Tracce temi Sett 2012

tracce e migliori elaborati del mese

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    Tracce di diritto civile

    1) Premessi adeguati cenni sulla differenza intercorrente tra atti, fatti , promesse, negozi e contratti, tratti il candidato del ruolo della autonomia privata nelle fattispecie indicate con particolare riguardo al piano effettuale nonché del problema della vincolatività degli stessi.

    2)Opzionale (da svolgere solo dopo aver svolto la traccia principale)
    Premessi adeguati cenni sulla vincolatività delle promesse, tratti il candidato della vincolatività delle obbligazioni contratte a seguito della promesse di matrimonio e della promessa del fatto del terzo, soffermandosi sui profili della responsabilità risarcitoria.

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    Assegno mensile di diritto civile per ottobre: autonomia contrattuale e elementi del contratto.
     
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    Tracce di amministrativo (tutte principali)

    1) "Salvezza del riesercizio del potere amministrativo successivamente al giudicato di annullamento".

    2) "Giudice ordinario e divieto di condannare la PA al facere specifico ex articolo 4 LAC. Ambito operativo della preclusione e deroghe alla stessa".

    3) "I comportamenti amministrativi ed i comportamenti meri. Il candidato si soffermi, in particolare, sui profili inerenti il riparto di giurisdizione".
     
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    Traccia di penale:

    Premessi adeguati cenni in tema di successione di leggi penali nel tempo, tratti il candidato delle problematiche relative ai rapporti del delitto di cui all'art. 612bis c.p.con le previgenti fattispecie di reato di cui agli artt. 612, 660 e 572 c.p.

    assegno di penale per ottobre:
    DELITTO TENTATO - consumazione, reati istantanei, reati permanenti - elelemento soggettivo nel tentativo - desistenza e recesso attivo
    OFFENSIVITA' E REATO IMPOSSIBILE - reati ostacolo - reati a dolo specifico - reati di opinione

    Edited by togasana - 7/9/2012, 17:12
     
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    qui di seguito il miglior tema in penale.
    buona lettura,
    togasana

    Tema di penale:

    Premessi adeguati cenni in tema di successione di leggi penali nel tempo, tratti il candidato delle problematiche relative ai rapporti del delitto di cui all'art. 612bis c.p.con le previgenti fattispecie di reato di cui agli artt. 612, 660 e 572 c.p.

