Tracce temi dicembre 2012

tracce e migliori elaborati del mese

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    Diritto civile
    Tutte tracce principali

    1) Premessi adeguati cenni sul principio di libertà della forma, si soffermi il candidato sul principio di corrispondenza delle forme con particolare riferimento ai negozi di secondo grado.

    2) Premessi adeguati cenni sulle nullità di protezioni, si soffermi il candidato sulla possibile disponibilità delle parti della forma nei contratti bancari,anche con riguardo alla mancata sottoscrizione da parte dell'istituto di credito del contratto quadro.



    Tracce di diritto amministrativo

    1) Il risarcimento mediante reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo.

    2) La retrocessione dei beni espropriati.

    3) Ricostruiti i rapporti tra procedimento e contratto alla luce della teorica dell'evidenza pubblica, si soffermi il candidato sulla sorte dello strumento negoziale in conseguenza, rispettivamente, dell'annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione e della caducazione in sede giurisdizionale dell'atto di approvazione.
    Tratti, inoltre, il candidato dei profili inerenti il riparto di giurisdizione.



    Diritto penale
    traccia principale
    Nell'ambito dei fenomeni di compartecipazione nel reato, il candidato illustri il rilievo assunto dall'accordo criminoso, tanto nelle fattispecie plurisoggetive necessarie, quanto in quelle di concorso meramente eventuale; in particolare delinei poi spazio e rilevanza riconosciuti al concorso morale.

    TEMA OPZIONALE 1 (sarebbe preferibile svolgere la traccia principale prima di svolgere l'opzionale)
    Premessa l'illustrazione di ratio, natura e disciplina della responsabilità da reato della persona giuridica, il candidato valuti la possibilità di configurare un concorso di persone fisiche organi di persone giuridiche diverse nei reati presupposto ed un conseguente concorso di persone giuridiche nella responsabilità cd. amministrativa, nelle ipotesi di accordi negoziali in essere tra le stesse persone giuridiche coinvolte.

    TEMA OPZIONALE 2 (sarebbe preferibile svolgere quella principale prima di svolgere l'opzionale)
    Il concorso di più persone nel reato, con particolare riferimento alle ipotesi di concorso nel reato proprio ed alla responsabilità per reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti.



    Assegno penale per gennaio:
    Qualifiche soggettive dell'autore del reato nell'ambito della condotta - reati propri
    Condotta - reati a forma libera, reati a forma vincolata
    CAUSALITA'
    EVENTO - e condizioni obiettive di punibilità

    Edited by togasana - 4/12/2012, 13:04
     
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  2. evabianchi
     
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    scusa togasana, e le tracce di penale di dicembre?
    grazie
    eva
     
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    CITAZIONE (evabianchi @ 2/12/2012, 20:36) 
    scusa togasana, e le tracce di penale di dicembre?
    grazie
    eva

    devono ancora pervenire dal magistrato che si occupa del penale.
    ci siamo quasi ;)


    ps. occhio che la traccia n2 di amministrativo è stata cambiata :)
     
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    CITAZIONE (evabianchi @ 2/12/2012, 20:36) 
    scusa togasana, e le tracce di penale di dicembre?
    grazie
    eva

    ci sono leggi il post di apertura di questa discussione :)
     
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    Pubblico due temi di penale che hanno affrontato in modo più completo la tematica sottesa alla traccia, sebbene con impostazioni diverse.
    Manca un solo tema di penale che, qualora fosse eccellente, verrà ugualmente pubblicato.

    Migliori temi di penale

    1)Nell'ambito dei fenomeni di compartecipazione nel reato, il candidato illustri il rilievo assunto dall'accordo criminoso, tanto nelle fattispecie plurisoggetive necessarie, quanto in quelle di concorso meramente eventuale; in particolare delinei poi spazio e rilevanza riconosciuti al concorso morale.
    Uno dei principi cardine del diritto penale moderno è il principio di materialità del reato. Esso si compendia nel fatto che la volontà colpevole del soggetto attivo non può essere punita per il sol fatto di esistere, ma perché si è estrinsecata nel mondo materiale determinando una lesione del principio di offensività, sotto forma di lesione o messa in pericolo del bene giuridico protetto. In un sistema costituzionale come il nostro il diritto penale non può essere che diritto penale del fatto. A ragionare diversamente, configurando spazi per un diritto penale slegato dall’elemento materiale (v. certe fascinazioni di dottrina tedesca, ad es. Scuola di Kiel), si vulnererebbero in maniera inaccettabile sia il principio di colpevolezza ex art 27 c. 1 Cost. (la responsabilità deve essere legata ad un fatto proprio colpevole) sia il principio rieducativo della pena ex art. 27 c.3 (se non c’è un fatto in senso tecnico, il reo avrà serie difficoltà ad accettare la pena come giusta). Quello appena delineato è un principio immanente all’ordinamento penale che ha importanti e ben precisi corollari nel codice Rocco (artt. 49 e 115 c.p.). Il dato legislativo più importante è sicuramente l’art 49 c. 2 sul reato impossibile. Qui, l’ordinamento è come se traducesse il principio di materialità. In altre parole, finché la volontà criminosa non superi una certa soglia, cioè non si oggettivizzi in un’ azione idonea, la punibilità è esclusa seppure non in toto. Infatti, non si applicheranno pene (salvo il 49 c.3), ma potrà applicarsi la misura di sicurezza della libertà vigilata che però non è prevista per il caso del reato erroneamente supposto ex art 49 c.1 c.p. La ragione della diversità è evidente, solo nel primo caso vi può essere un indice di pericolosità tale da giustificare la misura di sicurezza; nel reato putativo un fatto vi è (forse, dal punto di vista naturalistico, c’è più materialità che nel reato impossibile) ma, per errore di fatto o diritto (es. il soggetto commette adulterio nell’erronea convinzione che sia ancora reato) il reato non esiste. Peraltro, non è mancato chi ha sottolineato come anche nel reato putativo una volontà ribelle storicamente fissata è dimostrata, ma sol per questo ritenere applicabile la misura di sicurezza pare francamente eccessivo. Il discorso appena fatto, più calibrato sul reato monosoggettivo, va traslato sul piano del reato plurisoggettivo. Com’è noto, il nostro legislatore utilizza un metodo unitario di criminalizzazione del concorso (combinato disposto tra art. 110 c.p. e norma di parte speciale) che prescinde, almeno in una prima fase (ma, v. art 114 c.p.) , dalla diversità dell’apporto dei singoli compartecipi considerandoli tutti egualmente causali. Perché possa aversi concorso eventuale di persone occorrono una serie di elementi: 1) la pluralità di soggetti (anche se poi in concreto uno solo sia punibile) , 2) la commissione di un reato, almeno sotto forma di tentativo punibile 3) l’elemento soggettivo inteso come concorso materiale e/o morale. Proprio il secondo e il terzo punto meritano attenzione per quello che qui interessa. Venendo all’analisi del secondo punto, la complessità, anche naturalistica, del reato plurisoggettivo, rispetto al reato monosogggettivo, induce a interrogarsi sulla rilevanza dell’elemento dell’accordo criminoso nella compartecipazione. L’accordo a livello di dinamica del reato è un qualcosa che, a livello di pericolosità, viene dopo la semplice cogitatio, ma viene sicuramente prima del tentativo punibile. Esso, com’è facile intuire naturaliter, costituisce, nell’economia del concorso, un fattore molto spesso presente sul piano empirico. Il problema è capire se, da un punto di vista giuridico, questo sia necessario o meno e come si atteggia nelle varie ipotesi di concorso. In passato si riteneva che l’accordo fosse elemento ineliminabile del concorso ciò sulla base del condizionamento derivante da un certo modo di intendere l’elemento soggettivo del reato plurisoggettivo. Infatti, si riteneva che l’elemento soggettivo del reato fosse dato dalla volontà di concorrere con altri in capo a tutti i compartecipi. Oggi, almeno l’opinione dominante, è mutata e ritiene con riferimento al concorso eventuale che l’accordo non è momento ineliminabile. Di converso, l’elemento soggettivo è dato dalla volontà di concorrere con altri che basta che sussista unilateralmente. Non oltre, altrimenti, se non esistesse neppure unilateralmente, si configurerebbe non più un concorso di persone, ma un concorso di cause indipendenti. Peraltro, la questione è resa più complessa, dal fatto che l’accordo si atteggia diversamente nel concorso necessario. Se si considera ad esempio il reato di cui all’art 416 (reato a concorso necessario proprio) qui l’accordo è momento ineliminabile nella struttura del reato. Però, è d’uopo una precisazione, mentre nel concorso eventuale il piano criminoso, se c’è, è specifico, nell’associazione per delinquere esso è indeterminato (“si associano allo scopo di commettere più delitti”). A questo punto, se è vero come è vero che l’accordo sta in mezzo tra semplice volontà interiore e tentativo punibile, vi è da chiedersi quale sia il regime di punibilità applicabile e se esso sia compatibile con il principio di materialità. Il dato legislativo di partenza è costituito dall’art. 115 c.p. La norma in una logica di sistema perfettamente razionale e lineare conferma quanto già visto sopra ex art. 49, affermando la non punibilità dei concorrenti per il solo fatto dell’accordo. Vi sono però delle eccezioni, si pensi per esempio agli artt. 270, 271, 304 ecc. Si tratta per la maggior parte di delitti contro la personalità dello Stato e in tali casi la punibilità del solo accordo si spiega con l’elevata carica lesiva insita in tali ipotesi che porta ad inevitabili arretramenti di tutela di dubbia conformità al principio di offensività. Di particolare interesse è il c.2 dell’art. 115 che nel caso in cui vi sia solo l’accordo non punibile concede al giudice la possibilità di applicare la libertà vigilata. Si tratta, lo si ribadisce, della stessa soluzione vista sopra per il reato impossibile. Al riguardo un primo indirizzo ha criticato l’applicabilità della misura di sicurezza poiché il semplice accordo non ha ricadute sul piano della materialità. Secondo altri, ed è questa l’opinione che tende a prevalere, proprio per la particolare natura dell’accordo (qualcosa in più della volontà interiore) deve essere possibile usare la misura di sicurezza, peraltro, blanda della libertà vigilata. Esaminato il profilo dell’accordo, un altro istituto che merita di essere esaminato, sia per affinità di riferimento normativo, sia per le possibili interferenze con il principio di materialità è quello del concorso morale. Com’è noto il modello di tipizzazione unitaria del concorso di persone ha rimesso agli interpreti il non facile compito di individuare tutte le possibili figure di compartecipi nel reato. Così, si è soliti distinguere tra concorso materiale e concorso morale. In relazione alla prima ipotesi si distingue facilmente tra autore e complice a seconda di chi commetta l’azione principale costituente reato (ad es. nel furto chi si impossessa della cosa usando il grimaldello fornito dal complice per aprire la serratura). In relazione al concorso morale si è soliti distinguere tra il determinatore, cioè chi instilla il proposito criminoso, e l’ istigatore cioè colui che rafforza un proposito criminoso altrui già esistente. Detto questo, quello che risulta molto difficile da capire è quando si possa dire che il contributo solo morale del compartecipe possa essere considerato come causale e quindi penalmente rilevante. In altre parole, ci si chiede come fare a distinguere il concorso morale dalla mera connivenza non punibile. Al riguardo un valido ausilio deve essere proprio il principio di materialità più volte citato. Solo avendo questo “faro” come punto di riferimento si potranno risolvere una serie di casi spinosi che in passato hanno dato luogo a pronunce contrastanti. Tipico è l’esempio del c.d. palo passivo, cioè colui che permane sul luogo del delitto rafforzando il proposito criminoso del soggetto attivo del reato che, per esempio, sta per lanciare una molotov contro una vetrina. In un caso del genere spesso la giurisprudenza ha considerato la condotta del palo come concorso morale sulla sola base della sola presenza sul luogo del delitto. Una tale soluzione, se non accompagnata da una serie di altre circostanze è inaccettabile. Il semplice contegno meramente omissivo non può essere rilevante di per sé; l’adesione psichica meramente interna al reato perpetrato da altri non può, proprio alla luce del principio di materialità, essere penalmente rilevante. Essa è mera connivenza non punibile. Discorso diverso potrebbe farsi laddove, sempre per restare all’esempio, il palo fosse un agente delle forze dell’ordine. In tal caso, proprio per la peculiare funzione del pubblico ufficiale (che secondo qualcuno, in spregio ai principi di affidamento e autoresponsabilità, sarebbe talmente estesa da dover comportare un generale obbligo di impedire tutti i reati), il contegno omissivo di quest’ultimo avrebbe sul piano reale un’effettiva influenza sull’agente che, vedendo che chi per legge dovrebbe intervenire non lo fa, si sentirebbe più rafforzato nel suo proposito criminoso. Allora, viene da chiedersi quali siano in concreto gli elementi che debbano ricorrere perché “l’appoggio morale” di qualcuno diventi concorso morale penalmente rilevante. Essi sono due: uno deve ricorrere in capo all’istigatore e uno in capo all’istigato. Così, in capo all’istigatore vi deve essere la consapevolezza (anche semplicemente rimproverabile) che la propria condotta, per qualche motivo, possa avere influenza causale sul processo decisionale dell’agente. Per fare un esempio si pensi alla contestazione di un concorso morale nel reato di cui all’art. 609 bis nel caso in cui un soggetto notoriamente affetto da complessi di inferiorità venga istigato da un amico, da lui considerato un modello di vita, a “forzare la mano” con la ragazza con cui ha un appuntamento. Venendo all’istigato, l’elemento che deve ricorrere si intravede già dall’esempio del palo di cui sopra. E’ evidente che finché un proposito interno dell’istigatore non ha una reale influenza in concreto sul processo formativo della volontà dell’istigato, non ha senso punire l’istigatore. La sua volontà criminosa non si è palesata al di fuori della sua sfera interiore, quindi punirlo vorrebbe dire contravvenire al principio di materialità e a quel diritto penale del fatto tanto caro alla nostra tradizione. Il discorso che qui si va facendo ovviamente non è basato solo su tradizione e principi immanenti, ma ha solide basi legislative e riferimenti giurisprudenziali. Il riferimento legislativo è proprio al già visto art 115 c.p. In analogia con quanto accade nel caso di accordo, in linea di massima, nel caso di istigazione poi non seguita dalla commissione del reato non si potranno applicare pene. Solo nel caso di istigazione non accolta a commettere un delitto è data la possibilità per il giudice di applicare la misura di sicurezza della libertà vigilata. Certo vi è da dire, che come già visto per l’accordo, non mancano i casi in cui si deroga all’ ipotesi generale. Si pensi per esempio alla punibilità in sé e per sé dell’istigazione a delinquere e dell’apologia di reato ex art. 414 c.p. Anche qui, però, la giurisprudenza più avveduta, ha mostrato di voler adeguare la norma alle esigenze del principio di materialità. Infatti, seguendo un orientamento pretorio che tende ad imporsi, per la punibilità ex art 414 c.p. non basta la semplice percepibilità delle affermazioni, ma occorre che queste siano state concretamente percepite dagli istigati. Invero, che senso avrebbe punire qualcuno per l’istigazione in sé e per sé, se questa, non si è estrinsecata nel mondo reale in modo tale da avere una qualche efficienza causale, anche solo astratta, sul delitto contro l’ordine pubblico esortato. Proprio ricorrendo all’idea che fuori dal principio di materialità non può esservi punizione alcuna (si è visto però che il principio va letto in un’ottica tendenziale alla luce delle varie esigenze di arretramento di tutela) una certa dottrina critica fortemente la possibilità di applicare ex artt. 49 c.2. e 115 c.p. la misura di sicurezza della libertà vigilata. In sostanza, si è detto, che se non vi è materialità in senso giuridico non devono mancare solo le pene, ma qualsiasi risposta latu senso penalistica. In realtà, le riserve, che meritano di essere condivise, riguardano la categoria delle misure di sicurezza in generale e la sua scarsa aderenza ai diversi modelli di pericolosità criminale odierna. In altri termini, se si dubita della persistenza di senso delle misure di sicurezza per i soggetti pericolosi che abbiano commesso un reato, allo stesso modo e a maggior ragione si dubita della necessità di applicare le misure di sicurezza alle persone socialmente pericolose per un fatto non preveduto dalla legge come reato. Una cosa è certa, esclusa la possibilità di applicare una pena ad atteggiamenti interiori che non superano la soglia di ciò che è reato, resta il fatto che gli autori di tali comportamenti manifestano una “volontà ribelle” di cui l’ordinamento, anche in un’ottica preventiva, dovrebbe tenere conto, magari con nuovi strumenti, anche non penalistici, ma si tratta di un’analisi de iure condendo che deve rimanere estranea alla presente trattazione.


