Tracce temi maggio 2013

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    Traccia in diritto penale
    Premessi adeguati cenni sulla distinzione tra concorso di reati e conflitto apparente di norme, il candidato tratti in particolare del principio di specialità, anche con riferimento al tema del rapporto tra illecito amministrativo e penale.

    assegno per giugno: 1) su tutta la parte relativa ai principi e 2) sulla pena



    Traccia di diritto amministrativo:
    La figura del responsabile del procedimento, con particolare riguardo alla materia dei contratti pubblici.

    Tracce in diritto civile:
    1) Premessi adeguati cenni sul giudizio di meritevolezza ad opera del giudice, tratti il candidato del negozio atipico di accertamento, in particolare verificando lo spazio di autonomia del medesimo da figure affini, quali la transazione, la ricognizione del debito e la confessione. Si soffermi, altresì, il candidato sulla ammissibilità di un negozio atipico di accertamento avente ad oggetto diritti reali.

    2) La rilevazione d'ufficio della nullità, tratti il candidato dei poteri del giudice nella rilevazione d'ufficio della nullità in presenza di una domanda di risoluzione, rescissione e annullamento, tratti altresì il candidato dei poteri del giudice a fronte di una domanda di nullità parziale.

    Edited by togasana - 9/5/2013, 11:58
     
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    Miglior tema in amministrativo
    La figura del responsabile del procedimento, con particolare riguardo alla materia dei contratti pubblici.