    La disciplina della successioni di leggi nel tempo, in ambito penale, si atteggia in maniera peculiare, in ragione delle specifiche esigenze a cui è improntato l'intero sistema penalistico e , in particolare, in ossequio al favor liberatis, così come garantito dal principio di legalità.
    Uno dei corollari di detto principio è, infatti, l'irretroattività della legge penale sfavorevole nel tempo, sancito dal secondo comma dell'art. 25 della Costituzione: ratio ispiratrice di tale divieto è quella di garantire la calcolabilità delle conseguenze penali della condotta e la libertà di autodeterminazione. In particolare, si sostiene che colui, il quale ponga in essere un determinato comportamento, debba sempre sapere se questo integri reato e con quale pena sia sanzionato, in modo da poter, conseguentemente, regolare la propria condotta.
    Il divieto di applicazione retroattiva in peius trova conferma, a livello di normativa sub-costituzionale, nell'art 2 del codice penale: nel dettaglio, il primo comma di detta disposizione impedisce la punizione di un comportamento previsto come reato, per la prima volta, da una legge entrata in vigore successivamente alla sua commissione. Ai sensi, invece, del quarto comma, il quale regola le ipotesi di successione di leggi modificative, che sanzionano un fatto già previsto come reato, non può trovare applicazione la legge posteriore a quella vigente al momento della commissione del fatto qualora questa prevede una disciplina più sfavorevole per il reo.
    L'art. 2 c.p., in uno al divieto di irretroattività in peius della legge penale, statuisce altresì la retroattività della norma penale favorevole: il comma secondo, infatti, dispone che, nel caso in cui un fatto sia previsto come reato da una norma vigente al momento del suo compimento e, successivamente, sopravvenga una legge abolitiva di detto reato, colui che ha commesso il fatto non possa essere punito; qualora, in medio tempore la commissione del fatto e l'entrata in vigore della legge abolitiva, sia intervenuta una sentenza di condanna, l'esecuzione della stessa deve essere cessata. La sentenza irrevocabile di condanna, invece, con l'eccezione di cui al terzo comma, costituisce ostacolo alla modifica della legge irrogata, nel caso in cui la legge sopravvenuta sia meramente modificativa.
    Nel corso degli anni, in dottrina come in giurisprudenza, si è sviluppato un dibattito in ordine al rango da assegnare al principio di retroattività in melius; si è posta, dunque, la questione se, come il divieto di retroattività in peius, anche il principio questione trovi affermazione a livello costituzionale. Secondo un orientamento, ormai recessivo, la retroattività in melius, non solo non sarebbe enunciata dalla Carta Costituzionale ma le norme legislative che la prevedono sarebbero contrastanti con l’art 25 comma 2 Cost., il quale, interpretato in maniera letterale, osterebbe, comunque, all’applicazione della legge posteriore, sebbene favorevole.
    Secondo l’interpretazione prevalente, più volte avallata dalla Consulta, il principio in questione possederebbe rango costituzionale. Esso, tuttavia, non troverebbe come referente l’art. 25 comma 2, ispirato alla ratio della calcolabilità delle conseguenze penali della condotta, con la quale non avrebbe alcuna attinenza, bensì si fonderebbe sui principi di uguaglianza e ragionevolezza. di cui all’art. 3 Cost.: non sarebbe, infatti, ragionevole sottoporre a diverse conseguenze due soggetti i quali abbiano posto in essere lo stesso comportamento, per il solo fatto che uno l’abbia tenuto prima e l’altro dopo l’entrata in vigore della legge abolitiva, ovvero modificativa, in melius, del reato. I fautori di tale tesi, tuttavia, sostengono che, se il divieto di cui all’art. 25 Cost ha natura assoluta ed inderogabile, l’obbligo di retroazione della legge successiva favorevole, sarebbe passibile di deroghe qualora queste superino un vaglio di ragionevolezza e siano poste a tutela di interessi di pari rango.
    Si evidenzia, infine, che il principio in questione trova ulteriori referente nella normativa convenzionale di livello internazionale ed, in particolare, nell’art. 7 Cedu, il quale, secondo l’interpretazione più recente, proposta dalla Corte Edu, pur esplicitando il solo divieto di irretroattività sfavorevole, implicitamente, statuirebbe altresì l’obbligo di applicazione retroattiva della norma più favorevole. Una norma, dunque, che presentasse una deroga al principio in questione, stante il rango di norma costituzionale interposta, attribuito dalla Consulta alle norme Cedu, sarebbe passibile di dichiarazione di incostituzionalità, non solo ai sensi dell’art. 3 Cost. ma anche ai sensi degli artt. 117 comma 1 Cost. e 7 comma 1 Cedu.
    La sopra esposta disciplina in materia di successione di leggi è stata oggetto di problematiche interprative, in occasione dell’entrata in vigore del D.L. 11/09, convertito in L. 38/09 il quale, aggiungendo al libro II del codice penale l’art.612 bis, ha introdotto il reato di atti persecutori. Siffatta ipotesi delittuosa è stata creata da parte del legislatore al fine di fornire adeguata tutela e stemperare l’allarme sociale derivante dalla sempre più frequente commissione di condotte persecutorie poste in essere, usualmente, ai danni di soggetti deboli ed indifesi e che, spesso, sanzionate non adeguatamente, sfociano nella commissione di comportamenti di maggiore gravità. Al fine di integrare la fattispecie in esame, con riguardo all’elemento oggettivo, si rende necessario che l’agente ponga in essere atti reiterati di minaccia e molestia e che tali atti siano causa nella vittima di uno stato di ansia e paura o di timore per la propria incolumità o per quella di un suo congiunto o legato da relazione affettiva, ovvero costringa la stessa a mutare abitudini di vita.