    Organico e aderente alla traccia, di cui coglie appieno il significato. Ben scritto. 13

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    2) Nell'ambito dei fenomeni di compartecipazione nel reato, il candidato illustri il rilievo assunto dall'accordo criminoso, tanto nelle fattispecie plurisoggetive necessarie, quanto in quelle di concorso meramente eventuale; in particolare delinei poi spazio e rilevanza riconosciuti al concorso morale.
    Si parla di compartecipazione nel reato quando una condotta criminosa viene realizzata in comune da più persone. La commissione in comune di fattispecie incriminatrici è un dato costante di ogni ordinamento giuridico di qualunque epoca storica, per l’evidente ragione che l’unione delle forze è normalmente garanzia di maggior successo dell’impresa delittuosa.
    Per quanto attiene al sistema penalistico italiano, tradizionalmente si fa riferimento a due grandi classi di compartecipazione nel reato. La prima comprende i c.d. reati associativi, la seconda tutte le ipotesi riconducibili al concorso di persone nel reato. Si tratta di due figure molto affini tra loro, ma caratterizzate ciascuna da proprie specificità. Senza dar conto dell’elaborazione dottrinale sul punto, per l’economia della presente trattazione è sufficiente ricordare che mentre nel reato associativo più persone si mettono d’accordo per commettere una serie indeterminata di reati – sulla scorta di un vincolo stabile – nel concorso di persone l’accordo è volto alla realizzazione di uno o più reati determinati – sulla base di un vincolo occasionale.
    Sono esempi di reati associativi l’associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p., l’associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis c.p., l’abrogato reato di associazioni antinazionali ex art. 271 c.p., la cospirazione politica mediante associazione di cui all’art. 305 c.p., il reato di banda armata previsto dall’art.306 c.p.
    Tutte le ipotesi appena indicate sono costruite dal legislatore in forma plurisoggettiva. Non è dunque possibile la loro configurabilità, sul piano della tipicità, senza l’apporto di più persone. Non si possono immaginare, per esempio, l’associazione per delinquere o la cospirazione politica mediante associazione, realizzate da una sola persona.
    Per quanto riguarda invece il concorso di persone nel reato, questo può manifestarsi in due forme. Una è quella del concorso c.d. eventuale, l’altra quella del concorso c.d. necessario. Nel primo caso, una fattispecie costruita dal legislatore in forma monosoggettiva (es: furto, omicidio, danneggiamento, etc.) viene realizzata da più soggetti agenti (non vi sono dunque problemi di distinzione rispetto ai reati associativi). In tali ipotesi, il giudice dovrà fare applicazione del combinato disposto degli artt. 110 e ss. c.p. dettati in materia di concorso di persone e la singola fattispecie incriminatrice di parte speciale di volta in volta presa in considerazione.
    Nel concorso necessario, invece, le fattispecie incriminatrici, come accade per i reati associativi, sono previste dal legislatore in forma plurisoggettiva (i reati di rissa e corruzione ne sono evidenti esempi: non è pensabile una rissa o una condotta di corruzione poste in essere da un solo soggetto). Si distinguono reati a concorso necessario propri (sono quelli in cui la punibilità è prevista per tutti i soggetti partecipi, come accade nel reato di corruzione, laddove è punito sia il corrotto che il corruttore) e reati a concorso necessario impropri (sono quelli in cui taluni partecepi al reato non sono punibili, come accade nel delitto di usura, in cui ad essere punito è solo l’usuraio e mai la vittima).
    Nonostante il dato comune della necessaria plurisoggettività, anche qui non vi sono tuttavia problemi di differenziazione col reato associativo: in tutti i casi di concorso di persone, infatti, sia esso eventuale o necessario, a mancare è sempre lo stabile vincolo associativo e l’accordo si atteggia comunque in maniera leggermente diversa. Le forme di manifestazione di quest’ultimo possono ricondursi essenzialmente a tre. Può trattarsi di un previo concerto (come accade nella maggior parte dei casi), oppure di un’intesa istantanea o, infine, può esservi la consapevolezza di uno solo dei compartecipi che si sta realizzando in comune una condotta criminosa (classico l’esempio di chi assiste ad un furto commesso materialmente da altro soggetto e decide di fargli da palo senza metterlo al corrente della sua decisione). Ebbene, nei reati associativi, nella normalità dei casi, è presente solo la prima modalità ( il previo concerto). E’ più difficile immaginare invece un’intesa istantanea, dato che siamo dinanzi a fenomeni di criminalità noti per la loro particolare “progettualità” che sottintende spesso una fase preparatoria complessa prima di mettere in piedi l’associazione. Praticamente impossibile, infine, (a parte ipotesi eccezionali) immaginare la mancanza di consapevolezza di uno dei soggetti agenti di far parte di un’organizzazione criminale.
    Vi è poi un’altra importante differenza rispetto ai reati associativi. Per rendersene conto, è sufficiente un raffronto tra la tecnica di formulazione di queste ultime fattispecie e l’art. 115 c.p. dettato in materia di concorso di persone. Questa norma prevede in sostanza che l’accordo tra due o più persone per commettere un reato è penalmente irrilevante se ad esso non segue la sua realizzazione. Nessuno può dunque essere punito per l’accordo in sé e per sé. Si tratta, come è intuibile, dell’applicazione del principio “cogitationis poenam nemo patitur”. In base ad esso nessuno può essere sanzionato solo in base alle proprie intenzioni. Alla previsione e volizione di un determinato evento, deve seguire la sua concreta esecuzione, pena la violazione del principio di materialità e necessaria lesività della condotta.
    Sarebbe tuttavia non del tutto esatto parlare di totale irrilevanza penale dell’accordo. In primo luogo, perché l’art. 115, 2° comma c.p. prevede per il giudice la facoltà, in caso di accordo per commettere un delitto (e sulla base di un’accertata pericolosità sociale), di applicare una misura di sicurezza. In secondo luogo, perché l’accordo potrebbe spingersi sino al punto da integrare gli estremi del tentativo, laddove siano stati posti in essere ex art. 56 c.p. atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto. Di totale irrilevanza dell’accordo potrebbe dunque parlarsi solo in materia di contravvenzioni
    Tanto premesso, si tenga presente la clausola generale con cui esordisce l’art. 115 c.p. : “salvo che la legge disponga altrimenti ... ”. Ebbene, si ritiene che tale clausola sia riferibile ai reati associativi cui si è dianzi accennato. Si prenda, come esempio, l’art. 305 c.p. che prevede il reato di cospirazione politica mediante associazione. Qui è sufficiente, ai fini della configurabilità della fattispecie incriminatrice (e del conseguente trattamento punitivo), l’attività di promozione, costituzione od organizzazione di un’associazione avente come scopo la commissione di delitti contro la personalità interna o internazionale dello Stato (così come è punita la sola partecipazione, anche se con pene meno severe). Formulazioni del tutto analoghe le ritroviamo per le altre ipotesi di reati associativi (dalle associazioni sovversive a quelle con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, fino all’associazione per delinquere e quella di tipo mafioso). In tutti questi casi viene inflitto il trattamento punitivo per il solo fatto di mettere in piedi l’organizzazione o per il solo fatto di farne parte. E’ di intuitiva evidenza la ragione polico-criminale che vi è sottesa: si vuole anticipare la soglia di tutela di beni penalmente protetti di rango particolarmente elevato (vita, incolumità fisica, ordine pubblico, etc.) ad un momento antecedente a quello della loro effettiva lesione. Una volta accertata l’esistenza del vincolo associativo, al giudice tanto basta per l’applicazione della sanzione penale.
    Nel caso di concorso di persone, egli deve invece accertare l’effettivo contributo di ciascun partecipe all’impresa criminosa. Tale contributo può essere fornito sia con un intervento di tipo “fattuale” (es: Tizio fornisce a Caio uno strumento da scasso per aprire una cassaforte o del veleno per commettere un omicidio), ed in tal caso si parla di concorso materiale, sia sotto forma di concorso morale. Questo si ha quando il partecipe all’impresa criminosa non dà un contributo materiale, ma di tipo psicologico. Esso può assumere varie forme di manifestazione: può trattarsi di un mandato, di un consiglio o di un suggerimento. A seconda delle circostanze, può avere un effetto decisivo anche un’apparente dissuasione. E’ dato ormai pacifico che mere informazioni o semplici suggerimenti non sono di per sé sufficienti: essi devono aver avuto un’effettiva influenza sulla riuscita dell’impresa criminosa. Tale attitudine è più forte in caso di condotta del determinatore, di colui, cioè, che determina e suscita in altri un proposito criminoso prima inesistente; più debole in ipotesi di condotta dell’istigatore, che si limita a rafforzare un intento già presente nella mente dell’esecutore materiale.
    Negli ordinamenti di stampo liberale, la determinazione e l’istigazione sono generalmente considerate attività con disvalore differente (la prima è infatti valutata come forma più grave ed è di conseguenza punita con trattamento sanzionatorio più severo). Il nostro attuale sistema penale non distingue invece le due condotte: il codice penale utilizza il termine onnicomprensivo di istigazione. Lo stesso dicasi per il concorso materiale: non si fa alcuna distinzione, sul piano della tipicità, tra il ruolo di autore, coautore, e complice (o ausiliatore). Questo si spiega con la preferenza del nostro legislatore per il modello della c.d. tipizzazione causale. In base ad esso non viene distinto il tipo di contributo arrecato da ciascuno. Ciò che importa, è che ogni concorrente abbia dato un suo contributo alla realizzazione comune del reato. La lettera dell’art. 110 c.p. non lascia adito ad alcun dubbio sul punto: esso prevede infatti che “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita ...” ed attribuisce dunque alla condotta di ciascun compartecipe pari attitudine causale. L’altro possibile modello (escluso dal nostro sistema penale) è quello della tipizzazione differenziata (è la scelta fatta, per esempio, dal legislatore tedesco). E’ da tener presente, tuttavia, che se sul piano della tipicità la diversità dei ruoli nel nostro ordinamento penale non ha alcuna rilevanza, essa ce l’ha invece sotto il profilo sanzionatorio. L’art. 114 c.p., in particolare, prevede che il giudice possa diminuire la pena nei confronti di colui che nella preparazione o nell’esecuzione del reato abbia apportato un contributo di minima importanza. Questa disposizione smorza dunque tutto il rigore dell’art. 110 c.p.
    Sia che si tratti di concorso materiale, sia che si tratti dio concorso morale, il giudicante deve comunque utilizzare dei criteri che gli consentano di accertarne l’esistenza e la portata ai fini del trattamento punitivo. Accenniamo molto brevemente alle tre principali teorie elaborate a proposito e cerchiamo di saggiarne la praticabilità sopratutto in caso di contributo morale.
    La prima è quella c.d. condizionalistica. In base ad essa, il decidente si chiede se l’apporto del soggetto sia da considerarsi condicio sine qua non rispetto alla realizzazione del reato in comune. Col noto “procedimento di eliminazione mentale”, si domanda se il successo dell’impresa criminosa sarebbe venuto meno senza il suo intervento. E’ teoria che si espone a varie critiche. Prima fra tutte, quella di restringere eccessivamente l’area della punibilità nel concorso di persone nel reato. Nella maggior parte dei casi portati al vaglio del giudice, infatti, il soggetto concorrente ha posto in essere una frazione della condotta e tale frazione, valutata alla stregua della condicio sine qua non, spesso non può essere considerata causale rispetto all’evento (es: Tizio fornisce uno strumento da scasso per aprire una cassaforte aperta materialmente da Caio; il contributo di Tizio, isolatamente considerato, non potrebbe essere considerato punibile alla stregua della condicio sine qua non).
    E’ stata poi elaborata la teoria della “causalità agelovatrice o di rinforzo” per sopperire alle carenze di quella condizionalistica. In base a questa seconda elaborazione, il giudice deve verificare se il contributo del partecipe abbia agevolato e reso più facile la realizzazione comune di un reato (es: Tizio vuole forzare una cassaforte con uno strumento da scasso, e Caio gli fornisce la chiave che ne consente l’apertura immediata). Anche questa ricostruzione va però incontro a delle obiezioni. La principale è quella di tagliare fuori dall’area della punibilità sia i contributi inutili (es: Tizio vuole rendersi complice di un omicidio e dà a Caio un’arma da taglio, ma quest’ultimo usa invece una pistola), sia i contributi dannosi (es: il palo che , con la sua condotta impacciata, anziché agevolare, ostacola la riuscita dell’impresa). Rispetto a tali tipo di apporto, è forse lecito dubitare della loro totale irrilevanza penale.
    Accenniamo, infine, alla teoria della prognosi postuma (o dell’aumento del rischio). In base ad essa il giudice, ponendosi in un’ottica “ex ante”, si chiede se con la sua condotta il correo abbia aumentato le probabilità della realizzazione dell’evento. Tale tesi sembrerebbe, però, di improbabile applicazione nei casi di realizzazione di un reato concorsuale giunto a consumazione (laddove parrebbe più logico servirsi di criteri di accertamneto “ex post”).
    Tanto premesso, e precisato che la teoria che forse risponde meglio alle esigenze pratiche in tema di concorso di persone nel reato è quella c.d. agevolatrice o di rinforzo, resta da chiedersi se gli stessi criteri possano essere utilizzati per l’accertamento del contributo del partecipe morale.
    Parte della dottrina prende posizione in maniera decisa sulla impossibilità di applicare al concorso morale gli stessi schemi utilizzati tradizionalmente per l’accertamento del contributo del partecipe materiale. Si parte dalla premessa che, quale che sia la teoria accolta, il decidente nel caso pratico si chiede se senza il contributo del partecipe il reato in concorso sarebbe stato realizzato oppure no: secondo la ricostruzione prescelta, tale apporto potrà essere qualificato come causale in senso stretto, oppure visto sotto forma di contributo agevolatore o, ancora, come condotta che ha aumentato il rischio della verificazione dell’evento. In ogni caso, i vari criteri utilizzati presuppongono sempre (in misura più o meno ampia) il ricorso ad un procedimento di tipo causale.
    Ed è proprio questo il motivo che induce alcuni Autori a negare l’applicabilità dei principi sopra accennati al concorso morale. Si sostiene, infatti, che non si può parlare di vera e propria causalità psicologica: l’elemento morale della determinazione e della istigazione, essendo dato intangibile ed immateriale, non può essere sottoposto agli stessi criteri di accertamento del concorso materiale. L’accertamento del nesso di derivazione eziologica richiederebbe sempre la sussistenza di due “poli” che abbiano un substrato sostanziale, tale da permetterne un accertamento empirico.
    Altra parte della dottrina non mostra invece particolari remore ad applicare gli schemi del concorso materiale a quello morale. Si sostiene che la causalità psicologica ha modi di manifestazione certamente privi di materialità, ma questa caratteristica non impedirebbe al giudice di determinarne l’influenza rispetto alla realizzazione di fattispecie di reato.
    Per quanto attiene, infine, alla posizione assunta dalla giurisprudenza, vi è da notare che essa, nella generalità dei casi, non si sofferma sulla questione dell’accertamento del contributo morale con la stessa complessità e raffinatezza tipiche della dottrina. Nella pratica quotidiana delle aule giudiziarie, il giudice spesso si accontenta di stabilire se una certa condotta di determinazione o istigazione abbia in qualche modo avuto attitudine ad influire sul decorso degli eventi. Sotto tale profilo, si segnala una certa tendenza ad attribuire tale attitudine ad una serie molto ampia di comportamenti (allargando forse eccessivamnete le maglie della punibilità). E’ una tendenza costante della giurisprudenza italiana, sopratturtto negli anni c.d. di piombo. Sono infatti note le sentenze con le quali la Suprema Corte ha qualificato come contributo morale punibile la condotta di chi, per esempio, assistendo al lancio di materie esplodenti, non si allontani dopo i primi lanci o di chi, in occasione di manifestazioni di piazza, mostri compiacimento per le azioni di danneggiamneto poste in essere da altri manifestanti. Tale atteggiamento di rigore è comunque comprensibile se calato nell’epoca storica di riferimento (negli anni ’70 le esigenze garantistiche cedevano quasi sempre il passo alla necessità di tenere alti gli argini di tutela dei beni penalmente protetti). Tanta severità è forse invece meno giustificabile in periodi più sereni della nostra storia repubblicana, laddove sarebbe auspicabile non infliggere un trattamento punitivo a chi, per esempio, assistendo con compiacimento alla commissione di un reato, non arrechi tuttavia alcun contributo apprezzabile alla sua reralizazione.
    Esauriente, dà un senso alla trattazione, organico e aderente alla traccia. Ben scritto. 13
     