    L’entrata in vigore della l. n. 241/1990, c.d. legge sul procedimento amministrativo, ha determinato il passaggio da un’azione amministrativa incentrata su autoritatività, segretezza e deresponsabilizzazione, ad un’azione di stampo dialogico, con puntuale circoscrizione di ruoli e responsabilità all’interno della p.a., in consonanza con i principi di buon andamento e imparzialità cristallizzati nell’art. 97, comma 2, Cost.
    E proprio con l’entrata in vigore della citata l. n. 241/1990, viene coniata e disciplinata la figura del responsabile del procedimento amministrativo, il cui regime giuridico è compendiato negli artt. 4-6, salvi ulteriori richiami presenti nello stesso articolato normativo.
    In termini generali, il responsabile del procedimento amministrativo è il funzionario preposto all’istruttoria e ad ogni adempimento inerente un singolo procedimento nonché, ove ne abbia la cognizione, all’adozione del provvedimento finale, giusta l’art. 5, comma 1, l. n. 241/1990.
    Detto responsabile è distinto, avuto riguardo al disposto di cui all’art. 4, l. n. 241/1990, dall’unità organizzativa responsabile, che presiede ad ogni singola fase procedimentale.
    Segnatamente, mentre quest’ultima ha una matrice di natura schiettamente organizzatoria, essendo qualificabile come il complesso di strutture e personale funzionale all’espletamento di ogni autonoma scansione procedimentale, il primo, di contro, postula una compiuta individuazione in una persona fisica, la quale, in ragione dell’investitura ricevuta dalla legge o dal regolamento, presiede alla dinamica procedimentale, interagendo con i destinatari dell’attività autoritativa.
    In tal modo, si coglie la soluzione di continuità rispetto al sistema ordinamentale dell’azione amministrativa antecedente all’entrata in vigore della l. n. 241/1990.
    In precedenza, infatti, stante l’assenza di un regime giuridico unitario, teso a fissare le ineludibili prescrizioni comuni ad ogni singolo procedimento amministrativo, l’attività della p.a. era frammentata in autonomi corpus normativi, in seno ai quali non si rinveniva l’individuazione di un responsabile del procedimento, quale garante del corretto fluire dell’azione amministrativa.
    Nel descritto momento storico, la più avvertita dottrina e la giurisprudenza riconoscevano la cogenza del principio del c.d. giusto procedimento, discendente dalla necessità di presidiare -a fronte di un’attività autoritativa e, al contempo, incidente nella sfera giuridica del destinatario- il contraddittorio tra la p.a. procedente e il cittadino investito dall’esercizio del potere autoritativo. Si pensi, ad esempio, all’adozione di provvedimenti ablatori reali o personali, rispetto ai quali si rinvengono situazioni soggettive qualificabili sub specie di interessi legittimi oppositivi.
    Il principio del giusto procedimento non operava, invece, qualora l’amministrato fosse titolare di un interesse legittimo pretensivo, il cui soddisfacimento è rimesso all’emanazione di una statuizione ampliativa ad opera della p.a. procedente.
    Nelle ipotesi da ultimo descritte, proprio l’assenza della figura di un responsabile procedimentale determinava l’impossibilità per il cittadino -a fronte di rallentamenti o inerzie della p.a. procedente- di individuare, in un’ottica collaborativa e di deflazione del contenzioso, il funzionario con cui relazionarsi, ratificandosi anche, come cennato, un sostanziale sistema di irresponsabilità dei funzionari medesimi.
    Gli artt. 4 ss., l. n. 241/1990, superando il previgente sistema, conferiscono, pertanto, piena attuazione ai principi di buon andamento e imparzialità, compendiati dalla Costituzione e ribaditi dall’art. 1, l. n. 241/1990.
    Risulta evidente, infatti, che l’individuazione dell’unità responsabile e, in particolare, del funzionario responsabile, consentono al cittadino un’interazione con la p.a. procedente, e ciò sia in chiave collaborativa che difensiva.
    L’evoluzione del procedimento amministrativo trova, quindi, puntuale garanzia tanto in ordine alla sua corretta scansione -quale precipitato del canone di buona amministrazione- quanto in ordine alla compiuta ponderazione comparativa degli interessi coinvolti nell’azione amministrativa, quale precipitato del canone di imparzialità.
    Di ciò vi è riscontro nei poteri riconosciuti al responsabile procedimentale dalla l. n. 241/1990.
    I poteri in questione, nello specifico, sono speculari alla suddivisione del procedimento amministrativo in distinte fasi, così come qualificate dalla migliore dottrina.
    A mente dell’art. 6, l. n. 241/1990, infatti, il responsabile procedimentale valuta le condizioni di ammissibilità, i requisiti e i presupposti necessari per l’adozione del provvedimento amministrativo, aspetti, questi appena descritti, ascrivibili alla fase lato sensu iniziale del procedimento amministrativo.
    Detto responsabile, poi, ha poteri di impulso e di ordine, esercitabili nella fase centrale dell’azione amministrativa, quella cioè dell’istruttoria, in quanto gli è consentito il compimento di una serie di attività -quali l’esperimento di accertamenti tecnici, l’indizione della conferenza di servizi, l’acquisizione d’ufficio di documentazione- funzionali al sollecito svolgimento dell’attività autoritativa, nonché ad una fondata comparazione degli interessi pubblici e privati confliggenti.
    Da ultimo, il responsabile del procedimento, ove sia munito di competenza, emana il provvedimento amministrativo ovvero, altrimenti, “trasmette gli atti all’organo competente per l’adozione”, ai sensi dell’art. 6, lett. e), l. n. 241/1990.
    Sul punto, occorre, tuttavia, dar conto della modifica introdotta, nel precetto appena richiamato, dalla l. n. 15/2005.
    La novella in parola, infatti, ha interpolato l’art. 6, lett. e), stauendo che laddove il diverso organo competente all’emanazione del provvedimento ammnistrativo intenda discostarsi dalle risultanze cui è pervenuto il responsabile del procedimento, deve indicarne le ragioni nella parte motiva del provvedimento stesso.
    La dottrina ha evidenziato come la descritta novella assegni un ruolo di assoluta centralità all’attività espletata dal responsabile del procedimento.
    Nonostante, infatti, la ricorrenza di ipotesi in cui il citato responsabile sia sfornito del potere di adozione del provvedimento amministrativo, il legislatore riconosce, comunque, all’attività istruttoria svolta dal medesimo un ruolo preminente ai fini dell’emanazione del provvedimento amministrativo.
    Ciò si evince dalla circostanza che l’organo competente all’adozione dell’atto finale ben può limitarsi a ratificare le conclusioni cui è approdato il responsabile del procedimento -qualora non rinvenga ragioni per discostarsene- dovendo, altrimenti, indicare in maniera puntuale i motivi posti a fondamento della diversa determinazione.
    Il favor manifestato dal legislatore in ordine alle risultanze istruttorie cui è giunto il responsabile del procedimento trova la sua ratio -come osservato in dottrina- nella circostanza che lo stesso responsabile, nella sua veste di dominus dell’attività istruttoria, è il depositario di un’approfondita conoscenza delle dinamiche procedimentali, cosicché le sue conclusioni sono dotate di una presunzione di maggiore aderenza rispetto alla fattispecie regolamentata con il provvedimento amministrativo, presunzione superabile solo con una puntuale motivazione da parte dell’organo competente.
    Qualora, dunque, quest’ultimo adotti un provvedimento disattendendo le risultanze procedimentali, senza, tuttavia, darne conto in parte motiva, il provvedimento in questione risulterà illegittimo, perché inficiato dal vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 3, l. n. 241/1990, quale riflesso dell’omissione procedimentale prescritta ai sensi dell’art. 6, lett. e), seconda parte, l. n. 241/1990.
    La centralità della figura del responsabile in esame si desume, ancora, dal richiamo contenuto nell’art. 8, comma 2, lett. c), l. n. 241/1990, secondo cui la comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, quale primo atto dell’azione amministrativa, deve contenere, tra l’altro, l’indicazione di detto responsabile, nonché, ancora, si desume dall’onere incombente su quest’ultimo, in presenza di procedimenti ad istanza di parte, di comunicare i motivi ostativi all’adozione del provvedimento amministrativo, giusta l’art. 10-bis, l. n. 241/1990.
    Ciò chiarito, giova a tal punto evidenziare come Il ruolo nevralgico assegnato dal legislatore al responsabile del procedimento amministrativo -quale figura di sintesi e attuazione dei principi di buon andamento ed imparzialità- è rinvenibile anche nel d. lgs. n. 163/2006, contenente il c.d. codice dei contratti pubblici.
    Come noto, il richiamato testo unico -ricognitivo della stratificazione normativa di matrice comunitaria succedutasi nel nostro ordinamento in materia di appalti di lavori, servizi e forniture- contiene un complesso regime giuridico, teso a disciplinare la procedura evidenziale collocata a monte della stipulazione del contratto pubblico.
    La disciplina in questione costituisce proiezione non solo dei principi di buon andamento e imparzialità di derivazione interna, quanto, ancora, dei principi sovranazionali di parità di trattamento e non discriminazione, finalizzati ad impedire che i soggetti pubblici dei singoli ordinamenti possano favorire, in sede di gara pubblica, le imprese nazionali a discapito di quelle provenienti da altri Stati comunitari.
