Tracce corso 2013/2014

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  1. RaveRod80
     
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    Brevi considerazioni sulla correzione degli elaborati di amministrativo.
    Nel complesso ho visto dei buoni lavori. Bene o male tutti (chi pù o chi meno) hanno esposto i concetti chiave richiesti dalla traccia. Ho notato, però, in alcuni casi qualche criticità a livello di esposizione e punteggiatura. Periodi troppo lunghi e articolati non aiutano molto in quanto stancano il correttore e rendono meno chiari i concetti esposti (per quanto corretti). Altro aspetto che mi sento di evidenziare riguarda l’inserimento puntuale ,forse un po’ sospetto, di estremi di sentenze (in qualche caso anche di interi passi virgolettati)…il consiglio che mi sento di darvi è quello di non sprecare eccessivamente gli sforzi mnemonici per ricordare numeri e date di sentenze ma di concentrarsi sui concetti. In sede concorsuale nessuno pretende che sappiate a memoria gli estremi giurisprudenziali quindi conservate le energie per altro . Di norma per citare la giurisprudenza è sufficiente usare formule “democristiane” come “giurisprudenza recente”, “risalente”, “recessiva”, “consolidata”, “dominante” ecc..
    Quanto ai voti assegnati sono stato, forse, un po’ di manica larga. Mi sono posto il più possibile in una prospettiva obiettiva evitando derive “relativiste” tipiche, purtroppo, del nostro concorso. Ragionando in termini comparativi (più realisticamente “concorsuali”) probabilmente le non idoneità sarebbero state di più vista e considerata la presenza di alcuni temi veramente validi che avrebbero avuto l’effetto collaterale di “sminuire” lavori che ho comunque ritenuto sufficienti in una prospettiva asettica e il più possibile oggettiva. Dei temi corretti uno, purtroppo, non sono riuscito ad aprirlo per problemi di compatibilità con il mio word…spero di risolvere il problema entro il week end.
     
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    over the rainbow

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    Grazie prezioso Rod. :)

    nel we provvederò a girare i temi corretti.

    Edited by togasana - 23/11/2013, 09:38
     
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    QUAGLIA

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    Dall'isola dei bimbi sperduti. Qualcuno ha visto mt?

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    Tema migliore per la traccia di civile di Ottobre numero 1: Premessi adeguati cenni sulla tipicità dei diritti reali, tratti il candidato della multiproprietà, con particolare riferimento a cosa accada laddove uno dei proprietari non intenda rispettare il periodo di godimento concordato.