    In relazione a tale fattispecie, in dottrina e giurisprudenza, si è sviluppato un dibattito in ordine alla legge applicabile con riferimento a quelle condotte astrattamente integranti sia il reato in questione che, a seconda della loro natura, quello di manaccia o molestia e, a certe condizioni, di maltrattamenti in famiglia, allorché esse abbiano avuto inizio in un tempo antecedente e siano terminate in un momento susseguente l’entrata in vigore della suddetta legge.
    Come è noto, il reato di atti persecutori è ascrivibile alla categoria dei reati c.d. abituali i quali, per essere integrati, necessitano la commissione di più condotte omogenee del bene giuridico tutelato. Al fine di stabilire la legge vigente al momento della commissione del reato, si rende necessario, preliminarmente, quindi, individuare il c.d. tempus commissi delicti: nei reati di durata, in generale, e in particolare in quelli abituali, si è soliti distinguere il momento di perfezionamento del reato da quello di consumazione. Per momento di perfezionamento si intende il momento in cui la fattispecie di reato risulta per la prima volta integrata, transitando la condotta dell’agente dalla fase del tentativo a quella commissiva del reato; il momento della consumazione, corrisponde, invece, a quello in cui l’offesa al bene giuridico, dopo aver raggiunto l’apice di intensità, cessa di esistere.
    Ciò premesso, secondo l’orientamento maggioritario, la legge successiva può dirsi vigente al momento della commissione del reato abituale solo se questo, pur perfezionandosi in un momento anteriore, si sia consumato solo dopo l'entrata in vigore della stessa, a condizione che, a partire da tale momento, siano state tenute condotte di per sé idonee e sufficienti ad integrare il reato.
    Per quanto attiene al reato in questione, si evidenzia che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, al fine di produrre l'integrazione della fattispecie, sarebbe necessario l'accertamento del verificarsi di almeno due episodi di atti di molestia o minaccia.
    Conseguentemente, qualora l'entrata in vigore della legge istitutiva del reato di cui all'art.612 bis c.p. sia avvenuta in medio tempore tra il momento iniziale e quello finale di reiterazione delle condotte predette, all'agente sarà contestabile il reato in esame solo nel caso egli abbia posto in essere almeno due episodi di minaccia o molestia dopo l'entrata in vigore del DL 23/02/09 n.11. In caso contrario, saranno contestabili, a seconda della natura degli atti commessi, il reato di minaccia o di molestia.
    Diversamente, secondo una tesi meno ancorata al rigoroso rispetto del divieto di irretroattività in peius, sviluppatasi nella giurisprudenza di merito, al fine di considerare contestabile il reato di “c.d. stalking”, sarebbe sufficiente che il momento di consumazione del reato sia posteriore a quello dell'entrata in vigore della legge istitutiva del reato stesso e che, a partire da tale data, venga posto in essere un solo episodio di minaccia o molestia.
    Si precisa, invero, che, qualora sia integrata la fattispecie di atti persecutori, non possano essere contestati, in aggiunta a tale reato, quelli di molestia o minaccia, i quali risulterebbero assorbiti nella fattispecie di cui all'art. 612 bis.
    Più problematico appare, invece, il caso in cui le predette condotte siano state poste in essere da un soggetto facente parte del nucleo familiare della vittima ovvero siano rivolte avverso fanciulli o sottoposti all'autorità o a questi affidati. In queste ipotesi è evidente l'interferenza della fattispecie di reato di atti persecutori con quella di cui all'art. 572 c.p..
    Orbene, preliminare rispetto al problema successorio appare la risoluzione della questione riguardante il rapporto tra le due fattispecie di reato in questione; solo, infatti, qualora dovesse ritenersi sussistente un concorso formale tra norme, entrambe incriminatrici delle predette condotte, dovrebbe poi analizzarsi il problema della legge applicabile, anche sotto l'aspetto temporale: esclusivamente in caso affermativo si potrebbe effettivamente parlare di successione di leggi modificative regolanti la stessa materia, ossia lo stesso fatto.
    Ciò chiarito, occorre esaminare il rapporto tra le due norme in oggetto applicando il criterio di specialità di cui all'art. 15 c.p., così come interpretato dalla recente giurisprudenza delle Sezioni Unite di Cassazione: sulla base di tale impostazione, può configurarsi un concorso apparente tra norme solo allorché tra di esse, in astratto, sussista un rapporto di specialità unilaterale. Tale relazione, invero, non appare sussistere tra a fattispecie di cui all'art. 572 c.p. e quella di cui all'art. 612 bis che sono legate da rapporto di specialità bilaterale, non idoneo a configurare un concorso apparente tra norme. Nel dettaglio, a fronte di un nucleo comune costituito da una condotta reiterata di “maltrattamenti”, ciascuna delle due norme presenta elementi di specialità rispetto all'altra: il reato di cui all'art. 572 c.p. si distingue in quanto reato proprio, dato che può essere commesso solo da e a danno di determinati soggetti, mentre l'art. 612 bis c.p., per la sua integrazione, impone che i maltrattamenti assumano la forma di atti di minaccia e molestia, i quali, inoltre, devono causare i sopra esposti stati di ansia, timore o costrizione.
    Conseguentemente, si deve concludere che, in presenza di atti integranti entrambe le fattispecie, l'agente risponderebbe sia del reato di atti persecutori che di quello di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, sempre che, dopo l'entrata in vigore della legge istitutiva del reato di cui all'art. 612 bis, in coerenza col divieto di applicazione retroattività in peius della legge penale, questi abbia posto in essere almeno due episodi di minaccia o molestia.