    Nel richiamato tessuto normativo trova collocazione la figura del responsabile del procedimento, specificamente disciplinata nell’art. 10, nonché, ancora, prevista negli artt. 9, 10, d.p.r. n. 207/2007, recante il c.d. regolamento di esecuzione del codice degli appalti pubblici.
    Dal complessivo regime giuridico ivi compendiato occorre cogliere i tratti comuni e quelli differenziali rispetto alla disciplina del responsabile procedimentale di cui alla l. n. 241/1990, anticipando sin d’ora che proprio sul tema della funzione svolta dal responsabile del procedimento in fase di verifica delle offerte anomale -di cui agli artt. 86, ss. d. lgs. n. 163/2006- si è registrato un contrasto giurisprudenziale, di recente composto dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
    Tanto premesso, deve evidenziarsi che il responsabile in materia di contratti pubblici è dotato -in via di principio- dei medesimi poteri del responsabile di cui alla l. n. 241/1990, potendo, infatti, compiere attività istruttoria e di impulso, giustificandosi, in tal senso, il richiamo, contenuto nell’art. 10, comma 1, d. lgs. n. 163/2006, alla legge sul procedimento amministrativo.
    Il predetto art. 10, comma 1, specifica, poi, che la figura del responsabile, individuata a seguito della pubblicazione di un bando per l’assegnazione di una gara pubblica, dev’essere unica, e presiedere, pertanto, allo svolgimento di tutte le fasi della procedura evidenziale, compresa l’esecuzione del contratto, cioè il momento in cui la stazione appaltante e l’aggiudicatario sono collocati in posizione paritetica.
    La complessiva attività del responsabile ha quale scopo il costante controllo sul corretto svolgimento della gara pubblica ed è connotata generalità e, al contempo, da residualità.
    Più in chiaro.
    In disparte le attribuzione singolarmente contemplate nel codice dei contratti pubblici, nonché quelle espressamente enucleate nell’art. 10, d. lgs. n. 163/2006, al responsabile del procedimento, giusta il comma 2 della prescrizione appena richiamata, vengono assegnati tutti i compiti inerenti le procedure di affidamento “che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti”.
    Si evince, pertanto, che al responsabile procedimentale sono ascrivibili tutti gli incombenti non riconducili ad altri soggetti, cosicché, in assenza di puntuali prescrizioni, detto responsabile rappresenta il referente della procedura di evidenza pubblica, garantendosi, quindi, il pieno rispetto del buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97, comma 2, Cost.
    La competenza generale e residuale, così come descritta, ha quale presupposto che il responsabile del procedimento sia in possesso di un titolo di studio, nonché di adeguate competenze specialistiche rispetto ai compiti per i quali è nominato, secondo quanto prescritto dall’art. 10, comma 5, d. lgs. n. 163/2006.
    Le segnalate caratteristiche facenti capo al responsabile del procedimento in materia di contratti pubblici -cioè le cognizioni tecniche e la competenza generale e residuale- costituiscono elementi che conferiscono, ad ogni evidenza, accentuati profili di autonomia e specialità rispetto alle funzioni del responsabile procedimentale contemplate dalla l. n. 241/1990.
    La disciplina di maggior dettaglio circa le funzioni svolte dal responsabile in materia di contratti pubblici è poi contenuta nel regolamento di esecuzione del d. lgs. n. 163/2006, cioè il già citato d.p.r. n. 207/2007, che, negli artt. 9 e 10, disciplina in maniera analitica i compiti di pertinenza del responsabile, specificando ad esempio -nel comma 4 dell’art. 9- i titoli o, comunque, i requisiti necessari affinché un soggetto possa rivestire la qualifica di responsabile.
    Tanto chiarito, tra le funzioni svolte dal responsabile del procedimento, un peculiare ruolo viene al medesimo assegnato, dall’art. 121, d.p.r. n. 207/2007, a fronte dello svolgimento della verifica di un’offerta anomala, ai sensi degli artt. 86, ss., d. lgs. n. 163/2006
    Come noto, la procedura di verifica di anomalia dell’offerta è un subprocedimento che si innesta in sede di scrutinio delle proposte di aggiudicazione della gara pubblica avanzate dalle imprese partecipanti, qualora una delle proposte abbia un contenuto, appunto, “anomalo”, cioè difforme dagli ordinari parametri economici presenti nello specifico segmento di mercato oggetto dell’appalto pubblico.
    L’istituto in esame ha quale ratio la tutela del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, scongiurando il rischio che la stazione appaltante stipuli un accordo con un’impresa aggiudicataria che, tuttavia, si riveli, in sede di esecuzione del contratto, inaffidabile.
    In sostanza, la proposizione di offerte eccessivamente vantaggiose per il soggetto pubblico aggiudicatore possono malcelare un artificioso abbassamento dei costi di esecuzione dell’attività che, in ultima analisi, mina la qualità e la corretta attuazione della prestazione, ledendo, in un’unica soluzione, tanto il buon andamento dell’azione amministrativa, quanto l’imparzialità della stessa, poiché verrebbero ad essere pregiudicate imprese affidabili in favore di società inaffidabili.
    Ciò chiarito circa la ratio del subprocedimento in esame, occorre rilevare come lo svolgimento dello stesso, soprattutto ove il metodo di aggiudicazione dell’appalto sia quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, è caratterizzato da elevati tassi di discrezionalità tecnica, presupponente specifiche cognizioni specialistiche.
    Invero, all’esito della procedura di verifica dell’anomalia dell’offerta, la stazione appaltante dovrà determinarsi in ordine alla affidabilità o meno dell’offerta scrutinata.
    Sulle modalità di svolgimento della verifica in parola è insorto, come già segnalato, un contrasto giurisprudenziale involgente l’esatta perimetrazione dell’attività svolta dal responsabile del procedimento.
    In particolare, l’ultimo capoverso dell’art. 88, d. lgs. n. 163/2006 assegna alla stazione appaltante il compito di eseguire la verifica dell’offerta anomala e dichiarare l’eventuale affidabilità della stessa.
    Il punto controverso riguarda l’eventualità se il concreto espletamento della verifica dell’anomalia dell’offerta sia incombente di competenza della commissione giudicatrice ovvero del responsabile del procedimento.
    Sul punto, parte della giurisprudenza ha statuito che il seggio di gara costituisce l’organismo tecnico deputato allo scrutinio delle offerte, cosicché al medesimo spetta la competenza circa la valutazione dell’anomalia dell’offerta e in ordine alla eventuale estromissione dalla procedura evidenziale.
    In ragione di ciò, si afferma che l’attività svolta dal responsabile del procedimento è un’attività strumentale rispetto alla determinazione spettante alla commissione giudicatrice, cosicché sarebbe illegittima l’aggiudicazione di una gara la quale, successivamente allo svolgimento della procedura di verifica di anomalia dell’offerta, si fondi su una determinazione assunta dal responsabile del procedimento anziché dal seggio di gara.
    Di diverso avviso è altra giurisprudenza.
    Si sostiene, nello specifico, che il responsabile del procedimento è il soggetto dotato di competenza sulla valutazione dell’offerta anomala, come evincibile dal tenore dell’art. 121, comma 4, d.p.r. n. 207/2007, a mente del quale detto responsabile, in sede di verifica delle offerte anomale, può avvalersi degli uffici della stazione appaltante, della stessa commissione ovvero può chiedere, ai sensi dell’art. 88, comma 1-bis, d. lgs. n. 163/2006, la nomina di un’apposita commissione.
    Tale precetto è previsto in materia di gare pubbliche da aggiudicare con l’offerta del prezzo più basso ma, in virtù del richiamo contenuto nel successivo comma 10, è estensibile anche alla procedura basate sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
    Dal complessivo regime giuridico segnalato, si deduce, pertanto, che è il responsabile del procedimento, e non il collegio di gara, l’organo competente a scrutinare l’offerta anomala.
    In posizione intermedia si colloca, infine, un minoritario orientamento, secondo cui la valutazione sull’anomalia dell’offerta spetta alla commissione giudicatrice, la quale, tuttavia, può conformarsi a quanto espresso dal responsabile del procedimento, necessitando, all’uopo, un presa d’atto del giudizio manifestato dal responsabile, non avendo, altrimenti, quest’ultimo l’indispensabile competenza per decidere in via autonoma sull’affidabilità dell’offerta.
    Delineato il contrasto ermeneutico nei termini appena esposti, su di esso si è registrato l’intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la quale ha ratificato il secondo degli orientamenti segnalati.
    Il Supremo Consesso amministrativo ha statuito, infatti, che lo scrutinio sull’anomalia dell’offerta è attribuito alla cognizione del responsabile del procedimento, come evincibile dal regime giuridico di cui all’art. 121, d.p.r. n. 207/2007, sebbene, poi, la determinazione finale sull’affidabilità dell’offerta, e il conseguente provvedimento di aggiudicazione, spetti alla stazione appaltante, in forza di quanto previsto dall’art. 88, d. lgs. n. 163/2006.
    In conclusione, può dunque affermarsi che tanto il legislatore, quanto la giurisprudenza assegnano e riconoscono un ruolo di assoluta centralità al responsabile del procedimento nello svolgimento dell’azione amministrativa.