    Nell'accingersi a descrivere la multiproprietà non può prescindersi dal far cenno alle importanti implicazioni che tale istituto comporta in materia di numero chiuso e tipicità dei diritti reali.
    Invero, il diffondersi nel panorama socio-economico attuale di fattispecie quali la multiproprietà, il trust e la cessione di volumetria, ha riportato alla ribalta il problema dell'attuale vigenza di tali principi nel nostro ordinamento.
    Trattasi, infatti, di figure dalla dubbia collocazione dogmatica, caratterizzate da connotati che, per un verso, le avvicinano ai diritti reali e, per altro verso, le discostano nettamente da questi ultimi. Tali peculiarità hanno indotto taluni a considerare le fattispecie testé citate addirittura quali di "nuovi diritti reali" o "diritti reali atipici".
    Tuttavia, a contrastare siffatta impostazione sta la tradizionale affermazione che i diritti reali sono "tipici", ossia sono soltanto quelli individuati espressamente dal legislatore. Per vero, tale affermazione necessità di una precisazione: la problematica della tipicità e quella del numero chiuso dei diritti reali, sebbene fortemente connesse, sono tuttavia distinte. Il numero chiuso dei diritti reali riguarda più propriamente la fonte degli stessi, essendo in tal senso precluso ai privati di dare origine (contrattualmente) a nuove figure di diritti reali che non siano quelle individuate dalla legge; per converso, la tipicità attiene alla determinazione del contenuto dei diritti reali e, dunque, alla disciplina degli stessi.
    E' possibile pertanto affermare che i diritti reali costituiscono un "numero chiuso" e sono altresì "tipici". Essi si distinguono in proprietà e in diritti reali su cose altrui. Questi ultimi si dividono poi in diritti reali di godimento (servitù, usufrutto, uso, abitazione, superficie, enfiteusi) e diritti reali di garanzia (pegno e ipoteca).
    Tra i caratteri fortemente connotanti tali diritti, talché in tal senso si parla di "corollari della realità", si annoverano assolutezza, immediatezza ed inerenza. Di tali caratteri occorrerà certamente tener conto quando, nel proseguo della trattazione, si procederà a descrivere la controversa figura della multiproprietà.
    Si è detto infatti che i peculiari connotati di quest'ultima, come di altre figure ideate nella prassi dei rapporti economici, hanno messo in crisi i principi del numero chiuso e della tipicità dei diritti reali, cosicché si dubita della loro attuale permanenza in vigore.
    Per comprendere i motivi dell'erosione di principi che, fino a un recente passato, erano universalmente riconosciuti nel nostro ordinamento, occorre prendere le mosse dall'origine degli stessi, per poi spiegare il sorgere dell'esigenza di un loro superamento.
    Il dogma del numero chiuso ha origini romanistiche, si tratta infatti di un principio creato quando la proprietà fondiaria costituiva una delle principali fonti di ricchezza. In tale contesto si avvertì la necessità di porre al riparo tale diritto dalle eventuali limitazioni che potevano sorgere nella contrattazione tra privati.
    Dopo il codice civile del 1865, che ancora si riferiva a tali principi, è iniziato un percorso di trasformazione della proprietà che, con il codice civile del 1942, è venuta a configurarsi quale diritto soggetto ad alcuni limiti posti non solo nell'interesse pubblico ma, altresì, in funzione di interessi privati. Tale processo è poi culminato con la Costituzione Repubblicana del 1948 che ne ha esaltato la "funzione sociale".
    Superate quindi le iniziali ragioni storiche che ne hanno giustificato il sorgere, i principi in esame hanno trovato nuovo fondamento nelle esigenze di certezza e celerità nei traffici commerciali nonché nella necessità di tutela dei terzi. Questi ultimi, in particolare, devono essere posti al riparo da eventuali pesi o limitazioni ad essi opponibili, derivanti dalla creazione di diritti reali "nuovi" o "atipici".
    In particolare, a sostegno della permanenza in vigore dei principi di tipicità e di numero chiuso dei diritti reali, vengono addotti alcuni argomenti basati sul dato positivo. Tra essi, in primo luogo, il dettato dell'art. 1322 c.c.. Non esistendo una norma analoga in materia di diritti reali che consenta la creazione di nuove figure purchè "dirette a realizzare interessi meritevoli di tutela", si deduce la rigida "tipicità" degli stessi.
    L'art. 2643 c.c., contenente l'elenco tassativo degli atti sottoposti a trascrizione, consente di poi addivenire ad analoghe conclusioni, vista anche la mancanza di una clausola generale aperta di "chiusura del sistema".
    Altro argomento viene desunto dall'art. 1372 c.c. che, in materia di relatività degli effetti del contratto, non consente che diritti reali "atipici" creati dai contraenti possano avere effetto nei confronti di terzi acquirenti successivi.
    Ulteriore argomento viene tratto dagli artt. 832 c.c. e 41 e 42 Cost. Da tali norme emerge una visione della proprietà che, nel suo "naturale" modo d'essere, si presenta libera da pesi o limitazioni.
    Al di là del dato normativo, l'argomento più forte a sostegno della tipicità è rappresentato dalla ratio sottesa al principio stesso: l'esigenza di evitare ostacoli alla libera circolazione dei beni. La tipicità dei diritti reali si porrebbe allora come necessaria, in funzione di un tacito principio di ordine pubblico economico.
    Tali considerazioni non sono tuttavia ritenute decisive da quanti, per converso, considerano ormai superati i principi in esame, in funzione delle pressanti e moderne esigenze che, sempre più spesso, si manifestano nella realtà socio-economica.
    Costoro, in particolare, rilevano che l'assenza di una norma analoga all'art. 1322 c.c. in materia di diritti reali non abbia alcun rilievo. La norma citata, infatti, non farebbe alcun riferimento all'oggetto del contratto, potendo quindi, quest'ultimo, consistere sia in diritti relativi che in diritti reali e, conseguentemente, anche in diritti reali atipici.
    In riferimento alla seconda argomentazione, poi, si mette in rilievo l'errata inversione metodologica seguita nel dedurre l'inammissibilità di diritti reali atipici dall'impossibilità di trascrivere atti aventi ad oggetto questi ultimi. Ed invero, occorre prima decidere in merito all'ammissibilità dell'atipicità e poi, solo in seconda battuta, inferirne le conseguenze in materia di trascrizione. Trascrivibilità e realità sono infatti due concetti da non confondere. E' allora possibile ritenere trascrivibili quegli atti aventi ad oggetto un diritto reale atipico, qualora i suoi effetti siano assimilabili a quelli degli atti cui l'art. 2643 c.c. fa riferimento.
    Altra obiezione riguarda poi l'asserito contrasto tra diritti reali atipici e principio di relatività degli effetti del contratto. Il terzo acquisterebbe, infatti, semplicemente in funzione del contratto, perfettamente consapevole delle caratteristiche del diritto che ne è oggetto, analogamente a quanto avviene per l'acquisto di un bene gravato dal diritto di usufrutto.
    Quanto poi alla configurazione della proprietà nel suo naturale modo d'essere “esteso”, occorre porre in rilievo la necessità di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 832 c.c. Ed invero la “funzione sociale” della stessa rende possibili limitazioni imposte non solo dalla legge ma anche dall'autonomia contrattuale, sempre che si perseguano interessi meritevoli di tutela.
    L'ultima obiezione riguarda la ratio posta a sostegno del principio di tipicità: tutela dei terzi e sicurezza e celerità nella circolazione dei beni. Se in ossequio a quest'ultima pare irragionevole spingersi fino a ritenere ammissibile la creazione di nuove figure di diritti reali, non così pare potersi affermare riguardo la disciplina ed il contenuto di questi ultimi.
    L'autonomia privata può infatti spingersi fino a integrare e modificare il contenuto dei diritti reali, senza tuttavia arrivare a snaturarne gli elementi caratterizzanti. E' possibile, in altre parole, incidere sulla tipicità del diritto lasciando impregiudicati i connotati essenziali della disciplina legislativa qualora, beninteso, gli interessi perseguiti dalle parti risultino meritevoli di tutela alla luce dell'ordinamento giuridico. Non si può quindi affermare a priori l'inammissibilità di diritti caratterizzati da elementi di atipicità, dovendosi, al contrario, aver riguardo ai concreti interessi perseguiti dalle parti che, se socialmente utili, risultano meritevoli di tutela.
    Dato quindi atto del superamento del principio di tipicità nei termini testé riportati, occorre tuttavia far menzione di una tesi minoritaria che, in contrasto con la tesi ormai prevalente in dottrina e giurisprudenza, ritiene che le parti possano dare origine a “nuovi” diritti reali, seppure nei limiti dell'art. 1322 c.c., secondo comma.
    E' proprio alla luce delle considerazioni testé riportate che si comprendono le resistenze in merito all'accoglimento di una delle opzioni ricostruttive in materia di natura giuridica della multiproprietà: quella che la qualifica in termini di autonoma figura di diritto reale.
    Occorre però procedere con ordine, delineando i caratteri essenziali della fattispecie in esame per poi analizzarne la natura giuridica ed, infine, la disciplina.
    Come precedentemente affermato, la “crisi” della tipicità dei diritti reali ha proprio avuto origine dall'emergere, nel panorama economico italiano e sovranazionale, di figure in certo qual modo riconducibili ai diritti reali, ma tuttavia da questi ultimi differenti per aspetti peculiari.
    L'introduzione della figura della multiproprietà nel nostro ordinamento si deve al recepimento della direttiva comunitaria N. 47/1994. In seguito ad essa la figura in esame ha trovato collocazione normativa nel d.lgs. 427/1998, il quale ha delineato una prima disciplina poi confluita nell'attuale Codice del Consumo.
    La direttiva ha, per vero, disciplinato solo alcuni aspetti dell'istituto in esame, mirando soprattutto a approntare una base omogenea di tutela per il consumatore, a fronte dei possibili abusi da parte del contraente “forte”. In particolare, tra le varie disposizioni, essa ha fornito alcune linee direttive in materia di obblighi di informazione a favore dell'acquirente, di diritto di recesso esercitabile “ad nutum” da parte di quest'ultimo e di divieto per il venditore di riscuotere somme di denaro prima del trascorrere del termine utile per l'esercizio del recesso.
    Venendo ai caratteri essenziali della multiproprietà, essa si caratterizza per il conferire ai “multiproprietari” diritti uguali o analoghi in merito a una medesima unità immobiliare. In particolare, essa conferisce ai titolari il pieno godimento e l'esclusiva disponibilità dello stesso immobile ma relativamente a un diverso periodo dell'anno, con la conseguenza che è proprio il godimento “turnario” a permettere l'esplicarsi di più diritti aventi lo stesso contenuto sul medesimo bene.
    Già da una prima analisi appare evidente la difficoltà di ricostruire la natura giuridica della figura in esame. Nel silenzio della direttiva, consapevole delle notevoli differenze ordinamentali degli Stati membri, si sono tuttavia sviluppati tre orientamenti.
    Secondo il primo di essi, cui peraltro si è precedentemente fatto cenno, la multiproprietà costituirebbe un diritto reale atipico, meritevole di tutela in quanto finalizzato a uno sfruttamento razionale delle risorse immobiliari esistenti, anche alla luce dell'impossibilità, da parte di molte famiglie, di affrontare i costi spesso molto elevati di una “casa per le vacanze”. Tale opzione ermeneutica non è però dai più ritenuta corretta, in quanto in contrasto con il principio di tipicità dei diritti reali.
    Secondo un altro orientamento, quest'ultimo maggiormente diffuso, la multiproprietà sarebbe riconducibile nell'ambito della comunione. Anche tale ricostruzione non è però esente da critiche. Si rileva in primo luogo che i comproprietari hanno la possibilità di chiedere lo scioglimento della comunione in ogni tempo, non potendo un patto contrario aver durata superiore a dieci anni. Analoga possibilità non è invece, evidentemente, configurabile per la multiproprietà. Si è quindi ritenuto, da parte di taluni, di ricondurre quest'ultima all'art. 1112 c.c.. Si tratterebbe, in altre parole, di un'ipotesi di comproprietà “sui generis”, caratterizzata dall'insistere su un bene non soggetto a divisione, onde non cessare di servire all'uso cui è destinato.
    Seconda obiezione riguarda il godimento turnario che contrasta in maniera evidente con il godimento contestuale e concomitante dei comunisti. Si è allora da taluni rilevato che anche nell'ambito della comunione i contitolari possono convenzionalmente stabilire delle diverse modalità di godimento.
    Altre obiezioni alla ricostruzione citata sono state rinvenute in relazione allo “ius adcrescendi”, che determina l'espansione delle quote degli altri contitolari in caso di rinuncia da parte di uno di essi, e alla partecipazione di questi ultimi all'amministrazione e gestione del bene. Trattasi di caratteri tipici della comunione che sono, invece, da escludersi per la multiproprietà.
    Ultima tesi cui occorre far cenno è quella relativa alla qualificazione della multiproprietà in termini di diritto di proprietà. Da quest'ultima la fattispecie in esame differirebbe per la determinazione del bene che, lungi dall'essere individuato solo in termini “spaziali” lo sarebbe anche “nel tempo”. Anche questa ricostruzione, tuttavia, non è stata esente da critiche, riscontratesi soprattutto in relazione alla mancanza di “perpetuità” ed “assolutezza”. A tali rilievi si è però obiettato, da un lato, che la limitazione dal punto di vista temporale riguarda esclusivamente le modalità di godimento del bene e, dall'altro, che il diritto del multiproprietario è opponibile erga omnes e cedibile per atto inter vivos o mortis causa. Fermo restando che il diritto di godimento turnario di ciascuno si dispiega nel rispetto della destinazione del bene e del pari uso degli altri multiproprietari.
    Occorre a questo punto precisare, dato atto delle principali opzioni ermeneutiche in materia di natura giuridica della multiproprietà, che quella descritta è la cd. multiproprietà immobiliare. Sono però riconducibili nell'ambito della fattispecie generale anche altre figure che differiscono notevolmente dalla precedente: la multiproprietà azionaria e quella alberghiera.
    La prima si caratterizza per la titolarità del complesso immobiliare in capo ad una società per azioni, il cui capitale sociale si compone di azioni ordinarie ed azioni privilegiate. Queste ultime consentono al socio di vantare un diritto personale di godimento periodico relativo a un'unità abitativa facente parte del complesso citato.
    Tale fattispecie pone problemi di compatibilità, più che col principio di tipicità dei diritti reali, con la disciplina delle società, giacchè parrebbe contrastare con gli artt. 2248 e 2256 c.c. Riguardo il primo dei rilievi si è ritenuto che la fattispecie in esame è ammissibile qualora, oltre al godimento turnario, essa si caratterizzi per il perseguimento di scopo di lucro. In relazione alla seconda norma , invece, anche da parte della giurisprudenza si è affermato che la multiproprietà azionaria si caratterizzerebbe di due rapporti contrattuali: uno tra socio e società (che attribuisce il diritto a partecipare agli utili, alla vita della società, ecc), l'altro autonomo rispetto ad esso e relativo alla convenzione attinente al godimento dell'unità ammobiliare.
    La multiproprietà alberghiera, non costituente una fattispecie autonoma, ma riconducibile ora alla multiproprietà immobiliare ora a quella azionaria, si caratterizza, infine, per il godimento di una camera d'albergo (solitamente determinata solo nel genere) e per la fruizione dei relativi annessi servizi alberghieri. Anche qui la titolarità dell'immobile resta affidata ad una società che gode di poteri di gestione amplissimi.
    Ciò precisato, occorre ora far brevemente menzione della disciplina legislativa prevista in materia di multiproprietà. Occorre sicuramente ricordare il recente intervento normativo effettuato ad opera del d.lgs. 79/2011, che ha fortemente innovato la disciplina preesistente anche in relazione alla definizione della multiproprietà. E' infatti ora scomparso il riferimento ai tre anni di durata minima del rapporto, sostituiti ora dall'inciso “contratto di durata superiore ad un anno” , nonché il fondamentale riferimento al “diritto reale” ora sostituito dal riferimento a un semplice “diritto di godimento su uno o più alloggi” (art. 69).
    Dalle varie disposizioni emerge chiaramente la ratio di tutela del contraente più debole, mediante la predisposizione di vari obblighi informativi a carico del venditore e relativi sia alla fase precontrattuale che a quella di stipulazione del rapporto. E' necessario infatti che il consumatore sia in grado di addivenire a una scelta pienamente consapevole in ordine alla conclusione del contratto . Devono essere quindi ad esso fornite tutte le informazioni necessarie sul contenuto dello stesso, sui diritti e sugli obblighi gravanti sull'acquirente e sulla controparte, sulla possibilità di recedere “ad nutum” (precisamente ora nel termine di 14 giorni, in luogo del vecchio termine di 10 giorni), sul prezzo globale ecc. Importante, in tal senso, la doverosa predisposizione di un “documento informativo”, nonché la previsione di varie sanzioni in caso di violazione di tali doveri.
    Il codice del Consumo richiede poi la predisposizione del documento contrattuale in forma scritta ad substantiam e pone particolari garanzie anche in merito alla lingua in cui i vari documenti informativi e lo stesso contratto devono essere redatti.
    Non da ultimo è importante ricordare il divieto assoluto per il venditore di accettare somme da parte dei consumatore-acquirente prima che sia trascorso il termine per esercitare il recesso.
    Viste le principali disposizioni approntate dal legislatore per garantire la tutela del contraente più debole, è necessario ora passare ad analizzare le conseguenze derivanti nel caso in cui uno dei proprietari non intenda rispettare il periodo di godimento concordato.
    Dato atto che la finalità della normativa in questione è quella di tutelare il contraente più debole, nessuna tutela può invece essere ad esso riconosciuta qualora violi la disciplina contrattuale, soprattutto se in danno degli altri multiproprietari. Certamente, qualora tali violazioni siano riconducibili a delle “mancanze informative” o, peggio ancora, a dei raggiri posti in essere dal venditore, il multiproprietario potrà certamente agire nei confronti di quest'ultimo recedendo dal contratto e/o chiedendo il risarcimento del danno.
    Nel caso invece tali mancanze non siano riscontrabili, certamente sarà il venditore a poter agire nei confronti del consumatore in base a quanto stabilito nel contratto, fermo restando che, ai sensi dell'art. 78 Cod. Cons., sono nulle le clausole o i patti aggiunti di rinuncia del consumatore ai diritti previsti o di limitazione delle responsabilità previste a carico dell'operatore. Sarebbe possibile, inoltre, configurare in capo agli altri multiproprietari (eventualmente danneggiati) un'azione di responsabilità extracontrattuale nei confronti del multiproprietario che ponga in essere siffatto comportamento.


