli. Perché avrebbe dovuto? Ma perché proprio in ciò si delineano le più significaticve differenze tra le discipline che la commissione stessa richiamava: quella dei contratti dei consumatori e quella dei contratti tra imprese. Nella prima un controllo che può estendersi al massimo sulla equità, nella seconda (e penso alla subfornitura) un controllo che può giungere addirittura a lambire la proporizonalità. Cosa sono dunque tali concetti? Ebbene: equità, altro non è (nella ottica interna al contratto, cioè all'interno di quel determinato contratto) che l'equilibrio giuridico; ancora più chiaramente? L'equilibrio complessivo tra i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto in capo alle parti. In questo senso il riferimento alla penale: la clausola penale, per definizione, è una clausola che introduce uno squilibrio giuridico (attenzione, non economico): introduce una clausola che va ad alterare il rapporto complessivo diritti/obblighi interno al contratto. Insomma, il beneficiario della penale ha un diritto in più rispetto alla controparte. Ma nella penale nessun problema poiché è la legge che lo consente. Il problema è: può il giudice sindacare tale squilibrio? Anche qui nessun problema; anche qui la legge dice che può farlo. Allora l'unico problema che poteva residuare sulla penale era quello che si è posta la giurisprudenza in ordine alla possibilità ch il giudice lo faccia d'ufficio. E sono a tutti npote le conclusioni (ma soprattuttto le motivazioni) alla base della scelta giurisprudenziale.
    Andiamo alla proporzionalità; concetto identificantesi con quello di equità? Niente affatto: la proporzionalità attiene a quell'altro tipo di equilibrio che abbiamo definito economico: semplicemente, banalmente l'equilibrio tra le prestazioni. E qui è chiaro che il giudice non si è mai potuto immischiare. Ed anche nell'ambito della disciplina del secondo contratto non si può immischiare. Si veda al riguardo l'art. 34, comma 2 : la vessatorietà non attiene alla adeguatezza del corrispettivo ! Ma questo ovviamente nell'ambito della white list, ché nella altre liste il sindacato si arresta già prima, entro i limiti dettati dalle altre norme. Nei contratti tra imprese? C'è spazio per un sindacato della proporzionalità? E qui, a mio parere, si poteva fare riferiemnto alla disciplina della subfornitura e della dipendenza economica. Per esempio, quando l'art. 9, comma 2 dice che l'abuso può anche consistere nella imposizione di condizioni contrattuali gravose, sembrerebbe proprio fare riferimento anche alle condizioni per eccellenza, quelle economiche. Insomma, personalmente, magari sbagliando, ho cercato di ancorare i concetti a dati normativi... fatti non pugnette :D come dice l'assessore di zelig.

    Apprezzo la tua ricostruzione e la trova valida.
    Ritengo che sia un ottimo modo di svolgere la traccia.
    Come ho già detto la traccia poteva essere inquadrata in tanti modi ma in ogni caso il fine era sempre legato ai rimedi contro eventuali squilibri presenti all'interno del contratto.
    Entrando più nel merito delle tue riflessioni, tuttavia, non mi sento di condivedere alcune osservazioni in merito ai concetti di "proporzionalità" ed "equità".
    Anzi sotto questo aspetto trovo più condivisibile l'analisi di Arancia meccanica che lega la prima al sinallagma e la seconda all'accordo.
    In altre parole ritengo che l'equità faccia riferimento all'equilibrio economico e la proporzionalità (che, come detto, ricollego alla buona fede) faccia, invece, riferimento ai comportamenti che possono generare sproporzioni.
    In questo senso depone, ad es., l'art. 7, comma 3, D.Lgs. 231/02 che parla proprio di un giudizio di equità con cui il giudice interviene sull'accordo e quindi sull'equilibrio economico.
    Del resto la stessa riducibilità ex officio della penale riguarda sempre l'equilibrio economico perchè interviene sempre sull'accordo.
    Poi è chiaro, ed è questo il senso del mio intervento, che anche quando il giudice interviene sull'equilibrio normativo (come, ad es., avviene nelle nullità di protezione) si finisce con l'incidere anche sull'accordo perchè i contraenti si troveranno, all'esito dell'intervento giudiziale, di fronte ad un programma negoziale comunque diverso (in tutto o in parte) rispetto a quanto originariamente pattuito.
    Ed è in questo senso che si pone, ad es., il problema del raccordo tra le nullità protezionistiche e la nullità parziale.
    Se, cioè, il giudice, in nome dell'equilibrio normativo, espunge dal contratto clausole essenziali troverà applicazione il 1 comma del 1419 (con conseguente nullità integrale del contratto) oppure no?
    O ancora può, in tal caso, il giudice sostituire la clausola nulla con quella equa?
    L'art. 36 parla solo di nullità della clausola e non attribuisce al giudice tale potere, tuttavia il citato art. 7 D. Lgs 231/02 consente al giudice tale potere sostitutivo e allora quid iuris?
    Si può ritenere che tale potere possa essere riferito anche all'art.36 cod. cosumo?
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    [QUOTE=moosbrugger,6/6/2012, 21:19 ?t=61677159&st=135#entry502958122]
    l'equità del 1374 c.c. è fonte del contratto.
    in disparte il problema se l'unica fonte del contratto sia l'autonomia dei privati (bianca) o se ad essa si giustappongono altre fonti (gazzoni) l'intervento del giudice ha carattere suppletivo integrativo in questo caso.
    l'accordo non è completo. manca qualcosa.

    E' proprio su questo aspetto che dissento.
