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Ecco i temi migliori in diritto civile per il mese di settembre: sono tre e riguardano tutti la prima traccia, perché affrontano in maniera del tutto diverso il tema raggiungendo comunque un risultato molto simile, come prova del fatto che quando si è in presenza di un tema che verte sui principi generali solitamente prevalgono quelli basati sul ragionamento logico e razionale, piuttosto che sulla mera casistica.
Tema di diritto civile
1) Premessi adeguati cenni sulla differenza intercorrente tra atti, fatti, promesse, negozi e contratti, tratti il candidato del ruolo della autonomia privata nelle fattispecie indicate con particolare riguardo al piano effettuale nonché del problema della vincolatività degli stessi.
La questione posta all’attenzione ha ad oggetto i rapporti di interazione tra categorie dogmatiche e categorie normative nel diritto dei privati. Le prime sono il frutto dell’elaborazione ermeneutica nella costruzione del sistema normativo-ordinamentale, le seconde si impongono all’interprete in forza della loro previsione espressa da parte del legislatore, il quale recepisce in chiave descrittiva, ovvero creativa, fenomeni sociali tipici, come quelli che stanno alla base dei rapporti tra consociati e del vivere associato. Così “atti” e “fatti”, ascrivibili al genere della categoria normativa, perché nominati dall’art. 1173 c.c. nell’indicazione delle fonti delle obbligazioni, al pari del contratto, anch’esso categoria normativa seppur con tratti di atipicità come si dirà, possono essere considerati come categorie descrittive di fattispecie. Rispetto ad essi l’autonomia privata rileva a monte, nella costruzione della fattispecie, che potrà essere una promessa, come un negozio, quanto un contratto, appunto, mentre l’effetto obbligatorio – la fonte dell’obbligazione – è una conseguenza diretta della legge. Utilizzando gli schemi logico-inferenziali : atti, fatti e contratti descritti dall’art. 1173 c.c., rappresentano il fatto nella sequenza norma-fatto-effetto. Sarà quindi la norma di legge, e non quella pattizia, che, alla ricorrenza di un determinato evento, ricollegherà un dato effetto giuridico. Diversamente, promesse, negozi e contratti potranno, altresì, rilevare come categorie creative, allorchè si consideri il loro momento genetico, ossia di formazione della fattispecie, innovativa degli effetti, nello schema norma-potere-effetto : saranno quindi i privati in ragione del potere che gli viene attribuito a dettare la regola e quindi a creare l’effetto. In questa seconda accezione, promessa e contratto sono categorie normative, rispettivamente, art. 1987 c.c., e art. 1321 c.c., mentre il negozio è categoria dogmatica in quanto non prevista dal legislatore in alcuna disposizione. Atto e fatto sono, allora, categorie generali che recepiscono fenomeni, ed infatti, per entrambi, è possibile recuperare il profilo dogmatico, cui segue l’incasellamento nel disposto normativo predisposto dal legislatore. Il concetto di atto è pertanto oggetto di scissione nella duplice accezione di atto giuridico in senso stretto e atto giuridico, ambedue categorie dogmatiche, perché non nominate, e costituenti il risultato dell’attualizzazione dei precetti nella ricostruzione del sistema. L’elemento di discriminazione è rappresentato proprio dal diverso ruolo dell’autonomia dei privati e, più in generale, dalla diversa interazione con l’agire umano. Rispetto alla prima categoria – atto giuridico in senso stretto – i privati si limitano ad operare una scelta di tipo selettivo dell’atto al quale la legge ricollega l’effetto, in definitiva la scelta è sull’effetto, tra i tipi di quelli previsti dal legislatore. L’autonomia privata è, pertanto, fortemente compressa, in quanto ha come unico spazio quello di aderire o meno ad un effetto legale, ma non già di creare una regolamentazione autonoma. L’assetto di interessi è quindi predeterminato dall’ordinamento – formale -, e per questo lo schema logico è indicato come norma-fatto-effetto, così a simboleggiare che il giudice dovrà limitarsi a verificare la scelta del fatto e non già sindacare, come diversamente avviene nella categoria creativa, sintetizzabile nello schema norma-potere-effetto, la valutazione degli interessi così come operata dai privati in base al potere che gli è stato attribuito. Quando l’atto è inteso come atto giuridico, la scelta è di tipo innovativo, o, meglio, creativo, perché è scelta nel merito degli effetti. Atti giuridici potranno essere, pertanto, le promesse, i negozi e i contratti. Per quanto concerne le promesse la specificazione merita una precisazione. Le promesse sono state al centro di un dibattito interpretativo che, attualmente, pare orientato nel riconoscere l’ammissibilità della promessa atipica. Più chiaramente il dettato dell’art. 1987 c.c., che dispone che la promessa non produce effetti obbligatori fuori dei casi ammessi dalla legge, è stato recentemente interpretato come riferibile all’art. 1322 c.c., in base al quale anche la promessa, al pari del contratto, sarebbe retta dallo schema norma-potere-effetto - ossia la sintesi logica dell’autonomia privata - così che la promessa potrebbe produrre effetti come creati dalla parte e non già solo quelli previsti, espressamente, dal legislatore. Prescindendo dalla validità dell’asserzione, che poggia su un’interpretazione estensiva dei “casi ammessi dalla legge” considerando l’art. 1322 c.c., nella lettura combinata con gli artt. 1333 e 1324 c.c., come uno di questi, è evidente la differente risultante che si avrebbe in merito all’incasellamento delle due categorie dogmatiche. In un caso, ossia l’interpretazione che porta alla tassatività delle promesse, la categoria dogmatica che attualizza la categoria normativa “promessa”, dovrebbe essere quella dell’atto giuridico in senso stretto, l’autonomia privata verrebbe riconosciuta solo al momento di aderire, o meno, ai tipi di promesse tipiche, con annessi effetti tipici (norma-fatto-effetto) ; nell’altro, la categoria dogmatica è quella dell’atto giuridico (norma-potere-effetto), e conseguente potere creativo degli effetti. Rispetto al negozio, la problematica è, per vero, meno complessa. Ciò in quanto il negozio è categoria dogmatica, così che l’interprete è libero dalle costrizioni delle categorie normative e non è richiesta la sussunzione del tipo legale in quello ermeneutico. In tale ipotesi autonomia privata è sinonimo di autonomia negoziale e le parti saranno libere di determinare gli effetti, ferme restando eventuali limitazioni imposte dal legislatore in base a norme e precetti di tipo imperativo, tipico caso il matrimonio. La particolarità della fattispecie