    Voto: Il tema è perfetto, Voto 15, solo perchè la seconda parte - quella relativa al quesito specifico - è stata trattata in modo un pochino frettoloso. Parte generale invece davvero ben fatta.
     
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  4. capogrosso
     
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    CITAZIONE (RaveRod80 @ 18/11/2013, 10:22) 
    Solo per informarvi che entro domani dovrei terminare la correzione degli elaborati di amministrativo che mi avete inviato.Non disperate :-)

    Resta sempre fermo che è possibile inviare i temi entro la fine del mese, o è già troppo tardi?
     
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    Schopena, sarebbe troppo chiederti di pubblicare un elaborato in cui la trattazione del quesito specifico è più approfondita? Data la formulazione della traccia, credevo la questione meritasse una più estesa considerazione ai fini di un giudizio positivo!
     
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    Ciao Alexandros!! No hai ragione! Domani pubblico un altro tema, ora sono fuori e non riesco! :)
    Conta che al mio concorso il mio tema di civile (voto 14) dedicava 9 pagine alla questione generica e 1 scarsa a quella specifica... :)
    Il tema che ho pubblicato è davvero ben fatto sotto il profilo della traccia generica. Se avesse trattato in modo più approfondito il quesito specifico avrebbe meritato di più... :)

    P.s. Alexandros, per caso tu hai fatto il tema della multiproprietà? Perchè ho un tema che non è firmato; se mi dici che è tuo te lo rinvio :)
     
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    Grazie Schopena! Riuscire a dedicare la dovuta attenzione in modo proporzionale ai diversi segmenti della traccia è uno degli obiettivi che mi sto prefiggendo, perciò ti chiedevo! La tua esperienza personale, comunque, mi conforta! :)
    Sì, ho inviato l'elaborato sulla multiproprietà e, avendo riscontrato qualche difficoltà a rispondere in modo esaustivo al quesito specifico, confidavo di poter leggere qualche chiarimento in merito! :P Il mio scritto, però, era firmato, seppure in intestazione e non in calce.
     
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    Per Alexandros e tutti. Di seguito un tema che ha approfondito di più la seconda parte. Devo dire che nessuno sulla seconda parte ha preso voti altissimi. L'unico che sulla seconda parte ha preso un buon voto sei proprio tu, Alexandros, ma occhio alla proporzione... :)

    In generale, in questo tema, una buona cosa era distinguere le tutele secondo le tesi sulla natura della multiproprietà. Anche quelli che lo hanno fatto, poi quasi sempre non hanno approfondito davvero: es. in entrambi i casi (sia che si riconosca multiprorpietà come diritto reale sia come diritto relativo ) si può agire per il risarcimento del danno, giusto, ma il risarcimento del danno dei diritti reali e quello dei diritti realtivi segue regole diverse (es. tendenzialmente la tutela dei diritti reali è assoluta, cioè si dice che la prova del danno è in re ipsa, non devi dare prova ulteriore del danno oltre alla prova della violazione del diritto, e solitamente non occorre nemmeno la prova dell'elemento soggettivo).
    Chiaro?

    Secondo tema migliore sulla multiproprietà.