    CENTRATO, PRECISO, EQUILIBRATO, COGLIE APPIENO LA QUESTIONE RILEVANTE E NON SI PERDE IN DISCORSI INUTILI CHE ALLUNGHINO IL BRODO. 13
     
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    Ecco i temi migliori in diritto civile per il mese di settembre: sono tre e riguardano tutti la prima traccia, perché affrontano in maniera del tutto diverso il tema raggiungendo comunque un risultato molto simile, come prova del fatto che quando si è in presenza di un tema che verte sui principi generali solitamente prevalgono quelli basati sul ragionamento logico e razionale, piuttosto che sulla mera casistica.

    Tema di diritto civile

    1) Premessi adeguati cenni sulla differenza intercorrente tra atti, fatti, promesse, negozi e contratti, tratti il candidato del ruolo della autonomia privata nelle fattispecie indicate con particolare riguardo al piano effettuale nonché del problema della vincolatività degli stessi.

    La questione posta all’attenzione ha ad oggetto i rapporti di interazione tra categorie dogmatiche e categorie normative nel diritto dei privati.
    Le prime sono il frutto dell’elaborazione ermeneutica nella costruzione del sistema normativo-ordinamentale, le seconde si impongono all’interprete in forza della loro previsione espressa da parte del legislatore, il quale recepisce in chiave descrittiva, ovvero creativa, fenomeni sociali tipici, come quelli che stanno alla base dei rapporti tra consociati e del vivere associato.
    Così “atti” e “fatti”, ascrivibili al genere della categoria normativa, perché nominati dall’art. 1173 c.c. nell’indicazione delle fonti delle obbligazioni, al pari del contratto, anch’esso categoria normativa seppur con tratti di atipicità come si dirà, possono essere considerati come categorie descrittive di fattispecie.
    Rispetto ad essi l’autonomia privata rileva a monte, nella costruzione della fattispecie, che potrà essere una promessa, come un negozio, quanto un contratto, appunto, mentre l’effetto obbligatorio – la fonte dell’obbligazione – è una conseguenza diretta della legge.
    Utilizzando gli schemi logico-inferenziali : atti, fatti e contratti descritti dall’art. 1173 c.c., rappresentano il fatto nella sequenza norma-fatto-effetto. Sarà quindi la norma di legge, e non quella pattizia, che, alla ricorrenza di un determinato evento, ricollegherà un dato effetto giuridico.
    Diversamente, promesse, negozi e contratti potranno, altresì, rilevare come categorie creative, allorchè si consideri il loro momento genetico, ossia di formazione della fattispecie, innovativa degli effetti, nello schema norma-potere-effetto : saranno quindi i privati in ragione del potere che gli viene attribuito a dettare la regola e quindi a creare l’effetto.
    In questa seconda accezione, promessa e contratto sono categorie normative, rispettivamente, art. 1987 c.c., e art. 1321 c.c., mentre il negozio è categoria dogmatica in quanto non prevista dal legislatore in alcuna disposizione.
    Atto e fatto sono, allora, categorie generali che recepiscono fenomeni, ed infatti, per entrambi, è possibile recuperare il profilo dogmatico, cui segue l’incasellamento nel disposto normativo predisposto dal legislatore.
    Il concetto di atto è pertanto oggetto di scissione nella duplice accezione di atto giuridico in senso stretto e atto giuridico, ambedue categorie dogmatiche, perché non nominate, e costituenti il risultato dell’attualizzazione dei precetti nella ricostruzione del sistema.
    L’elemento di discriminazione è rappresentato proprio dal diverso ruolo dell’autonomia dei privati e, più in generale, dalla diversa interazione con l’agire umano.
    Rispetto alla prima categoria – atto giuridico in senso stretto – i privati si limitano ad operare una scelta di tipo selettivo dell’atto al quale la legge ricollega l’effetto, in definitiva la scelta è sull’effetto, tra i tipi di quelli previsti dal legislatore.
    L’autonomia privata è, pertanto, fortemente compressa, in quanto ha come unico spazio quello di aderire o meno ad un effetto legale, ma non già di creare una regolamentazione autonoma. L’assetto di interessi è quindi predeterminato dall’ordinamento – formale -, e per questo lo schema logico è indicato come norma-fatto-effetto, così a simboleggiare che il giudice dovrà limitarsi a verificare la scelta del fatto e non già sindacare, come diversamente avviene nella categoria creativa, sintetizzabile nello schema norma-potere-effetto, la valutazione degli interessi così come operata dai privati in base al potere che gli è stato attribuito.