fa si che il legislatore detti una disciplina speciale che, in ogni caso, non rinnega il ruolo dell’autonomia privata, ma lo regolamenta in modo più puntuale rispetto a quanto faccia per la disciplina del contratto, la quale ultima è destinata, in ogni caso, ad essere applicata – a seconda delle tesi - in via analogica, ovvero, in quanto compatibile. Si pensi alla particolare disciplina del matrimonio putativo e le sue analogie con l’istituto della simulazione, ovvero alla particolare disciplina sui vizi del consenso, in ultimo al residuo di autonomia lasciata dal legislatore in merito alla determinazione dell’indirizzo della vita familiare, art. 144 c.c.. Piuttosto le problematiche maggiori riguardano la pretesa categoria del negozio unilaterale che la migliore dottrina vorrebbe sintetizzato nell’art. 1333 c.c., portando a conferma l’art. 1324 c.c., in antitesi all’opinione maggioritaria contraria. Ferma restando la coerenza logico-dimostrativa delle opposte tesi, è in ogni caso pacifico che il negozio unilaterale non può essere considerato categoria normativa, perché il legislatore non utilizza mai tale termine, quanto, piuttosto, quello di atto unilaterale, ovvero quello di contratto con obbligazioni del solo proponente. La specificazione è importante perché consente di far transitare la categoria dogmatica del negozio unilaterale, in quelle normative del contratto ovvero dell’atto – specificato in unilaterale -, entrambe ascrivili all’atto giuridico, così che negozio unilaterale è sinonimo di atto giuridico, ovvero di atto negoziale, rispetto al quale è l’autonomia privata - negoziale – a creare l’effetto. Così, dunque, può sostenersi che la fattispecie di cui all’art. 1333 c.c. – ma stesso discorso può farsi con riguardo al contratto in favore di terzo – non richiede il consenso per la sua costruzione, ed il possibile rifiuto è unicamente sottrazione degli effetti, ma non già elemento genetico degli stessi. Se poi l’atto negoziale non è unilaterale ma bilaterale, e incide direttamente un rapporto patrimoniale, la categoria dogmatica rientra in quella normativa del contratto, recuperandone lo statuto, e, soprattutto, lo schema logico norma-potere-effetto, così che l’autonomia privata, sinonimo di autonomia negoziale, si specifica in autonomia contrattuale, e ciò in ragione della differente dimensione dei fenomeni rispetto all’agire – libero - dell’uomo. Ed è proprio tale, ultimo, elemento – l’agire libero dell’uomo – che permette di dare lettura alla categoria del fatto, anch’esso declinabile in una duplice accezione. La prima che vede nel fatto un accadimento naturale rispetto al quale il ruolo del comportamento umano assume un diverso significato rispetto a quanto visto per l’atto. La seconda che assume nel fatto il concetto di fattispecie e quindi come sinonimo di accadimento giuridico, così che fatti potranno essere le promesse, i negozi e i contratti. Tuttavia ciò che cambia è proprio la prospettiva cui si guarda ai fenomeni : fatto è ciò che accade come il risultato di un’azione ; atto è, diversamente, la manifestazione di una determinazione della volontà. I due concetti sono quindi distinti non perché sono entità separate e contrapposte, ma perché rappresentano momenti cronologici diversi di un’unica fattispecie, ossia quella obbligatoria, su cui si costruisce il diritto dei privati, nella necessità di appuntare regole comuni per i normali rapporti di vita associata. Per questo l’autonomia privata avrà un ruolo diverso su piano degli effetti e della vincolatività rispetto alle ipotesi viste. Quando promessa, negozio e contratto sono considerati come fatti e quindi come fattispecie – giuridiche -, l’autonomia privata, oramai cristallizzata nel momento genetico, potrà rilevare come atto contrario, mutuo dissenso, recesso e, infine, come rifiuto all’effetto già prodotto , in base alla ricostruzione data rispetto all’art. 1333 c.c. – e del contratto a favore di terzo – come atto giuridico già compiuto. Quando i predetti sono considerati come atti, occorrerà prestare attenzione all’accezione di atto giuridico in senso stretto ovvero giuridico, e ciò, soprattutto, ma non solo, nell’ottica del giudice e dell’opera di giuridicizzazione che, rispettivamente, lo chiamerà ad operare in misura di verifica, schema norma-fatto-effetto, o di vero e proprio sindacato sull’assetto degli interessi, norma-potere-effetto, rispetto al risultato dell’azione umana. Andrà, poi, precisato, che la considerazione che il contratto, la promessa, e il negozio, possano essere considerati come fatti, non consente un’ipotizzabile equazione rispetto agli atti giuridici in senso stretto. Seppur lo schema logico è apparentemente lo stesso, in quanto sia in un caso che nell’altro è richiamabile la sequenza norma-fatto-effetto, questo è solo per il legislatore nella costruzione della disposizione, ma assume diversi connotati rispetto al giudice e i privati, in ragione del problema della vincolatività degli assetti. Seppur vero che una volta che la manifestazione volitiva propria dell’atto giuridico si cristallizza, ciò non toglie che l’assetto di interessi è sempre il frutto dell’esercizio del potere e, quindi, di una libera valutazione degli interessi che porta all’autoregolamentazione. Questa è vincolante per le parti, art. 1372 c.c., e del pari ha effetti inibitori per il giudice, il quale potrà sindacarne sempre nei limiti dettati dallo stesso ordinamento, artt. 1322, I c., c.c., e 41, c. II e III cost., richiedendo, quindi, un confronto tra l’assetto degli interessi così come disposto dai privati e l’eventuale sussistenza di imposizioni imperative predisposte dall’ordinamento che sono state dagli stessi violate. In conclusione è pur sempre un sindacato sul potere e quindi sia sull’autonomia così come manifestata e sia sull’autonomia così come decisione di un autovincolo. Diversamente il mero atto giuridico ha fonte genetica sempre in un potere, ovviamente, ma che è quello del legislatore adottato nella valutazione degli interessi, così che anche il vincolo seguirà, del pari, la sua decisione discrezionale, rimanendo le parti obbligate in base ad un regolamento non creato da loro, ma rispetto al quale hanno solo un potere di scelta in merito al tipo e parimenti il giudice sarà obbligato ad una mera verifica dei presupposti di fatto. Questo è possibile perché in un caso il sindacato opera su una regola non di fonte legislativa ma pattizia che è legittimata dalla legge, e quindi il giudice ha il dovere di sindacare se sussiste il presupposto di validità ; nel secondo caso il sindacato sarebbe sull’operato del legislatore e questo, per il noto principio di separazione dei poteri, non è ovviamente possibile.