    L'accordo, cioè, può anche essere completo (vedi art. 1339, ad es.) tuttavia l'intervento normativo penetra all'interno del contratto incidendo direttamente sul CONTENUTO.
    Non incide sull'effetto e, quindi, sulle "carenze", ma direttamente sull'atto: non opera, cioè, in via suppletiva ma cogente, d'imperio.
    E' quindi una limitazione dell'autonomia privata dettata dalla necessità di perseguire un interesse superiore.
    Per questo ho parlato di rilettura del contratto in chiave costituzionale: il contratto, cioè, acquista sempre più una dimensione sociale perchè non si limita più ad una autoregolamentazione ma finisce con il perseguire interessi superindividuali.
    Ecco perchè l'art. 1374 è norma che riassume "tutti i singoli richiami alle singole norme integratrici del contratto, contenute nel c.c. o in leggi speciali, indipendentemente dalla loro natura (inderogabile, suppletiva ecc.), dalla funzione svolta (sostituzione di clausole, riempimento di lacune ecc.) nonchè dall'essere tali norme volte a disciplinare la regola sul piano della sua costruzione o della sua esecuzione" (Gazzoni, Manuale capitolo "Le fonti del regolamento contrattuale", paragrafo 3).
    Il richiamo che l'art. 1374 fa all'equità ha, allora, proprio questa finalità e cioè un controllo da parte del giudice sul rispetto di interessi superindividuali al pari delle norme imperative, dell'ordine pubblico e del buon costume.
    L'equità, cioè, opera in concreto a differenza della liceità che opera in astratto in quanto è volta ad evitare squilibri all'interno del contratto.
    Ed è ovvio che essa trovi terreno fertile proprio nei "contratti asimmetrici" in cui i diversi status soggettivi possono essere causa di squilibri e prevaricazioni.




    Tutto giusto e condivisibile il resto che hai scritto.
    Il codice del '42 ispirato ad una concezione liberale e individualistica vedeva il rapporto diritto/mercato incentrato unicamente sul contratto, in quanto strumento cardine dell'imprenditorialità.
    Il mercato dell'epoca, tuttavia, si basava su una presunzione di uguaglianza perchè non esisteva la contrattazione di massa dell'epoca moderna.
    Questo portava a porre sullo stesso piano le parti contrattuali e a legittimare ogni forma di abuso e prevaricazione.
    Poichè il contratto era un atto di esclusiva pertinenza privata ciò che questi avevano voluto era insidacabile.
    E' con il modificarsi del mercato e con la contrattazione di massa che ci si accorge che i rapporti contrattuali sono basati su una disuglianza sostanziale che genera abusi e asimmetrie.
    In quest'ottica allora la necessità del perseguimento di interessi superindividuali (quali il principio solidaristico, la tutela del contraente debole, del libero mercato) che consentono un intervento all'interno del contratto e dell'autonomia privata nel senso chiarito grazie all'art. 1374 e alla costruzione del contratto come pluralità di fonti.






    Per quanto riguarda i concetti di proporzionalità ed equità come ho già detto ritengo che essi si risolvano in un'endiadi posto che, alla fine, il risultato a cui essi conducono è sempre un controllo sull'equilibrio del contratto.
    Nello specifico la proporzionalità la riferisco al principio solidaristico e, quindi, al concetto di buona fede che deve guidare i comportamenti delle parti e che vale a mantenere lo statuto negoziale sui binari della proporzione e dell'equilibrio.
    Buona fede ex art. 1375 che, tra l'altro, è (pacificamente) considerata uno di quei casi di legge richiamati dall'art. 1374.

    Ps Cmq tranquillo non ho consegnato: so che se avessi trovato un commissario come te in sede di correzione non avrei avuto speranza!
    Saluti
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    Ciao in effetti hai ragione questa discussione va avanti dal 2010.
    In quell'occasione la commissione non mi premiò anche perchè, all'epoca, avevo un quadro meno chiaro di quello attuale.
    E' stato solo dopo quel tema di civile che ho avuto il piacere di approfondire l'argomento e di leggere il testo di Rodotà che vedevo richiamato ogni volta che si affrontava il tema dell'integrazione del contratto.
    Una precisazione: ho sempre detto che il 1419, 2 comma, non rientra nella "nullità parziale" ma nell'integrazione del contratto (e, quindi, va riferito all'art. 1374).
    Questa volta cmq mi sono ritirato (per la traccia di penale) e, quindi, intervengo per semplici rilievi critici.
    In bocca al lupo a te piuttosto e a tutti i consegnanti.
    Con tracce così generiche come quelle di quest'anno, a mio avviso, anche temi ben fatti rischiano di non passare.
    D'altra parte anche su questo forum, al di là di alcuni dati comuni, emergono, inevitabilmente, tanti modi di inquadrare la traccia.
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    CITAZIONE (moosbrugger @ 6/6/2012, 10:19) 
    Caro Prelegato, mi limito a poche osservazioni, da profano: l'art. 1374 c.c. non c entra nulla nel tema. al più poteva andare per dire come opera l'equità in generale (correttiva, integrativa, etc.etc.). se avrò tempo, e vi è interesse, in seguito ti dirò perché. equità e proporzione sono concetti distinti che andavano differenziati e definiti (ovviamente occorreva conoscere il paragrafo del Bianca o di roppo). la vendita a prezzo vile non è iniqua ma sproporzionata. trattati i tre contratti, quello liberale del codice del 1942, quello tra prof. e consumatore, e tra imprese, occorreva poi interrogarsi e ragionare sulla possibilità di trascinamento della logica solidaristica ed antiabusiva sul terreno del contratto comune. ossia vedere in che limiti è possibile sottrarre alle parti del codice del 1942 una quota del potere di dettarsi le regole dei propri affari, una volta Qrispettati i requisiti essenziali del contratto stipulato senza vizi della volontà. qui il punto di aggancio che alcuni hanno usato per legittimare il predetto trascinamento è rappresentato dalla sentenza della cassazione sulla riduzione della penale.