    Quando l’atto è inteso come atto giuridico, la scelta è di tipo innovativo, o, meglio, creativo, perché è scelta nel merito degli effetti. Atti giuridici potranno essere, pertanto, le promesse, i negozi e i contratti.
    Per quanto concerne le promesse la specificazione merita una precisazione.
    Le promesse sono state al centro di un dibattito interpretativo che, attualmente, pare orientato nel riconoscere l’ammissibilità della promessa atipica. Più chiaramente il dettato dell’art. 1987 c.c., che dispone che la promessa non produce effetti obbligatori fuori dei casi ammessi dalla legge, è stato recentemente interpretato come riferibile all’art. 1322 c.c., in base al quale anche la promessa, al pari del contratto, sarebbe retta dallo schema norma-potere-effetto - ossia la sintesi logica dell’autonomia privata - così che la promessa potrebbe produrre effetti come creati dalla parte e non già solo quelli previsti, espressamente, dal legislatore.
    Prescindendo dalla validità dell’asserzione, che poggia su un’interpretazione estensiva dei “casi ammessi dalla legge” considerando l’art. 1322 c.c., nella lettura combinata con gli artt. 1333 e 1324 c.c., come uno di questi, è evidente la differente risultante che si avrebbe in merito all’incasellamento delle due categorie dogmatiche.
    In un caso, ossia l’interpretazione che porta alla tassatività delle promesse, la categoria dogmatica che attualizza la categoria normativa “promessa”, dovrebbe essere quella dell’atto giuridico in senso stretto, l’autonomia privata verrebbe riconosciuta solo al momento di aderire, o meno, ai tipi di promesse tipiche, con annessi effetti tipici (norma-fatto-effetto) ; nell’altro, la categoria dogmatica è quella dell’atto giuridico (norma-potere-effetto), e conseguente potere creativo degli effetti.
    Rispetto al negozio, la problematica è, per vero, meno complessa. Ciò in quanto il negozio è categoria dogmatica, così che l’interprete è libero dalle costrizioni delle categorie normative e non è richiesta la sussunzione del tipo legale in quello ermeneutico.
    In tale ipotesi autonomia privata è sinonimo di autonomia negoziale e le parti saranno libere di determinare gli effetti, ferme restando eventuali limitazioni imposte dal legislatore in base a norme e precetti di tipo imperativo, tipico caso il matrimonio. La particolarità della fattispecie fa si che il legislatore detti una disciplina speciale che, in ogni caso, non rinnega il ruolo dell’autonomia privata, ma lo regolamenta in modo più puntuale rispetto a quanto faccia per la disciplina del contratto, la quale ultima è destinata, in ogni caso, ad essere applicata – a seconda delle tesi - in via analogica, ovvero, in quanto compatibile.
    Si pensi alla particolare disciplina del matrimonio putativo e le sue analogie con l’istituto della simulazione, ovvero alla particolare disciplina sui vizi del consenso, in ultimo al residuo di autonomia lasciata dal legislatore in merito alla determinazione dell’indirizzo della vita familiare, art. 144 c.c..
    Piuttosto le problematiche maggiori riguardano la pretesa categoria del negozio unilaterale che la migliore dottrina vorrebbe sintetizzato nell’art. 1333 c.c., portando a conferma l’art. 1324 c.c., in antitesi all’opinione maggioritaria contraria.
    Ferma restando la coerenza logico-dimostrativa delle opposte tesi, è in ogni caso pacifico che il negozio unilaterale non può essere considerato categoria normativa, perché il legislatore non utilizza mai tale termine, quanto, piuttosto, quello di atto unilaterale, ovvero quello di contratto con obbligazioni del solo proponente.
    La specificazione è importante perché consente di far transitare la categoria dogmatica del negozio unilaterale, in quelle normative del contratto ovvero dell’atto – specificato in unilaterale -, entrambe ascrivili all’atto giuridico, così che negozio unilaterale è sinonimo di atto giuridico, ovvero di atto negoziale, rispetto al quale è l’autonomia privata - negoziale – a creare l’effetto.
    Così, dunque, può sostenersi che la fattispecie di cui all’art. 1333 c.c. – ma stesso discorso può farsi con riguardo al contratto in favore di terzo – non richiede il consenso per la sua costruzione, ed il possibile rifiuto è unicamente sottrazione degli effetti, ma non già elemento genetico degli stessi.
    Se poi l’atto negoziale non è unilaterale ma bilaterale, e incide direttamente un rapporto patrimoniale, la categoria dogmatica rientra in quella normativa del contratto, recuperandone lo statuto, e, soprattutto, lo schema logico norma-potere-effetto, così che l’autonomia privata, sinonimo di autonomia negoziale, si specifica in autonomia contrattuale, e ciò in ragione della differente dimensione dei fenomeni rispetto all’agire – libero - dell’uomo.