    Voto:14
    Aderenza:14(buono)
    Completezza:14
    Approfondimento:13(discreto)
    Forma:15(ottimo)



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    Miglior tema in penale
    Premessi adeguati cenni sulla distinzione tra concorso di reati e conflitto apparente di norme, il candidato tratti in particolare del principio di specialità, anche con riferimento al tema del rapporto tra illecito amministrativo e penale.



    Il concorso di reati è regolato dal Capo terzo, del Titolo terzo del Codice Penale e, più esattamente, dagli artt. 71 e seguenti c.p., tra le forme di manifestazione del reato, mentre al fenomeno del concorso apparente di norme il legislatore dedica soltanto l’art. 15 c.p, come norma generale. Gli istituti in esame sono profondamente diversi, in quanto l’applicazione dell’uno postula, necessariamente, l’esclusione dell’altro: in caso di concorso effettivo di reati il soggetto agente vedrà applicarsi le norme riferite ai diversi reati commessi; nel caso di conflitto apparente di norme soltanto una è la norma che in concreto dovrà applicarsi al reo, in quanto unico è il reato commesso.
    In particolare, il concorso di reati si divide in materiale e formale. Si ha concorso di reati materiale, quando il soggetto con più azioni od omissioni viola diverse disposizioni di legge (concorso materiale eterogeneo) ovvero più volte la medesima disposizione di legge (concorso materiale omogeneo). Si ha, invece, concorso formale quando il soggetto con una sola azione viola diverse disposizioni di legge (concorso formale eterogeneo) o più volte la medesima disposizione di legge (concorso formale omogeneo).
    Al fine dell’applicazione dell’uno o dell’altro tipo di concorso effettivo di reati, dato che diverse sono le conseguenze sanzionatorie, è necessario preliminarmente stabilire quando si può parlare di unità o pluralità di azione. A tal riguardo, la dottrina dominante ritiene che l’azione è unica quando è composta da più atti integranti i requisiti di una fattispecie legale. Si pensi, ad esempio, all’omicida che infligge più coltellate sulla vittima: nonostante la sua condotta sia integrata da più atti (più coltellate) il reato integrato è unico (omicidio). L’azione è, inoltre, unica quando la norma prevede il compimento di atti che da soli integrerebbero reato, come avviene, ad esempio, nel reato complesso di rapina, la cui fattispecie è integrata dalla condotta del furto e della violenza privata: anche in tal caso il reo risponderà per un unico reato.
    Le conseguenze sanzionatorie sono diverse a seconda che ci si trovi dinanzi ad un concorso materiale o formale. Nel primo caso il soggetto agente risponderà di tutti i reati commessi e vedrà applicarsi la sanzione penale per ciascun tipo di illecito, con i temperamenti sanciti dagli artt. 78 e 79 c.p. Infatti, il legislatore prevede per il concorso materiale l’applicazione del cumulo materiale e, cioè, l’applicazione di tante pene per quanti sono i reati commessi. Il codice Zanardelli del 1889 prevedeva anche per il concorso materiale l’applicazione del cumulo giuridico, il codice Rocco, spinto da un’ideologia politica più repressiva, ha, invece, previsto il cumulo materiale.
    Occorre sottolineare che si può avere concorso materiale anche quando le pene sono previste da più sentenze o più decreti penali di condanna (art. 80 c.p.).
    Si è criticato, da parte di una certa dottrina, l’inquadramento del concorso materiale tra le forme di manifestazione del reato, dubitando che l’istituto in esame possa essere considerato di diritto sostanziale. Si è detto, infatti, che il concorso materiale ha carattere meramente processuale, dal quale dipende l’esatto inquadramento della competenza del giudice o l’applicazione dell’istituto della riunione dei processi. A tali impostazioni si obietta la natura sostanziale del concorso materiale di reati, da come si può evincere, ad esempio, dal chiaro richiamo effettuato dall’art. 61 n. 2 c.p..
    Il riformato art. 81 c.p., al secondo comma, prevede una specificazione del concorso materiale eterogeneo, al quale si applica la disciplina più mite del cumulo giuridico. La specificità di questo tipo di concorso materiale è data dalla medesimedezza del disegno criminoso, che secondo la ratio della norma tenderebbe a configurare la condotta del soggetto agente meno riprovevole, rispetto a chi ha commesso più violazioni di legge in tempi diversi, dato che il reo ha ceduto ai motivi a delinquere una sola volta, e, cioè, nel momento originario della prospettazione del progetto criminale. Pertanto, l’applicazione, sic et simpliciter, del concorso materiale residua ai soli casi di concorso materiale omogeneo ovvero eterogeneo, laddove non possa riscontrarsi l’unitarietà del disegno criminoso.
    Il concorso formale di reati, invece, è regolato dal primo comma dell’art. 81 c.p., il quale prevede l’applicazione del cumulo giuridico, ossia la pena prevista per il reato più grave aumentata sino al triplo.
    Secondo un’impostazione, la disciplina del concorso di reati sarebbe dovuto essere posta nella parte dedicata alle pene, essendo un istituto che riguarda l’applicazione in concreto della pena. A tale impostazione si obietta che dall’istituto derivano anche altre importanti conseguenze giuridiche come, ad esempio, il computo dei termini per la prescrizione.
    Il fenomeno del concorso apparente di norme comporta che sia già risolta la questione dell’unità o pluralità di reati, posto che in tal caso la condotta solo apparentemente sembrerebbe essere riconducibile sotto due o più fattispecie, anche se nella realtà solo una norma è applicabile al caso concreto. Il problema che comporta l’istituto in esame è proprio quello di stabilire quale sia la norma in concreto applicabile. A tal fine il legislatore detta un unico criterio, quello della specialità, ex art. 15 c.p, sussumibile nel brocardo latino “lex specialis derogat generali”.
    In particolare, la specialità può intercorrere tra una legge penale e una legge speciale, come, ad esempio, il codice militare: in tal caso, si applicherà la norma speciale; oppure tra una norma penale e una sanzione amministrativa, nel qual caso vige il criterio della specialità ex art. 9 della L. 689/81. Più problematica è la questione tra pluralità di norme penali. A tal riguardo, occorre distinguere le norme cumulative, in cui il legislatore prevede una diversità di condotte, che, se integrate, porteranno il reo a rispondere per ciascuna di essa, essendo un caso di concorso effettivo di reati. Si pensi, ad esempio, all’art. 600 ter c.p. oppure all’art. 73 del DPR 309/90: in entrambi i casi, il legislatore tipizza una serie di condotte che il soggetto potrebbe cumulativamente porre in essere. Diverso, è invece, il caso di norme alternative, nel qual caso il legislatore tipizza un medesimo fatto di reato che concretamente potrebbe realizzarsi attraverso diverse condotte, come ad esempio il reato di accattonaggio.