GIUDIZIO: 15++ Il tema è svolto con spicato spirito critico e dimostra il possesso da parte del candidato di una egregia conoscenza delle categorie giuridiche nonché la capacità da parte dello stesso di porle in relazione tra loro, attraverso l'individuazione delle discrasie e dei punti di contatto tra le medesime. La distinzione tra il profilo effettuale e quello della vincolatività è stato affrontato, se pur sinteticamente, in modo più che soddisfacente. Particolarmente degno di nota è trattazione dei poteri del giudice in presenza delle diverse categorie. Sotto il profilo della redazione, il candidato utilizza un lessico appropriato e solo raramente si riscontrano delle imprecisioni, la lettura tuttavia non è sempre fluida e ciò come conseguenza della mancanza di una parte narrativa a mero sostegno di quella basata su un'approccio maggiormente scientifico.
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2) Premessi adeguati cenni sulla differenza intercorrente tra atti, fatti, promesse, negozi e contratti, tratti il candidato del ruolo dell’autonomia privata nelle fattispecie indicate con particolare riguardo al piano effettuale nonché del problema della vincolatività degli stessi.
Dal brocardo latino ex facto oritur ius è possibile trarre la considerazione per la quale il diritto è un insieme di regole volte a organizzare varie forme di vita sociale le quali preesistono, dal punto di vista fenomenico, alla norma giuridica stessa. Questa interviene a disciplinare ogni conflitto di interessi di cui sono titolari due o più individui, nei limiti in cui tali interessi siano considerati dall’ordinamento giuridicamente rilevanti e meritevoli di tutela. Tale disciplina si articola sulla base di una valutazione della rilevanza di un interesse rispetto all’altro, onde dettare una regola che segni la prevalenza dell’uno sull’altro ovvero il loro contemperamento reciproco, ove siano di pari rilevanza. Ciò avviene al fine di mantenere la pace sociale ed evitare che le controversie siano decise sulla base della nuda forza. Applicando tale processo, è possibile individuare nell’ambito dei fatti, menzionati nel brocardo sopra riportato e intesi come accadimenti naturali idonei a modificare la realtà materiale, i fatti giuridici, che sono quegli accadimenti che acquistano rilevanza per il diritto in quanto capaci di produrre conseguenze giuridiche. Ciò si verifica sulla base di una valutazione contingente del singolo legislatore, che può mutare col variare del contesto temporale (con riferimento allo stesso ordinamento giuridico statuale considerato in epoche diverse) e spaziale (con riferimento a diversi ordinamenti nel medesimo momento storico). In base a una ricostruzione su cui si avrà modo di tornare nel prosieguo della presente trattazione, nell’ambito dei fatti giuridici è possibile distinguere tra fatti giuridici in senso stretto ed atti giuridici. Nei primi acquista rilevanza la verificazione di un fatto naturale che produce effetti giuridici indipendentemente dal concorso della volontà dell’uomo (si pensi ai classici esempi del fulmine che colpisce una casa, della nascita o della morte di una persona). Gli atti giuridici, invece, sono manifestazioni di volontà, poste in essere da un soggetto capace di intendere e di volere, al quale l’ordinamento riconosce il potere di modificare la realtà materiale. Questi ultimi si distinguono, a loro volta, a seconda che siano leciti o illeciti. Gi atti illeciti sono quelli contrari a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. Le norme imperative, per un orientamento si distinguono per il loro carattere precettivo, per un’altra tesi per la loro inderogabilità mentre, per l’opinione che appare preferibile, per essere poste a presidio di interessi generali, dell’intera collettività. L’ordine pubblico è l’insieme dei principi fondamentali su cui si regge l’ordinamento giuridico e che, tendenzialmente, sono consacrati nella Costituzione. Il buon costume è l’insieme dei valori morali ed etici predominanti nella realtà sociale in un certo momento storico. Gli atti leciti, invece, per la ricostruzione cui continua a farsi riferimento, possono distinguersi in atti giuridici in senso stretto e negozi giuridici. I primi si caratterizzano in quanto la manifestazione di volontà dell’autore è diretta a porre in essere l’atto, che è atto volontario, ma non si estende alla determinazione degli effetti di esso, i quali sono predeterminati dall’ordinamento e si realizzano ancorchè non voluti o non conosciuti dal soggetto agente (per esempio, l’intimazione a pagare del creditore al debitore vale come costituzione in mora, con gli effetti di legge che ne derivano, anche se tali effetti non erano voluti dall’intimante). Quanto ai negozi giuridici, va preliminarmente osservato che tale categoria è testualmente ignota al codice civile ed è frutto di una elaborazione dottrinale di matrice tedesca poi recepita, adattata e sviluppata nel nostro ordinamento da una parte della dottrina italiana. Quest’ultima, alla quale si deve la ricostruzione cui sopra si è fatto riferimento, ha indagato il rapporto tra autonomia privata e ordinamento, ovvero tra volontà e norma, e ha accolto una teoria soggettiva che afferma il primato della volontà negoziale come espressione della autonomia del soggetto rispetto all’ordinamento. Per tale teoria, gli effetti giuridici sono prodotti direttamente dalla volontà negoziale e si realizzano in quanto voluti e previsti dal soggetto agente. Da qui, per questa ricostruzione, la distinzione rispetto agli atti giuridici in senso stretto nei quali, come già rilevato, oggetto della volizione è il compimento dell’atto ma non gli effetti di esso. Successivamente, tale teoria si è sviluppata in un approccio normativo, in base al quale gli effetti sono prodotti (non direttamente dalla volontà negoziale, ma) dall’ordinamento, in conformità all’intento delle parti. In altri termini, la volontà privata, per produrre effetti giuridici, necessita sempre del tramite dell’ordinamento giuridico, che li realizza in conformità ad essa, previa valutazione della rilevanza e della liceità dell’atto di autonomia privata, in