    Ed è proprio tale, ultimo, elemento – l’agire libero dell’uomo – che permette di dare lettura alla categoria del fatto, anch’esso declinabile in una duplice accezione.
    La prima che vede nel fatto un accadimento naturale rispetto al quale il ruolo del comportamento umano assume un diverso significato rispetto a quanto visto per l’atto.
    La seconda che assume nel fatto il concetto di fattispecie e quindi come sinonimo di accadimento giuridico, così che fatti potranno essere le promesse, i negozi e i contratti.
    Tuttavia ciò che cambia è proprio la prospettiva cui si guarda ai fenomeni : fatto è ciò che accade come il risultato di un’azione ; atto è, diversamente, la manifestazione di una determinazione della volontà.
    I due concetti sono quindi distinti non perché sono entità separate e contrapposte, ma perché rappresentano momenti cronologici diversi di un’unica fattispecie, ossia quella obbligatoria, su cui si costruisce il diritto dei privati, nella necessità di appuntare regole comuni per i normali rapporti di vita associata.
    Per questo l’autonomia privata avrà un ruolo diverso su piano degli effetti e della vincolatività rispetto alle ipotesi viste.
    Quando promessa, negozio e contratto sono considerati come fatti e quindi come fattispecie – giuridiche -, l’autonomia privata, oramai cristallizzata nel momento genetico, potrà rilevare come atto contrario, mutuo dissenso, recesso e, infine, come rifiuto all’effetto già prodotto , in base alla ricostruzione data rispetto all’art. 1333 c.c. – e del contratto a favore di terzo – come atto giuridico già compiuto.
    Quando i predetti sono considerati come atti, occorrerà prestare attenzione all’accezione di atto giuridico in senso stretto ovvero giuridico, e ciò, soprattutto, ma non solo, nell’ottica del giudice e dell’opera di giuridicizzazione che, rispettivamente, lo chiamerà ad operare in misura di verifica, schema norma-fatto-effetto, o di vero e proprio sindacato sull’assetto degli interessi, norma-potere-effetto, rispetto al risultato dell’azione umana.
    Andrà, poi, precisato, che la considerazione che il contratto, la promessa, e il negozio, possano essere considerati come fatti, non consente un’ipotizzabile equazione rispetto agli atti giuridici in senso stretto.
    Seppur lo schema logico è apparentemente lo stesso, in quanto sia in un caso che nell’altro è richiamabile la sequenza norma-fatto-effetto, questo è solo per il legislatore nella costruzione della disposizione, ma assume diversi connotati rispetto al giudice e i privati, in ragione del problema della vincolatività degli assetti.
    Seppur vero che una volta che la manifestazione volitiva propria dell’atto giuridico si cristallizza, ciò non toglie che l’assetto di interessi è sempre il frutto dell’esercizio del potere e, quindi, di una libera valutazione degli interessi che porta all’autoregolamentazione.
    Questa è vincolante per le parti, art. 1372 c.c., e del pari ha effetti inibitori per il giudice, il quale potrà sindacarne sempre nei limiti dettati dallo stesso ordinamento, artt. 1322, I c., c.c., e 41, c. II e III cost., richiedendo, quindi, un confronto tra l’assetto degli interessi così come disposto dai privati e l’eventuale sussistenza di imposizioni imperative predisposte dall’ordinamento che sono state dagli stessi violate.
    In conclusione è pur sempre un sindacato sul potere e quindi sia sull’autonomia così come manifestata e sia sull’autonomia così come decisione di un autovincolo.
    Diversamente il mero atto giuridico ha fonte genetica sempre in un potere, ovviamente, ma che è quello del legislatore adottato nella valutazione degli interessi, così che anche il vincolo seguirà, del pari, la sua decisione discrezionale, rimanendo le parti obbligate in base ad un regolamento non creato da loro, ma rispetto al quale hanno solo un potere di scelta in merito al tipo e parimenti il giudice sarà obbligato ad una mera verifica dei presupposti di fatto.
    Questo è possibile perché in un caso il sindacato opera su una regola non di fonte legislativa ma pattizia che è legittimata dalla legge, e quindi il giudice ha il dovere di sindacare se sussiste il presupposto di validità ; nel secondo caso il sindacato sarebbe sull’operato del legislatore e questo, per il noto principio di separazione dei poteri, non è ovviamente possibile.