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    Traccia n. 1 di civile di dicembre: Premessi adeguati cenni sul principio di libertà della forma, si soffermi il candidato sul principio di corrispondenza delle forme con particolare riferimento ai negozi di secondo grado.


    Nel nostro ordinamento prevale il principio della libertà di forma. Con tale principio in sostanza si vuole indicare come la modalità di espressione della volontà individuale, ossia la dichiarazione che va a statuire sul contratto posto in essere tra le parti, può essere manifestata tramite qualsiasi forma: orale, scritta, documentale, gestuale, o in alcuni casi anche per comportamento concludente.
    Ciò si ricava dall’art. 1325 n.4 c. c il quale dispone che ove la forma sia prescritta dalla legge essa diventa, a pena di nullità, requisito essenziale del contratto. Tale norma prevede quindi un’eccezione al suindicato principio che si esprime appunto con il rispetto della forma scritta, atta a garantire certe finalità quali: l’esigenza di certezza del contratto tra le parti stipulanti, la pubblicità, l’opponibilità verso terzi degli effetti che si sono prodotti con esso, ma anche esigenze di certificazione di un fatto storico avvenuto oppure la finalità di dirimere le controversie nate tra i terzi tramite la notificazione del negozio.
    Il requisito della forma scritta non è richiesto solo dalle norme del codice ma anche da una crescente legislazione speciale la quale la richiede per una maggiore certezza del contratto posto in essere tra le parti. Si citano ad esempio i contratti con il consumatore dove si ha una maggiore esigenza di tutela per la parte più debole contraente che avrà quindi interesse ad avere un documento cartaceo in grado di provare i diritti e gli obblighi rispettivi con maggiore precisione e certezza. La legislazione speciale estende tuttavia sempre a più contratti tale requisito, come nei contratti bancari, nei contratti di credito al consumo, nei contratti turistici, nei contratti di subfornitura e via dicendo.
    Talvolta sono le stesse parti a preferire di manifestare la loro volontà contrattuale tramite una forma che non sarebbe richiesta dalla legge e ciò sia per la prima accennata esigenza di certezza sia per gli innumerevoli vantaggi pratici. Ad esempio nelle compravendite immobiliari seppur la legge non richieda che il requisito di scrittura si manifesti con l’atto pubblico, le parti prediligono tale forma perché senz’altro in grado di agevolare la successiva formalità della trascrizione del contratto.
    La dottrina vede tale fenomeno come una “rinascita del formalismo” nell’ambito del diritto dei contratti. Nel diritto romano classico il principio della libertà delle forme era infatti l’eccezione alla regola, ritenuta consolidata, del rigoroso rispetto della forma scritta. Il rigido rispetto delle formule rituali conobbe poi un’attenuazione in epoca successiva sotto l’influenza del pensiero giusnaturalista, per via dell’idea che sempre più stava prendendo piede, che prima di tutto si doveva dare importanza alla volontà delle parti, in qualsiasi modo essa fosse manifestata. E proprio su questa scia di pensiero i codici moderni adottarono il principio della libertà di forma come regola generale del nostro ordinamento.
    Ora, il rispetto o meno del principio della libertà di forma pone un problema in relazione ai negozi di secondo grado. Tali sono tutti quei negozi strumentali al successivo negozio principale posto in essere (in quanto preparano un futuro contratto finale) e che per questo prendono il nome di “contratti strumentali”; o quelli che vanno a specificare, integrare, modificare o risolvere i primi negozi posti in essere e che per questo prendono il nome di “contratti dipendenti”. Contratti strumentali e contratti dipendenti hanno in comune il fatto di essere accessori al principale venendo chiamati “contratti su contratti”. Ebbene, ci si chiede in sostanza se il negozio di secondo grado, sia esso strumentale o dipendente, debba o meno rispettare la forma vincolata richiesta dai rispettivi contratti finali o presupposti.
    Per i casi direttamente disciplinati dalla legge nulla quaestio: per il contratto preliminare si richiede la stessa forma del definitivo ex. art 1351 c.c.; per la procura ex art. 1392 c.c si richiede la stessa forma prescritta per il contratto che il rappresentante deve concludere, altrimenti non ha effetto; per la ratifica ex art. 1399/1 comma c.c. l’interessato deve ratificare il contratto con la stessa forma prevista per la conclusione di esso; per la dichiarazione di nomina ex art. 1403/1 c.c. si richiede la stessa forma che le parti hanno utilizzato per il contratto anche, in questo caso, se non prescritta dalla legge.
    Inoltre dalla regola che vuole che nell’ambito dei contratti formali la proposta debba seguire la stessa forma dell’accettazione, se ne ricava che per quanto riguarda l’opzione (art. 1331/1 c.c.), nonché l’atto con cui l’opzionario esercita l’opzione, si richiede la stessa forma prevista per il contratto finale. Essa vale come proposta, la quale, se accettata dall’opzionario, conclude il contratto. Diversa ratio si adotta invece per la prelazione, dove invece prevale la tesi che predilige la libertà delle forme dovuta al fatto che tale istituto incide su vicende di tipo reale pur creando un vincolo obbligatorio.
    Per i casi non direttamente disciplinati dalla legge, la dottrina e la giurisprudenza adottano soluzioni tra loro discordanti. Da tempo l’indirizzo della giurisprudenza è stato ritenere che il requisito di forma va esteso ai contratti accessori al contratto formale-principale. Parte della dottrina aderisce a esso precisando però che la ratio dell’estensione della forma vada individuata in un’identità delle rationes ossia degli effetti tra i due negozi. Occorrerebbe, per essere più chiari, svolgere un’analisi funzionale della forma vincolata andando a guardare l’aspetto funzionale dell’intera vicenda. Altra parte della dottrina ancora invece l’estendibilità del requisito di forma al fatto che vi sia una presupposta simmetria di struttura e di effetti tra il primo e secondo negozio. Simmetria difficile da riscontrare però ad esempio tra negozi molto diversi come un patto di prelazione in caso di vendita immobiliare e il successivo contratto di compravendita immobiliare. Un indirizzo diametralmente opposto, sostenitore di un rigoroso rispetto delle forme, non ritiene invece possibile di estendere tale requisito ai negozi di secondo grado.
    Appare preferibile senz’altro l’indirizzo che vede nell’analisi della rationes dei due negozi ossia l’analisi della funzione e degli effetti, la risposta al problema presentato dal momento che ci si muove su dati empirici che possono variare da situazione in situazione.
    Le fattispecie più discusse sono state in primo luogo quella del mandato senza rappresentanza ad acquistare beni immobili. Mentre la dottrina esclude il rispetto del vincolo di forma, la giurisprudenza la richiede dal momento che tale tipo di mandato si collocherebbe sullo stesso piano di un contratto preliminare.
    Altra fattispecie discussa è quella del contratto risolutorio con cui si sciolgono preesistenti contratti formali. Qui è opportuno operare un distinguo in quanto solo quei contratti risolutori che determinano effetti analoghi a quelli di un contratto formale esigeranno la forma scritta del contratto risolto (ad esempio il contratto che risolve il preliminare per l’acquisto di un immobile in quanto il promissario acquirente rinuncia al futuro diritto sulla cosa); al contrario non la esigeranno quelli che non producono effetti analoghi ma che semplicemente comportano effetti non modificativi dell’attuale situazione.
    Sulla base di questo ultimo criterio si risolve il problema nell’ipotesi di rinuncia ad avvalersi della risoluzione di un contratto formale nel caso di una vendita immobiliare. L’atto di rinuncia avrà effetti sicuramente non modificativi se la risoluzione è dovuta ad inadempimento della controparte e quindi non richiederà requisito di forma scritta. Ove invece l’atto di rinuncia non concerne l’avvalersi di una risoluzione di vendita immobiliare ma l’avvalersi di una condizione risolutiva apposta a vendita immobiliare, già verificatasi, le cose cambiano. Dal momento che la condizione è un avvenimento futuro e incerto e nella specie della condizione risolutiva le parti stabiliscono che gli effetti si producano immediatamente risolvendosi però al momento del verificarsi della condizione, l’atto di rinuncia determina una vicenda reale diversa e modificativa di quella che è avvenuta in base al contratto.
    Infine, per i contratti modificativi di un precedente contratto formale tra le parti bisogna allargare lo spettro della nostra analisi andando a identificare gli elementi del contratto che esigono la forma vincolata. Gli elementi essenziali, quali l’oggetto e la causa, che hanno la funzione di identificare l’operazione posta in essere, esigono sempre tale requisito; mentre per gli elementi essenziali che non influenzano la validità (modalità di pagamento del prezzo o della consegna) la forma non è richiesta. Ci sono tuttavia quegli elementi che seppur non essenziali sono in grado di causare l’invalidità del contratto: tali sono quelli richiesti sia da norme del c.c. come il patto di concorrenza ex. art. 2125 c.c. sia dalle più stringenti leggi di settore (contratti tra imprese e consumatori, contratti bancari, contratti turistici) ove viene richiesta forma scritta per una serie di elementi anche non essenziali e la cui mancanza non determinerebbe la nullità. Da tali premesse se ne ricava che il contratto modificativo di elementi essenziali richiederà la forma scritta, mentre quello che modifica elementi non essenziali, quali quelli che non richiedevano di esserlo nemmeno nel contratto principale, (modifica di condizioni di pagamento o delle modalità di consegna) non la richiederanno.