    Caro moos, è un piacere (e lo dico senza ironia) confrontarmi con te.
    Prendo atto delle tue osservazioni ma non le condivido.
    Non conosco il paragrafo del Bianca o del Roppo dove viene specificata la differenza tra proporzione ed equità, però, al di là di questo, ritengo che un tema non vada affrontato sulla base di un paragrafo che si ha avuto la fortuna (o la sfortuna di non) di leggere, ma su una conoscenza del sistema e su una capacità di ricostruirlo.
    E questa può essere acquisita solo attraverso uno studio complessivo della materia basata soprattutto su una serie di "testi sacri".
    Tra questi (oltre ovviamente al Bianca e al Roppo) rientra "Le fonti di integrazione del contratto", di S. Rodotà.
    Un libro certamente datato (è del 1969) ma sicuramente innovativo per l'epoca e tuttora estremamente attuale.
    Ebbene la ricostruzione del contratto come "pluralità di fonti" e, più in generale, il rapporto tra autonomia ed eteronomia o tra libertà e autorità sono state evidenziate proprio dall'Autore che per primo ha messo in luce l'importanza, a livello sistematico, dell'art. 1374.
    Quest'ultimo, cioè, racchiude tutti i casi non solo presenti nel c.c. ma anche nelle leggi speciali (e, quindi, anche nel consumatore e nel terzo contratto) in cui viene limitata l'autonomia privata per il raggiungimento di un fine superiore ripetto a quello meramente individuale.
    Ad es. il 1339, il 1419, 2 comma così come anche il 1384 sono da ricondurre all'archetipo del 1374: questa, cioè, è la norma cardine che spiega la limitazione dell'autonomia privata giustificata da interessi meritevoli (quali, ad esempio la tutela del mercato, del contraente debole ecc.).
    E' attraverso l'intrusione dell'eteronomia nel "contenuto" del contratto (fino a quel momento rimesso esclusivamente all'autonomia privata) che si ampliano i poteri sindacatori del giudice.
    D'altra parte le Sez. Unite nel 2005, con la famosa sentenza sulla riducibilità ex officio della clausola penale, hanno evidenziato proprio questo vulnus al dogma della signoria della volontà con conseguente superamento della logica di inespugnabilità della cittadella dell'autonomia contrattuale.
    L'intervento conformativo sul contratto operato dalle nullità di protezione o, ancora, l'intervento equitativo operato dall'art. 7, 3 comma, D. Lgs 231/02 sono da ricondurre sempre all'archetipo di cui all'art. 1374.
    Cioè al rapporto autonomia/eteronomia frutto della rilettura del contratto inteso come regolamento e cioè come combinazione tra fonte autonoma ed eteronoma.
    L'intervento eteronomo ha, in definitiva, una valenza "conformante" del contratto data dalla necessità di perseguire (anche) interessi superindividuali (quali, appunto, la tutela della concorrenza, del contraente debole, dell'equilibrio ecc.).
    Peraltro tale ricostruzione è fatta propria dallo stesso Gazzoni nel capitolo sulle "fonti di integrazione del contratto".
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    E' vero che la traccia chiedeva di affrontare il tema del sindacato del giudice nel contratto del consumatore e nel c.d. terzo contratto, però, a mio avviso, era necessario partire dal c.c. per spiegare come si è arrivati oggi a riconoscere un tale potere sindacatorio.
    Prima di tutto occorre precisare che i concetti di "proporzionalità" ed "equità", cui allude la traccia, sono da intendere come un'endiadi volendo, in realtà, significare un controllo eteronomo sul contratto volto a far sì che esso sia improntato ad un equilibrio che può essere pregiudicato per le asimmetrie di potere che caratterizzano i diversi status dei paciscenti.
    La traccia doveva, quindi, essere multilivello e svilupparsi in senso diacronico.
    In quest'ottica sarebbe emerso che il punto nodale era rappresentato dal rapporto tra autonomia ed eteronomia intendendosi con ciò ogni forma di ingerenza esterna sull'atto privato, in grado di limitarlo e comprimerlo.
    Norma cardine su cui strutturare il tema era l'art. 1374 c.c. che rappresenta proprio il confronto o, meglio, la dialettica che intercorre tra libertà e autorità.
    Nell'ottica del c.c., infatti, vigendo il dogma della signoria della volontà, che era la logica conseguenza della concenzione individualistica, la dottrina operava una distinzione tra "atto" ed "effetto" ritendo che l'intervento integrativo non potesse che riguardare le lacune private avendo, così, esclusivamente una valenza supplettiva.
    Si riteneva, cioè, che il contratto fosse un affare esclusivamente privato che non ammetteva interferenze o limitazioni esterne se non limitate appunto alla zona dell'effetto.
    Ciò aveva portato ad obiettivizzare i rapporti precludendo ogni forma di controllo sull'effettiva volontà dei privati: da qui il dogma della volontà con conseguente esclusione di ogni forma di controllo sulla "giustizia" del contratto.