caso di esito positivo di tale indagine. In contrapposizione alla teoria soggettiva, si è sviluppata una teoria oggettiva, tesa a rispondere alle necessità dei rapporti economici e commerciali, rispetto alle cui esigenze di certezza il rilievo accordato alla volontà dei soggetti creava non pochi ostacoli. Per la teoria oggettiva, il negozio giuridico, a prescindere dalla volontà dei suoi autori, ha sempre un significato obiettivamente apprezzabile: quello di autoregolamento, ovvero di fonte dei regole poste per disciplinare gli interessi facenti capo agli stipulanti. Secondo un’accezione di questa teoria, che attribuisce rilievo all’aspetto della dichiarazione, molto più stabile e certa, rispetto ai terzi, dell’intento delle parti, la volontà negoziale acquista rilievo giuridico nel momento in cui viene manifestata all’esterno, mediante una dichiarazione o un comportamento concludente. Un’accezione precettiva, invece, pone in rilievo la vincolatività oggettiva delle regole poste mediante il regolamento negoziale. In particolare, secondo la teoria oggettiva, la volontà degli autori del negozio rileva nella fase genetica di esso, che è atto volontario, ma non nella determinazione dei suoi effetti, rispetto alla quale il negozio si pone come mero presupposto di fatto previsto dalla norma. Questo perché la norma, nella parte descrittiva, prevede l’atto di autonomia privata come fatto naturalisticamente rilevante e, nella parte precettiva, ricollega alla sua verificazione la produzione di determinate conseguenze giuridiche. A differenza di quanto ritenuto dalla teoria soggettiva, però, per i sostenitori della teoria oggettiva, gli effetti derivanti dal negozio possono anche non essere conformi all’intento delle parti. Infatti, l’ordinamento valuta l’utilità economica e sociale dell’atto e dell’intento delle parti e, solo in caso di esito positivo di tale controllo, stabilisce il trattamento giuridico dell’atto e dei suoi effetti. Tutta questa elaborazione dottrinale pone al centro dell’attenzione la figura del negozio giuridico mentre quella di contratto, che pure ne è grandemente influenzata, come si chiarità meglio in seguito, è del tutto residuale. Per comprendere meglio quest’affermazione, è utile ricordare che il negozio giuridico, dal punto di vista della sua struttura, può essere unilaterale, bilaterale o plurilaterale, a seconda che sia formato da una, due o più parti. Per parte si intende un centro di interessi omogenei per realizzare i quali manifesta un’unica volontà negoziale giuridicamente rilevante e che può essere unipersonale o pluripersonale, a seconda che sia formata da una sola persona fisica o da più persone fisiche diverse. Nell’ambito dei negozi bilaterali si configura un’ulteriore classificazione basata sulla natura giuridica dell’interesse sotteso all’atto di autonomia privata e che distingue i negozi familiari (riscontrabili, ad esempio, nel diritto di famiglia, come il matrimonio, che disciplina rapporti personali e familiari) dai negozi patrimoniali, che mirano a regolare rapporti suscettibili di valutazione economica. Tra questi vi è il contratto, secondo la definizione datane dall’art. 1321 c.c.: il rapporto oggetto di regolamentazione contrattuale deve avere natura giuridica (ovvero deve essere rilevante per l’ordinamento) e natura patrimoniale, secondo la definizione che l’art. 1174 c.c. riferisce alla prestazione oggetto dell’obbligazione (e che si attaglia ai contratti ad effetti obbligatori) ma che gli interpreti estendono anche ai diritti reali (e, quindi, ai contratti ad effetti reali). In questo senso, il bene oggetto del diritto reale deve essere economicamente valutabile, il che avviene con il concorso di tre requisiti: utilità, ovvero attitudine a soddisfare i bisogni umani; concreta accessibilità per l’uomo; disponibilità in quantità limitata. Si tratta degli indici della sua attitudine ad essere scambiato con una somma di denaro. Quanto alla promessa, si tratta comunque di un atto volontario, con cui l’autore assume un’obbligazione nei confronti del promissario e può avere natura di atto unilaterale o di contratto, qualora sia previsto il pagamento di un corrispettivo o l’esecuzione di altra prestazione a favore del promittente. Se, dunque, tutta l’elaborazione dottrinale cui sopra si è fatto cenno segue una logica deduttiva, dal generale al particolare, ponendo al centro dell’attenzione la categoria del negozio giuridico e riservando a quella del contratto una posizione più residuale, il legislatore del 1942 segue una logica induttiva: normativizza la definizione di contratto all’art. 1321 c.c. e rimane silente rispetto a quella di negozio giuridico. Nondimeno, esso sembra presupporre l’esistenza di una categoria più generale rispetto al contratto (e proprio quella di negozio giuridico), alla quale ricondurre gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale i quali, pur non avendo natura contrattuale, possono essere regolati attraverso un’estensione della disciplina prevista per i contratti, ex art. 1324 c.c. Alla luce di quanto sin qui osservato, appare decisiva la rilevanza avuta dal dibattito dottrinale cui si è fatto cenno sull’evoluzione del ruolo sia dell’autonomia privata sia del contratto nel nostro ordinamento. Infatti, da strumento finalizzato all’acquisto e al trasferimento del diritto di proprietà, secondo l’impianto del codice civile del 1865, il contratto si è staccato dal concetto statico di proprietà ponendosi progressivamente al centro di una ricostruzione (quella sopra menzionata) in cui fatti, atti, negozi, promesse e contratti si distinguono proprio per il ruolo svolto in ciascuno di essi dall’autonomia privata. E ciò è avvenuto, in un primo momento, grazie al rilievo che la teoria soggettiva ha attribuito al soggetto e alla signoria del volere rispetto all’ordinamento. L’ulteriore evoluzione ha attribuito al contratto il ruolo di strumento centrale dell’impresa, il che ha imposto un’oggettivizzazione dello stesso come autoregolamento in cui, in caso di contrasto, il dichiarato prevale sul voluto a tutela della certezza della circolazione dei diritti e dell’affidamento dei