    GIUDIZIO: 15++
    Il tema è svolto con spicato spirito critico e dimostra il possesso da parte del candidato di una egregia conoscenza delle categorie giuridiche nonché la capacità da parte dello stesso di porle in relazione tra loro, attraverso l'individuazione delle discrasie e dei punti di contatto tra le medesime. La distinzione tra il profilo effettuale e quello della vincolatività è stato affrontato, se pur sinteticamente, in modo più che soddisfacente. Particolarmente degno di nota è trattazione dei poteri del giudice in presenza delle diverse categorie.
    Sotto il profilo della redazione, il candidato utilizza un lessico appropriato e solo raramente si riscontrano delle imprecisioni, la lettura tuttavia non è sempre fluida e ciò come conseguenza della mancanza di una parte narrativa a mero sostegno di quella basata su un'approccio maggiormente scientifico.


    *********

    2) Premessi adeguati cenni sulla differenza intercorrente tra atti, fatti, promesse, negozi e contratti, tratti il candidato del ruolo dell’autonomia privata nelle fattispecie indicate con particolare riguardo al piano effettuale nonché del problema della vincolatività degli stessi.

    Dal brocardo latino ex facto oritur ius è possibile trarre la considerazione per la quale il diritto è un insieme di regole volte a organizzare varie forme di vita sociale le quali preesistono, dal punto di vista fenomenico, alla norma giuridica stessa. Questa interviene a disciplinare ogni conflitto di interessi di cui sono titolari due o più individui, nei limiti in cui tali interessi siano considerati dall’ordinamento giuridicamente rilevanti e meritevoli di tutela. Tale disciplina si articola sulla base di una valutazione della rilevanza di un interesse rispetto all’altro, onde dettare una regola che segni la prevalenza dell’uno sull’altro ovvero il loro contemperamento reciproco, ove siano di pari rilevanza. Ciò avviene al fine di mantenere la pace sociale ed evitare che le controversie siano decise sulla base della nuda forza.
    Applicando tale processo, è possibile individuare nell’ambito dei fatti, menzionati nel brocardo sopra riportato e intesi come accadimenti naturali idonei a modificare la realtà materiale, i fatti giuridici, che sono quegli accadimenti che acquistano rilevanza per il diritto in quanto capaci di produrre conseguenze giuridiche. Ciò si verifica sulla base di una valutazione contingente del singolo legislatore, che può mutare col variare del contesto temporale (con riferimento allo stesso ordinamento giuridico statuale considerato in epoche diverse) e spaziale (con riferimento a diversi ordinamenti nel medesimo momento storico).
    In base a una ricostruzione su cui si avrà modo di tornare nel prosieguo della presente trattazione, nell’ambito dei fatti giuridici è possibile distinguere tra fatti giuridici in senso stretto ed atti giuridici. Nei primi acquista rilevanza la verificazione di un fatto naturale che produce effetti giuridici indipendentemente dal concorso della volontà dell’uomo (si pensi ai classici esempi del fulmine che colpisce una casa, della nascita o della morte di una persona). Gli atti giuridici, invece, sono manifestazioni di volontà, poste in essere da un soggetto capace di intendere e di volere, al quale l’ordinamento riconosce il potere di modificare la realtà materiale.
    Questi ultimi si distinguono, a loro volta, a seconda che siano leciti o illeciti. Gi atti illeciti sono quelli contrari a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. Le norme imperative, per un orientamento si distinguono per il loro carattere precettivo, per un’altra tesi per la loro inderogabilità mentre, per l’opinione che appare preferibile, per essere poste a presidio di interessi generali, dell’intera collettività. L’ordine pubblico è l’insieme dei principi fondamentali su cui si regge l’ordinamento giuridico e che, tendenzialmente, sono consacrati nella Costituzione. Il buon costume è l’insieme dei valori morali ed etici predominanti nella realtà sociale in un certo momento storico.