    Giudizio 14-
    Trattazione superiore alla sufficienza , il candidato dimostra di avere correttamente compreso il problema conoscitivo. Relativamente alla parte speciale del tema sarebbe stato necessario soffermarsi sull'istituto della cessione del contratto, sul quale è presente notevole giurisprudenza relativa proprio al profilo formale.
    Sotto il piano lessicale non si riscontrano particolari irregolarità, il linguaggio giuridico è correttamente impiegato.


    ******
    traccia n 2 Premessi adeguati cenni sulle nullità di protezione, si soffermi il candidato sulla disponibilità delle parti della forma dei contratti bancari, anche con riguardo alla mancata sottoscrizione da parte dell’istituto di credito del contratto quadro.

    Negli ultimi anni, in forza del processo di integrazione comunitaria si è assistito all’introduzione nel nostro sistema civilistico di istituti dalla indubbia eccentricità dogmatica rispetto alle categorie giuridiche nazionali tradizionalmente studiate.
    La c.d. nullità di protezione è forse l’esempio più significativo di quanto si afferma, poiché si tratta di una figura del tutto nuova rispetto al tradizionale istituto della nullità. La figura è inserita in varie normative settoriali di derivazione comunitaria, quali ad esempio il Codice del consumo, il Testo Unico sugli intermediari finanziari, nonché la nuova normativa in materia di trasparenza delle condizioni contrattuali introdotta recentemente nel Testo Unico in materia bancaria e creditizia, nell’ambito dei c.d. contratti di credito e di servizi di pagamento.
    Caratteristica peculiare della c.d. nullità di protezione è quella di operare solo a vantaggio di una delle parti, la parte economicamente debole del rapporto, con un mutamento radicale della prospettiva concettuale in cui il sistema giuridico tradizionale colloca la nullità. Tradizionalmente, la nullità può essere definita come la “sanzione” attraverso cui l’ordinamento giuridico impedisce ad un negozio giuridico, che si presenti gravemente viziato, di produrre gli effetti giuridici che intendeva produrre. Nei casi di nullità, infatti, l’atto privato è caratterizzato da una così forte divergenza con lo schema legale prefissato dall’ordinamento, da essere considerato inefficace sin dalla sua origine. La nullità, dunque, è vizio dell’atto: il contratto-atto nasce con una patologia che non gli permette di trovare tutela e protezione nella realtà giuridica, anche se può essere preso in considerazione dalla legge ad altri effetti (basti pensare alle fattispecie complesse in materia di trascrizione o alla disciplina del contratto di lavoro nullo). Fondamentale caratteristica della nullità delineata dal codice civile, è la rilevanza generale dell’interesse che protegge: si tratta di un interesse del sistema giuridico nel suo complesso ed è a ciò che si ricollega il carattere di imperatività della sua normativa, che si presenta, quindi, come inderogabile e caratterizzata da un regime modellato su un radicale ripudio dell’atto: insanabilità, imprescrittibilità dell’azione ecc.
    Orbene, la prospettiva, concettuale, ma prima ancora economica, in cui si inserisce la c.d. nullità di protezione è radicalmente diversa. Da un’ottica tutta giuridica, quella della nullità del codice civile, che guarda al rapporto tra atto (contratto) e ordinamento, si passa ad un’ottica essenzialmente economica che guarda direttamente al rapporto sostanziale tra le parti. Le ragioni di tale mutamento sono profonde ed attengono al modo in cui viene concepito il contratto dall’ordinamento comunitario. L’obiettivo primario dell’ordinamento comunitario in questa materia è quello di tutelare la concorrenza: un mercato economico sano è un valore in sé, perchè garantisce la migliore allocazione delle risorse e determina una crescita del benessere della collettività. Se questo è l’assunto, deve essere impedito all’impresa inefficiente di sopravvivere sul mercato, scaricando sul cliente-consumatore i costi di questa sua inefficienza. Di conseguenza, nel contesto logico delle discipline di origine comunitaria, il contratto dismette i panni di atto principe della volontà privata, in quanto concluso da due soggetti in posizione paritaria, per essere calato nella realtà economica dei traffici commerciali, spesso caratterizzati, al contrario, da una disparità sostanziale tra le parti. L’esigenza allora non è più quella di dettare una disciplina sull’atto contrattuale, quanto quella di mitigare tale disparità, garantendo la parte debole da possibili sbilanciamenti giuridici ed economici a favore della parte forte, quella professionale. In altri termini, è la realtà economica sostanziale presupposto della disciplina ad essere mutata: non più due “parti” su un piano di parità (l’implicito postulato dell’art.1321 c.c.), ma due soggetti calati in una specifica vicenda economico-commerciale, in una condizione fortemente sbilanciata a favore di una delle parti. Questo è allora il cambiamento di prospettiva: dal contratto-atto al contratto-rapporto, rispetto al quale una delle parti viene “accompagnata” dalla legge in tutte le sue fasi, addirittura a volte sin da un momento anteriore alla fase delle trattative.
    Il disegno di “protezione” del soggetto debole, il consumatore, è realizzato, per lo più, riconnettendo a tale status una serie di diritti fondamentali, blindati attraverso vari strumenti, primo fra tutti, per quanto concerne la materia contrattuale, la nullità “di protezione”.
    Essa è posta a tutela di un interesse particolare, quello del consumatore, ed in ciò salta agli occhi la differenza di ratio della figura in esame rispetto alla nullità generale del codice civile. Ciò si rifrange sulle regole che ne caratterizzano il regime, segnatamente quella sulla legittimazione a farla valere, che spetta solo alla parte debole del contratto; è di tutta evidenza, infatti, che ammettere una legittimazione a far valere tale nullità in capo al contraente professionale significherebbe svilire completamente il significato e la forza della “protezione”. Dunque una nullità nell’interesse di una delle parti contrattuali, a difesa del suo interesse particolare, con una evidente assonanza rispetto alla categoria dell’annullabilità contrattuale, dalla quale si distacca per l’inefficacia originaria che determina nella vita del contratto. Tale nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice, sempre e solo però, secondo l’orientamento coerente con la ratio dell’istituto, per la tutela della parte debole.
    Un particolare capitolo della figura in esame attiene alla forma scritta prescritta a pena di nullità del contratto. Si parla in tali ipotesi di “forma di protezione”, giacchè il requisito formale viene richiesto per la validità del contratto, ma nell’interesse di una delle parti. Con la conseguente regola, caratteristica della nullità di protezione, di poter essere rilevata e di poter operare solo a vantaggio della parte debole. Sembra profilarsi un’ulteriore eccentricità rispetto alle coordinate sistematiche tradizionali, giacchè il vizio formale è tradizionalmente un vizio d’atto, per cui o l’atto riveste la forma prescritta dalla legge ed allora è in grado di produrre i suoi effetti, oppure non la riveste rimanendo inefficace; ciò a prescindere dalla conformazione del programma contrattuale ed al suo possibile evolversi in un senso favorevole o meno a una delle parti. Trattandosi di difetto genetico, il contratto esso è inefficace. La c.d. “forma di protezione” si atteggia diversamente, la prescrizione formale è, in sé, nell’interesse della parte contrattuale debole, simmetricamente una sua eventuale mancanza ontologicamente è rilevabile solo nell’interesse della parte. In questo sta la novità, un vizio che riguarda direttamente la formazione dell’atto in sé, la sua genesi, può esser fatto valere soltanto da una parte.
    La c.d. forma di protezione si inserisce perfettamente, in realtà, nella nuova prospettiva concettuale in cui è calato il contratto nelle normative comunitarie. Si pensi alla disciplina sui c.d. “contratti di credito” di cui all’art.125 bis del Testo Unico in materia bancaria e creditizia: in questo caso, è il “cliente” ad avere necessità per prendere reale cognizione delle condizioni economiche proposte da una banca, per esempio, per poter effettivamente soppesare la convenienza dell’ “operazione” che si accinge ad effettuare; la banca non ne ha affatto bisogno, svolgendo tale attività professionalmente, usufruendo quindi di informazioni, per di più tecniche e spesso difficilmente “leggibili” per una persona comune, cui certo il “cliente” non accede con la stessa facilità. Del resto, nello stesso codice civile tra le funzioni della forma scritta ad substantiam, c’è quella di richiamare le parti sulla serietà dell’impegno giuridico che vanno ad assumere, imponendo quindi un’attenta ponderazione degli interessi che vengono coinvolti con l’atto di disposizione del diritto. Tutti i contratti “formali” sono infatti contratti economicamente “pesanti”. Da questo angolo visuale ciò che muta nel contesto delle c.d. forme di protezione allora sono soltanto i caratteri del rapporto sostanziale tra le parti, che non è quello paritario, tenuto a mente nel sistema del codice civile, ma un rapporto al contrario completamente sbilanciato a favore del soggetto professionale, che non ha bisogno, ecco il punto, di una forma scritta per valutare la convenienza del contratto.
    Come si diceva, il disegno normativo di protezione della parte debole è stato perseguito anche nella materia dei contratti bancari. La riforma apportata dal d.lgs. 13 agosto 2010 n.141 al Testo Unico in materia bancaria e creditizia si muove proprio in tale prospettiva. A venire in considerazione è il titolo VI del Testo Unico dedicato alla “Trasparenza delle condizioni contrattuali”. La disciplina che investe direttamente i quesiti posti dalla traccia è contenuta nel capo II relativo al “Credito al consumo”. Essa trova applicazione per qualsiasi contratto comunque denominato in cui un finanziatore concede o si impegna a concedere a un consumatore un credito sotto forma di dilazione di pagamento, di prestito o di altra facilitazione finanziaria. Non conta dunque la qualifica del contratto, se tipico o atipico, conta la sostanza, economica, del rapporto che lo caratterizza. L’art. 122 prevede poi una serie di eccezioni, modulate secondo vari criteri quantitativi ed oggettivi.
    E’ sufficiente una lettura degli articoli per rendersi conto che uno dei sistemi di tutela individuati per proteggere il consumatore, in questo caso l’utilizzatore del finanziamento, è la forma scritta nel contratto e non solo. La scrittura è, del resto, la forma che meglio consente una ponderazione attenta dei propri interessi ed una reale attenzione sulla “composizione” degli stessi proposta dall’impresa, in questo caso il finanziatore o l’intermediario del credito. Già dalla fase precontrattuale, la forma scritta è posta come mezzo di tutela del cliente. L’art.124 sugli obblighi di informazione precontrattuali prescrive, infatti, la necessità della forma scritta più la consegna del modulo contenente tali elementi (co 2), nonché l’obbligo per il finanziatore, qualora intenda concludere il contratto e dietro richiesta specifica della parte (co 4), di fornire copia gratuita della bozza contrattuale.
    Tuttavia le norme che assumono una posizione centrale nell’analisi sembrano quelle contenute negli articoli 117, 125 bis, 126 quinquies e 127.
    In particolare, l’art.117 prevede la necessità della forma scritta (co 1) a pena di nullità del contratto, dunque, sembrerebbe, ad substantiam (co 3). La norma è contenuta nel capo I che riguarda le operazioni e i servizi bancari e finanziari, non dunque direttamente la materia del “credito ai consumatori”, ma si applica anche a tali contratti in virtù del rinvio che l’art. 125 bis che dall’interno della disciplina dei contratti di credito effettua espressamente a tale norma ai sensi dell’art. 115 co 3, il quale chiarisce che le disposizioni relative al capo I dedicato ai servizi bancari e finanziari si applicano ai contratti di credito solo se espressamente richiamate. Per la verità l’art.125 bis ammette, oltre al “supporto cartaceo”, anche qualsiasi “altro supporto durevole che soddisfi i requisiti della forma scritta”; il che non sposta di una virgola la garanzia, essendo piuttosto da prendere atto che la forma scritta non si identifica più solo ed esclusivamente nella carta scritta, in proposito basti pensare a tutti quei programmi elettronici di scrittura che danno le medesime garanzie della forma scritta, ivi compresa la immodificabilità di quanto scritto. La norma prosegue imponendo la necessità che il contratto contenga, in conformità a quanto deliberato dalla Banca d’Italia e dal CICR (a pena di nullità, come poi stabilito dal successivo comma 8), alcune informazioni , considerate essenziali sul tipo di contratto sulle parti del contratto sull’importo totale del finanziamento; la norma richiama anche le regole sul contenuto del contratto individuata dal comma 6 e quelle sulla modifica unilaterale delle condizioni di contratto, che non interessano direttamente questa analisi.
    La regola della forma scritta a pena di nullità del contratto viene poi richiamata anche per il contratto quadro dall’art. 126 quinquies.
    Fino a qui in realtà le norme si limitano a prescrivere una forma scritta a pena di nullità, il che potrebbe portare a ravvisare in esse ipotesi “tradizionali” di forma scritta ad substantiam. A gettare luce sul punto interviene però l’art. 127 co 2: si tratta di una norma che, contenuta nell’ultimo capo della disciplina in esame, e rubricata “Regole generali”, stabilisce che le nullità precedentemente previste, tra cui quelle relative alla forma del contratto, “operano soltanto a vantaggio del cliente e possono essere rilevate d’ufficio dal giudice”. La formula è appunto quella caratteristica della nullità di protezione qui operante rispetto alla forma del contratto, che deve essere “scritta” a garanzia dell’interesse del consumatore.
    Si è tentato di porre in luce come la protezione contrattuale della parte debole giustifichi questa ulteriore singolarità di un’invalidità e di un’inefficacia originaria dell’atto per vizio di forma solo però a vantaggio di una delle parti. Qui occorre chiedersi se, alla luce del fatto che tale forma è dettata nell’interesse di una delle parti, si apra uno spazio di disponibilità della forma del contratto in capo alla parte che a quella forma ha, per così dire, “diritto”. Si ipotizzi un contratto di finanziamento, ricadente nella disciplina dei contratti di credito in questione, che non rispetti la forma scritta richiesta; si ipotizzi che a questo contratto venga data attuazione ed il rapporto si concluda. Applicando la regola della nullità di protezione, il finanziatore in questo caso non dovrebbe poter invocare la nullità del contratto per vizio di forma, ponendo nel nulla il contratto. L’ipotesi è inverosimile, tuttavia la sua soluzione è coerente con la funzione che la forma scritta sembra assumere in questi contratti, vale a dire l’essere essa garanzia elementare per “una” delle parti, quella debole. La parte “forte”, viceversa, in un caso del genere è garantita dal suo stesso status professionale, che assorbe l’esigenza della forma scritta del contratto di credito, la quale nulla aggiungerebbe alla tutela dei suoi interessi.
    Si pensi all’ipotesi più verosimile della mancata sottoscrizione da parte dell’istituto di credito, ancor più verosimile se si pensa al caso del contratto quadro, il quale non è l’atto in base al quale viene disposto il finanziamento, ma un contratto dall’essenza normativa, un negozio di configurazione che modula e regolamenta per il futuro una serie di operazioni creditizie attive e passive tra le parti. Sicchè potrebbe ben configurarsi il caso in cui, ad esempio, le parti si accordino sulla base di un modulo scritto per dare un certo assetto ai loro rapporti ed il finanziatore tuttavia non sottoscriva formalmente tale contratto, al quale però viene data concreta attuazione attraverso operazioni a loro volta realizzate attraverso la stipulazione di “contratti di credito” scritti. Si ipotizzi che nel corso di tale rapporto, l’istituto creditizio ad un certo punto pretenda di non ottemperare più a determinati obblighi o di non concedere determinati finanziamenti promessi in base al contratto quadro assumendo la nullità dello stesso per difetto di forma, segnatamente per la mancata sottoscrizione formale dello stesso. In un caso del genere emergerebbe forse anche un profilo di tutela dell’affidamento della parte debole di fronte ad una volontà manifestata in concreto dall’istituto di credito attraverso l’esecuzione del contratto quadro e, per così dire, rinnovata operazione dopo operazione, ma a prescindere da ciò, rimanendo al problema della forma, la linea interpretativa dovrebbe essere la stessa. La nullità qui riguarda una forma di protezione e tutela ontologicamente l’interesse al finanziamento del consumatore-cliente, dunque “gioca” solo a suo vantaggio, poiché inerisce al suo “status” di parte debole, è un “suo” strumento di protezione. Se il difetto di forma si traduce in concreto in una lesione dei diritti acquisiti e nei vantaggi economici da acquisire con il contratto, il difetto di forma non è tale.
    Con le lenti civilistiche tradizionali, questa appare senza dubbio come un’anomalia, perché se si guarda al contratto in sé, si riscontra un difetto di forma che si manifesta a “intermittenza”, il che non ha senso rispetto all’atto, che tale rimane. Ma se si volge lo sguardo sul rapporto sostanziale e si coglie il carattere di vero e proprio status giuridico che caratterizza una delle parti, ci si limita a registrare che questo è semplicemente un capitolo della tutela accordata a quello status.
    Se così è sembra davvero profilarsi lo spazio di una “disponibilità” delle parti sulla forma di questi contratti. Una disponibilità che fa capo esclusivamente alla parte debole, il consumatore, nel cui interesse la prescrizione della forma scritta radica il suo significato.
    Sembra però necessaria una precisazione. La disponibilità qui non è da intendere come facoltà di rinunziare ex ante alla forma del contratto, in un’ipotetica contrattazione con l’istituto di credito. La disponibilità in questo ambito pare più che altro il fenomeno che si determina alla luce del particolare regime della nullità protettiva. E’ il sistema che sancisce che quella regola dettata per mitigare una disparità di forze tra le parti non si risolva in uno svantaggio per la parte, senza la cui debolezza quale quella regola nemmeno esisterebbe.