terzi di buona fede. Traslando gli esiti di queste elaborazioni nella disciplina positiva, per aversi contratto è necessario il concorso di tre requisiti: il rispetto di uno degli schemi di conclusione del contratto previsti dalla legge; la volontà interna delle parti, che rileva come dato psicologico; che tale volontà sia percepibile all’esterno come volontà contrattuale. Si vede bene come la volontà negoziale del singolo contraente confluisce con quella dell’altro, nell’insieme degli elementi essenziali e accidentali, nel caso concreto ritenuti idonei a realizzare l’assetto di interessi perseguito, in quel consenso, in quell’accordo delle parti che è l’essenza stessa del regolamento contrattuale (ex art. 1321 c.c., che definisce il contratto come un particolare tipo di accordo) ma anche uno degli elementi che costituiscono la sua struttura fondamentale, ex art. 1325 c.c. In questo senso, si è affermato che il vincolo contrattuale è figlio dell’autonomia privata, intesa come potere, riconosciuto dall’ordinamento ai consociati, di darsi delle regole capaci di incidere sulla propria sfera giuridica, modificabile per realizzare l’assetto di interessi di volta in volta confacente agli scopi concreti delle parti. E, infatti, l’art. 1322 c.c. attribuisce alle parti il potere di determinare il contenuto del contratto, nei limiti di legge, e di concludere contratti atipici, purchè siano volti a perseguire interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento, ovvero interessi socialmente utili e apprezzabili e non meramente utilitaristici. Per questo, la volontà delle parti è la fonte principale del regolamento contrattuale, che è quello da cui derivano il contenuto e gli effetti del contratto. Peraltro, tale fonte, ai sensi dell’art. 1374 c.c., subisce il concorso di fonti esterne (in primis, non a caso, la legge, intesa come norme imperative e, solo in via suppletiva, gli usi normativi e l’equità), attraverso il processo di integrazione eteronoma del regolamento contrattuale. Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, tuttavia, tali fonti esterne possono intervenire solo in presenza di una lacuna nella regolamentazione delle parti e sussista nell’ordinamento una fonte dispositiva applicabile alla fattispecie (è minoritaria la posizione che ammette l’integrazione allo scopo di plasmare dall’esterno il contenuto del contratto per renderlo aderente ai principi fondamentali dell’ordinamento). Questo perché, normalmente, l’integrazione eteronoma del contenuto del contratto ha carattere suppletivo e solo in via eccezionale, ove espressamente previsto dalla legge, ha carattere imperativo (artt. 1339 e 1419, 2, c.c.). Da ciò emerge che il contratto vincola le parti agli effetti dalle stesse programmati ma anche a quanto inderogabilmente previsto dalla legge. Ferma restando la generica accezione di effetto quale risvolto dinamico del fatto, gli effetti del contratto possono essere intesi come l’influenza del contratto stesso sul rapporto, fonte di diritti e di doveri e come modifica della situazione esistente. Dunque, quanto agli effetti che derivano dal contratto per volontà delle parti, nel rispetto delle previsioni ordinamentali, essi sono esplicazione del potere costitutivo, regolatorio o estintivo di cui all’art. 1321 c.c. Il primo fa riferimento al potere di dare origine a situazioni giuridiche soggettive tutelate dall’ordinamento ed è ammesso con riferimento ai diritti reali e ai diritti di credito. Il potere regolatorio si esplica attraverso una modifica della situazione o del rapporto preesistente, che può consistere in una variazione soggettiva (può mutare il titolare del diritto, reale o di credito, o il titolare della situazione di obbligo) o in una variazione oggettiva (possono mutare l’oggetto del diritto o le sue modalità di esercizio). Quanto alla funzione estintiva, essa è generalmente ammessa per i rapporti obbligatori ma negata con riferimento ai diritti reali, perché la legge riconduce l’estinzione di questi ultimi a vicende di natura perlopiù fattuale e non contrattuale. Per concludere, fermo questo potere riconosciuto in generale all’autonomia privata, di incidere sul contenuto e sugli effetti del contratto, non va negato il ruolo della norma giuridica nella sua capacità di incidere e sul primo aspetto e sul secondo, considerato anche l’art. 1372, 1, c.c. che sancisce il principio della forza di legge del contratto tra le parti. Tale principio ha una ratio etica, fondata su quello del pacta sunt servanda (una volta assunto un impegno, vi si deve prestare fede e sopportarne le conseguenze) ma ha anche una ratio giuridica, fondata sulla funzione sociale di organizzazione e regolazione dei rapporti economici e sociali. Da ciò deriva che il vincolo contrattuale sopravvive all’eventuale ripensamento sopravenuto di una delle parti che, di norma, non può modificare unilateralmente il contenuto del regolamento contrattuale, se non nei limiti in cui tale facoltà gli sia concessa dal contratto stesso o dalla legge e salva l’irretrattabilità degli effetti già prodotti. Un ruolo alla legge ma anche all’autonomia privata, infine, va riconosciuto in punto di efficacia del contratto, intesa come sua attitudine a produrre effetti giuridici. Condizione necessaria dell’efficacia del contratto è la sua vincolatività ma essa non è sufficiente, dal momento che, una volta che le parti abbiano validamente concluso un contratto, sono ad esso vincolate ma non necessariamente esso è idoneo ad esplicare effetti (come nel caso di contratto sottoposto a condizione sospensiva o concluso dal falsus procurator). Allo stesso modo, l’inefficacia del contratto non esclude la sua vincolatività, essendo le parti esposte ai possibili futuri effetti di esso. Sull’efficacia del contratto può incidere la volontà privata (che può escluderla, ancora nell’esempio del contratto condizionato o di simulazione, almeno, in quest’ultimo caso, per una ricostruzione del fenomeno simulatorio) ma anche la volontà della legge, sotto forma di prescrizione del paradigma legale del contratto che le parti devono rispettare per non incorrere in un vizio strutturale dello stesso.