    L’intera tematica dei diritti reali non può essere affrontata se non muovendo dalla disamina della perdurante validità nel nostro ordinamento del principio della tipicità: infatti, dalla tradizionale dicotomia, all’interno dei diritti soggettivi, fra diritti assoluti e diritti relativi, la dottrina trae quale corollario che, mentre i diritti relativi sono per loro natura atipici, in ragione della formula aperta di cui all’art. 1173 c.c., i diritti reali, invece, debbano essere solo e soltanto quelli previsti dalla legge.
    Invero, tale affermazione scaturisce da una attenta ricostruzione del sistema: si osserva, infatti, che se un soggetto può vantare un diritto nei confronti di chiunque, cioè erga omnes, ingenerando l’obbligo dei consociati di astenersi dal ledere tale posizione (diritto assoluto), ciò non può che avvenire per effetto di una valutazione dell’ordinamento circa l’esigenza di riconoscere ampia tutela all’interesse che vi è sotteso; se invece, tale posizione di forza e libertà è riconosciuta al titolare solo nei confronti di un soggetto determinato (diritto relativo) si può lasciare spazio anche alla libera determinazione dei privati.
    Tale argomentazione, secondo la dottrina più moderna, è in realtà condizionata anche da una forte esigenza di classificazione e schematizzazione (finalizzata in larga parte ad una migliore comprensione del complesso fenomeno giuridico), caratterizzata, metodologicamente, da un processo tale per cui si perviene a categorie generali muovendo dal particolare.
    Paradigma dei diritti assoluti, infatti, è sempre stata considerata la proprietà, così come, di contro, per diritto relativo si è stato sempre inteso il diritto di credito (si pensi al diritto di ottenere una somma di denaro), senza porsi il problema di ulteriori sfaccettature che l’ordinamento conosce e concepisce. Muovendo da tale considerazione, taluni autori hanno rilevato una certa vischiosità delle due categorie tradizionali, non solo per quanto riguarda la tutela giurisdizionale (ciò perché l’azione, anche nei diritti assoluti, si rivolge sempre contro l’autore della lesione), ma soprattutto con riferimento a taluni diritti che, pur scaturendo da un rapporto giuridico determinato, attribuiscono il diritto a non essere disturbati da nessuno nel godimento di un bene (diritti personali di godimento), assommando così caratteri propri sia dei diritti relativi sia dei diritti assoluti.
    Tale rivisitazione critica ha indotto anche ad un ripensamento più attento del principio di tipicità dei diritti reali, assunto quasi quale dogma dalla dottrina più tradizionale.
    Invero, spesso si assiste, in materia di proprietà e di diritti reali (siano essi di godimento o di garanzia) ad una sovrapposizione fra due concetti, cioè quelli di tipicità e di numerus clausus, concetti che, invece, una parte della dottrina tende a distinguere, rilevando come la tipicità attenga al contenuto dei diritti suddetti, necessariamente fissato legislativamente, mentre il numerus clausus si correli all’impossibilità di dar vita a nuovi diritti reali, diversi cioè da quelli tradizionali (proprietà, enfiteusi, superficie, uso, abitazione, usufrutto, servitù, pegno e ipoteca).
    Se si vuole accogliere tale distinzione, bisogna di certo rilevare come sia ingiustificata la prospettiva del numerus clausus, essendo concesso al legislatore di dar vita, valutando la meritevolezza degli interessi, a nuove situazioni assolute insistenti su una res; la tipicità, invece, secondo i più, avrebbe ragioni più profonde.
    Si ritiene, infatti, che la tipicità dei diritti reali si correli proprio alla loro genesi, alla loro costituzione, quale risultante del distacco di taluni poteri e facoltà originariamente attribuiti al proprietario e poi riconosciute al titolare del diritto reale.
    Poiché infatti la proprietà è il diritto massimo concepibile su di una res, ogni limitazione (volontaria o coattiva) dovrebbe trovare specifico fondamento normativo, sia che attenga alle possibilità di godere del bene sia che attenga alle facoltà di disporre dello stesso, con la conseguenza che non si potrebbero concepire diritti reali atipici.
    A suffragio di tale argomentazione, si è rilevato come, in materia di diritti reali insistenti su beni immobili, il nostro ordinamento preveda la tipicità anche degli atti trascrivibili, non lasciando spazio a atti che creino diritti reali diversi da quelli noti, per i quali l’opponibilità ai terzi non sarebbe garantita.
    Tale affermazione, tuttavia, si espone a due obiezioni: da un lato, infatti, essa ha consentito a taluno di affermare che l’atipicità dei diritti reali sarebbe comunque concepibile per i beni mobili, dall’altro lato, si è affermato che tale tipicità negli atti trascrivibili è comunque posta in dubbio da una norma come l’art. 2645 c.c.; cosicché la tesi appare in larga parte svuotata di contenuto.
    In maniera più convincente, a sostegno della necessaria tipicità, si è rilevato che essa discende dalla stessa possibilità di vantare tali diritti erga omnes: infatti, un simile risultato non è raggiungibile se non per effetto di una predeterminazione legislativa, non potendo altrimenti il consenso delle parti (richiesto per la costituzione del diritto reale) vincolare i consociati estranei all’accordo.
    Ciò spinge, ancora oggi, dottrina e giurisprudenza a conservare il principio di tipicità dei diritti reali, nonostante si attribuisca la possibilità al legislatore di configurare nuovi diritti dotati del carattere della realità, anche in ragione del mutare dei tempi e delle nuove esigenze sociali.
    In particolare, la recente evoluzione normativa, indotta dal contatto con altri ordinamenti giuridici, ha posto l’interprete di fronte all’esigenza di valutare se sia possibile inquadrare la multiproprietà fra i diritti reali.
    L’istituto della multiproprietà, nato infatti in Francia e sviluppatosi soprattutto nei paesi di common law, consente, da un lato, a chi acquista di godere di un bene immobile, di regola sito in una località turistica o particolarmente rinomata, per un periodo di tempo predeterminato e in maniera turnaria, versando un corrispettivo accessibile; dall’altro, esso garantisce a chi aliena, attraverso il frazionamento del diritto su un unico immobile fra più acquirenti, di ottenere un importo maggiore di quello che otterrebbe trasferendo la proprietà ad un unico soggetto.
    Di regola, infatti, l’acquirente in multiproprietà ha un diritto a godere in perpetuo dell’immobile (o di parte di esso) ma solo limitatamente ad un periodo dell’anno (una o due settimane) che può essere prestabilito fin dall’inizio o variare in base ad una turnazione con gli altri acquirenti, fermo l’obbligo di non mutare la destinazione del bene e non pregiudicare l’altrui godimento.
    Tale meccanismo, utilizzato anche con riguardo ad immobili aventi destinazioni alberghiera (multiproprietà alberghiera) o rispetto ad immobili sociali per consentirne la fruizione ai soci (multiproprietà azionaria), ha destato fin da subito le curiosità della dottrina in ordine alla sua natura giuridica.
    Una prima teoria ha sostenuto che la multiproprietà possa essere ricondotta al fenomeno della comunione: i multiproprietari altro non sarebbero se non titolari di un diritto su uno stesso bene, potendo usarlo senza alterarne la destinazione e senza impedire l’uso altrui, conformemente alla regolamentazione prevista. Tale analogia, per quanto suggestiva, si è prestata però a critiche:da un lato, infatti, è chiaro che non si rintraccia nella multiproprietà una quota ideale, misura e limite alla partecipazione nella comunione, poiché ognuno ha un godimento esclusivo (seppur limitato al periodo di riferimento); inoltre è compressa la facoltà dei multiproprietari di decidere e amministrare la cosa, poiché tutto è demandato alle regole iniziali predisposte all’acquisto; da ultimo, non si consente lo scioglimento della multiproprietà, a differenza di quanto previsto per la comunione, ma solo una cessione del proprio diritto di godere.
    Altri autori, in considerazione di tali rilievi, hanno dunque connotato la multiproprietà come una proprietà eccezionalmente bidimensionale: essi hanno osservato, infatti, come di regola la proprietà sia delimitata solo spazialmente, mentre in questo caso essa risulterebbe circoscritta non solo nello spazio ma anche nel tempo, cioè riguardo al periodo di godimento turnario stabilito. In senso contrario, però, si è rilevato che vi è una differenza ontologica con la proprietà: mentre infatti il proprietario ha ampi poteri e può addirittura distruggere la cosa o comunque mutarne la destinazione d’uso, tale possibilità non è mai conferita al multiproprietario il quale non può menomare il diritto altrui.
    Così si è sostenuta la tesi secondo cui la multiproprietà sia un diritto reale atipico. Di per sé l’accoglimento del principio di tipicità dei diritti reali potrebbe ostare a tale qualificazione; tuttavia, per un corretto approccio alla tematica, è possibile rilevare che, pur essendosi la multiproprietà diffusa in Italia in via di prassi, essa ha successivamente trovato, in seguito all’attuazione di varie direttive comunitarie, una sua disciplina. Ciò spiega perché qualcuno, anche in giurisprudenza, parli di un diritto reale legislativamente previsto, diverso e nuovo rispetto a quelli contemplati nel codice civile.
    Anche con riguardo a tale profilo, però, giova rilevare che dalla normativa sulla multiproprietà si traggono poco indizi circa la presunta realità del diritto de quo.
    La disciplina legislativa dell’istituto, infatti, contenuta negli artt. 69 e seguenti del Codice del Consumo, si connota per lo più come un insieme di norme poste a protezione dell’acquirente in multiproprietà, soprattutto nella fase precontrattuale, senza chiarire bene quale sia la natura del diritto di cui si è titolari.
    Le indicazioni legislative date dal legislatore sono state ambigue fin dall’inizio e questo profilo di incertezza pare essersi acuito con la riformulazione dell’art. 69 ad opera del d.lgs 79/2011.
    Originariamente, infatti, la multiproprietà è stata disciplinata nell’ambito dei contratti relativi all’acquisizione di un godimento ripartito di beni immobili come contratto caratterizzato da una durata di almeno tre anni, oneroso, con cui si trasferisce, costituisce o promette di trasferire o costituire un diritto reale ovvero un altro diritto avente ad oggetto il godimento di uno o più immobili per un periodo di tempo determinato o determinabile dell’anno non inferiore ad una settimana.
    A fronte di tale qualificazione, molti autori avevano rilevato come nella nozione potessero rientrare non solo le classiche multiproprietà ma anche contratti di locazione, relativi ad immobili ad uso specifico (per esempio ad uso vacanza), il cui godimento veniva pattuito a favore del conduttore per un periodo determinato nell’anno ma per più di tre anni, operando così una commistione fra diritti variegati e snaturando quel carattere di perpetuità nel godimento periodico che di regola si correla alla condizione del multiproprietario.
    Invero, un simile ampliamento della figura è reso oggi più consistente dalla nuova nozione legislativa di multiproprietà per cui essa è “un contratto di durata superiore ad un anno tramite il quale un consumatore acquisisce a titolo oneroso il diritto di godimento su uno o più alloggi per il pernottamento per più di un periodo di occupazione”.
    La formulazione, che non contiene più alcun riferimento alla natura reale del diritto che si costituisce o trasferisce, potrebbe suffragare la lettura di chi ritiene che il diritto che si acquista non sia un nuovo diritto reale ma un diritto personale di godimento (come nelle locazioni pluriennali a fini di vacanza).
    Altri autori osservano invece come quello della realità o meno del diritto sia un problema del tutto trascurato dal legislatore, la cui unica finalità è tutelare colui che acquista in multiproprietà, garantendo l’ampia informazione precontrattuale, il diritto di recesso entro 14 giorni, la forma scritta del contratto, l’obbligo di fideiussione per le somme versate.
    Invero, ulteriore linfa alla disquisizione concernente il problema della natura giuridica del diritto del multiproprietario è stata data dalla recente riforma in materia condominiale, operata con legge 220/2012 ed entrata in vigore il 30 giugno 2013.
    Infatti, nella riformulazione dell’art. 1117 c.c., il legislatore ha stabilito, con riguardo alle parti comuni dell’edificio, che le stesse sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico.
    Tale inciso potrebbe essere letto, da un lato, come una chiara esclusione che il multiproprietario possa essere inteso come proprietario vero e proprio, dall’altro però potrebbe autorizzare una riconduzione dell’istituto della multiproprietà al condominio.
    La seconda affermazione, tuttavia, si scontra con un dato testuale che si desume a contrario dall’art. 1117 bis, anch’esso di nuova introduzione: nel richiamare, infatti, l’ambito di applicazione delle norme sul condominio si richiamano i supercondomini (più condomini che abbiano parti comuni) nonché i condomini orizzontali (più edifici che abbiano parti fra loro comuni) ma non le multiproprietà.
    Pertanto, l’unica lettura possibile dell’art.1117 c.c. è quelloa che riferisce la precisazione al caso in cui la multiproprietà si inserisca a sua volta in un edificio condominiale, cosicché le parti comuni dell’edificio siano considerate di proprietà anche dei multiproprietari di una singola unità immobiliare. Il che suffragherebbe comunque un avvicinamento del diritto del multiproprietario (rectius dei multiproprietari complessivamente intesi) a quelli del proprietario.
    La questione sulla natura giuridica della multiproprietà, pertanto, non appare ancora risolta a pieno, permanendo in dottrina e in giurisprudenza una pluralità di tesi diverse.
    Il dibattito, invero, non è solo e soltanto teorico, ma investe una problematica attuale, cioè quella delle tutele possibili quando un multiproprietario non voglia rispettare il periodo di godimento concordato, ledendo le prerogative di altro multiproprietario.
    Un primo profilo di criticità potrebbe riscontrarsi circa l’opponibilità ai terzi del diritto al godimento periodico acquistato dal multiproprietario su un immobile: manca, infatti, nell’ordinamento una norma che contempli la possibilità di trascrivere tale atto d’acquisto.
    Tale tema, che investe la questione relativa alla tassatività o meno delle ipotesi di trascrizione contemplate dal legislatore, può essere però risolto valorizzando, da un lato, l’art. 2645 c.c. che apre alla trascrivibilità di atti diversi da quelli specificamente contemplati nonché, dall’altro, l’art. 2643 c.c. n. 8) laddove consente di trascrivere le locazioni ultranovennali; a fortiori infatti si può ritenere trascrivibile il contratto che attribuisca un godimento periodico annuale in perpetuo.
    Ferma l’opponibilità ai terzi del diritto acquisito, è chiaro che la vera problematica concerne le azioni che possono tutelare un multiproprietario quando altro multiproprietario pretenda di godere dell’immobile fuori dal periodo di propria spettanza, in danno del primo.
    Se si accede alla tesi secondo cui il multiproprietario è titolare di un diritto reale di godimento le tutele appaiono ampie.
    In particolare, un primo meccanismo di tutela utilizzabile potrebbe essere rappresentato dall’azione negatoria, di cui all’art. 949 c.c.: come affermato costantemente, in giurisprudenza, infatti, tale azione del proprietario può essere esperita anche dal titolare del diritto reale di godimento, onde ottenere una sentenza dichiarativa che accerti l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, in presenza di un pregiudizio anche solo temuto. Ancorché tale tutela dichiarativa, volta a fronteggiare le altrui pretese, possa apparire insoddisfacente, soprattutto laddove si subisca una lesione attuale, l’ulteriore possibilità data dal comma 2 della norma in esame è piuttosto interessante in quanto può consentire al multiproprietario di ottenere la cessazione del fatto lesivo, attraverso l’ inibitoria, nonché il risarcimento del danno patito.
    In realtà, proprio al fine di conseguire una reazione solerte di fronte agli abusi di altro multiproprietario, ci si potrebbe domandare se, accedendo all’impostazione circa la titolarità di un diritto reale, sia possibile esperire anche un’azione possessoria, in particolare un’azione di spoglio laddove il multiproprietario venga privato del bene per il periodo in cui avrebbe avuto diritto a goderne. Una simile prospettiva impone di dirimere la questione circa la compatibilità fra una situazione di fatto come il possesso e la posizione del multiproprietario che esercita le sue ampie facoltà solo per periodi predeterminati: se da un lato, infatti, è chiaro che se si riconosce la natura reale della multiproprietà non si può non riconoscere il possesso in capo al multiproprietario, attribuendogli così le azioni relative; dall’altro questa situazione di godimento con altri soggetti turnariamente presenta profili di rilevante diversità rispetto agli altri diritti reali di cui titolari siano più soggetti. Se pensiamo, infatti, al diritto di uso e abitazione per i bisogni della famiglia o all’usufrutto congiuntivo a favore di più soggetti ci avvediamo immediatamente che in tali casi il potere sulla cosa è esercitabile da tutti i titolari per l’interezza del diritto attribuito, non limitatamente a periodi di godimento stabiliti. Ed è proprio tale rilievo che connota il rapporto col bene in termini di scarsa immediatezza.
    Invero, anche laddove non si ammettesse l’esperibilità di tale azione, si potrebbe agire ex art. 700 c.p.c: tale cautela, infatti, d’urgenza, atipica e sussidiaria, è esperibile anche ante causam ed è considerata per espressa previsione normativa anticipatoria (non necessitando della successiva instaurazione del giudizio di merito); pertanto, laddove sussista fumus boni iuris (cioè prova del diritto del multiproprietario) e rischio di grave e irreparabile pregiudizio (altro multiproprietario che non rilascia il bene), si potrebbe ottenere comunque una misura che consenta al multiproprietario di soddisfare il suo interesse al godimento.
    Laddove, invece, si acceda all’idea che la multiproprietà non attribuisce altro che un diritto personale di godimento, le tutele utilizzabili si atteggiano diversamente.
    Fermo restando, infatti, che ogni multiproprietario potrebbe comunque agire per far dichiarare il proprio diritto e l’inesistenza di quello altrui oppure per la condanna al rilascio del bene occupato fuori periodo da altro multiproprietario, la tutela inibitoria non sarebbe possibile. Ciò in ragione del fatto che tale meccanismo, secondo i più, necessita di apposita previsione legislativa.
    Invero, ove si ritenesse configurabile uno spoglio nel fatto che un multiproprietario privi l’altro del godimento, si potrebbe ammettere la possibilità di agire in possessorio ex art. 1168 c.c., essendo tale azione riconosciuta anche al detentore qualificato del bene (e tale sarebbe il multiproprietario se il diritto si considera personale di godimento).
    Quale extrema ratio sarebbe possibile comunque agire ex art. 700 c.p.c., per ottenere una misura atipica di tutela.
    Del resto, accedendo alla tesi del diritto personale di godimento, si potrebbe ipotizzare anche uno specifico obbligo dell’operatore, cioè di colui che attribuisce il diritto in multiproprietà, analogo a quello previsto in materia di locazione dall’art. 1575 n. 3) c.c, cosicché questi debba garantire il multiproprietario per le molestie e far fronte, se chiamato dal titolare del diritto di godimento, alle pretese (giuridiche) da parte dei terzi.
    Rimarrebbe sempre possibile, invece, quale che sia la tesi che si accolga circa la natura giuridica della multiproprietà, la tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. nei confronti di colui che privi il multiproprietario del godimento del bene.