    GIUDIZIO 15
    La trattazione della traccia risulta notevolmente superiore alla sufficienza, il tema è correttamente articolato ed il candidato dimostra una buona conoscenza degli istituti generali.
    Sotto il profilo lessicale il linguaggio giuridico il linguaggio giuridico risulta correttamente impiegato
     
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    qualche giorno di pazienza per i temi di amministrativo :)

    se qualcuno non ha ricevuto le correzioni di penale e civile di dicembre può farmelo presente mediante messaggio privato :) .
    arrivano molti temi e qualche volta capita che qualcuno sfugga.

    grazie :)
    togas
     
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    stasera vi invierò i temi di amministrativo corretti :)
     
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    migliori temi in diritto amministrativo
    Il risarcimento mediante reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo.



    L’argomento in esame impone la previa individuazione della dibattuta natura del ristoro del danno in forma specifica, di cui all’art. 2058 c.c., per poi scrutinare l’applicazione dell’istituto in parola in sede processuale amministrativa, avuto riguardo, in particolare, alle distinte forme di giurisdizione presenti in quell’ambito processuale e alle distinte situazioni giuridiche soggettive ivi riscontrabili, sub specie di diritto soggettivo, interesse legittimo oppositivo ed interesse legittimo pretensivo.

    Ciò premesso, e prendendo le mosse dai principi di teoria generale del diritto, torna utile rilevare, prima facie, come il ricorso al rimedio risarcitorio postuli, a monte, l’alterazione della sfera giuridica di un soggetto, il danneggiato, derivante da una condotta illecita -cioè difforme da un paradigma legale o negoziale- tenuta da altro soggetto, il danneggiante, cui è eziologicamente riconducibile il pregiudizio patito dal danneggiato.

    L’alterazione della sfera giuridica del danneggiato, nei termini appena descritti -sia essa di fonte contrattuale (art. 1218 c.c.) ovvero extracontrattuale (art. 2043 c.c.)- consente al medesimo danneggiato di attivare la tutela risarcitoria, al fine di eliminare le negative conseguenze materiali ovvero giuridiche cagionate dal comportamento illecito del danneggiante.

    Sul punto, il codice civile prevede due distinti rimedi: il risarcimento per equivalente, previsto dall’art. 1223 e il risarcimento in forma specifica, ex art. 2058.

    Come anticipato, controversa, per vero, è la natura giuridica del ristoro da ultimo indicato.

    Segnatamente, un primo orientamento sostiene che, in realtà, l’art. 2058 non disciplini una forma di risarcimento ma, al contrario, un’ipotesi di esecuzione in forma specifica di un’obbligazione inattuata, parallelamente a quanto previsto dagli artt. 2920 ss. cc., in tema, appunto, di esecuzione in forma specifica delle obbligazioni.

    Deporrebbe, in tal senso, la littera legis, atteso che la locuzione contenuta nell’art. 2058, comma 1, è quella di “reintegrazione in forma specifica”, escludendo tale inciso la natura risarcitoria del rimedio in parola.

    Confuta le riferite conclusioni altra opzione ermeneutica.

    In particolare, la contrapposta tesi, nel postulare la natura risarcitoria del rimedio contemplato dall’art. 2058 c.c., afferma come nessun rilievo possa assegnarsi all’inciso “reintegrazione in forma specifica” previsto nel comma 1 del precetto in esame, poiché la rubrica dello stesso qualifica espressamente tale forma di tutela come “risarcimento in forma specifica”, ed è collocata, avuto riguardo alla sistematica del codice civile, nel titolo del libro IV dedicato ai fatti illeciti, e non tra le forme di tutela coattiva delle obbligazioni compendiate nel libro VI.

    Ne deriva, quindi, che l’esatta natura dell’istituto previsto nell’art. 2058 c.c. è quella risarcitoria, poiché volta a porre rimedio ad un pregiudizio patito dal danneggiato.

    In materia, peraltro, si registra un chiarificatore intervento della Corte di Cassazione, teso a tracciare la distinzione tra azione di adempimento, ex art. 1218, c.c., azione risarcitoria in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c. ed esecuzione coattiva delle obbligazioni, ai sensi degli artt. 2930 ss. c.c.

    Segnatamente, l’azione di adempimento di cui all’art. 1218 è finalizzata al conseguimento della medesima utilità dedotta nel contratto e non ottenuta dal creditore in costanza dello sviluppo fisiologico del rapporto giuridico, e rispetto ad essa, l’esecuzione in forma coattiva ex artt. 2930 e ss. c.c., ne costituisce una forzosa attuazione.

    Il ristoro in forma specifica, invece, presupponendo la configurazione di un pregiudizio, è una prestazione succedanea e distinta rispetto a quella originariamente individuata nel divisato accordo e, in ogni caso, anche quindi nella prospettiva della fonte extracontrattuale del pregiudizio, esso tende a ripristinare, ove possibile, lo status quo ante in cui versava la sfera giuridica del danneggiato prima della sua vulnerazione.

    Acquisita, pertanto, la natura risarcitoria del ristoro in forma specifica, si evidenzia, sotto il profilo del regime giuridico, come l’art. 2058 c.c., nell’assegnate al ristoro c.d. in natura una posizione prioritaria rispetto quello per equivalente -del quale a breve si tracceranno i connotati distintivi- pone, al contempo, due limiti alla praticabilità del rimedio stesso.

    Il primo di essi è costituito dalla possibilità materiale che detta forma di risarcimento sia concretamente attuabile, cosicché laddove la natura giuridica del bene leso non consenta la reintegrazione in forma specifica, il rimedio dovrà essere escluso, residuando quello per equivalente.

    Del pari, anche ove astrattamente possibile, il risarcimento in esame non sarà praticabile qualora la sua attuazione risulti eccessivamente onerosa per il debitore, giusta l’art. 2058, comma 2, c.c., in quanto l’esigenza che l’interesse facente capo al danneggiato venga ripristinato in natura trova, quale limite invalicabile, la proporzionalità dello stesso rimedio rispetto alla posizione e alle possibilità economiche del danneggiante, operando sempre, nei rapporti tra consociati, il principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.

    A fronte della non praticabilità del ristoro in forma specifica, trova applicazione il risarcimento per equivalente, consistente non nel rispristino materiale della sfera giuridica del danneggiato ma nella liquidazione di una somma di denaro, la quale sia espressione della misura del pregiudizio sofferto dal danneggiato.

    Rileva, nel descritta evenienza, l’art. 1223 c.c. -la cui vigenza in ambito extracontrattuale opera in forza del richiamo contenuto nell’art. 2056, comma 1, c.c.-, a mente del quale il risarcimento per equivalente dovrà comprendere la perdita subita, c.d. danno emergente, e il mancato guadagno, c.d. lucro cessante, in quanto siano conseguenza immediata e diretta della condotta illecita posta in essere dal danneggiante.

    In questa preventiva e necessaria ricognizione circa la natura giuridica e la disciplina del risarcimento in forma specifica -propedeutica ad un’esatta delimitazione del perimetro applicativo della stesso in sede processuale amministrativa- un cenno merita il rapporto intercorrente tra l’azione di ristoro in parola e quella per equivalente.

    In materia, la Corte di Cassazione, cui si conforma il Consiglio di Stato, è costante nell’affermare che il risarcimento per equivalente costituisca un minus rispetto alla richiesta di ristoro in forma specifica

    Ciò comporta che la sola proposizione in sede processuale dell’azione di risarcimento in forma specifica non è comunque ostativa all’esperibilità del risarcimento per equivalente, sebbene non espressamente indicato in ricorso, poiché verrebbe a configurarsi un’ipotesi di emendatio libelli

    Non è invece possibile il contrario.

    Ne deriva, quindi, che l’esperimento della sola azione risarcitoria per equivalente non permette al ricorrente, in corso di causa, di chiedere anche il ristoro in forma specifica, in quanto ciò determinerebbe una inammissibile mutatio libelli.

    Tanto chiarito, e passando all’esame dell’ambito applicativo del risarcimento in forma specifica in sede di processo amministrativo, occorre evidenziare come quest’ultimo, così come rilevato ad inizio trattazione, debba individuarsi in relazione alle diverse forme di giurisdizione previste innanzi al g.a., nonché, ancora, avuto riguardo alle correlate posizioni soggettive tutelabili, sullo sfondo, ad ogni evidenza, dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale registratasi in materia.