    Le uniche ipotesi in cui ciò era permesso (ad es. la rescissione), infatti, erano connotate dal crisma della tipicità proprio a sottolinearne l'eccezionalità essendo la regola improntata esclusivamente sull'autonomia privata.
    Tuttavia la presenza di norme come l'art. 1339 e (il complementare) l'art. 1419, 2 comma, ma anche, ad es. il 1815, 2 comma (soprattutto nella sua formulazione originaria) hanno portato a superare tale concezione ricostruendo il contratto alla stregua di un vero e proprio "regolamento" comprensivo di una pluralità di fonti.
    Si è, così, superata la rigida distinzione tra contenuto (rimesso all'autonomia privata) ed effetto (rimesso alle fonti eteronome) del contratto per arrivare ad una concezione unitaria che vede il "regolamento contrattuale" come la risultanza sia dell'autonomia che dell'eteronomia.
    Ciò ha portato, quale logica conseguenza, al superamento della logica individualistica che vedeva il contratto come un affare esclusivamente privato (come tale "inespugnabile" e insidacabile) per approdare ad una concezione "sociale" che attribuisce allo statuto negoziale una dimensione superindividuale.
    Si è operata, cioè, una (ri)lettura in chiave costituzionale del contratto attraverso la valorizzazione delle norme di cui agli artt. 2-3-41 Cost.
    L'art. 1374 è così stato inteso come una norma riassuntiva e riepilogativa di tutti i casi attraverso i quali il contratto può essere "eterointegrato".
    L'eterointegrazione, allora, ha proprio la funzione di attribuire al contratto una dimensione "sociale": si opera, così, un vulnus al dogma della signoria della volontà consentendo un intervento correttivo/integrativo sullo stesso contenuto del contratto.
    In quest'ottica si spiega la riducibilità ex officio della clausola penale eccessivamente onerosa.
    In quest'ottica, peraltro, anche l'ingresso della buona fede tra le fonti di integrazione del contratto posto che essa altro non è che uno dei casi di legge (richiamati dall'art. 1374) attraverso cui il contratto può essere (etero)integrato nel senso chiarito.
    Una volta ricostruita in questi termini la storia e l'evoluzione del contratto è chiaro che è soprattutto nel contratto del consumatore e nel terzo contratto che emerge il potere sindacatorio del giudice.
    Ciò per due ordini di motivi.
    Il primo è rappresentato dal fatto che nel c.c. c'è una presunzione di uguaglianza tra le parti figlia della logica liberale e individualistica che aveva portato, da un lato, ad un'obiettivazzione dei rapporti e, dall'altro, a precludere ogni forma di controllo sull'atto di (eslcusiva) pertinenza privata.
    Nel "secondo" e, soprattutto, nel "terzo" contratto si riscontra, invece, una asimmetria di potere tra le parti foriera di abusi e prevaricazioni: in questo senso si ampliano i poteri del giudice dettati proprio da una logica di riequilibrio, di proporzione e di equità del contratto.
    Il secondo dal modificarsi del mercato e, quindi, del rapporto diritto/economia e dal conseguente rilievo sociale che oggi assume la tematica della libera concorrenza e del libero mercato.
    Le nullità di protezione son, allora, uno di quei casi di legge (richiamati dall'art. 1374) attraverso cui il contratto viene eterointegrato.
    In questo ambito, cioè, il giudice opera una "conformazione" del contratto ispirata sempre a quella logica di riequilibrio delle sproporzioni al fine di eliminare gli abusi favorendo così la tutela del mercato.
    Il contratto viene cioè "rimodellato" dall'esterno proprio per essere più "equo" e più "giusto".
    Addirittura nel terzo contratto il giudice dopo aver dichiarato nulla (per iniquità) una clausola può anche sostituirla con la clausola equa (art. 7, comma 3, D.Lgs 231/02).
    Volendo portare a livelli d'eccelenza l'elaborato si poteva, infine, evidenziare come nel c.c. l'intervento integrativo/correttivo è rimesso (salvo le eccezionali ipotesi) alla norma imperativa poichè solo quest'ultima, in quanto ricollegata ad interessi generali, è in grado di "limitare" l'autonomia privata.
    Nel secondo contratto e nel terzo, invece, si ampliano i poteri del giudice giacchè si interviene su norme dispositive abusivamente derogate dalle parti.
    In questo senso, cioè, rileva l'"abuso" e la sproporzione che può essere sindacata dal giudice.
    Trattavasi, in definitiva, di un tema sull'autonomia privata e sue limitazioni molto simile alla traccia del 2010.



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    Non sono un esperto amministrativista e, quindi, mi limito a fare solo delle considerazioni.
    Ritengo che tutti coloro che abbiano fatto ricorso abbiano chiesto anche la misura cautelare e, di conseguenza, la "sospensiva" vale solo nei confronti di chi ha impugnato.
    Peraltro qualora il g.a. dovesse accogliere il ricorso e ritenere illegittimo il bando nella parte in cui ha escluso la clausola transitoria per gli immatricolati ante '99 ritendone scaduto il termine, di tale pronuncia non potrebbero giovarsi nemmeno i futuri concorsisti che vengano a trovarsi, per i successivi bandi, nella stessa condizione dei ricorrenti attuali.
    Ciò perchè il prossimo bando considererà in ogni caso concluso il periodo transitorio posto che comunque si voglia intepretare il periodo di sospensione del "decreto Castelli", quest'ultimo sarebbe in ogni caso scaduto ad aprile 2012 (cioè anche nell'interpretazione più elastica).
    Di conseguenza tale illegittimità riguarderebbe solo l'attuale bando non potendo attenere ai prossimi.