    Voto: 14

    PER TUTTI: Sto rinviando i temi corretti sulla multiproprietà. Ve n'è uno in cui non compare il nome o il nick.
    Chi ha svolto il tema sulla multiproprietà ed entro questa sera nella casella di posta non si trova la correzione è pregato di farcelo sapere.
    Mettete sempre nome o nick per favore!!

    Edited by schopena - 26/11/2013, 12:18
     
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  9. lexina
     
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    Vorrei avere un chiarimento. Per ottenere ulteriori delucidazioni in merito alla correzione del tema di amministrativo di ottobre posso mandare una mail all'indirizzo a cui si spediscono i temi o mandare direttamente un messaggio privato?
     
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  10. RaveRod80
     
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    Va bene anche un mp. Ciao
     
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  11. lexina
     
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    Grazie per la disponibilità :-)
     
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  12. RaveRod80
     
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    Pubblico qui di seguito i due temi che ho ritenuto più meritevoli in questa tornata di correzioni. Tenete conto che il mio approccio di correzione ha privilegiato l'analisi dell'esposizione e dell'equilibrio argomentativo piuttosto che i contenuti in senso stretto. Mi pare abbastanza scontato, infatti, che una volta assegnata la traccia con anticipo ciascuno di voi prima di redigere il tema abbai provveduto a riguardarsi l'argomento :-)

    TEMA 1

    Premessi adeguati cenni sulla natura giuridica delle Autorità Amministrative indipendenti, tratti il candidato del fondamento del potere di regolazione di tali Autorità e delle problematiche connesse ai c.d. poteri impliciti.