    Nello specifico, quanto alle distinte forme di giurisdizione configurabili innanzi al g.a., vige la tradizionale tripartizione tra giurisdizione di legittimità, giurisdizione esclusiva -contemplate dall’art. 103, comma 1, Cost.- e giurisdizione di merito.

    Detta tripartizione è oggi nitidamente cristallizzata nell’art. 7, comma 3, c.p.a.

    Il comune denominatore dei tre tipi di giurisdizione è costituito dal presupposto, qualificato dalle sentenze nn. 204/2004 e 191/2006 della Corte costituzionale, che la controversia assegnata alla cognizione del g.a. involga l’esercizio, anche mediato, del pubblico potere.

    Quanto, invece, agli elementi distintivi -tratteggiati in forza del criterio della causa petendi, cioè della natura della situazione soggettiva dedotta in giudizio, nonché delle forme di tutela erogabili- si evidenzia che la giurisdizione di legittimità ha ad oggetto gli interessi legittimi, la giurisdizione esclusiva estende, nei casi previsti dalla legge, la cognizione del g.a. anche ai diritti soggettivi, mentre, infine, la giurisdizione di merito permette al giudicante di oltrepassare il limite della sfera più intima dell’azione amministrativa, sostituendosi con la sua pronuncia alla p.a. riottosa (art. 7, commi 4, 5, 6).

    In ordine, poi, all’evoluzione legislativa e giurisprudenziale dell’azione risarcitoria in seno al processo amministrativo, il punto di partenza è rappresentato dall’art. 35, comma 1, d. lgs. n. 80/1998, in forza del quale si riconosceva al g.a., nelle materie sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva, il potere di risarcire, anche in forma specifica, il danno ingiusto patito dal ricorrente, atteso che, in precedenza, detto potere non era attribuito al g.a., essendo limitate le sue pronunce alla sola caducazione dei provvedimenti amministrativi illegittimi.

    Come noto, il contesto storico in cui si introduceva il citato precetto era caratterizzato dal dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi pretensivi, operando, invece, per quelli oppositivi il meccanismo della c.d. riespansione del diritto soggettivo, all’esito del giudizio caducatorio, con possibilità, quindi, per il ricorrente di ottenere il ristoro del danno sofferto innanzi al g.o., mediante il meccanismo della pregiudiziale esterna.

    Alla luce di ciò, il citato art. 35, comma 1, d. lgs. n. 80/1998 era interpretato, dalla prevalente giurisprudenza e dottrina, quale disposizione operante solo rispetto alle situazioni soggettive qualificabili alla stregua di diritti soggettivi.

    Ne conseguiva che, laddove in sede di giurisdizione esclusiva si intercettasse un interesse legittimo pretensivo, l’unica tutela erogabile dal g.a. era, in ogni caso, quella caducatoria, stante l’inammissibilità della tutela risarcitoria, sia per equivalente, sia in forma specifica, paventandosi, in quest’ultimo caso, il rischio che tale forma di ristoro introducesse, al di fuori della giurisdizione di merito, una surrettizia forma di condanna della p.a. ad un facere pubblicistico, in patente violazione del principio di separazione dei poteri.

    La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, n. 500/1999, con cui è stato abbattuto il c.d. dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi pretensivi, ha creato i presupposti per la successiva evoluzione legislativa, introdotta dalla l n. 205/2000, la quale, novellando, l’art. 7, comma 3, l. n. 1034/1971, estendeva l’azione risarcitoria, anche in forma specifica, alla giurisdizione si legittimità, divenendo, pertanto, detta giurisdizione completa, in aderenza ai principi di effettività della tutela giurisdizionale di cui agli artt. 24 e 103 Cost.

    L’approdo della descritta evoluzione legislativa e giurisprudenziale trova oggi puntuale riscontro nel codice del processo amministrativo, il quale si conforma anche principi enunciati in materia di risarcitoria dalla sentenza n. 191/2006 della Corte costituzionale, secondo cui la tutela risarcitoria erogabile in sede di giurisdizione amministrativa non costituisce una distinta materia sulla quale è esercitata la potestas decidendi del g.a. ma, invece, rappresenta un completamento di tutela, rispetto alla ordinaria azione caducatoria, esperibile innanzi al g.a. in funzione di giurisdizione di legittimità.

    Ciò posto, può quindi individuarsi l’attuale sostrato normativo, in tema di risarcimento del danno, contenuto nel vigente codice del processo amministrativo, con precipuo riguardo al ristoro in forma specifica.

    Rilevano in tal senso, l’art. 7, commi 4 e 5, ove è attribuito al g.a. potere di conoscere, anche ai fini risarcitori, le vicende inerenti interessi gli interessi legittimi e i diritti soggettivi, nelle rispettive giurisdizioni di legittimità ed esclusiva; l’art. 30, comma 2, a mente del quale l’azione di condanna al risarcimento dei danni, nei confronti della p.a., può essere richiesta, sussistendo i presupposti di cui all’art. 2058 c.c., anche in forma specifica.

    La norma appena indicata, a differenza dei precetti vigenti prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, richiama expressis verbis l’art. 2058 c.c., sebbene, comunque, non vi fossero dubbi in passato circa la cogenza nel processo amministrativo dell’art. 2058 c.c., nonostante l’assenza di un esplicito rinvio in tal senso.

    Rileva, infine, l’art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a., il quale, nel disciplinare le sentenze di merito pronunciabili dal g.a., attribuisce ad esso il potere di disporre misure di risarcimento del danno in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c.

    L’azione risarcitoria, oltre che innanzi al g.a. in funzione di giurisdizione di legittimità ed esclusiva, può essere esperita anche in presenza di giurisdizione di merito, secondo quanto statuito dall’art. 112, comma 3, c.p.a.

    In forza della richiamata norma, infatti, il ricorrente può chiedere il ristoro dei danni derivanti dalla mancata esecuzione del giudicato, mentre il c.d. primo correttivo al codice, contenuto nel d. lgs. n. 195/2011, ha espunto dalla norma in questione il comma 4, che consentiva, previa conversione del rito, il risarcimento dei danni derivanti all’illegittimo esercizio dell’azione amministrativa precedente al formarsi del giudicato

    Rispetto al profilo appena indicato, si renderà pertanto necessario l’autonomo esperimento dell’azione di ristoro secondo l’ordinario rito di cognizione, entro centoventi giorni dal formarsi del giudicato, giusta l’art. 30, comma 5, c.p.a., precetto, quest’ultimo, che ha superato indenne lo scrutinio della Corte costituzionale, all’esito del giudizio derivante da un’eccezione di incostituzionalità sollevata dal T.a.r. Palermo.

    Proprio dall’esame dei precetti inerenti l’azione risarcitoria in sede di giurisdizione di merito emerge come, diversamente dalle giurisdizioni di legittimità ed esclusiva, l’art. 112, comma 3, c.p.a. calibri la forma di ristoro sui danni derivanti dall’impossibilità di attuare il giudicato, prospettando, quindi, un risarcimento per equivalente e in forma monetaria.

    Da quanto esposto, si desume pertanto che nell’ambito della giurisdizione di merito non sembra esservi spazio per l’operatività del risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c., e ciò in ragione della funzione ontologicamente assegnata al giurisdizione di merito, nella particolare forma del giudizio di ottemperanza.

    Detto giudizio, come anticipato, consente infatti al g.a. di sostituirsi, anche per mezzo di un commissario ad acta, al soggetto pubblico, affinché si realizzi la conformazione della realtà di fatto alla regula iuris fissata dalla pronuncia, cosicché l’interesse dedotto dal ricorrente viene direttamente e pienamente soddisfatto.

    In sostanza, il rito dell’ottemperanza, nella sua puntuale attuazione, determina di per sé il conseguimento della specifica utilità richiesta dal ricorrente vittorioso, rendendo dunque inutile un’ipotetica azione di ristoro in forma specifica.

    Esaminata l’applicabilità dell’art. 2058 c.c. nella giurisdizione di merito, può, quindi, scrutinarsi l’ambito di efficacia della norma in parola in sede di giurisdizione di legittimità ed esclusiva spettante al g.a.

    Segnatamente, in relazione alle giurisdizione esclusiva, non si rinvengono problemi interpretativi circa la ristorabilità in forma specifica del diritto soggettivo. Con riguardo a tale evenienza, infatti, il g.a. non incontra gli ostacoli legati alla tutela dell’interesse legittimo.

    Sul versante sostanziale possono quindi richiamarsi le considerazioni già svolte circa i presupposti e le condizioni dell’azione ex art. 2058 c.c., aggiungendosi che il regime di prescrizione dell’azione è di cinque anni, secondo quanto fissato dall’art. 2947, comma 1, c.c.

    Sotto il profilo processuale, poi, opera la sopra descritta posizione della giurisprudenza, secondo cui il mutamento dell’istanza di ristoro in forma specifica, in ristoro per equivalente configura un’emendatio libelli, in quanto tale ammissibile, mentre l’ipotesi contraria un’inammissibile emendatio libelli.

    Tanto chiarito in relazione al risarcimento del diritto soggettivo, difficoltà interpretative si riscontrano invece qualora l’istanza di ristoro in forma specifica riguardi la lesione di un interesse legittimo e ciò, ad ogni evidenza, sia in sede di giurisdizione di legittimità che di giurisdizione esclusiva, poiché in entrambi i casi, a fronte di una posizione soggettiva qualificabile alla stregua di interesse legittimo, trovano applicazione le medesime regole sostanziali e processuali.

    Sul punto, si rende necessario evidenziare la diversa incidenza che il risarcimento in forma specifica può avere sull’interesse legittimo oppositivo e sull’interesse legittimo pretensivo, dovendosi dar conto delle posizioni espresse in tema dalla dottrina e dalla giurisprudenza, con particolare riguardo all’interferenza o sovrapposizione dell’azione in esame con la c.d. azione di adempimento di cui agli artt. 30, comma 1, e 34, comma 1, lett. c), c.p.a., anche alla luce della novella introdotta dal c.d. secondo correttivo del codice del processo amministrativo, di cui al d. lgs. n. 160/2012.

    In via preliminare, peraltro, torna utile rammentare che l’interesse legittimo oppositivo -secondo l’ormai consolidata concezione sostanzialistica di tale posizione soggettiva- è una situazione giuridica in qualche misura speculare al diritto assoluto, in quanto in entrambi i casi il titolare di essa ha interesse a conservare un bene già presente nel suo patrimonio, mentre, di contro, l’interesse legittimo pretensivo si atteggia, mutatis mutandis, ad una pretesa assimilabile ad un diritto di credito, poiché preordinata al conseguimento di un’utilità non presente nel patrimonio dell’istante ma conseguibile mercé l’esercizio del pubblico potere.

    Ciò considerato, attenta dottrina rileva il risarcimento del danno in forma specifica di cui all’art. 2058 c.c. -rettamente inteso quale prestazione succedanea, tesa a ripristinare lo status quo ante pregiudicato dall’azione del danneggiante- possa trovare compiuta attuazione solo a fronte della vulnerazione di un interesse legittimo oppositivo e non pretensivo.

    E’ nella prima ipotesi, infatti, che viene ricostituita la condizione in cui versava il bene del privato prima della lesione inferta dall’illegittima azione della p.a.

    Nella seconda evenienza, quella cioè dell’interesse pretensivo, il privato, invece, non ha ancora conseguito alcuna utilità, cosicché, per un verso, il risarcimento potrà involgere solo i danni patrimoniali dallo stesso patiti e, per altro verso, il conseguimento dell’utilità anelata potrà trovare fondamento solo in forza dell’esperimento dell’azione di adempimento, di cui al combinato disposto degli artt. 30, comma 1, e 34, comma 1, lett. c), c.p.a.

    Più in chiaro.

    Si pensi all’ipotesi in cui la p.a. abbia illegittimamente occupato un suolo privato, costruendo al contempo un’opera pubblica (c.d. occupazione acquisitiva).

    In tal caso viene a configurarsi un pregiudizio ad un interesse legittimo oppositivo, cosicché l’accoglimento del ricorso avverso gli atti della procedura espropriativa, in uno all’istanza di ristoro in forma specifica -e sempreché la p.a. non eserciti il potere di cui all’art. 42-bis, d.p.r. n. 327/2001- comportano l’obbligo, in capo alla p.a. espropriante, di restituzione del fondo al legittimo proprietario e l’abbattimento dell’opera pubblica, quale risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c.

    In ordine a quest’ultimo aspetto, la giurisprudenza del Consiglio di Stato -mutando avviso a seguito delle numerose pronunce della C.e.d.u. in materia di occupazione illegittima del suolo ad opera della p.a.- ha escluso che un limite alla distruzione dell’opera pubblica e, quindi, al risarcimento in forma specifica, possa ravvisarsi nel pregiudizio all’economia nazionale che da tale distruzione deriverebbe.

    Seguendo la linea interpretativa della dottrina, quindi, il risarcimento in forma specifica non è, in concreto, praticabile in presenza di un ricorso teso contestare l’illegittimo silenzio serbato dalla p.a. ovvero l’illegittima adozione di un provvedimento di diniego.

    A fronte di queste ipotesi, infatti, l’eventuale conseguimento dell’utilità richiesta dal ricorrente -ottenuta in forza della pronuncia di condanna del g.a. adottata nei confronti della p.a., ai sensi degli artt. 30, comma 1, e 34, comma 1, lett. c), c.p.a.- non rappresenta un ristoro in forma specifica, ma l’attuazione della condanna della p.a. ad un facere pubblicistico, sempreché non residuino in capo alla stessa sacche di discrezionalità.