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    Ciao purtroppo non ho una risposta al tuo quesito.
    Intervengo allora solo per fare una serie di considerazioni.
    Il concorso è stato riformato solo di recente (la c.d. riforma Castelli è del 2006) per cui credo che difficilmente, nonostante le pressioni della lega che vorrebbe un concorso di tipo regionale, sia possibile una nuova riforma almeno in tempi brevi.
    Tra l'altro, come è stato anche nel 2006, qualora il concorso e, quindi, le modalità d'accesso allo stesso, venissero (nuovamente) modificate, sarebbe cmq previsto un periodo transitorio proprio per collegare la vecchia procedura alla nuova.
    Insomma credo che se una modifica ci sarà non sarà a breve e cmq tutti quelli che potranno partecipare al prossimo concorso potranno partecipare con gli stessi requisiti anche a quelli che verranno banditi da qui a qualche anno.
    Saluti
  10. .
    Ritengo che tutte queste discussioni sul testo da adottare siano alquanto inutili.
    Bisogna, infatti, subito chiarire il punto di partenza.
    Se l'obiettivo è solo quello di superare il concorso, peraltro con un limitato tempo di studio di 5-6 mesi, allora può andar bene qualunque testo (anche e soprattutto il Torrente o il Simone, chiarissimi entrambi) integrato con delle letture di riviste.
    Ma ciò, a mio avviso, è come giocare al gratta e vinci.
    Si vince, cioè, solo se si è fortunati ed esce l'argomento che si conosce.
    Se, invece, si vuole fare una preparazione seria (che, cmq, non darà mai la certezza della vittoria ma ne aumenterà le probabilità) allora occorre partire da altri presupposti.
    In primis la conoscenza del sistema.
    Questa non si acquisisce con un libro magico o con incroci prestabiliti tra testi basati solo sul "sentito dire", ma solo con il sacrificio, la dedizione, la costanza e, soprattutto, la passione.
    Se ci sono questi "ingredienti" la preparazione sarà la naturale conseguenza dei propri sacrifici.
    In generale, ritengo, che la formazione giuridica "pretenda" uno studio approfondito innanzitutto dei principi della materia.
    Parte tutto da lì.
    Questi possono essere acquisiti in primis dai grandi classici come il Bianca o il Gazzoni.
    Ma ci sono anche testi "classici" (ad es. Rodotà, Mengoni, Sacco ecc.) che, anche se datati, sono utilissimi per le problematiche che affrontano e per la ricostruzione del sistema.
    Solo leggendo alcuni di questi testi "sacri" ci si rende conto che, in realtà, molte delle tematiche che oggi sono etichettate come innovative altro non sono che il riflesso e il retaggio di questioni ampiamente dibattute e oggetto di soluzioni e inquadramenti diversi.
    Nel momento in cui si hanno chiare le nozioni fondamentali si può scegliere un qualunque testo per vedere come i diversi autori affrontano le varie tematiche oggetto di studio e di approfondimento.
    Solo allora si sarà in grado di poter esprimere una valutazione tra i vari testi.
    Può darsi che per certi temi si preferirà un autore, per altri un altro: tutto, però, è ampiamente soggettivo e come tale, pienamente opinabile.
    In definitiva, ritengo, che una discussione sui testi possa essere utile e costruttiva solo se si ha una certa conoscenza degli stessi.
    Ma, in questo caso, la discussione sarà volta a vedere come un autore inquadra un certo tema rispetto ad altro.
    Faccio un esempio.
    Se andiamo a vedere l'art. 1333 troviamo molteplici ricostruzioni della fattispecie.
    Il Gazzoni propone una ricostruzione, Bianca un'altra e così via.
    Ora, indipendentemente dalla soluzione che si preferisce accogliere, è indubbio che la lettura dei vari manuali sul punto deve essere critica e non asettica.
    Si deve, cioè, per prima cosa, aver chiaro cosa dice il 1333 (cosa che si può cogliere da un qualunque manuale) e andare a considerare le diverse ricostruzioni cercando di capire qual è lo spirito critico che le anima.
    Si capirà allora perchè Gazzoni preferisce una soluzione, il Bianca un'altra e altri autori altre ancora.
    Questo è, a mio avviso, il metodo di studio.
    Poi è chiaro che, in vista del concorso, bisogna essere anche pratici e furbi.
    Cioè ci si concentrerà più sulle tematiche ad alto rischio concorsuale.
    Ma il fine, ritengo, deve essere quello di andarsi a sedere, in quei tre giorni di prove, non con la speranza che escano quegli argomenti inevitabilmente "selezionati" nei pochi mesi di studio, ma con la convizione di poter "astrattamente" affrontare ogni tematica.
    Così alla dettatura della traccia l'input da dare al cervello non sarà quello di andare a scovare nella propria memoria la pagina del libro X o la sentenza Y da riportare nel tema, ma, piuttosto, quello di porsi nella maniera più critica al fine di cercare di capire cosa la traccia ci sta chiedendo.
    Ed è indubbio che chi ha fatto uno studio "ragionato" è sicuramente più avvantaggiato rispetto a chi "dovendo" per forza riportare la pagina A o la sentenza Z rischierà, inevitabilmente, un totale o parziale fuori traccia.

  11. .
    La derogabilità deve essere intesa a priori e non a posteriori.
    Il senso del discorso è cioè volto a stabilire fin dove può arrivare l'autonomia privata per consentire che una fattispecie, anzichè nascere invalida, nasca già valida.
    Provo a spiegare.