    Indipendente si definisce quel soggetto pubblico connotato da autonomia organizzatoria, finanziaria e contabile nei confronti del potere esecutivo, assistito da specifiche garanzie di autogoverno. L’ente così definito assurge al rango di Autorità amministrativa, preposta, di norma, ad assolvere una funzione tutoria di interessi costituzionali in ambiti socialmente ed economicamente rilevanti. Pur essendo il fenomeno in parola estremamente variegato e multiforme, attesa la pluralità di Authorities ad oggi note all’ordinamento, ciascuna imperniata su una propria e specifica normativa istitutiva, comune è il nocciolo duro di caratteri che lo contrassegna. Si allude, segnatamente, alla già citata indipendenza ordinamentale e funzionale dal potere politico, alla neutralità, intesa come equidistanza rispetto agli interessi considerati, nonché all’elevato indice di competenza tecnica postulato per l’assolvimento delle funzioni affidate, assicurata dall’alta professionalità pretesa dall’organico.
    Il fenomeno delle Autorità indipendenti, fin dal suo esordio nel nostro ordinamento giuridico con la L. 216/1974 istitutiva della CONSOB, ha mostrato una precipua vis espansiva. Questa ultima affonda le proprie radici in uno stretto novero di concause, le quali attingono, a propria volta, a esigenze di natura eterogenea. In questa prospettiva, un ruolo preminente è stato svolto dall’attitudine conformativa dell’ordinamento nazionale spiegata dal diritto dell’Unione Europea, che non di rado ha preteso l’istituzione di Autorità amministrative al fine di integrarle in un sistema di rete (c.d. network) avente dimensioni comunitarie. Ciò a titolo di fattore di armonizzazione degli ordinamenti nazionali e in vista della concreta applicazione del principio di leale collaborazione di cui ai Trattati istitutivi dell’Unione Europea, a sua volta strumentale alla costituzione di un mercato e di uno spazio economico unico europeo.
    A tale rilievo, che già di per sé spiegherebbe la pregnanza del ruolo e dell’ascesa delle Autorità nell’ordinamento interno, si accompagna il ritiro dello Stato dall’intervento diretto in economica, per effetto dell’abbandono di una politica dirigista in favore di una improntata al più genuino liberismo.
    Nella stessa ottica ricostruttiva, viene ulteriormente in considerazione quella contingenza che va sotto il nome di “crisi della legge”, formula con cui si allude all’incapacità della fonte legale di rango primario di enucleare una disciplina completa ed esaustiva in ambiti in cui la rapida evoluzione tecnologica o economica impossibilita il legislatore a prendere ex ante in considerazione tutti i casi della vita, esponendo al contempo ad una rapida obsolescenza.
    Accanto a questa esigenza, che giustifica l’attribuzione alle Autorità indipendenti di poteri di regolamentazione dei settori di competenza (c.d. law making), si staglia, altresì, la scelta di opportunità di svincolare tali ambiti ordinamentali dal condizionamento politico, per affidarli ad enti amministrativi non più imparziali, ma neutrali. Mentre l’imparzialità pretende che la P.A., a seguito di una valutazione complessiva e comparativa di tutti gli interessi coinvolti, pubblici e privati, primari e secondari, decida in vista del raggiungimento del miglior interesse pubblico, la neutralità postula l’indifferenza dell’ente rispetto agli interessi implicati nella fattispecie. Il che vale a rendere l’Autorità indipendente un soggetto tendenzialmente super partes e terzo rispetto ai destinatari della sua azione.
    Se a tale connotato si affianca l’attribuzione, in uno ai poteri regolamentari, di specifiche competenze sanzionatorie e paragiudiziarie, si spiega la scaturigine dell’acceso dibattito concernente la natura giuridica delle Authorities. A questo ultimo riguardo, infatti, traendo argomento dalle peculiarità strutturali e funzionali predette, un orientamento interpretativo ha sostenuto la tesi della loro natura giurisdizionale, sub secie di giudice speciale, la cui giurisdizione si radicherebbe in ragione del settore di pertinenza.
    Una posizione mediana, invece, è stata espressa dai sostenitori della natura ibrida delle autorità garanti, in parte qualificate dalle prerogative amministrative, in parte da quelle giurisdizionali. Tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria, confermata dall’autorevole avallo del Consiglio di Stato, ritiene non datur un tertium genus tra soggettività pubblica e giurisdizione, accogliendo conseguentemente la tesi della natura amministrativa delle Amministrazioni indipendenti.
    A tale condivisibile conclusione, tuttavia, si può razionalmente addivenire solo subordinatamente al superamento di alcuni scogli concettuali, che minacciano di minare alle fondamenta la legittimità stessa di tali soggetti. Si fa riferimento al c.d. deficit di legittimazione democratica, che l’art. 95, co. 2, Cost. sancisce con esclusivo riguardo alle Pubbliche Amministrazioni tradizionali. Tale disposizione, infatti, sancisce che i ministri preposti ai vertici delle distinte ramificazioni della P.A. sono chiamati a rispondere del loro operato sul piano politico, innanzi al Parlamento prima, all’elettorato attivo poi. In forza di tale nesso, la dottrina giuspubblicistica ritiene che l’azione amministrativa benefici di una piena legittimazione democratica di rilievo costituzionale. Un analogo carattere, invece, non perterrebbe alle Amministrazioni indipendenti, le quali, oltre a non vantare una specifica base giuridica costituzionale, sono allontanate dalle rispettive leggi istitutive dal modello di responsabilità ministeriale, proprio in ragione della loro configurazione autonomistica rispetto al potere esecutivo.
    Il riconoscimento costituzionale, che non pare essere rinvenibile nel testo dell’art. 95 Cost., è stato rintracciato, piuttosto, negli artt. 97 e 98 della stessa Carta fondamentale, il cui combinato disposto restituirebbe cittadinanza ordinamentale a un modello di amministrazione separatista rispetto all’apparato politico e regolato direttamente dalla legge all’infuori dell’interposizione governativa. Ciò sulla scorta di quell’orientamento, sostenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza più reputate, in specie quella costituzionale, alla cui stregua i modelli di pubblica amministrazione delineati dalla Costituzione sarebbero molteplici e tra loro non mutuamente esclusivi.
    In questa stessa prospettiva ricostruttiva, rinvenuta la base giuridica costituzionale delle Authorities, deve indagarsi, altresì, la fonte del loro potere regolamentare, al quale più volte si è già fatto cenno, al fine di vagliarne presupposti, condizioni e limiti, ma, prima ancora, la stessa ammissibilità.
    Infatti, sebbene sconfessati dalla chiara lettera della legge, non manca chi perori l’esclusione in radice della legittimità dell’attribuzione di poteri di rule making in capo alle Autorità garanti. Tale soluzione viene sostenuta, da un lato, riaffermando il predetto deficit di legittimazione democratica di tali enti, dall’altro, rivendicando il monopolio della regolamentazione a soggetti viceversa pienamente titolati in tal senso, quali sono il Parlamento e il Governo. Tale posizione, tuttavia, è recessiva, a fronte dell’avverso e maggioritario orientamento, che al contrario riconosce una piena potestà regolamentare alle Amministrazioni indipendenti.
    Tale riconoscimento avviene sulla scorta di una legittimazione mista, in parte formale, poiché è la stessa legge istitutiva delle Autorità a riconoscere siffatta attribuzione, in parte sostanziale, imperniata sulla rilevanza rivestita dal fenomeno sul piano interno e su quello sovranazionale, in ragione della preminente importanza dei beni e dei valori di cui si persegue la tutela e la promozione.
    La legittimazione sostanziale del potere di rule making, inoltre, si apprezza sotto il duplice versante soggettivo ed oggettivo: nel primo senso, si allude alla qualità e alla struttura dell’Autorità indipendente, quali garanzie della correttezza e bontà delle decisione assunte; nella seconda prospettiva, si allude alla obiettiva razionalità contenutistica della decisione stessa.
    A tali conclusioni, sotto il versante sostanziale, fa da corollario, sotto quello procedimentale e processuale, la pretesa di una maggiore legalità a garanzia degli interessi dei destinatari dell’attività dell’Amministrazione indipendente. In altri termini, si tratta di irrobustire l’apparato di garanzie procedurali, di cui costituisce paradigmatica istanza il capo III della Legge sul procedimento amministrativo, L. 241/1990, in modo tale da supplire e, in questo senso, restituire legittimità al modello delle Authorities, nella prospettiva del coinvolgimento di tutti i soggetti interessati al procedimento.
    Alla luce di quanto sinora rilevato, è possibile passare in rassegna le tipologie di regolamenti nella disponibilità funzionale delle Autorità, pur con l’avvertenza che il loro statuto è configurato in modo tale da rendere ciascuna diversa dall’altra, ostando a una elaborazione universalmente valida. In linea di sola approssimazione, quindi, in questa sede è possibile individuare, in disparte dei regolamenti di organizzazione, propri di ciascuna amministrazione, anche non indipendente, i regolamenti di attuazione e di esecuzione, nel caso in cui la legge disciplini in modo puntuale la materia di riferimento. Residua spazio per i regolamenti indipendenti, viceversa, laddove la legge riservi all’Autorità una delega più ampia.
    Tanto rilevato con riferimento alla funzione di rule making, particolare interesse suscita il connesso profilo dei c.d. poteri impliciti. Trattasi, in particolare, di quei poteri non esplicitamente attribuiti dalla legge alla P.A., eppure funzionalmente collegati al perseguimento delle finalità individuate legislativamente. Implicite, in alti termini, sono le attribuzioni che si affiancano a quelle espressamente riconosciute in capo a un soggetto pubblico, con il precipuo obiettivo di rendere più effettivo il raggiungimento dello scopo prescrittogli dalla legge.
    L’addentellato normativo della fattispecie in parola si rinviene eminentemente, seppure latamente, nell’art. 352 TFUE, il quale enuncia una clausola di c.d. flessibilità. Alla sua stregua, quante volte un’azione appaia necessaria alla realizzazione di alcuno degli obiettivi stabiliti dai Trattati dell’Unione Europea, senza che tuttavia sia previsto un esplicito potere di azione, le Istituzioni possono comunque intervenire (nella fattispecie, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione).
    Atteso che quantitativamente e, soprattutto, qualitativamente l’attività delle Amministrazioni indipendenti presiede alla realizzazione di finalità di derivazione europea (su tutte, la tutela della concorrenza e del mercato), la teoria che ammette la configurabilità di poteri impliciti ritiene possibile porre in essere una interpretazione estensiva della riferita disposizione. Sicché, per tale via, si finisce col riconoscere la portata più vasta di principio all’art. 352 TFUE, rispetto a quella più stringente di norma, in modo da sussumere entro il suo ambito applicativo anche l’azione delle Authorities.
    L’istituto dei poteri impliciti, tuttavia, rinviene un più convincente fondamento teorico nel modello di c.d. amministrazione dei risultati. Nell’epoca odierna, in cui l’amministrazione risulta legislativamente orientata non solo alla legittimità del proprio operato, ma anche al “buon andamento” degli obiettivi raggiunti, trova più ragionevolmente cittadinanza il riconoscimento di funzioni finalisticamente orientate al raggiungimento di uno scopo legislativamente individuato, ancorché non parimenti tipizzate.
    Con maggiore impegno esplicativo, tuttavia, va rilevato che precipue esigenze di garanzia possono ostare al pacifico riconoscimento di poteri impliciti in generale, in capo alle Autorità garanti in particolare. Ciò si apprezza specialmente laddove la tematica in parola venga passata in rassegna nella prospettiva di uno dei fondamentali principi informatori dell’ordinamento giuridico nella sua declinazione giuspubblicistica: il principio di legalità.
    Questo ultimo, nella sua accezione più ampia e risalente, sancisce che tutti i poteri dello Stato sono tenuti ad agire secondo la legge, la quale assume ruolo di primazia, coerentemente ai caratteri essenziali del moderno Stato di diritto. La legge, infatti, costituisce atto del Parlamento, a sua volta espressione della sovranità popolare, specificamente legittimato in virtù dei meccanismi elettorali che conducono alla nomina dei suoi membri. Sicché, risulta di meridiana evidenza il rischio di contraddizione insito nella contestuale affermazione della vigenza del principio di legalità da una parte e dell’esistenza di poteri pubblici impliciti dall’altra, questi ultimi collocandosi per definizione al di fuori di una previsione legislativa.
    Tanto premesso, occorre precisare che lo spettro di un’antinomia siffatta è destinato a concretizzarsi ovvero a rarefarsi in ragione dell’accezione di legalità che si decida di accogliere. E’ noto, infatti, che il principio in questione sia suscettibile di diversificate declinazioni. Alla stregua di una prima, esso risulta osservato nei casi di mera non contrarietà alla legge: si tratta di una versione debole di legalità, che ne perimetra l’ambito in negativo, determinando l’invalidità degli atti amministrativi in contrasto con la normativa di rango primario.
    Una seconda accezione di legalità è quella detta formale, in virtù della quale il principio sarebbe osservato nelle sole ipotesi in cui l’azione amministrativa si imperni su uno specifico parametro legislativo, risultando conseguentemente viziato ogni atto non espressamente legittimato dalla legge.
    In terzo e ultimo luogo, il principio di legalità può essere declinato in senso sostanziale, con ciò postulandosi la conformità contenutistica dell’agere amministrativo alla fonte di rango primario, per l’effetto risultando invalido ogni atto non conforme al parametro normativo, non tanto e non solo sotto il profilo della forma, quanto e soprattutto sotto quello concettuale-contenutistico.
    Atteso che l’ordinamento accoglie, secondo la prevalente opinione, una concezione sostanziale di legalità, come riprovato dai più recenti interventi legislativi (ex multis, art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990), è in tale prospettiva che bisogna porsi per dirimere il nodo gordiano costituito dai poteri impliciti.
    Sicché, alla luce di tale coordinata ermeneutica, è dato constatare che la versione sostanziale della legalità intende contemperare le opposte esigenze, da una parte, di delimitare il contenuto del potere della P.A. in funzione di garanzia per gli amministrati, dall’altra, di lasciare opportuni e adeguati spazi di manovra all’amministrazione, affinché possa adattare al meglio la propria azione al caso concreto.
    Sotto il versante appena evocato, in ultima istanza, va conclusivamente dato atto della diversa soluzione resa dalla giurisprudenza a seconda che a venire in considerazione siano poteri impliciti ablatori o sanzionatori ovvero poteri regolamentari generali o “procompetitivi”.
    Nella prima ipotesi considerata si tende ad escludere l’ammissibilità di poteri impliciti, nella misura in cui il vulnus arrecato alle garanzia di salvaguardia degli amministrati sarebbe ultroneo e non giustificato da esigenze fondate, oltrepassando piuttosto i limiti di proporzionalità e ragionevolezza a cui è assoggettato lo stesso potere regolatorio. Ne discende che i poteri impliciti, laddove connotati da un sapore squisitamente ablatorio e configuranti una penetrante vulnerazione della libertà degli operatori del settore di riferimento, non possono prescindere da una copertura legislativa provvista di un livello sufficiente di tipizzazione.
    Viceversa, nella seconda ipotesi, laddove ad essere coinvolti siano tradizionali poteri di regolamentazione, avvinti a doppio filo da un nesso di strumentalità e consequenzialità logico-giuridica rispetto agli obiettivi fissati expressis verbis dalla legge, risulta pacifica la loro ammissibilità, ancorché la giurisprudenza postuli il rafforzamento delle garanzie di tipo procedimentale, attraverso il potenziamento delle forme di coinvolgimento di tutti i soggetti interessati.
    Così stando le cose, in epilogo a questo articolato iter ricostruttivo, deve concludersi per la coerenza, razionalità e strumentalità del riconoscimento di poteri impliciti in capo alle Authorities, nella misura in cui questi permettono loro di addivenire a una più efficace attività di regolamentazione dei settori affidati alle rispettive cure. Ciò ponendosi nel rispetto, sostanziale prima che formale, della cornice normativa e ordinamentale di riferimento, i cui principi ispiratori risultano non solo astrattamente salvaguardati, ma concretamente implementati, il buon andamento ex art. 97, co. 2 Cost. su tutti.

    TEMA 2

    Premessi adeguati cenni sulla natura giuridica delle Autorità Amministrative Indipendenti, tratti il candidato del fondamento del potere di regolazione di tali autorità e delle problematiche connesse ai c.d. poteri impliciti.