GIUDIZIO: 15. La traccia è svolta con spirito critico e dimostra una buona padronanza dei principi generali e delle figure dogmatiche oggetto di trattazione, nonché una notevole capacità di relazionare tra di loro le categorie. Particolarmente degno di nota è la comprensione della differenza del piano effettuale da quella della vincolatività delle fattispecie giuridiche in analisi. Il lessico utilizzato nella stesura della traccia è chiaro e lineare, la lettura piacevole e scorrevole, non si ravvisano particolari imprecisioni.
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3) Premessi adeguati cenni sulla differenza intercorrente tra atti, fatti, promesse, negozi e contratti, tratti il candidato del ruolo della autonomia privata nelle fattispecie indicate con particolare riguardo al piano effettuale nonché del problema della vincolatività degli stessi.
La realtà materiale subisce continue modificazioni che, in base al principio di causa-effetto, costituiscono la conseguenza di un fatto. Con il termine “fatto” si intende genericamente qualsiasi accadimento idoneo ad incidere sul reale. Tuttavia, non tutti i fatti assumono rilievo per il diritto, ma soltanto quelli che il legislatore considera meritevoli di interesse e a cui ricollega conseguenze rilevanti per il diritto stesso: tali fatti vanno sotto il nome di fatti giuridici e ricomprendono qualsiasi fatto naturale o umano cui la legge collega al loro prodursi determinati effetti. Se dal punto di vista materiale, da ciascun fatto deriva una conseguenza, dal punto di vista giuridico non sempre al verificarsi di un fatto la norma vi ricollega un effetto giuridico, essendo talvolta necessaria la presenza di più fatti: si distingue a tal proposito, tra fattispecie semplice, se ai fini della produzione degli effetti è sufficiente il verificarsi di un unico fatto naturalisticamente inteso e di fattispecie complessa se per la produzione degli effetti giuridici è necessaria la verificazione di più avvenimenti, come nel caso dell’usucapione abbreviata, laddove l’effetto tipico si produce solo al verificarsi di tutti i fatti contemplati dalla norma. Le conseguenze che la disposizione riconduce al realizzarsi dell’accadimento in essa previsto, ovvero gli effetti, sono da individuare nella nascita, modificazione o estinzione di situazioni giuridiche soggettive. Il meccanismo di produzione degli effetti giuridici non è sempre analogo in tutti i fatti giuridici, potendo in alcuni casi ricondursi alla legge, in altri all’autonomia privata, ovvero a quel potere di autodeterminazione del soggetto di decidere della propria sfera giuridica. In altri termini, deve indagarsi se la possibilità di incidere sulle situazioni giuridiche soggettive spetti solo ai fatti enucleati dalla legge o se tale possibilità sia riconosciuta anche all’autonomia privata; più a monte, si deve verificare se la stessa autonomia privata possa escludere la vincolatività di un dato rapporto giuridico o se tale possibilità sia riservata solo alla legge. Per compiere tale indagine, va preliminarmente detto che i concetti di vincolatività ed efficacia, sebbene per taluni fatti giuridici la differenza venga ad appiattirsi, vanno comunque tenuti distinti, indicando il primo l’obbligo per il soggetto di tenere un dato comportamento o subire le conseguenze derivanti dal fatto, mentre l’efficacia indica la produzione di conseguenze sulla sfera giuridica del soggetto. Tali distinzioni devono essere applicate ai fatti giuridici che possono essere suddivisi in varie sottocategorie, enucleate dalla dottrina, ciascuna delle quali rispondente a differenti caratteristiche. La dottrina tradizionale adotta come distinzione fondamentale quella tra fatti giuridici in senso stretto e atti giuridici, ritenendo che la distinzione tra le due categorie risieda nella mancata partecipazione dell’uomo nella realizzazione degli eventi, presente invece nei secondi. Tale distinzione non tiene tuttavia in considerazione che, se indubbiamente la maggior parte dei fatti giuridici in senso stretto sono costituiti da fatti naturali, come l’alluvione o il terremoto che assumono rilievo di per sé, in quanto il diritto vi ricollega determinati effetti a prescindere da qualsiasi altro accertamento, nel concetto di fatto giuridico in senso stretto sono da ricondurvi anche taluni fatti umani, laddove il comportamento rilevi come mero presupposto di effetti giuridici, come può essere la morte di un uomo, che anche laddove derivi da suicidio, quindi implicante la volontà, rimane pur sempre un fatto, da cui l’ordinamento fa derivare una serie di conseguenze che prescindono dal volere dell’uomo. Si impone pertanto la ricerca di un criterio che permetta di distinguere tali categorie. Esso deve ravvisarsi nella rilevanza o meno che la coscienza e la volontà dell’agente assumono ai fini della produzione degli effetti giuridici. La coscienza indica la consapevolezza che il soggetto ha di sé e del mondo esterno, necessaria al fine di poter imputare all’uomo le conseguenze dell’atto stesso, la volontà la capacità di decidere liberamente del proprio comportamento in vista di uno scopo: queste due caratteristiche compongono la capacità di intendere e di volere, che rimane irrilevante in presenza di un fatto giuridico, mentre assume importanza in presenza di un atto giuridico. Invero, nel fatto giuridico in senso stretto, ciò che rileva è l’accadimento, sia esso dovuto alla natura o all’uomo, rimanendo irrilevante la presenza o meno della capacità naturale, in quanto la produzione degli effetti è già predeterminata dalla legge al verificarsi del fenomeno. Da quanto detto, emerge che l’autonomia privata non entra nemmeno in gioco al cospetto di fatti giuridici in senso stretto, spettando esclusivamente alla legge stabilire in che termini un certo fatto (rectius: fatto giuridico in senso stretto) vincoli il soggetto e quali modifiche produce nella sua sfera giuridica. Al contrario, quando per la produzione degli effetti giuridici si richiede la volontarietà del comportamento, si ha un atto giuridico, in cui si ricomprendono sia gli atti leciti che illeciti (cfr. artt. 428 e 2046 cc.). Nell’ambito degli atti giuridici si deve ulteriormente distinguere l’ipotesi in cui la volontarietà investe solo l’atto, mentre gli effetti giuridici possono essere solo quelli tipici, previsti dalla legge e quella in cui la