    Occorre innazittutto distinguere tra norme inderogabili e norme imperative: le prime stabiliscono come una determinata fattispecie deve essere per produrre effetti giuridici, le seconde, invece, possono essere di due tipi.
    Alcune entrano direttamente nel contenuto del contratto perchè valgono a conformare l'attività privata e a indirizzarla verso fini non più (soltanto) individuali ma sociali.
    Sicchè mentre le norme inderogabili intervengono solo sulla "cornice" stabilendo ad esempio la forma che deve avere il testamento in modo da far sì che l'attività privata diventi giuridicamente rilevante (in termini, cioè, di tutela giurisdizionale), le norme imperative di questo tipo intervengono proprio nella fissazione del precetto che, in questo caso, non sarà determinato solo dall'autonomia privata.
    Si pensi ad es. all'art. 1339: esso prevede un inserimento in via cogente di determinate clausole anche in sostituzione di quelle previste dai privati.
    Per cui tale norma è imperativa e non potrà mai essere oggetto di deroga.
    In altri casi, invece, l'imperatività fissa solo il "perimetro" cioè il limite dell'autonomia privata: se essa supera tale limite si avrà nullità altrimenti validità.
    Ed è allora proprio con riferimento a tali "limiti" che possono ravvisarsi oggi dei profili di derogabilità.
    Il discorso cioè è quanto può essere estesa l'attività privata?
    Fin dove può essere portato il suo limite?
    Fin dove può essere portato il limite del divieto e quindi della nullità e conseguentemente della validità?
    Un esempio è rappresentato dal trust interno.
    L'ammissibilità di tale fattispecie è, infatti, strettamente connessa al limite di fissazione del divieto del 2740 che ammette delle deroghe "normative" al pricipio dell'universalità della responsabilità patrimoniale.
    Ammettere il trust interno significherebbe pertanto derogare al 2740 e ammettere una deroga convenzionale al principio suddetto.
    E allora il fondamento del discorso va indagato proprio sul piano della ragionevolezza/proporzionalità.
    Se c'è un interesse meritevole di tutela sarebbe irragionevole precludere a priori la possibilità per i privati di dar vita ad un trust interno.
    D'altro canto questo è lo spirito che anima anche il 2645 ter (a cui, per alcuni, potrebbe ricondursi il trust) che ammette la destinazione solo laddove essa sia meritevole.
    In tal caso, cioè, la meritevolezza non opera semplicemente sul piano della liceità ma su quello dei valori: si tratta proprio di una selezione di valori.
    In questo senso allora può ritenersi ragionavole la deroga che il 2645 ter opera al 2740 perchè, altrimenti, laddove la meritevolezza si identificasse con la liceità, si porrebbero dei dubbi di legittimità cost. del 2645 ter proprio sotto il profilo della ragionevolezza.
    In definitiva è proprio l'aspetto della ragionevolezza/proporzionalità che induce a riconsiderare, oggi, i limiti posti all'autonomia privata e a consentire delle deroghe (e cioè uno "spostamento" in avanti del limite) alla nullità.



  12. .
    Infatti, proprio nella direzione da te indicata, credo che la norma essenziale su cui ricostruire il tema fosse il 1418, primo comma.
    Dove si dice che la violazione di norma imperativa comporta la nullità del contratto, "salvo che non sia diversamente stabilito".
    In definitiva le norme non hanno lo "stampo" dell'inderogabilità, imperatività o dispositività.
    In molti casi è chiara la natura imperativa o dispositiva ma in molte altre ipotesi essa è il frutto dell'attività ermeneutica dell'interprete.
    Pertanto anche quando si riconosca natura imperativa ad una norma non è detto che la sua contrarietà darà necessariamente luogo a nullità.
    Ad es. la violazione degli obblighi informativi dell'intermediario finanziario è causa di responsabilità non di nullità nonostante faccia riferimento ad una contrarità a norma imperativa.
    Si rientra, cioè, nell'eccezione del 1418, primo comma.
    E allora solo nei casi espressamente previsti dalla legge (3 comma 1418) c'è nullità ma negli altri casi la natura imperativa della norma può determinare effetti diversi.

    Edited by prelegato - 30/11/2011, 21:03
  13. .
    Leggendo i vari post della discussione sono rimasto sorpreso nel constatare come alcuni utenti si siano scagliati contro il ricorso che gli esclusi intendono proporre, accusandoli di non essersi attivati, durante il quinquennio di "transizione", per acquisire i titoli necessari di partecipazione tra cui quello della specializzazione.
    Mi sembra, cioè, che si siano invertiti i termini del problema. La questione non è, infatti, perchè costoro non hanno preso il titolo ma perchè esiste la specializzazione?!
    Di quale "titolo" stiamo parlando?
    E' un titolo che si compra a tavolino: non richiede alcuna capacità.
    Per me è un merito non averlo conseguito, non un demerito.
    Ma d'altra parte basta fare un piccolo salto nel passato per accorgersi come le suddette scuole abbiano condizionato in negativo la storia recente di questo concorso. E ciò è evidente se si tiene conto del fatto che il legislatore, per poter "motivare" i privilegi attribuiti a questa "scuola dell'inutile", creata solo per ragioni di casta, ha finito con il creare una serie di storture e di discriminazioni assurde che hanno, di fatto, bloccato la macchina concorsuale per diversi anni.
    Ma ci siamo scordati dei tre concorsi che si dovevano bandire nei primi anni del decennio scorso?
    Quelli per i quali furono ridotte a due anzichè a tre le prove scritte?