    In sostanza, alla luce della posizione della dottrina, la tradizionale preclusione al risarcimento in forma specifica dell’interesse legittimo pretensivo era condizionata dalla sovrapposizione di tale azione con quella di adempimento, prospettandosi il rischio, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste ex lege, di un’intrusione del g.a. nel merito amministrativo, con conseguente superamento dei limiti esterni della giurisdizione e vulnerazione del principio di separazione dei poteri.

    La posizione della giurisprudenza sul tema sembra invece connotata da un minore rigore dogmatico.

    Così, ad esempio, qualora il ricorrente abbia agito in giudizio per ottenere l’annullamento, con contestuale domanda di risarcimento del danno patrimoniale, del provvedimento di esclusione adottato dalla stazione appaltante in una procedura di gara, il costante orientamento pretorio, a fronte dell’accoglimento del ricorso e della caducazione dell’impugnato provvedimento, è nel senso di rigettare la domanda di ristoro per equivalente, argomentandosi che la caducazione del provvedimento di esclusione, con conseguente riammissione alla procedura selettiva, costituisca risarcimento in forma specifica dell’interesse del ricorrente.

    Quanto la profilo processuale, è necessario rilevare come l’azione di risarcimento, anche in forma specifica, conseguente alla lesione di un interesse legittimo, debba essere esperita contestualmente ad altra azione, giusta l’art. 30, comma 1, c.p.a.

    Se esperita autonomamente, invece, deve essere proposta entro il perentorio termine di centoventi giorni dalla fatto o dall’adozione del provvedimento, ovvero, ancora, dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento (art. 30, commi 2 e 5, c.p.a.).

    Infine, avuto riguardo alle recenti novità in materia di contratti pubblici, derivanti dalla attuazione della c.d. direttiva ricorsi, n. 66/2007, sembra ascrivibile al genus risarcimento in forma specifica la pronuncia con cui il g.a., previa caducazione del provvedimento di aggiudicazione disponga, ai sensi degli artt. 121 e 122 c.p.a. ed in presenza di espressa domanda del ricorrente vittorioso, il subentro di quest’ultimo nel contratto stipulato dalla stazione appaltante con l’aggiudicatario illegittimo.

    Depongono in tal senso sia il regime giuridico previsto dagli artt. 121 e 122 c.p.a., sia la rubrica dell’art. 124, c.p.a., intitolato “tutela in forma specifica e per equivalente”, sia l’ulteriore circostanza che il comma 1 della diposizione appena citata preveda, per l’ipotesi in cui non sia possibile il subentro nel contratto, che al ricorrente vittorioso sia riconosciuto “il risarcimento del danno per equivalente, subìto e provato”, in conformità alla teoria che assegna al ristoro per equivalente una pozione subalterna rispetto al risarcimento in forma specifica.



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    3) Ricostruiti i rapporti tra procedimento e contratto alla luce della teorica dell'evidenza pubblica, si soffermi il candidato sulla sorte dello strumento negoziale in conseguenza, rispettivamente, dell'annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione e della caducazione in sede giurisdizionale dell'atto di approvazione. Tratti, inoltre, il candidato dei profili inerenti il riparto di giurisdizione.