volontarietà concerne anche la produzione degli effetti: si parla rispettivamente di atti giuridici in senso stretto e di negozi giuridici. Nel primo caso, il soggetto decide liberamente di vincolarsi ad un dato atto, per cui è richiesta la sola capacità di intendere e di volere, salvo diversa disciplina prevista dalla legge, mentre non ha alcun ruolo nella produzione degli effetti, rimessi alla legge. In tal senso, l’autonomia privata rileva solo nella scelta del mezzo offerto dall’ordinamento giuridico. E’ invece in relazione alla categoria dei negozi giuridici che l’autonomia privata assume importanza anche per la produzione degli effetti. Attraverso il negozio giuridico il soggetto ha infatti la possibilità di creare la regola per la disciplina dei propri interessi e di vincolarsi e vincolare al rispetto della stessa. Proprio in virtù della funzione riconosciuta a tale strumento, si richiede non solo che l’atto sia voluto, ma che sia posto in essere dal soggetto dotato di capacità legale di agire e che non sia stato posto in essere in presenza di un vizio del volere. Nel caso in cui la dichiarazione del soggetto non risulti conforme all’interno volere, il nostro codice sembra accogliere la teoria della volontà temperata dal criterio dell’affidamento, tale per cui la dichiarazione difforme dall’interno volere prevale se si è creato un affidamento incolpevole in capo agli altri individui, con la conseguenza che il negozio rimane vincolante. Si deve tuttavia precisare che l’autonomia privata, seppur gode di un ampio spazio di manovra, non esclude la presenza della legge; in primo luogo, è la norma di legge che autorizza il potere negoziale a creare l’effetto giuridico, è cioè l’ordinamento che conferisce ai privati il potere di creare la regola della fattispecie. In secondo luogo, la volontà dei privati deve pur sempre muoversi nell’ambito della struttura stabilita dalla legge, ovvero degli elementi richiesti dalla legge per poter qualificare come tale lo schema negoziale a livello di fattispecie. Pertanto, l’autonomia negoziale opera nel senso di fissare la regola che disciplina gli interessi perseguiti dalle parti, sempre che talvolta non sia lo stesso ordinamento che interviene a fissare alcune regole che possono essere imperative, quindi non derogabili dai privati, mentre in altri casi possono essere derogate dai medesimi. La categoria dei negozi giuridici è molto ampia ed è passibile di differenti classificazioni: dal punto di vista della natura degli interessi si distinguono negozi che perseguono interessi patrimoniali e interessi di natura personale (come ad esempio il matrimonio), mentre dal punto di vista della struttura si individuano negozi unilaterali, che si perfezionano con la dichiarazione di una sola parte e negozi bilaterali o plurilaterali, se le dichiarazioni che integrano il negozio provengono da due o più parti. Il negozio bilaterale o plurilaterale a contenuto patrimoniale è il contratto, atto nel quale trova massima espressione l’autonomia negoziale. Attraverso l’accordo, le parti possono disciplinare i loro interessi e realizzare lo scopo prefissato. Proprio in relazione al contratto, è possibile individuare con maggiore chiarezza la distinzione tra vincolatività ed efficacia. Invero, una volta che il contratto abbia tutti gli elementi previsti dalla legge necessari per poterlo qualificare come tale (richiesti dall’art.1325 cc.), il contratto vincola le parti a tenere il comportamento fissato nel regolamento contrattuale; tuttavia, non è detto che esso sia anche efficace, cioè sia idoneo a produrre effetti. Nello specifico, si deve distinguere tra inefficacia provvisoria, come nel caso di contratto sottoposto a condizione sospensiva, la quale sospende gli effetti del contratto ma non ne esclude la vincolatività, dall’inefficacia definitiva, la quale esclude la vincolatività, in quanto detto contratto non potrà mai essere portato ad esecuzione. In questo ambito l’autonomia delle parti è così ampia tanto che le stesse parti possono giungere ad escludere la giuridicità di un rapporto che, in assenza di una manifestazione di volontà in tal senso, sarebbe giuridicamente vincolante: si pensi ai gentlemen agreement’s, in cui le parti, attraverso un intento giuridico negativo, escludono che dall’atto sorgano obblighi giuridicamente vincolanti. Tali patti tra gentiluomini devono invece essere tenuti distinti dai rapporti di cortesia, per i quali, la mancata rilevanza giuridica deve essere rinvenuta non tanto nella volontà delle parti, quanto nella mancanza di una “causa contrattuale” e nella presenza di una causa solidaristica, che contrasta con la vincolatività giuridica. L’autonomia privata può inoltre, ai sensi dell’art. 1322 c.c., prevedere dei contratti atipici, che non appartengono ai tipi per i quali il codice accorda una disciplina particolare, con il limite del perseguimento di interessi meritevoli di tutela per l’ordinamento giuridico. Nell’ambito degli spazi riservati all’autonomia privata, ci si deve tuttavia chiedere se detto potere possa anche dar vita a negozi unilaterali atipici, in virtù del richiamo dell’art. 1324 c.c. alla disciplina generale del contratto, utilizzabile anche per i negozi unilaterali in quanto compatibile, e quindi, se possa applicarsi anche l’art. 1322 c.c. Per i negozi unilaterali il discorso si complica, in quanto mentre per i contratti l’ampio spazio lasciato all’autonomia privata si giustifica in virtù dell’accordo tra le parti, cosicchè le modificazioni della loro sfera giuridica costituiscono il frutto della loro volontà, nel negozio giuridico manca tale volontà, per cui si realizzerebbe una non autorizzata intromissione nella sfera giuridica del terzo, in violazione del principio di intangibilità della sfera giuridica altrui. Sul versante normativo, l’impostazione troverebbe conferma nell’art. 1987 c.c., che sancendo la nominatività delle promesse unilaterali, affermerebbe il principio della necessaria tipicità dei negozi unilaterali. Tali rilievi sono stati tuttavia superati dalla giurisprudenza, la quale osserva come il principio dell’intangibilità della sfera giuridica in primo luogo è limitato ai soli effetti favorevoli ed inoltre, è sempre prevista la possibilità di rifiutare tale ingerenza. Si osserva altresì che l’art. 1987 c.c. non è espressione di un principio generale, non essendoci perfetta