    Ci siamo dimenticati la pioggia di ricorsi presentati dagli avvocati "costretti" a superare lo scoglio delle preselezioni a discapito non solo degli specializzati, ma anche degli "specializzandi" ammessi di diritto alle prove scritte?
    Ma non è tale scuola volta a formare futuri avvocati (oltre che magistarti o notai)?
    E allora per quale motivo gli avvocati, cioè coloro che un titolo vero l'avevano conseguito, avrebbero dovuto perdere tempo (da sottrarre, peraltro, allo studio) per sostenere i quiz e gli altri no?
    Di fatto quei tre concorsi non si svolsero con la celerità auspicata proprio perchè tali ricorsi portarono ad una riapertura dei termini con infiniti rallentamenti della procedura.
    Così quello che nell'intenzione del legislatore era un maxiconcorso diviso in tre blocchi si trasformò in un'odissea che terminò solo nel 2007.
    Del resto anche la recente pronuncia della Consulta non ha potuto non tener conto delle suddette scuole.
    Se si legge, infatti, la sentenza ci si rende conto del fatto che il giudice delle leggi ha censurato l'operato del legislatore non tanto per aver escluso i semplici abilitati ma per non aver previsto un periodo di anzianità di iscrizione all'albo. E' allora evidente che così impostato il problema, non poteva che conseguire una pronuncia di incostituzionalità della norma nel momento in cui essa operava un distinguo tra abilitati e iscritti senza periodo di anzianità. In pratica ciò dimostra l'ulteriore "perversione" create da tali scuole: il legislatore, infatti, non ha potuto (come, invece, stante le indicazioni della corte cost., avrebbe dovuto) prevedere un periodo di anzianità di iscrizione all'albo proprio per non intaccare le "sacre" scuole di specializzazione.
    Come avrebbe potuto, infatti, giustificare, quale requisito di partecipazione, il semplice titolo della specializzazione a fronte del "titolo" d'avvocato iscritto con periodo di anzianità?
    Ciò, allora, ha portato a prevedere il solo titolo dell'iscrizione all'albo senza alcuna anzianità con conseguente censura della corte cost. atteso che non vi è alcuna differenza tra un abilitato e un iscritto all'albo.
    Tali riflessioni, in definitiva, vogliono significare che non è un merito aver conseguito il titolo della specializzazione.
    Anzi tra quelli richiesti nel bando è il titolo più facile (e più inutile) da conseguire.
  14. .
    CITAZIONE (eleonora1982 @ 24/10/2011, 10:19) 
    Buongiorno a tutti... ho scopeto questo forum un pò di tempo fa e devo fare innanzitutto i complimenti perchè si apprendono informazioni, consigli, opinioni davvero interessanti per chi ha deciso di intraprendere quest'avventura... E' la prima volta che scrivo e lo faccio per chiedere, a chi sicuramente è più esperto di me, un consiglio sul manuale di civile per una preparazione il più possibile sufficiente.. Il mio dubbio è fra il Testo di Caringella-Buffoni o il Chinè-Zoppini (quello di oltre 2300 pp)... precisando che terrei il Gazzoni sempre aperto come raffronto delle varie tematiche. Grazie a chi vorrà darmi un aiuto!!! https://img.forumfree.net/style_images/1/icon1.gif

    Tra i due io personalmente opterei per il Caringella-Buffoni che oltre ad essere più corto è fatto anche meglio.
    Però io farei il contrario: studierei come il vangelo il Gazzoni e andrei a leggere qualcosa sul Caringella.
    Anzi ti consiglio di studiare solo il Gazzoni e di integrare con il Commentario di civile curato da Perlingeri (ottimo in alcune parti).
    In particolare lo studio del Gazzoni può sembrare ostico all'inizio solo perchè non si conosce la materia.
    In realtà il Prof. non fa altro che ricostruire il sistema dando conto del dibattito dottrinale che riguarda diversi settori della materia.
    Se ti vai a leggere la parte sul contratto o sulle fonti del regolamento contrattuale difficilmente riesci a seguire il senso del discorso senza una solida preparazione di base.
    Me se fai uno studio più completo e intelligente ogni cosa ti sembrerà più chiara.
    Avrai una preparazione più completa e sarai in grado di confrontarti con molte delle principali tematiche che possono essere oggetto di una prova concorsuale.
    Studiando su altri manuali, a mio avviso, non si ragiona nè si ricostruisce.
    Lo studio deve stimolare, deve darti gli strumenti del ragionamento e della conoscenza.
    Un tema in magistratura è questo: capacità e maturità giuridica.
    Saluti
  15. .