    Il tema della natura giuridica delle autorità amministrative indipendenti è stato in passato molto dibattuto e, ancor oggi, le conclusioni raggiunte in merito da dottrina e giurisprudenza prevalenti non sono da tutti pacificamente condivise. La tematica involge infatti tutta una serie di problematiche connesse alle peculiari funzioni delle autorità in questione le quali, create per far fronte a particolari esigenze di autonomia e indipendenza sorte in vari e delicati settori di rilevanza costituzionale, non sono riconducibili a una categoria unitaria ma sono, al contrario, caratterizzate da notevoli differenze.
    I peculiari connotati di ciascuna di esse hanno a tal proposito indotto taluni a parlare, non tanto di un "istituto giuridico", ma di un vero e proprio fenomeno giuridico.
    A complicare la situazione si aggiunge la carenza del dato normativo il quale, nel dettare varie norme disciplinanti le Autorità Amministrative Indipendenti, si astiene dal fornirne una definizione unitaria. Oltre agli specifici riferimenti contenuti nella disciplina di settore è possibile, infatti, rilevare riferimenti di carattere generale alle autorità indipendenti solo nella legge 59/1997, nella legge 205/2000 (riferimento peraltro ora trasfuso nel c.p.a.), nella legge 241/1990 nonché, infine, nelle recenti leggi 122/2010 e 214/2011. Riferimenti che, tuttavia, come accennato, appaiono ben poco risolutivi quanto alle caratteristiche generali delle Authorities.
    Ciò che è certo è che, nel cercare di ricostruire i caratteri grossomodo comuni delle stesse, occorre tener conto delle spesso notevoli differenze che le caratterizzano.
    Fatte queste necessarie premesse è possibile ora dare una definizione delle Autorità Amministrative Indipendenti. Esse possono essere definite come organismi o enti pubblicistici posti a tutela di interessi e settori sensibili di rilevanza costituzionale, dotati di indipendenza dal Governo e caratterizzati da specifiche competenze tecniche.
    Uno dei principali fattori che ha condotto alla creazione delle Autorità Indipendenti è stata la constatazione dell'incapacità delle amministrazioni "classiche" di far fronte alle esigenze proprie dei settori nei quali le autorità indipendenti sono chiamate ad operare. Si tratta infatti di materie particolarmente delicate involgenti interessi di rilevanza costituzionale che richiedono un elevato tecnicismo e l'impermeabilità rispetto a qualsiasi interesse di carattere politico o privato.
    Ci si riferisce, in particolare, a quei settori economici man mano abbandonati dalla mano pubblica e interessati da processi di privatizzazione e liberalizzazione, nei quali l'abbandono "formale" della pubblica gestione non si è accompagnato completamente a quello "sostanziale", evidenziando, in tal modo, la necessità di autorità regolatrici indipendenti dall'influenza politica, dotate di poteri amministrativi, normativi e paragiurisdizionali, nonché "neutrali" (più che "imparziali") rispetto agli interessi coinvolti. Significativo, a tal proposito, che le prime Authorities ad essere istituite furono l'Isvap, la Consob e la Banca d'Italia.
    A tali spinte propulsive si aggiunga inoltre l'inadeguatezza del potere giudiziario ad approntare, da un lato, una tutela di carattere preventivo per i settori in questione nonché, dall'altro, una tutela effettiva (si pensi al dogma dell'insindacabilità della discrezionalità tecnica e all'esiguo numero di mezzi istruttori utilizzabili che, tradizionalmente, hanno caratterizzato il giudizio amministrativo).
    Ecco dunque che le ragioni storiche che hanno condotto alla creazione delle Authorities ne hanno determinato anche caratteri funzionali e strutturali così differenti dalle classiche pubbliche amministrazioni.
    Dal punto di vista oggettivo alle Autorità Amministrative Indipendenti sono attribuite funzioni che spesso si discostano notevolmente da quelle dell'amministrazione intesa in senso tradizionale. Ed invero ai poteri amministrativi classici si accompagnano spesso poteri autoritativi del tutto peculiari. Notevolmente estranea al modello classico è poi la funzione c.d. “giusdicente”. Trattasi di una funzione consistente allo stesso tempo nel regolare e nel decidere. Alle Authorities è infatti attribuito il compito non di perseguire un pubblico interesse ma di risolvere potenziali conflitti tra interessi (diffusi, collettivi, individuali, di categoria), mediante la fissazione preventiva delle regole di disciplina del settore, nonché il compito di utilizzare i poteri correttivi e sanzionatori a seguito delle eventuali violazioni. A tal fine le Autorità godono di poteri normativi, consultivi, di accertamento, di vigilanza e controllo, sanzionatori.
    In altre parole, lungi dal perseguire un fine pubblico primario ed effettuare una ponderazione di interessi, ad esse è attribuito il compito di applicare la legge mediante la valutazione dei presupposti della fattispecie astratta. Si pensi alla concretizzazione di espressioni quali “abuso” o “posizione dominante”: per verificarne la realizzazione nella fattispecie concreta l'Autorità Amministrativa Indipendente (in questo caso il Garante della concorrenza e del mercato) utilizza le proprie competenze tecniche ed opera una valutazione espressione di “discrezionalità tecnica”.
    Essa risulta, in tal modo, arbitro e tutore delle posizioni giuridiche coinvolte e, nell'esercitare tale funzione, da alcuni definita “paragiurisdizionale”, l'Autorità stessa si trova in posizione di “neutralità” più che di imparzialità. Mentre quest'ultima implica il perseguimento del fine pubblico mediante la valutazione equa e non discriminatoria degli interessi in gioco , il concetto di neutralità implica una posizione di terzietà, equidistanza e disinteresse per gli interessi coinvolti, in ragione della mancanza di di un vincolo di preferenza per un interesse c.d. primario.
    Tale considerazione consente, a questo punto, di analizzare le peculiarità di cui le Authorities godono dal punto di vista soggettivo.
    La neutralità rispetto agli interessi in gioco si ricollega infatti con il carattere di indipendenza dal Governo che, così fortemente, le connota. Se così non fosse ne verrebbero compromesse le funzioni di regolazione e controllo. Non bisogna dimenticare che proprio l'incapacità della pubblica amministrazione tradizionale di essere impermeabile ai vari condizionamenti politici sta alla base anche della crisi del ricorso gerarchico cui, in certo modo, le Authorities sono state chiamate a porre rimedio.
    Quanto al concetto di indipendenza, tuttavia, la sua ampiezza non è, ad oggi, pacificamente condivisa, anzi, si fronteggiano a tal proposito due orientamenti: uno “riduzionistico” ed uno tendente a un'interpretazione più estensiva.
    Il primo ritiene che non sia configurabile una totale irresponsabilità delle Autorità Amministrative Indipendenti dal Governo e, a sua volta, del Governo nei confronti del Parlamento e del Pese per l'attività delle Autorità indipendenti medesime. Queste ultime sarebbero tenute infatti a render conto del loro operato e a comunicare criteri e ragioni delle loro scelte. Il Governo, per converso, sarebbe tenuto per “culpa in eligendo” riguardo l'attività delle Amministrazioni e, nei casi più gravi, sarebbe dotato del potere di rimozione dei vertici delle stesse.
    Secondo l'opposto orientamento, ad oggi prevalente, invece, le Authorities godrebbero di piena indipendenza in ragione delle peculiari funzioni ad esse attribuite, le quali ove così on fosse, verrebbero fortemente limitate. Non sarebbe infatti possibile porre al riparo privati e interessi pubblicistici da abusi della stessa pubblica amministrazione o da interessi politici o privati.
    Sempre riguardo l'indipendenza, occorre inoltre ricordare che, trattandosi di connotazione così importante per le Autorità, a presidio della stessa sono riconosciute alle Authorities autonomia organizzativa, contabile e finanziaria oltre che, infine, varie garanzie attinenti alla nomina, revoca e durata dell'incarico dei componenti.
    La questione dell'indipendenza si ripercuote poi sui problemi di compatibilità costituzionale delle Authorities nonché sull'annosa questione della natura giuridica delle stesse. In ordine alla compatibilità costituzionale è stato dai più posto in rilievo il contrasto delle Autorità Indipendenti con l'art. 95 Cost. Quest'ultimo postula infatti la responsabilità collegiale dei ministri per gli atti del Consiglio dei Ministri e la responsabilità degli stessi singolarmente per gli atti dei loro dicasteri. Ebbene la sopra richiamata indipendenza delle Autorità dal Governo cozza fortemente con il modello classico di pubblica amministrazione, chiamata a rispondere del suo operato nei confronti del Ministro.
    Per porre rimedio al configurato problema di compatibilità testé riferito, è stata da taluni prospettata la rispondenza delle Autorità Amministrative Indipendenti a un modello organizzatorio di p.a. alternativo, fondato, in altre parole, non sull'art. 95 Cost. ma sull'art. 97 Cost.: Autorità Amministrative Indipendenti soggette solo alla legge e non soggiogate da qualsivoglia potere politico. E' stato però dai più messo in evidenza come il carattere dell'indipendenza e, quindi, l'apparente rottura con il dettato costituzionale, sia in realtà un connotato irrinunciabile delle Autorità in questione, chiamate a dettare la regolamentazione in settori di rilevanza eccezionale per l'ordinamento, sottoposte alla legge e tenute a farla rispettare. Se, quindi, nel caso di amministrazione classica la responsabilità nei confronti del potere governativo è giustificato e ineludibile, non così può dirsi quando ad essere svolte sono funzioni così peculiari.
    Altra norma in riferimento alla quale è stata prospettata l'incompatibilità delle Autorità Indipendenti è l'art. 101 Cost.. Tale norma si riferisce all'indipendenza del potere giudiziario. Si lamenta, in altre parole, che le Authorities pretendano di vantare la stessa indipendenza del potere giudiziario il quale, però, trova fondamento nella Costituzione. Si è da più parti prospettato, a tal proposito, l'atteggiarsi delle Autorità Indipendenti ad organismo “paragiurisdizionale”, a “quarto potere acefalo”, ulteriore rispetto ai poteri legislativo, amministrativo e giudiziario.
    Non v'è chi non veda, tuttavia, come l'attribuzione di poteri normativi e giusdicenti alle Autorità in questione non implichi per forza una loro qualificazione in termini di potere paragiurisdizionale, “tertium genus” rispetto a quello amministrativo e a quello giudiziario. Ed invero, rilevato tra l'altro che i loro provvedimenti sono insuscettibili di assurgere a giudicato, fino a che non vi sia una modifica della Costituzione in tal senso, le Authorities non potranno che essere ricondotte nell'ambito del potere amministrativo. Tali conclusioni, avvallate anche dal Consiglio di Stato, sono poi rafforzate dall'affermazione da parte dello stesso organo giurisdizionale, dell'applicabilità alle Authorities del T.U.P.I.
    Così ricostruita la natura giuridica delle Autorità Amministrative Indipendenti può ora essere analizzato il fondamento del potere di regolazione di tali Autorità, senza però dimenticare di far cenno al fatto che la “tenuta costituzionale” delle stesse è collegata alla sottoposizione dei loro provvedimenti al sindacato giurisdizionale nonché all'applicazione alle stesse della legge 241/1990, quantomeno nei principi fondamentali (ci si riferisce, in particolare, all'accesso e alla partecipazione).
    Come quasi tutti gli aspetti relativi alle Authorities, anche l'ammissibilità di un potere di regolazione o funzione “normativa” è stato oggetto di ampi dibattiti, attesa la mancanza di responsabilità politica nonché di legittimazione democratica.
    Abbandonata l'iniziale teoria che ne escludeva la configurabilità, è ad oggi prevalente l'orientamento che, peraltro recentemente confermato dal dato normativo, ammette l'esistenza del potere in questione.
    Ed invero, è possibile rinvenirne il fondamento non solo nelle singole norme di settore che costituiscono e disciplinano l'attività delle singole Autorità Amministrative Indipendenti, ma altresì nelle stesse disposizioni e principi costituzionali in attuazione dei quali le norme di legge ordinaria attribuiscono vari poteri a tali organismi. Si pensi al principio di uguaglianza, al diritto alla privacy, alla libertà di iniziativa economica privata, ecc.
    Non bisogna inoltre dimenticare l'influenza che, nel settore delle Authorities, promana dall'ordinamento comunitario. L'Italia è stata infatti spesso chiamata a dare attuazione ad esigenze di tutela evidenziate e valorizzate soprattutto in sede sovranazionale. Basta in tal senso far cenno alla tutela del consumatore o a quella della concorrenza oppure, ancora, alla libertà di circolazione e stabilimento.
    Non trascurabile è inoltre la considerazione che, nonostante la mancata previsione espressa del potere in esame, il vulnus al principio di legalità venga senz'altro in parte rimediato grazie al contraddittorio effettuato con i soggetti interessati dal settore di attività. In altre parole, insomma, la carenza di legalità formale verrebbe compensata da quella procedimentale, caratterizzata appunto dalla partecipazione dei destinatari del potere di regolazione. Senza contare la legittimazione derivante dalle specifiche capacità tecniche possedute dagli organismi in questione, i soli a poter assicurare la tutela di settori così delicati.
    Posto dunque che non v'è motivo di negare l'esistenza del potere normativo delle Authorities, occorre ora concentrarsi sul tipo di atti normativi da essa utilizzabili, nonchè sul rapporto tra questi ultimi, necessariamente di rango secondario, con i precetti di legge ordinaria.
    Data l'autonomia organizzativa di cui tali organismi godono, è possibile in primo luogo affermare l'utilizzabilità dei regolamenti di organizzazione.
    Quanto alle altre tipologie di regolamenti, è senz'altro necessario effettuare un esame caso per caso, tenendo conto delle peculiarità dell'autorità che di volta in volta viene in rilievo (grado di indipendenza e funzioni svolte) nonché del tipo di regolamento da impiegare.
    E' possibile quindi affermare l'utilizzabilità di regolamenti di attuazione ed esecuzione, in materie in buona parte disciplinate dalla legge.
    Quanto infine ai regolamenti autonomi (analoghi a quelli indipendenti), a parere del Consiglio di Stato (il quale ha fortemente sostenuto l'esistenza del potere di regolazione in capo alle Authorities), non pare corretto escluderne l'inammissibilità a priori, in considerazione delle funzioni peculiari proprie degli organismi in questione. Certamente è necessario che la materia di riferimento non sia coperta da riserva di legge e che quest'ultima abbia individuato principi e criteri direttivi.
    Non bisogna poi dimenticare l'obbligo di motivazione che, fatta esclusione per i regolamenti di organizzazione, riguarda anche il potere normativo delle Autorità Amministrative indipendenti.
    Quanto poi al rapporto tra tali regolamenti e la legge, il criterio di soluzione dei potenziali conflitti risiede non nel criterio di gerarchia ma in quello di competenza (in deroga alle Disp. Prel. al c.c.).
    A conferma di quanto testè affermato, ossia la configurabilità del potere regolamentare, la legge (e precisamente la l. 262/2005) è recentemente intervenuta ad attribuire espressamente tale potere a Consob, Isvap e Banca d'Italia.
    Ciò detto, occorre infine dar conto delle problematiche connesse ai c.d. poteri impliciti.
    La prima teorizzazione dei poteri impliciti si deve all'ordinamento americano nel quale tale teoria è stata utilizzata per giustificare poteri non espressamente attribuiti al Congresso ma, tuttavia, ad esso riconducibili grazie ad una clausola aperta contenuta nella Costituzione americana. Attraverso quest'ultima è stato infatti possibile desumere l'esistenza di vari poteri collegati da una relazione di mezzo a fine con i compiti al Congresso espressamente attribuiti.
    Potere implicito è, in definitiva, un potere che è legato da un rapporto di strumentalità con il potere espressamente attribuito, il quale ne costituisce appunto il fondamento.
    Ben si può comprendere, quindi, perchè la teoria dei poteri impliciti abbia trovato in materia di Authorities larga diffusione. Sono proprio i settori fortemente tecnici in cui esse operano a rendere quanto mai opportuno l'adeguamento delle regole e dei provvedimenti all'evoluzione della realtà socio-economica. Settori nei quali, certamente, la rigida predeterminazione legislativa dei poteri e delle modalità operative finirebbe col paralizzare l'operatività delle Autorità Indipendenti.
    Senza contare che spesso l'ampiezza delle materie in cui operano (si pensi alle Autorità Amministrative indipendenti c.d. Trasversali) nonché l'elevato tecnicismo che viene in rilievo rendono pressochè impossibile una predeterminazione positiva di tutte le fattispecie realizzabili nel concreto.
    Certamente, come da più parti rilevato, si pongono problemi di compatibilità con il principio di legalità e con quello di tipicità degli atti amministrativi. Importante è quindi stabilire fino a che punto il potere implicito possa spingersi.
    Indubbiamente occorre tener conto delle finalità proprie attribuite all'Autorità che di volta in volta viene in rilievo, ai suoi poteri e al grado di indipendenza che la caratterizza. Non è possibile quindi fornire una risposta valevole universalmente, essendo necessario valutare caso per caso. La legge in questo senso non aiuta giacché si limita spesso ad attribuire poteri di carattere generico o ad enunciare meri obiettivi rimessi alla loro cura. La ragione di tale scelta è però facilmente comprensibile: le Authorities, lungi dal dare mera attuazione ed esecuzione alla legge, sono chiamate a "regolare", ossia a porre le regole del settore di riferimento.
    La soluzione del caso dipende anche da quale accezione del principio di legalità si accoglie nonchè da quali esigenze si considerano preminenti: se quelle di garanzia e democraticità o quelle di efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa.
    Ed invero, se si ritiene il principio di legalità come fondamento imprescindibile di ogni potere amministrativo, certamente si escluderà l'ammissibilità dei poteri impliciti.
    Se invece si riterranno preminenti le esigenze di efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa, per converso, si ammetteranno suddetti poteri, purchè strumentali allo scopo espressamente attribuito all'Autorità Amministrativa, in ossequio ad una visione meno rigida del principio di legalità.
    Dal canto suo la giurisprudenza non ha assunto posizioni univoche. Da un lato non mancano sentenze che, soprattutto in tempi meno recenti, hanno escluso la legittimità di poteri strumentali in funzione di garanzia delle libertà del cittadino e, dall'altro, è possibile annoverare anche varie pronunce nelle quali, viceversa, si è considerato prevalente il "risultato" perseguito dalla P.A.
    Pare quindi opportuno affermare che l'ammissibilità o meno del potere implicito dipenda dal potere che di volta in volta viene reclamato dall'Autorità, nonchè dalla delicatezza e rilevanza della posizione giuridica soggettiva che potrebbe subire nocumento. Soccorrono a tal proposito principi quali quello di uguaglianza, certezza del diritto, ragionevolezza e proporzionalità, principi che vengono in rilievo quali limiti del potere regolatorio, idonei ad arginare l'interpretazione estensiva cui spesso le Authorities tendono. Vanno lette in tal senso alcune decisioni che hanno con vigore escluso la configurabilità di poteri implici sanzionatori o ti tipo ablatorio pregiudicanti in maniera notevole libertà costituzionalmente garantite.
     