    La relazione intercorrente tra procedimento di evidenza pubblica e il perfezionamento di un contratto tra p.a. e privato, al quale il primo è preordinato, ha subito un’evoluzione legislativa e giurisprudenziale in ragione della progressiva espansione della disciplina sovranazionale.
    Al fine di meglio comprendere tale processo evolutivo, è utile prendere le mosse dall’esame della funzione assegnata ex lege alla procedura evidenziale.
    Come noto, i principi cardine, di rilievo costituzionale, cui è informata l’azione amministrativa sono, oltre a quello di legalità, il buon andamento e l’imparzialità, di cui all’art. 97 Cost.
    In forza dei richiamati principi, la pubblica amministrazione, oltre a svolgere un’azione aderente alle prescrizioni di legge, deve tenere un comportamento amministrativo che non sia discriminatorio nei confronti dei cittadini, quale corollario dell’imparzialità e, al contempo, preservi l’efficacia, l’efficienza e l’economicità dell’azione del soggetto pubblico, predicati, questo ultimi, del canone del buon andamento.
    I parametri appena descritti, poiché involgenti l’azione amministrativa nella sua interezza, trovano puntuale applicazione anche laddove per la p.a., nella cura dell’interesse pubblico cui è ontologicamente preposta, si renda necessario stipulare negozi giuridici c.d. passivi, cioè contratti dalla cui efficacia gravano si di essa oneri economici.
    Proprio per la compiuta attuazione dei principi in parola, ne consegue che la p.a. non può formare la propria volontà negoziale liberamente, alla stregua di un qualunque privato, ma, al contrario, deve giungere al perfezionamento del programmato accodo in base ad un procedimento amministrativo, definito, appunto, di evidenza pubblica.
    Il procedimento in questione è incentrato, in via di principio, sulla scansione di alcune fasi comprensive, nello specifico, della deliberazione a contrarre, con cui la p.a. manifesta l’intento di perfezionare un accordo, nella successiva pubblicazione di un bando, per mezzo del quale il soggetto pubblico regolamenta l’esercizio della propria discrezionalità, nello svolgimento della fase selettiva e, infine, nella scelta dell’aggiudicatario, cioè del soggetto che assumerà la veste di futuro contraente.
    In sostanza, fase pubblicistica antecedente alla stipulazione del contratto è racchiusa nei due estremi della deliberazione a contrarre e dell’aggiudicazione, ed ha il precipuo scopo di selezionare, in maniera, imparziale, l’offerta più vantaggiosa per la p.a.
    A valle della fase evidenziale appena descritta, si colloca la fase privatistica, la cui origine è data dal perfezionamento del contratto tra p.a. aggiudicataria e il soggetto primo graduato della gara.
    Diversamente dal primo stadio -quello cioè dell’evidenza pubblica, in cui la p.a. procedente esercita un potere autoritativo nei confronti dei partecipanti alla selezione- nel secondo stadio, quello privatistico, pubblica amministrazione e contraente sono in posizione paritetica, e il rapporto giuridico tra loro sussistente è basato sulla disciplina di diritto privato.
    Ciò posto, si è prima evidenziato come l’evoluzione della relazione intercorrente tra procedura di evidenza pubblica e contratto abbia subito il condizionamento derivante dalla cogenza dispiegata nel nostro ordinamento giuridico delle fonti normative comunitarie.
    Tale circostanza è comprovata dal passaggio dell’originaria concezione c.d. contabilistica della procedura evidenziale, alla nuova concezione proconcorrenziale, di matrice schiettamente comunitaria.
    Più in chiaro, in epoca antecedente alla formazione dell’ordinamento sovranazionale, il principale fine della procedura ad evidenza pubblica era quello di consentire alla p.a. di perfezionare l’accordo più vantaggioso per la cura del pubblico interesse.
    Con l’avvento dell’ordinamento sovranazionale, invece, il fine da ultimo indicato è divenuto recessivo, poiché la prioritaria necessità della procedura evidenziale è quella di garantire la concorrenza tra imprese comunitarie ed evitare, quindi, che le amministrazioni aggiudicatarie possano favorire i soggetti economici dei rispettivi Stati di appartenenza, alterando così le regole del mercato.
    La necessità di tutelare la concorrenza tra imprese ha comportato il recepimento nel nostro ordinamento delle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, inizialmente cristallizzate in distinte leggi, aventi ad oggetto la disciplina, rispettivamente, degli appalti di lavoro, servizi e forniture, leggi poi tutte confluite nel d. lgs. n. 163/2006, contenente il c.d. codice dei contratti pubblici.
    Ma l’influenza del diritto comunitario non ha determinato solo il mutamento della ratio sottesa alla procedura di evidenza pubblica.
    Detta influenza, infatti, ha profondamente inciso sulle forme di tutela applicabili in presenza di un illegittimo provvedimento di aggiudicazione della p.a., sui correlati riflessi che la caducazione di un’illegittima assegnazione della gara dispiega rispetto al perfezionato contratto e, quindi, sul connesso problema del riparto di giurisdizione.
    Rispetto alle tematiche appena indicate, occorre distinguere una prima fase, antecedente all’entrata in vigore del d. lgs. n. 104/2010, che contiene il codice del processo amministrativo, e la fase successiva alla vigenza del codice stesso, il quale ha fatto proprie, in materia, le riforme introdotte con il d. lgs. n. 53/2010, attuativo della c.d. direttiva ricorsi, n. 66/2007.
    Preliminare all’analisi delle due distinte fasi, così come sopra indicate, è una riflessione sui principi in tema di riparto di giurisdizione tra g.o. e g.a., al quale sono da ricondurre le distinte forme di tutela.
    Nello specifico, alla luce dei prescrizioni di matrice costituzionale, artt. 103 e 113, nonché dei principi enunciati dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 204/2004 e 191/2006, il g.a. è il giudice del pubblico potere, deputato, pertanto, a conoscere le vicende nelle quali la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio assume la veste di interesse legittimo, ovvero, anche di diritto soggettivo nei casi espressamente previsti dal legislatore, coincidenti con le materie assegnate alla giurisdizione esclusiva del g.a.
    Il segnalato criterio della causa petendi, cioè della natura della situazione giuridica soggettiva facente capo al ricorrente, ha determinato l’assegnazione alla giurisdizione del g.a. delle controversie inerenti lo svolgimento della procedura di evidenza pubblica, e al g.o. delle vicende riguardanti l’attuazione del rapporto obbligatorio, e ciò, in ragione della già rilevato presupposto dell’esercizio del potere autoritativo della p.a. nella prima fase, e della sussistenza di un rapporto paritetico tra p.a. e privato nella seconda.
    Si aggiunga a ciò che, a far data dall’entrata in vigore del d. lgs. n. 80/1998, le controversie involgenti la procedura di evidenza pubblica sono state assegnate alla giurisdizione esclusiva del g.a., con una disposizione l’art. 33, poi confermata, nella sostanza, dal d.lgs. n. 163/2006 e dall’art. 133 c.p.a.
    Al diverso riparto di giurisdizione corrisponde la tradizionale distinzione delle correlate forme di tutela.
    Il processo amministrativo, infatti, nasce come processo di matrice caducatoria a carattere oggettivo, in quanto preordinato alla eliminazione del provvedimento amministrativo illegittimo, al fine di tutelare il pubblico interesse.
    Le successive evoluzioni legislative e pretorie hanno spostato l’oggetto del processo dall’atto al rapporto e hanno determinato il mutamento del suo carattere da oggettivo in soggettivo, cioè teso al soddisfacimento dell’interesse del ricorrente, in consonanza con la visione sostanzialistica e non più formale dell’interesse legittimo.
    Si aggiunga a ciò che, in disparte le innovazioni introdotte dal codice del processo amministrativo, la tutela risarcitoria, in precedenza di esclusiva competenza del g.o., è stata riconosciuta anche innanzi al g.a. a seguito dell’entrata in vigore del citato d. lgs. n. 80/1998 e della l. n. 205/2000.
    Tanto premesso, nella fase antecedente al codice del processo amministrativo, la caducazione in sede giurisdizionale dell’atto di aggiudicazione ha determinato un acceso dibattito giurisprudenziale in ordine alle conseguenze che detto annullamento produceva nei confronti del contratto stipulato tra la p.a. e l’illegittimo aggiudicatario.
    Infatti, la Suprema Corte di Cassazione, muovendo dall’assunto del distinto riparto di giurisdizione sussistente tra g.a. e g.o. in ordine alle vicende riguardanti, rispettivamente, l’aggiudicazione e il contratto, ha postulato la necessità, ai fini della declaratoria di inefficacia dell’accordo, di una distinta impugnazione, all’esito dell’annullamento dell’aggiudicazione ad opera del g.a., del negozio giuridico innanzi al g.o., per mezzo dell’azione di annullamento ai sensi dell’art. 1425 c.c., incidendo l’eliminazione dell’atto di aggiudicazione sulla capacità di contrarre della p.a.
    Parte della giurisprudenza amministrativa, opinando in senso contrario, rilevava come la legittimazione passiva all’annullamento del contratto -rinvenibile solo in capo alla p.a., giusta l’art. 1441 c.c.- determinasse, di fatto, una vulnerazione della posizione giuridica del ricorrente vittorioso, in quanto la medesima p.a. non aveva interesse ad instaurare un giudizio davanti al g.o. per eliminare un contratto in corso di esecuzione.
    In ragione di ciò, si è valorizzato il collegamento funzionale intercorrente tra il provvedimento di aggiudicazione e la successiva stipula del contratto, cosicché a fronte della eventuale caducazione del primo in sede giurisdizionale amministrativa, avrebbe trovato applicazione il principio simul stabunt, simul cadent, vigente nelle ipotesi si collegamento negoziale, con conseguente inefficacia del contratto stipulato a valle, senza la necessità si alcuna impugnazione innanzi al g.o.
    A tale tesi, tuttavia, si obiettava come la stipulazione del contratto determinasse una soluzione di continuità della procedura evidenziale e il sorgere della distinta fase privatistica, cosicché non avrebbe potuto operare l’invocato principio simul stabunt, simul cadent.
    Non ha avuto miglior sorte la tesi della nullità del contratto in conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione.
    L’opzione ermeneutica in parola asseriva, nello specifico, l’invalidità dell’accordo ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c., disciplinante la c.d. nullità virtuale per contrarietà a norme imperative, in quanto il negozio giuridico trovava fondamento su una pregressa lesione di norme inderogabili, come quelle poste a presidio della procedura di evidenza pubblica.
    In senso contrario, tuttavia, si rilevava come l’inefficacia originaria di un atto nullo mal si conciliasse con l’invalidità sopravvenuta, riconducibile alla caducazione del provvedimento di aggiudicazione.
    Nel panorama giurisprudenziale appena delineato, si inseriva l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la quale, ritenendo corretto l’assunto interpretativo predicato dalla Suprema Corte -cioè della cognizione del g.o. in ordine alla validità del contratto-, rilevava, comunque, come il ricorrente vittorioso che, avesse ottenuto innanzi al g.a. la caducazione dell’illegittima aggiudicazione, potesse agire in sede di ottemperanza, al fine di conseguire la conformazione della realtà di fatto al dictum del giudice, con correlativo obbligo della p.a. di aggiudicare l’appalto al ricorrente medesimo.
    Ciò chiarito in tema di annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione -prima della pronuncia delle Sezioni Unite fondata sulla cogenza della c.d. direttiva ricorsi n. 66/2007 e successive applicazioni legislative- occorre soffermarsi sulla caducazione, sempre in sede giurisdizionale, dell’atto di approvazione del contratto, di cui all’art. 12, d. lgs. n. 163/2006, nonché dell’annullamento in autotutela ad opera della p.a. del provvedimento di aggiudicazione.
    Nello specifico, l’approvazione del contratto è un atto amministrativo successivo al perfezionamento dell’accordo, al quale è subordinata, in termini di condicio iuris sospensiva, l’efficacia del negozio giuridico stipulato tra p.a. e primo graduato della selezione pubblica (art. 11, comma 11, d. lgs. n. 163/2006).
    Per mezzo di esso la stazione appaltante opera un controllo sulla sussistenza dei presupposti idonei a consentire che il perfezionato accordo dispieghi efficacia.
    Tale attività, sebbene successiva alla stipulazione del contratto è, comunque, espressione del potere autoritativo della p.a., cosicché è, in ogni caso, riconducibile nella giurisdizione esclusiva del g.a., nonostante, sul punto, la casistica giurisprudenziale sia molto limitata.
    Legittimato all’impugnazione dell’atto di approvazione è il partecipante non vincitore, il quale, tuttavia, poiché il primo atto lesivo della sua sfera giuridica è costituito dal presupposto provvedimento di aggiudicazione, deve gravare tempestivamente quest’ultima statuizione, prima di impugnare l’atto di approvazione, che è conseguenziale all’aggiudicazione stessa. L’eventuale caducazione dell’atto di approvazione, sia esso espresso o tacito, determina l’inefficacia del contratto.
    In ordine, poi, all’annullamento in autotutela della statuizione di aggiudicazione, torna utile, in via preliminare, rilevare come esso sia espressione del generale principio buon andamento e imparzialità presidiato dal già citato art. 97, comma 1, Cost., e cristallizzato in maniera puntuale dall’art. 11, comma 9, d. lgs. n. 163/2006, a mente del quale, divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva, è sempre consentito alla p.a. procedente l’esercizio del potere di autotutela.
    Detto potere risponde, come appena rilevato, ai principi di cui all’art. 97 Cost., poiché la p.a., nel costante perseguimento del pubblico interesse affidato alla sua cura, deve adeguare la tutela dell’interesse in parola alle prescrizioni di legge, nonché ai sopravenuti mutamenti di fatto e di diritto.
    Ciò chiarito, nella fase antecedente ai mutamenti legislativi innestati dall’attuazione della direttiva n. 66/2007 -ferma restando l’autonoma impugnabilità del provvedimento secondario di annullamento dell’aggiudicazione innanzi al g.a.- sul tema dell’incidenza dell’atto di autotutela sul contratto stipulato a valle dalla p.a. si registrava un contrasto interpretativo, che replicava, in qualche misura, quello già esaminato in materia di caducazione dell’aggiudicazione in sede giurisdizionale.
    Segnatamente, a fronte di chi, valorizzando il collegamento funzionale tra statuizione di aggiudicazione e successivo contratto, postulava la conseguenziale inefficacia dell’atto negoziale all’esito dell’annullamento in autotutela della presupposta aggiudicazione, altri, di contro, affermavano l’indipendenza delle due distinte fasi, imponendo ciò la necessaria, l’autonoma impugnazione del contratto innanzi al g.o.
    Il regime giuridico lo stato della giurisprudenza sopra descritti hanno subito un rilevante mutamento a seguito della più volte citata attuazione della direttiva n. 66/2007.
    La fonte comunitaria in parola, collocandosi nel quadro del rafforzamento delle garanzie in tema di libera concorrenza tra imprese, ha imposto agli Stati membri di rendere celere e concentrate le forme di tutela previste per le controversie in materia di contratti pubblici.
    Pertanto, in forza delle prescrizioni contenute nella richiamata direttiva, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, anticipando l’intervento del legislatore con il d. lgs. n. 53/2010 -che ha novellato in tema di giurisdizione l’art. 244, d. lgs. n. 163/2006, poi sostituito dall’entrata in vigore del codice del processo amministrativo- ha affermato che la giurisdizione esclusiva del g.a. comprende non solo la cognizione del provvedimento di aggiudicazione ma si estende anche all’inefficacia del contratto.
    Tale assunto della Suprema Corte trova, oggi, puntuale riscontro normativo nell’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1 c.p.a., che, in combinato disposto con gli artt. 121 e 122 c.p.a., disciplina il potere del g.a. di dichiarare, previa caducazione del provvedimento di aggiudicazione, l’inefficacia del contratto stipulato tra p.a. e aggiudicatario.
    Le disposizione in esame sono espressione della puntuale applicazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, sub specie di concentrazione e celerità delle azioni, di cui agli artt. 24, 111 Cost. e 1 c.p.a., in quanto consentono la privato ricorrente, in un unico contesto processuale, il pieno soddisfacimento della pretesa dedotta in giudizio, senza che, pertanto, il medesimo ricorrente sia costretto a defatiganti azioni giudiziarie in due distinti plessi giurisdizionali, delle quali, rispettivamente, la prima innanzi al g.a. per la caducazione dell’aggiudicazione, e la seconda davanti al g.o. per l’inefficacia del contratto, così come previsto nel previgente regime giuridico.
    Ciò considerato, una riflessione, a tal punto, si impone in ordine ai tratti salienti della disciplina in esame.
    In particolare, dal regime giuridico degli artt. 121 e 122 c.p.a., si distingue una prima ipotesi -prevista dall’art. 121, rubricato “inefficacia del contratto nei casi di gravi violazioni di legge”- i cui il g.a., previa caducazione giurisdizionale del presupposto provvedimento di aggiudicazione, non ha margini valutativi circa la declaratoria di inefficacia del contratto, che, quindi, al ricorrere delle gravi violazioni di legge ivi contemplate, diviene privo di effetti. Unico limite è costituito da rilevanti ragioni di pubblico interesse, rectius “esigenze imperative”, che possono indurre il medesimo giudicante, in forza di una puntuale esplicazione delle ragioni, a preservare l’efficacia del negozio giuridico nonostante l’accertata, grave violazione di legge (art. 121, comma 2, c.p.a.).
    L’art. 122, c.p.a., invece, prevede che, laddove all’esito dell’annullamento in sede giurisdizionale dell’aggiudicazione, non ricorrano i presupposti di cui all’art. 121 c.p.a., la dichiarazione di inefficacia del contratto è subordinata ad una valutazione complessiva del giudicante, fondata su alcuni elementi tra i quali: l’interesse delle parti, lo stato dell’esecuzione del contratto e l’effettiva possibilità del ricorrente vincitore di conseguire l’aggiudicazione e subentrare nel contratto.
    Dalla sintetica disamina del regime giuridico in questione, si evince come la previa caducazione in sede giurisdizionale del provvedimento di aggiudicazione costituisca una pregiudiziale fissata ex lege, ai fini della successiva sentenza di inefficacia del contratto.
    Proprio sulla natura di tale sentenza e, quindi, sulle ragioni giuridiche che comportano l’inefficacia del contratto, si è rinnovato il dibattito giuridico.
    Segnatamente, parte della dottrina, valorizzando l’inciso “il giudice… dichiara l’inefficacia del contratto”, di cui agli artt. 121 e 122 c.p.a., ritiene che il legislatore abbia accolto la tesi dell’inefficacia del contratto in conseguenza dell’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento di aggiudicazione, cosicché la pronuncia del g.a. è meramente dichiarativa, avendo quale unico scopo l’accertamento dei presupposti fissati a monte dal legislatore per la privazione degli effetti dell’atto negoziale.
    In senso contrario, si obietta come l’assunto della natura dichiarativa della pronuncia del g.a. può ritenersi plausibile nei casi contemplati dall’art. 121 c.p.a., cioè in presenza di gravi violazione, mentre nella diversa evenienza di cui all’art. 122 il dictum giurisdizionale assume natura costitutiva, eliminando con efficacia ex tunc o ex nunc il contratto perfezionato tra la stazione appaltante e l’illegittimo aggiudicatario.
    I rilevi critici appena indicati sono riscontrabili in una recentissima pronuncia del Tar Basilicata, in cui il giudice di prime cure postula la nullità del contratto, e la connessa natura accertativa della pronuncia del g.a., laddove trovi applicazione l’art. 121 c.p.a. e, invece, l’annullabilità del contratto, e la conseguente natura costitutiva della decisione del giudicante, nelle distinte ipotesi previste dall’art. 122 c.p.a.
    A seguito dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, si registra, peraltro, un contrasto tra la giurisprudenza amministrativa di primo grado ed il Consiglio di Stato, in relazione all’ipotesi in cui l’annullamento dell’aggiudicazione non sia conseguenza di una pronuncia del g.a., ai sensi degli artt. 121 e 122 c.p.a., ma derivi da un annullamento in autotutela da parte della p.a. aggiudicataria.
    Sul punto, si pongono due diversi problemi.
    Il primo, cui si è già affrontato nel corso dell’analisi del fase antecedente al codice del processo amministrativo, involge la sorte in sé del contratto, mentre il secondo, sul quale emerge il cennato contrasto pretorio, ha ad oggetto il riparto di giurisdizione circa la pronuncia di inefficacia del contratto.
    Quanto al primo degli indicati profili, vi è convergenza di opinioni giurisprudenziali in ordine alla circostanza che l’annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione non determina in via diretta e conseguenziale l’inefficacia del contratto, e ciò per un duplice ordine di ragioni.
    Per un verso, infatti, all’esito del perfezionamento dell’accordo la p.a. assume la veste di privato contraente e, quindi, rispetto ad essa dispiega piena efficacia l’art. 1372 c.c., il quale, enfaticamente, statuisce che il contratto ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto se non per mutuo consenso o nei casi previsti dalla legge.
    Per altro verso, si evidenzia come il legislatore -in base alla evoluzione della disciplina compendiata tra direttiva n. 66/2007 e il codice del processo amministrativo- abbia inteso assegnare all’organo giudicante, e al termine di un processo, il potere di dichiarare l’inefficacia del contratto, cosicché risulterebbe contraddittorio assegnare un medesimo potere alla p.a. in conseguenza dell’esercizio dell’autotutela.
    Chiarito, pertanto, che la caducazione in autotutela del provvedimento di aggiudicazione non comporta l’inefficacia del contratto stipulato a valle, è emersa una querelle giurisprudenziale circa la cognizione del g.a. ovvero del g.o. sulla competenza a decidere in ordine alla sorte del contratto in parola, e ciò laddove la p.a. abbia interesse a liberarsi dal vincolo giuridico da esso derivante.
    Segnatamente, la giurisprudenza di prime cure, con alcune pronunce del Tar Toscana, ritiene che la potestas decidendi in esame spetti al g.o., e ciò in quanto dalla trama normativa di cui agli artt. 133, comma 1, lett. e) n. 1, 121 e 122 c.p.a., si evince che la cognizione del g.a. in tema di inefficacia del contratto ha quale indefettibile presupposto la previa caducazione in sede giurisdizionale del provvedimento di aggiudicazione.
    Stante, quindi, l’assenza di un annullamento giurisdizionale, la p.a. che, dopo la caducazione in autotutela dell’aggiudicazione, abbia interesse alla eliminazione del contratto, dovrà rivolgersi al g.o.
    Le sentenze in questione sono state disattese, in punto di giurisdizione, dal Supremo Consesso amministrativo.
    Il Consiglio di Stato afferma, infatti, che, ai fini del radicamento di giurisdizione del g.a. sulla sorte del contratto stipulato tra stazione appaltante e aggiudicatario, non assume rilievo la natura, giurisdizionale ovvero amministrativa, dell’annullamento dell’aggiudicazione ma la circostanza che quest’ultima sia stata caducata. Diversamente opinando, prosegue il giudice di seconde cure, verrebbe leso il principio di effettività della tutela giurisdizionale, in termini di concentrazione delle tutele innanzi al g.a. delle vicende inerenti la procedura di evidenza pubblica.
    L’assunto del Consiglio di Stato, sebbene non aderente alla lettera degli artt. 121 e 122 c.p.a., si ispira ai già evidenziati principi della Corte costituzionale contenuti nelle sentenze nn. 204/2004 e 191/2006, poiché nelle fattispecie in esame la sorte del contratto non è messa in discussione dall’esercizio di un potere negoziale della p.a., che, ad ogni evidenza, postulerebbe la cognizione del g.o., ma è invece ascrivibile al pregresso esercizio di un pubblico potere, cioè quello dell’autotutela, cui è mediatamente riconducibile.
    Il delineato contrasto è stato sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, quale giudice del riparto, e si è in attesa della relativa pronuncia.

    Valutazione complessiva: 16

    Singole voci:

    a) aderenza alla traccia: eccellente
    b) completezza contenutistica: buono
    c) livello di approfondimento: ottimo
    d) forma: eccellente
    e) logicità: si
    f) errori e/o imprecisioni: no


    della traccia n2 nessun elaborato sufficiente :)

    Edited by togasana - 23/1/2013, 09:25
     
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8 replies since 1/12/2012, 11:06   1335 views
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