    L’art. 15 c.p., inoltre, richiede che la pluralità di norme regoli la stessa materia. Al riguardo, una tesi tralatizia sostiene che per stessa materia si debba intendere stesso bene giuridico, per cui due norme possono essere in rapporto di specialità solo se sono poste a presidio della medesima oggettività giuridica. La giurisprudenza attualmente dominante ritiene ormai superata tale tesi, la quale porterebbe a delle conseguenze inaccettabili e ritiene che per stessa materia debba intendersi medesima situazione di fatto, a prescindere che le due norme tutelino bene giuridici diversi. Pertanto, ben può riconoscersi speciale la norma sul peculato rispetto a quella sull’appropriazione indebita, nonostante l’una è posta a tutela del buon andamento della PA e l’altra è una norma a favore del patrimonio.
    Si è specificato, inoltre, che la ratio dell’articolo in esame non è solo quella di porre in rapporto di specialità due norme incriminatrici, ma anche una norma incriminatrice e una norma circostanziata, per tali motivi il legislatore non ha utilizzato l’espressione stessa situazione di fatto, ma ha preferito i termini “stessa materia”.
    Per quanto concerne il criterio regolatore del concorso apparente di norme, in dottrina si registrano due orientamenti. Secondo la tesi monistica, esiste un unico criterio definito dal legislatore all’art. 15 c.p., il quale regola il rapporto di specialità unilaterale ed in astratto: una norma è speciale rispetto all’altra solo se contiene tutti gli elementi della norma generale più un elemento specializzante, per aggiunta o per specificazione, per cui se non esistesse tale norma speciale troverebbe nuovamente applicazione la norma generale. Questa è la tesi che fa leva, per l’appunto, al principio di legalità e sufficiente determinatezza, ex art. 25.2 Cost. e art. 1 c.p., non ritenendo esistenti ulteriori criteri, dato che il legislatore non li ha espressamente previsti. Secondo le tesi pluralistiche, sono da rintracciarsi ulteriori criteri, volti a regolare il fenomeno del concorso apparente di norme, estendendo, così, la portata applicativa dell’istituto in esame a fattispecie per le quali appare dubbia l’esistenza di un tale fenomeno. Tali tesi trovano il fondamento in esigenze di giustizia sostanziale. Si è così parlato di specialità in concreto, da ravvisarsi nel caso specifico tra norme solo apparentemente in conflitto. Facile obiettare a tali tesi la considerazione che simile ragionamento, più che esprimere un giudizio logico-razionale, esprimerebbe un giudizio di valore, fondato sull’intuizione del giudice e che porterebbe ad evidenti inique conseguenze.
    Si è parlato, ancora, di specialità bilaterale o reciproca, laddove due norme contengano entrambe un elemento specializzante rispetto all’altra. Esempio di scuola, è il rapporto tra l’ipotesi di aggiotaggio comune, ex art. 501.1 c.p., e aggiotaggio societario, ex art. 2628 c.c., laddove l’aggiottaggio comune richiede il dolo specifico a differenza dell’aggiottaggio societario che richiede il dolo generico; al tempo stesso, però, l’art. 2628 c.c. è un reato proprio, posto che il reato può essere compiuto soltanto dagli amministratori della società e da altri soggetti specificatamente indicati nell’articolo, mentre la previsione dell’art. 501.1 c.p. è un reato comune, che può essere commesso da chiunque.
    Un ulteriore tesi, che fa leva sulla clausola di riserva espressa nell’art. 15 c.p., ritiene che esistano due criteri: quello della specialità e quello della sussidiarietà. L’art. 15 c.p., infatti, prevedendo l’inciso “salvo che sia altrimenti stabilito” sottintende la presenza di ulteriori criteri regolatori. In particolare, secondo tale orientamento la norma speciale non trova solo esistenza in ipotesi di sussidiarietà espressa, ma anche in ipotesi di sussidiarietà tacita, il che avviene quando una norma descrive uno stadio o grado diverso e consequenziale dell’illiceità del fatto previsto da una norma base, la quale verrebbe, così, ricompresa nella prima. Anche a tale tesi si obietta che, stante il principio di legalità, nel nostro ordinamento penalistico si possono ravvisare soltanto clausole di sussidiarietà espressa, pertanto, solo il legislatore può prevedere l’applicazione di una norma sussidiaria, essendo proprio questo il fondamento della clausola di riserva presente nell’art. 15 c.p.
    Secondo la tesi che fa leva sul principio di consunzione o di assorbimento, si ravvisa concorso apparente di norme anche tra norme aventi una diversa natura giuridica e ratio. In tal caso, attraverso un giudizio di valore, la norma che in concreto trova applicazione contemplerebbe anche l’illiceità penale di un’altra norma che rimarrebbe cosi assorbita nella prima. È il caso del rapporto tra falsa testimonianza, ex art. 372 c.p., e favoreggiamento personale, ex art. 378 c.p., qualora la condotta di favoreggiamento è compiuta da un testimone mediante la condotta di falsa testimonianza. In tal caso, si ritiene che le mendaci dichiarazioni, costituenti il delitto di cui all’art. 372 c.p. sono solo esplicazione di una modalità della condotta di cui all’art. 378 c.p. e che pertanto l’illiceità penale del delitto di falsa testimonianza sarebbe assorbito in quello di favoreggiamento. I criteri della progressione criminosa, costituenti l’antefatto o postfatto non punibile, costituiscono ninet’altro che applicazione della tesi in esame.
    La ratio delle tesi pluralistiche è da rintracciare in quella esigenza di giustizia sostanziale, da alcuni ravvisata, per l’appunto, nel principio del ne bis in idem sostanziale. Si è detto, infatti, che esistendo il ne bis in idem processuale, ex art. 649 c.p.p., per il quale uno stesso soggetto non può essere giudicato due volte per uno stesso fatto, analogicamente tale istituto sarebbe esteso anche al diritto sostanziale, trovando il suo fondamento nel favor rei. Tale tesi parte dal necessario presupposto che il divieto di analogia nel diritto penale non è assoluto, ma è applicabile nei casi in cui ciò possa andare a favore del reo. Tali esigenze di giustizia sostanziale vennero riprese nel progetto di riforma del codice penale attuato dalla Commissione Grosso del 1999, il quale aveva riscritto l’art. 15 c.p. nell’art. 4. Tale articolo non recava più l’espressione “stessa materia” e prevedeva la possibilità del Giudice di utilizzare criteri diversi dal criterio di specialità, attraverso il rinvio a criteri fondati su giudizi di valore.