    Intervengo ancora sulla traccia per prospettare una possibile chiave di lettura. Premesso che la genericità della formulazione si presta a diverse interpretazioni (tra cui, come detto, quella di riconsiderare la portata e i limiti dell'art. 1419, 2 comma), ritengo, a posteriori, che occorresse (ri)considerare la legittimità costituzionale di alcune norme codicistiche alla stregua di un giudizio di proporzionalità/ragionevolezza anche alla luce degli interventi legislativi di settore, attuativi di direttive comunitarie. Occorreva, cioè, fare un tema "multilivello" per usare un'espressione dell'ottimo moosbrugger. Partire, cioè, dai principi che governano la disciplina codicistica per evidenziare come essi siano oggi oggetto di una rivisitazione e riconsiderazione che ha portato a una nuova dialettica dei rapporti tra diritto e mercato. Sotto questo aspetto un esempio proviene dal divieto del patto commissorio. In particolare può dubitarsi, oggi, della legittimità cost. dell'art. 2744 c.c. proprio in ragione del principio di proporzionalità sia con riferimento alla ratio del divieto sia con riguardo alla funzione della convenzione commissoria. Sotto il primo aspetto si è da sempre rinvenuto il fondamento del divieto nella necessità di tutelare un'esigenza individuale qual è quella del debitore ad evitare abusi da parte del creditore, ovvero quella del creditore al rispetto della par condicio creditorum. Ebbene già sotto questo profilo può dubitarsi della legittimità cost. della norma posto che la sanzione della nullità, volta a tutelare interessi generali, appare sproporzionata in quanto rivolta a tutelare interessi (particolari) che potrebbero essere perseguiti (peraltro solo su iniziativa della parte interessata) con rimedi più appropriati quali, ad esempio, l'annullabilità o la rescindibilità ovvero, nel caso della par condicio creditorum, con l'inefficacia relativa (azione revocatoria). Peraltro anche nel voler rinvenire la ratio del divieto nella tutela di un nuovo concetto di ordine pubblico (economico) di protezione, si finisce con il sovrapporre quello che è un rimedio "sanzionatorio-demolitorio" (la nullità codicistica) con un rimedio qualitativamente diverso qual è quello della nullità "comunitaria" protezionistica: quest'ultima, cioè, ha una funzione "conformante" del contratto in quanto volta ad eliminarne gli squilibri nell'ottica di un riequilibrio e di una funzione di giustizia che porta ad un'eterointegrazione del contratto e non già a una sua demolizione. Ma anche sotto il profilo funzionale emergono dubbi di legittimità costituzionale. A seguito del revirement dell'83 della Corte di Cass. si è infatti ritenuto che il patto commissorio integri un'alienazione a scopo di garanzia. Ciò ha portato a ritenere nulle tutte quelle operazioni negoziali a scopo di garanzia perchè integranti, appunto, una convenzione commissoria. La nullità ha così riguardato anche il contratto di garanzia e l'obbligazione garantita (es. mutuo). Tuttavia si è rilevato che, in realtà, la funzione del patto commissorio è solutoria e non già di garanzia. Con esso, infatti, non si vuole garantire il creditore ma si mira ad adempiere all'obbligazione. Il patto, cioè, assolve ad una funzione adempitiva e non di garanzia. Pertanto la sanzione della nullità appare sproporzionata e irragionevole posto che essa finisce con il travolgere anche il trasferimento della proprietà a scopo solutorio. Tale sproporzione potrebbe, allora, essere ricomposta facendo ricorso al patto marciano che consentirebbe al creditore di soddisfarsi solo fino all'ammontare del credito, giacchè l'eccedenza del ricavato della vendita del bene verrebbe corrisposto al debitore. Peraltro l'illegittimità cost. dell'art. 2744 c.c potrebbe ravvisarsi anche con riferimento agli artt. 4-6 del D.L 170/04 (attuativo della direttiva comunitaria) relativo alle garanzie finanziarie. In particolare l'art. 6 cit. prevede espressamente una deroga al divieto del patto commissorio. In questo caso, cioè, la pattuizione commissoria verrebbe ad essere trattata diversamente in quanto essa è nulla nella disciplina del codice ma valida nella disciplina speciale. Si profilererebbe, cioè, anche secondo quest'aspetto, un'illegittimità cost. dell'art. 2744 ai sensi del principio di uguaglianza/ragionevolezza posto che una situazione analoga (patto commisorio) viene trattata in modo diverso: con la nullità nell'art. 2744 e con la validità nell'altro caso.
    Altra ipotesi di "derogabilità" potrebbe essere quella dell'art. 2740 che prevede delle limitazioni al principio dell'universalità della resp. patrimoniale solo su base legale e non convenzionale.
    Sarebbero, cioè, da considerare nulle le convenzioni private con cui si deroga al principio suddetto.
    Anche qui, però, l'evoluzione del sistema (basta pensare ai numerosi interventi normativi degli ultimi anni in materia societaria che hanno portato a superare l'idea secondo cui l'art. 2740 si fondi su un rapporto regola(primo comma)-eccezione (secondo comma) e in cui, in luogo del principio dell'unicità del patrimonio del soggetto si è affermato quello della molteplicità tanto da portare ad affermare che l'art. 2740 non si fondi più su una struttura gerarchica regola-eccezione ma concorsuale in cui le due norme che lo compongno operano in posizione paritaria) porta ad interrogarsi sulla possibilità di derogare alla prescrizione legale di cui all'art. 2740 e dar vita a limitazioni di responsabilità di fonte pattizia (c.d. patrimoni destinati).
    Tipico caso il c.d. "trust domestico".
    Anche qui, cioè, i creditori potrebbero essere tutelati non più a priori (escludendo ab origine una tale convenzione) ma a posteriori (con l'azione revocatoria) andando a vedere se, in concreto, quella pattuizione sia fraudolenta e lesiva delle ragioni del credito.
    In conclusione ritengo che i "profili e i limiti di derogabilità alle prescrizioni legali in tema di nullità negoziali" fossero riferiti alla possibilità di operare una (ri)lettura delle norme configuranti ipotesi di nullità alla stregua del giudizio di proporzionalità e ragionevolezza. Ci si interogherebbe, cioè, sulla legittimità cost. di molte norme ( ad es. il 2744 c.c.) la cui nullià potrebbe essere superata alla luce del mutato contesto economico-sociale che guarda con sfavore alla nullità perchè in contrasto con i principi di libera concorrenza e di mercato libero.

    Edited by prelegato - 15/9/2011, 07:18
223 replies since 29/7/2010
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