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  13. pollodigomma
     
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    CITAZIONE (RaveRod80 @ 20/11/2013, 10:06)
    Dei temi corretti uno, purtroppo, non sono riuscito ad aprirlo per problemi di compatibilità con il mio word…spero di risolvere il problema entro il week end.

    CITAZIONE (schopena @ 26/11/2013, 11:37)
    PER TUTTI: Sto rinviando i temi corretti sulla multiproprietà. Ve n'è uno in cui non compare il nome o il nick.
    Chi ha svolto il tema sulla multiproprietà ed entro questa sera nella casella di posta non si trova la correzione è pregato di farcelo sapere.
    Mettete sempre nome o nick per favore!!

    Io non ho ricevuto nè il tema di amministrativo nè di civile. Ma su entrambi, almeno nelle copie che ho conservato sul computer, c'è sia il nick che l'indirizzo email all'inizio della prima pagina word.

    PS devo correggere, il mio compito di civile non era sulla multiproprietà ma sul trust, scusate

    Edited by pollodigomma - 2/12/2013, 21:32
     
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  14. RaveRod80
     
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    Deduco allora che il compito che inspiegabilmente non riuscivo ad aprire sia il tuo. Prova a rimandarlo e vediamo se risolviamo la cosa. Ciao
     
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  15. pollodigomma
     
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    CITAZIONE (RaveRod80 @ 2/12/2013, 19:53) 
    Deduco allora che il compito che inspiegabilmente non riuscivo ad aprire sia il tuo. Prova a rimandarlo e vediamo se risolviamo la cosa. Ciao

    Rinviato. Spero si legga. Altrimenti non fa niente. Anche perché ho letto i temi migliori e decisamente il mio elaborato non è a quel livello.
    Grazie comunque.
     
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113 replies since 10/9/2013, 15:22   12579 views
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