    Tuttavia, la giurisprudenza dominante, in conformità al principio di legalità, ex art. 25. 2 Cost, art. 1 c.p., e art. 7 CEDU, ed in particolare al principio di tassatività, ritiene che esista un unico criterio volto a regolare il conflitto apparente di norme ed è proprio quello di specialità ex art. 15 c.p. Si specifica che tale criterio è da intendersi soltanto come specialità unilaterale ed in astratto, per cui due norme sono poste in rapporto di specialità soltanto quando la condotta della norma speciale passa inevitabilmente per l’esplicazione della condotta di una norma generale, come avviene nel caso paradigmatico del reato di oltraggio a magistrato in udienza: qui il reato di ingiuria è ricompreso nella norma speciale, dato che la condotta di cui all’art. 343 c.p. può essere compiuta soltanto attraverso un’ ingiuria. Per tale motivo la giurisprudenza della Suprema Corte ha escluso l’esistenza di un rapporto di specialità tra il reato di incendio e il delitto di crollo di costruzioni, anche se tale ultimo reato è avvenuto proprio attraverso la condotta di incendio. Si è precisato, dunque, che tra le due norme non possa ravvisarsi un rapporto di specialità unilaterale in astratto perché la condotta di cui all’art. 434 c.p. non avviene inevitabilmente attraverso la condotta del reato ex art. 423 c.p..
    Anche di recente le Sezioni Unite sono intervenute ribadendo l’esclusività del criterio regolatore di cui all’art. 15 c.p., da intendersi come rapporto di specialità unilaterale ed in astratto, essendo il diritto penale fondato sul principio di legalità, per cui solo il legislatore può dettare ulteriori criteri, ed affermando che il conflitto apparente di norme deve essere risolto attraverso criteri logico-razionali e non fondati su esigenze di giustizia sostanziale, esprimenti, sostanzialmente, giudizi di valore. In tal caso, infatti, l’analisi di un rapporto di specialità tra norme verrebbe fondata su un mero giudizio del Giudice, il quale attraverso un ragionamento intuitivo potrebbe ravvisare un conflitto apparente di norme relativamente al singolo caso concreto, di fatto inesistente, con le ovvie inique conseguenze che uno stesso fatto sarebbe giudicato in maniera diversa da un altro Giudice. Da ultimo, le Sezioni Unite hanno rintracciato il fondamento del principio di legalità anche attraverso il ricorso all’art. 7 Cedu, norma fondamentale che trova applicazione nel nostro ordinamento, attraverso il rinvio espresso ex art. 117.1 Cost. Secondo tale articolo l’accessibilità e la prevedibilità sono caratteri fondamentali del principio di legalità. In particolare, il carattere dell’accessibilità sta, per l’appunto, ad indicare il principio di sufficiente determinatezza, corollario del principio di legalità, per cui il legislatore deve determinare ex ante le condotte illecite, in modo tale che il cittadino sia in grado di orientare il suo comportamento nei limiti della legalità; mentre il carattere della prevedibilità passa anche attraverso l’interpretazione del Giudice del diritto vivente.
    Quanto ai rapporti tra illecito amministrativo e illecito penale il principio regolatore è stabilito all’art. 9 della L. 689/81. In tale articolo, intitolato “Principio di specialità”, il legislatore prevede che quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione amministrativa, ovvero da una pluralità di norme amministrative, si applica la norma speciale. Pertanto, ben può configurarsi un’ipotesi di conflitto apparente tra norme penali e amministrative. Tuttavia, anche qui il problema è capire quale è la disposizione speciale. Al riguardo, si segnala una recente sentenza delle Sezioni Unite del 2011 che si è occupata dei rapporti tra il reato di cui all’art. 334 c.p. e l’illecito amministrativo di cui all’art. 213 del Codice della Strada. Le SU sono intervenute proprio per dirimere un contrasto registratosi in giurisprudenza tra chi riteneva che tra le due norme intercorresse un rapporto di specialità e chi, invece, lo negava.
    Secondo una prima tesi, le due norme sono in rapporto di specialità bilaterale o reciproca, posto che entrambe presentano un elemento specializzante rispetto all’altra. Infatti, il quarto comma dell’art. 213 Cds prevede la sanzione amministrativa per colui che circoli abusivamente con il veicolo sottoposto a sequestro, mentre l’art. 334 c.p. prevede una serie di condotte, tra cui la sottrazione, commessa dal custode o dal custode-proprietario di una cosa sottoposta a sequestro. Si è detto, cioè, che mentre l’art. 213 Cds è un illecito che può essere commesso da chiunque, il reato di cui all’art. 334 c.p.è un reato proprio che può essere commesso solo dal custode non proprietario ovvero dal custode proprietario; inoltre, la condotta di circolazione abusiva è un’ipotesi specifica della generica condotta di sottrazione ed, infine, il sequestro amministrativo è un’ipotesi diversa dal sequestro penale di cui all’art. 334 c.p. Pertanto, tale tesi nega che tra le due norme vi sia un concorso apparente di norme.
    L’altro orientamento, ritiene, invece, tale conflitto esistente qualora la condotta di circolazione abusiva di un veicolo sottoposto a sequestro venga commessa dal custode non proprietario o dal proprietario custode: in tal caso la fattispecie di cui all’art. 334 c.p. sarebbe assorbita nella condotta dell’art. 213 Cds.
    Ebbene le SU nella recente sentenza, discutibilmente, hanno optato per tale ultima tesi, contravvenendo, così, a quanto affermato sino ad ora dalla giurisprudenza dominante, che ritiene che un concorso apparente di norme possa essere risolto soltanto sulla base di un rapporto di specialità unilaterale ed in astratto. Alcune voci dottrinarie obiettano, infatti, alle SU che non sempre può dirsi che la realizzazione dell’illecito amministrativo passi inevitabilmente per la realizzazione dell’illecito penale, ma solo nei determinati casi in cui a compiere la circolazione abusiva sia il custode non proprietario ovvero il proprietario custode.