coincidenza tra promesse unilaterali e negozi unilaterali, riguardando tale disposizione solo i negozi unilaterali astratti ad effetti obbligatori. Pertanto, in assenza di norme idonee a giustificare una compromissione dell’autonomia negoziale, devono ammettersi anche i negozi unilaterali atipici. Quale ulteriore fondamento di tale affermazione vi sarebbe poi anche l’art. 1333 c.c., il quale, secondo taluni (che negano la configurabilità dello stesso quale contratto), avrebbe introdotto nel nostro ordinamento un’ipotesi di negozio unilaterale atipico, ammissibile in quanto esso produca un effetto favorevole nella sfera giuridica del destinatario e facendo sempre salva la possibilità di rifiuto. Come sopra accennato, rientrano tra i negozi unilaterali anche le promesse unilaterali, di cui all’art. 1987 c.c., nelle quali un soggetto promette una determinata prestazione ad un altro soggetto e si vincola senza che sia necessaria l’accettazione del destinatario. Partendo da questa disposizione, la dottrina tradizionale è giunta a ritenere la tipicità delle promesse unilaterali, in ossequio alla centralità del consenso, per cui la proposta di contratto unilaterale non può essere da sola idonea a produrre effetti obbligatori al di fuori dei casi previsti dalla legge; senza considerare che ciò determinerebbe un’indebita ingerenza nella sfera giuridica del terzo. Tali obiezioni devono tuttavia oggi ritenersi superate dalla considerazione per cui non vi è alcun motivo per negare che una fattispecie diversa dal contratto, laddove emerga una seria volontà di obbligarsi, non possa generare un effetto obbligatorio, sempre che venga superato il vaglio di meritevolezza sancito dall’art. 1322 c.c. D’altro canto, anche l’intangibilità della sfera del terzo viene superata, purchè questo comporti degli effetti favorevoli per il terzo e fatta sempre salva la possibilità di rifiuto. In questo senso si pone lo stesso art. 1333 c.c. che, come sopra affermato, costituisce per i più, un negozio unilaterale per il quale è ammesso il rifiuto. Nell’ambito delle promesse tipizzate, vengono in rilievo i titoli di credito, la promessa di pagamento e la ricognizione di debito di cui all’art. 1988 c.c., il cui unico effetto è quello invertire l’onere della prova fra creditore e debitore; la promessa al pubblico, di cui all’art. 1989, che ha ad oggetto l’esecuzione, da parte del promittente, di una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una data azione. In relazione a quest’ultima promessa, si pongono dubbi circa il momento a partire dal quale il promittente può dirsi vincolato; la risposta varia a seconda della risoluzione che si dà al problema della sua natura giuridica. Se si ritiene che la promessa al pubblico configuri un negozio unilaterale, il promittente è vincolato non appena la promessa è resa pubblica e l’effetto che produce è la sua irrevocabilità, salvo giusta causa ex art. 1990 c.c. Se alla promessa si attribuisce natura contrattuale, la promessa equivarrebbe a proposta e solo con la comunicazione si avrebbe la vincolatività. Nell’ambito del codice civile, sono presenti ulteriori ipotesi di promessa, tra cui vanno menzionate la promessa del fatto del terzo, disciplinata dall’art. 1381c.c. e la promessa di matrimonio di cui all’art. 79 c.c. Quanto alla prima, va precisato che la promessa vincola solo le parti e non il terzo, che risulta esterno al rapporto. Quanto al momento in cui sorge la vincolatività per le parti, vi è chi rinviene natura contrattuale nella promessa, per cui l’accordo è raggiunto ed è vincolante nel momento in cui il promissario accetta la promessa, mentre altri ritengono che la promessa sia vincolante per il solo promittente che si impegna ad adoperarsi affinché il terzo si obblighi a fare ciò che il promittente stesso ha promesso. Quanto alla promessa di matrimonio, essa deve qualificarsi come un atto giuridico in senso stretto, in quanto l’azione umana rappresenta il presupposto per il verificarsi degli effetti stabiliti dalla legge. Essa non vincola i soggetti a contrarre matrimonio in quanto si vuole proteggere la libertà matrimoniale; la legge fa discendere come effetto derivante dal mancato adempimento della promessa l’obbligo di risarcire i danni. Da questo breve excursus, è possibile evincersi come la differente qualificazione che si intende dare ad un fatto giuridico comporta risvolti pratici di rilievo, sia per quanto concerne il profilo negoziale, relativamente alla vincolatività e all’efficacia dei fatti stessi, sia per quanto riguarda il profilo processuale. Premessa la non facile qualificazione di un fatto giuridico come fatto giuridico in senso stretto o come atto giuridico, si deve considerare che talvolta uno stesso fatto giuridico può talvolta configurarsi come atto giuridico, in altri come mero fatto, a seconda del diverso contesto in cui si inserisce. Si prenda ad esempio il fatto del terzo: esso può essere identificato dalla prestazione del consenso negoziale ma costituisce un mero fatto giuridico in relazione al rapporto intercorrente tra promittente o promissario. Tali diversità vanno poi a ripercuotersi in ambito processuale: si pensi ad esempio alle limitazioni previste dall’art. 2725 c.c. in materia di prova testimoniale circa l’esistenza di un negozio giuridico: la norma trova applicazione solo quando l’atto viene in rilievo come vincolo negoziale, non quando esso viene in rilievo come mero fato storico che incide sulla definizione della controversia.
Giudizio: 15++
La trattazione della traccia è nettamente superiore alla sufficienza, il ragionamento giuridico e la combinazione tra le diverse categorie appare eccellente. Degno di nota è lo sforzo del candidato di scindere il binomio efficacia e vincolatività come implicitamente richiedeva la traccia. Nonché nell'individuare la fonte degli effetti della fattispecie oggetto del tema. Per una votazione maggiore sarebbe stato opportuno sviluppare maggiormente la tematica delle promesse, nonché un accenno al ruolo del giudice nella categorie in esame; tale ultima capacità è di solito molto gradita dalla Commissione. Sotto il profilo lessicale non si ravvisano particolari irregolarità, il linguaggio giuridico è correttamente impiegato. Semmai sarebbe stato utile una maggiore chiarezza espositiva circa la differenza tra fatti e atti.
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