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    Aderente alla traccia, completo e organico. Non presenta errori di rilievo. Approfondimento adeguato. Buono nello stile.
     
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  3. jugly
     
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    Ho visto la pubblicazione del miglior tema di diritto amministrativo di maggio, ma non ho ancora ricevuto la correzione del mio tema svolto in quella materia.
    Ciao
     
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    al più presto provvederemo... :)
     
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    Miglior tema in diritto civile
    La rilevazione d'ufficio della nullità, tratti il candidato dei poteri del giudice nella rilevazione d'ufficio della nullità in presenza di una domanda di risoluzione, rescissione e annullamento, tratti altresì il candidato dei poteri del giudice a fronte di una domanda di nullità parziale.

    Nel nostro sistema normativo la categoria dell’invalidità designa la qualità del contratto in quanto affetto da un vizio che lo espone a determinati rimedi contrattuali.
    La nullità è considerata la forma più grave di tale categoria: essa, come ha osservato la dottrina tradizionale, rappresenta un giudizio di radicale disvalore dell’ordinamento, il quale sanziona in tal modo quel contratto che, per una serie di ragioni funzionali o strutturali, non è ritenuto degno di tutela e per tale motivo inidoneo a produrre gli effetti voluti dalle parti.
    Uno dei caratteri precipui della nullità – che ne connota la contrapposizione alla altra forma di invalidità, vale a dire la annullabilità, che può farsi valere solo ad istanza di parte – è la sua rilevabilità d’ufficio dal giudice.
    L’art. 1421 cod. civ. dispone, infatti, che la nullità è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo.
    La ratio risiede nella stessa legittimazione cd. allargata ad invocare la nullità: essa, infatti, può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse. Essendo il contratto nullo lesivo di un interesse generale, è, dunque, opportuno che la nullità emerga ed il contratto non sia portato ad attuazione: ciò si realizza ampliando la legittimazione di coloro che possono promuoverla.
    In forza del disposto di cui all’art. 1421 cod. civ., pertanto, la nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice, vale a dire indipendentemente dalla attività assertiva delle parti e anche in sede di giudizio di legittimità, purché non siano necessarie nuove indagini o accertamenti di fatto.
    Il diritto vivente ha potuto registrare un acceso dibattito riguardante la questione inerente i limiti di siffatto potere.
    Con maggiore impegno esplicativo, si è controvertito se il giudice potesse rilevare d’ufficio la nullità indipendentemente o meno dal tipo di azione esercitata e, correlativamente, dal tipo di pronuncia richiestagli.
    Il vero punctum pruriens della presente problematica ha riguardato, in sostanza, la questione relativa al potere di rilevare d’ufficio la nullità solo allorché fosse proposta domanda di esatto adempimento o anche nel caso di domanda di risoluzione, di annullamento o di rescissione del contratto.
    Orbene, la elaborazione giurisprudenziale al riguardo ha conosciuto indirizzi contrastanti, essendosi registrati, infatti, opposte prese di posizione.
    L’orientamento maggioritario, avendo ritenuto pacifico il potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità del contratto nel caso di domanda di adempimento del contratto, aveva delineato i limiti sofferti da tale potere, dovendosi coordinare l’art. 1421 cod. civ. con l’art. 112 cod. proc. civ., il quale, sulla base del principio dispositivo su cui va modellato il processo, impone al giudicante il limite invalicabile della domanda attorea, anche alla luce dell’art. 111 Cost., che richiede di evitare, al di là delle precise e certe indicazioni normative, ampliamenti dei poteri di iniziativa officiosa.
    Secondo tale orientamento, pertanto, solo in caso di contestazione della applicazione o della esecuzione di un atto la cui validità rappresentasse un elemento costitutivo della domanda, il giudice era tenuto a rilevare, in qualsiasi stato e grado del giudizio, la eventuale nullità dell’atto, indipendentemente dalla attività assertiva delle parti; al contrario, nel caso in cui la domanda fosse diretta a far dichiarare la invalidità del contratto o a farne pronunciare la risoluzione per inadempimento, la deduzione (nella prima ipotesi) di una causa di nullità diversa da quella posta a fondamento della domanda e (nella seconda ipotesi) di una qualsiasi causa di nullità o di un fatto costitutivo diverso dall’inadempimento sono inammissibili: né tali questioni potevano essere rilevate d’ufficio, ostandovi il divieto di pronunciare ultra petita.
    Poiché l’azione di risoluzione e quella di nullità, secondo tale impostazione, differirebbero tra loro sia per il petitum che per la causa petendi, il giudice, investito della cognizione dell’una, non avrebbe potuto dichiarare l’altra, in quanto sarebbe incorso nel vizio di ultrapetizione, attribuendo alla parte un bene giuridico diverso da quello richiesto.
    In senso contrario all’orientamento appena delineato, si erano registrate, tuttavia, successive aperture, seppur isolate, al rilievo incidentale della nullità.
    Aderendo ad una precisa impostazione dottrinale, tali orientamenti erano fermi nel ritenere che la nullità di un contratto, del quale fosse stata chiesta la risoluzione, l’annullamento o la rescissione, potesse essere rilevata d’ufficio senza incorrere nel vizio di ultrapetizione. Pertanto, nel caso in questione, il giudice avrebbe preceduto ad un accertamento incidentale relativo ad una pregiudiziale in senso logico-giuridico, vale a dire concernente il fatto costitutivo che si faccia valere in giudizio – cd. punto pregiudiziale – e in quanto tale non rientrante nel campo di applicazione di cui all’art. 34 cod.proc.civ., idoneo a passare in giudicato, con efficacia non soltanto sulla pronuncia finale, ma anche e soprattutto circa la esistenza del rapporto giuridico sul quale la pretesa si fonda.
    Precipitato logico di quanto sopra enunciato era che oltre alla domanda di adempimento o di esecuzione, anche la domanda di risoluzione e di annullamento presupponessero la validità del contratto e, in quanto tali, avrebbero costituito mezzo giuridico per eliminarne, in alcuni casi, gli effetti.
    Pertanto, anche la domanda di risoluzione e di annullamento presuppongono e fanno valere un diritto potestativo di impugnativa contrattuale nascente dal contratto, non meno del diritto all’adempimento. Se ci fosse nullità, infatti, nessun diritto o potestà sarebbero potuti derivare dal rapporto dedotto in controversia, poiché lo stesso rapporto non sarebbe sorto.
    La validità del contratto, di conseguenza, si porrebbe come pregiudiziale sia delle domande di adempimento o di esecuzione, sia di quella di annullamento e di risoluzione, presupponendo l’esistenza di un contratto valido.
    Sulla scorta di siffatte differenti prese di posizione della prassi pretoria si è reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte.
    Queste ultime, in primis, individuano una ragione essenzialmente logica della insostenibilità dell’orientamento giurisprudenziale che impediva al giudice, adito con una azione di risoluzione, di rilevare la nullità del contratto: anche la domanda di risoluzione postula, infatti, l’esistenza di un atto valido, poiché mira ad eliminarne gli effetti. Ne consegue che, poiché il diritto potestativo di intermediazione giudiziale nel quale si risolve l’azione di risoluzione del contratto origina pur sempre dal contratto, se, sulla base delle allegazioni delle parti e da quanto emerge dalle acquisizioni di causa, risulta che il contratto è nullo e, dunque, inidoneo ad essere presupposto di quel diritto, il giudice dovrà rilevare la questione anche d’ufficio: diversamente, egli verrebbe a riconoscere effetto, sia pure ai limitati fini di configurarlo quale presupposto di quel diritto potestativo, ad un contratto che, invece, è, ontologicamente, improduttivo di effetti.
    Secondo gli Ermellini, inoltre, la funzione del giudizio di nullità è volta ad impedire che il contratto nullo possa spiegare i propri effetti, cosicché negare la rilevabilità d’ufficio della nullità di un contratto di cui si sia domandata la risoluzione finisce per svilire la categoria dogmatica della nullità, la cui specialità deve essere ravvisata nella tutela degli interessi generali e di valori fondamentali che trascendono quelli del singolo.
    La ragione della ritrosia della giurisprudenza maggioritaria a trarre fino in fondo i logici corollari della regola della rilevabilità d’ufficio della nullità viene ravvisata nella peculiare natura della norma, situata al crocevia tra diritto sostanziale e diritto processuale, che, per il timore dell’ultrapetizione, ne ha visto circoscrivere la propria portata e, con essa, quella della rilevabilità d’ufficio della nullità.
    Pertanto, anche nel caso di rilievo di ufficio della nullità del contratto del quale sia stata domandata la risoluzione, opera la caratteristica funzione oppositiva di cui all’art. 1421 cod.civ., ponendo capo ad una decisione che, in questo caso, è comunque destinata a rimanere all’interno dei limiti del petitum: mentre una siffatta funzione oppositiva non sarebbe ravvisabile con la medesima chiarezza nel caso di azione di annullamento.
    Ed invero, la affermazione della rilevabilità d’ufficio nel caso de quo viene ricondotta all’interno della prospettiva della collaborazione tra il giudice e le parti nella determinazione della materia oggetto della controversia, che emerge dalla possibilità, prevista dal comma 5 dell’art. 183 cod.proc.civ., per le parti, a seguito di rilievo officioso di una questione da parte del giudice, di formulare ogni domanda che ne sia conseguenza, così come nella disposizione dell’art. 101, comma 2, cod.proc.civ., la quale impone al giudice, che sia in fase di riserva della decisione, qualora ritenga di porre a fondamento di quest’ultima una questione rilevata d’ufficio, di assegnare alle parti un termine per memorie contenenti osservazioni sulla questione ed, infine, nella previsione dell’art. 153 cod.proc.civ., con l’ampliamento da essa introdotto della facoltà di essere rimessa in termini.
    Pertanto, nel caso in cui, all’esito del rilievo officioso da parte del giudice, sia stata formulata, tempestivamente e previa rimessione in termini, domanda volta all’accertamento della nullità e ad eventuali effetti restitutori, la decisione che sul punto il giudice adotterà sarà idonea a passare in giudicato. Nel caso in cui, pure in presenza della segnalazione della questione della nullità da parte del giudice, non sia stata formulata la corrispondente domanda, il rilievo della nullità determinerà soltanto il rigetto della domanda di risoluzione, con accertamento meramente incidentale, inidoneo a produrre effetto di giudicato.
    Qualora si giungesse a soluzioni opposte, si verificherebbe un abuso del diritto di agire in giudizio della parte che, dopo aver beneficiato del rilievo officioso della nullità di un contratto, faccia valere in giudizio un diritto in ipotesi derivante da quello stesso contratto, rilevato nullo dal giudice.
    L’approdo giurisprudenziale cui sono giunte le Sezioni Unite pare, peraltro, condivisibile in un quadro di considerazione unitaria della rilevabilità d’ufficio della nullità e avvalorato non solo dalla stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – che, in materia di rilievo officioso della abusività di una clausola contrattuale, consente di cogliere un rafforzamento del potere-dovere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità, ma anche dalla più recente giurisprudenza amministrativa, ferma nel ritenere che il potere conferito dalla legge al giudice costituisca una potestà (cd. potere-dovere), il cui esercizio è sempre obbligatorio e mai facoltativo, quale predicato naturale del ruolo di imparziale garante della esatta applicazione delle regole processuali che la legge gli ha assegnato.
    Le considerazioni fin qui svolte hanno, tuttavia, lasciato impregiudicato il problema della estensibilità anche alle ipotesi di domanda di annullamento e di rescissione, lasciando intendere che non sarebbe la possibile percorribilità dello stesso iter argomentativo relativo alla risoluzione.
    In effetti, va dato pregio di un orientamento dottrinale che aveva osservato come, nel caso delle azioni de quibus, la domanda attorea è pur sempre di invalidazione per vizi genetici, cosicché il suo accoglimento non presupporrebbe né l’efficacia vincolante, né la validità del contratto; difetterebbe, dunque, in questi casi, la effettiva ratio sottostante la regola della rilevabilità d’ufficio della nullità, vale a dire il giudizio di totale disvalore dell’ordinamento giuridico nei confronti del contratto nullo.
    Il diritto vivente non è rimasto insensibile alle critiche rivolte in sede dottrinale: sono, infatti, le summenzionate ragioni che, da ultimo, si rinvengono alla base della ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, avente ad oggetto il riferito contrasto giurisprudenziale nella diversa ipotesi in cui la nullità venga rilevata d’ufficio all’interno di una domanda di annullamento del contratto.
    La riferita lettura restrittiva adottata da una parte della giurisprudenza prima dell’intervento delle Sezioni Unite in materia di rilevabilità d’ufficio della nullità ha trovato espressione nel caso di estensione della nullità di singole clausole all’intero contratto. Alla stregua di siffatta opzione ermeneutica l’estensione della nullità all’intero contratto non può essere dichiarata d’ufficio dal giudice indipendentemente dall’impulso di parte, gravando, conseguentemente, sul soggetto interessato alla nullità totale l’onere di provare, con ogni mezzo idoneo, l’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dal patto inficiato da nullità.
    Tale indirizzo pretorio si basa, invero, su una duplice argomentazione: da una parte, la portata dell’art. 1419 cod. civ., quale espressione del principio di conservazione del contratto, rispetto al quale l’effetto estensivo della nullità verrebbe ad assumere carattere eccezionale; dall’altra, l’applicazione in tale ipotesi del divieto di cui all’art. 112 cod.proc.civ., in base al quale al giudice non è permesso pronunciarsi oltre i limiti della domanda, pena il ricorrere del vizio di ultrapetizione.
    La stessa giurisprudenza, tuttavia, ha adottato una differente soluzione in presenza della situazione inversa rispetto a quella appena descritta: a fronte, infatti, della domanda di nullità totale si ritiene pienamente ammissibile una pronuncia ex officio della nullità parziale, poiché, in siffatta ipotesi, si rimarrebbe pur sempre nei limiti della domanda della parte, accogliendola soltanto parzialmente. In questo caso, dunque, il giudice sarebbe legittimato, proprio in virtù dello stesso art. 112 cod.proc.civ., a pronunciare d’ufficio la nullità parziale, pur in assenza dello impulso di parte, poiché all’interno della nullità totale sarebbe ricompresa la nullità parziale.
    Non sono mancate in dottrina aspre critiche nei confronti della delineata impostazione, ritenuta non condivisibile nel momento in cui postula un rapporto di gradualità tra la nullità parziale e quella totale. Si tratterebbe, infatti, ad avviso di alcuni, di istituti non assimilabili né da un punto di vista di diritto sostanziale, né da un punto di vista di diritto processuale: da una parte, infatti, si evidenzia come mentre la nullità totale comporta una inefficacia ab origine del contratto, nel caso di nullità parziale, invece, afferendo il vizio genetico ad una sola parte del contenuto negoziale, il negozio sia idoneo ad esplicare la sua efficacia, salvo l’accertamento giudiziale della non volizione del contratto ridotto nel suo contenuto; dall’altra parte, si sottolinea come, sotto il profilo processuale, le due domande siano volte ad ottenere utilità diverse, laddove la parte che agisce per ottenere una pronuncia di nullità totale non intenda rimanere vincolata ad un regolamento non più conforme all’assetto originario degli interessi, mentre il soggetto che chiede la nullità parziale manifesta la volontà opposta di rimanere vincolato al negozio epurato dalla disposizione invalida.
    In conformità alle osservazioni suesposte, si è affermato, dunque, che una pronuncia ex officio di nullità parziale a fronte di una domanda di nullità totale si porrebbe in contrasto con la volontà delle parti e sarebbe, pertanto, affetta dal vizio di ultrapetizione.

    GIUDIZIO 17/18
    Il candidato coglie in modo eccellente il problema conoscitivo e lo sviluppa in modo adeguato, in particolare il candidato mostra non solo di conoscere profondamente i principi del diritto civile ma anche di saperli coordinare con le regole proprie del diritto processuale civile.
    Complimenti
     
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    Scusami Togasana,
    si sa qualcosa della correzione del tema di amministrativo di maggio?
    Non ho intenzione di mettere fretta, anche perchè dubito di avere composto un capolavoro, ma vorrei capire quali sono i miei errori.
    Grazie
     
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    CITAZIONE (jugly @ 16/7/2013, 18:01) 
    Scusami Togasana,
    si sa qualcosa della correzione del tema di amministrativo di maggio?
    Non ho intenzione di mettere fretta, anche perchè dubito di avere composto un capolavoro, ma vorrei capire quali sono i miei errori.
    Grazie

    ri-sollecito e ti faccio sapere.
     
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