    Gli atti leciti, invece, per la ricostruzione cui continua a farsi riferimento, possono distinguersi in atti giuridici in senso stretto e negozi giuridici. I primi si caratterizzano in quanto la manifestazione di volontà dell’autore è diretta a porre in essere l’atto, che è atto volontario, ma non si estende alla determinazione degli effetti di esso, i quali sono predeterminati dall’ordinamento e si realizzano ancorchè non voluti o non conosciuti dal soggetto agente (per esempio, l’intimazione a pagare del creditore al debitore vale come costituzione in mora, con gli effetti di legge che ne derivano, anche se tali effetti non erano voluti dall’intimante).
    Quanto ai negozi giuridici, va preliminarmente osservato che tale categoria è testualmente ignota al codice civile ed è frutto di una elaborazione dottrinale di matrice tedesca poi recepita, adattata e sviluppata nel nostro ordinamento da una parte della dottrina italiana. Quest’ultima, alla quale si deve la ricostruzione cui sopra si è fatto riferimento, ha indagato il rapporto tra autonomia privata e ordinamento, ovvero tra volontà e norma, e ha accolto una teoria soggettiva che afferma il primato della volontà negoziale come espressione della autonomia del soggetto rispetto all’ordinamento. Per tale teoria, gli effetti giuridici sono prodotti direttamente dalla volontà negoziale e si realizzano in quanto voluti e previsti dal soggetto agente. Da qui, per questa ricostruzione, la distinzione rispetto agli atti giuridici in senso stretto nei quali, come già rilevato, oggetto della volizione è il compimento dell’atto ma non gli effetti di esso.
    Successivamente, tale teoria si è sviluppata in un approccio normativo, in base al quale gli effetti sono prodotti (non direttamente dalla volontà negoziale, ma) dall’ordinamento, in conformità all’intento delle parti. In altri termini, la volontà privata, per produrre effetti giuridici, necessita sempre del tramite dell’ordinamento giuridico, che li realizza in conformità ad essa, previa valutazione della rilevanza e della liceità dell’atto di autonomia privata, in caso di esito positivo di tale indagine.
    In contrapposizione alla teoria soggettiva, si è sviluppata una teoria oggettiva, tesa a rispondere alle necessità dei rapporti economici e commerciali, rispetto alle cui esigenze di certezza il rilievo accordato alla volontà dei soggetti creava non pochi ostacoli. Per la teoria oggettiva, il negozio giuridico, a prescindere dalla volontà dei suoi autori, ha sempre un significato obiettivamente apprezzabile: quello di autoregolamento, ovvero di fonte dei regole poste per disciplinare gli interessi facenti capo agli stipulanti. Secondo un’accezione di questa teoria, che attribuisce rilievo all’aspetto della dichiarazione, molto più stabile e certa, rispetto ai terzi, dell’intento delle parti, la volontà negoziale acquista rilievo giuridico nel momento in cui viene manifestata all’esterno, mediante una dichiarazione o un comportamento concludente. Un’accezione precettiva, invece, pone in rilievo la vincolatività oggettiva delle regole poste mediante il regolamento negoziale.
    In particolare, secondo la teoria oggettiva, la volontà degli autori del negozio rileva nella fase genetica di esso, che è atto volontario, ma non nella determinazione dei suoi effetti, rispetto alla quale il negozio si pone come mero presupposto di fatto previsto dalla norma. Questo perché la norma, nella parte descrittiva, prevede l’atto di autonomia privata come fatto naturalisticamente rilevante e, nella parte precettiva, ricollega alla sua verificazione la produzione di determinate conseguenze giuridiche. A differenza di quanto ritenuto dalla teoria soggettiva, però, per i sostenitori della teoria oggettiva, gli effetti derivanti dal negozio possono anche non essere conformi all’intento delle parti. Infatti, l’ordinamento valuta l’utilità economica e sociale dell’atto e dell’intento delle parti e, solo in caso di esito positivo di tale controllo, stabilisce il trattamento giuridico dell’atto e dei suoi effetti.
    Tutta questa elaborazione dottrinale pone al centro dell’attenzione la figura del negozio giuridico mentre quella di contratto, che pure ne è grandemente influenzata, come si chiarità meglio in seguito, è del tutto residuale. Per comprendere meglio quest’affermazione, è utile ricordare che il negozio giuridico, dal punto di vista della sua struttura, può essere unilaterale, bilaterale o plurilaterale, a seconda che sia formato da una, due o più parti. Per parte si intende un centro di interessi omogenei per realizzare i quali manifesta un’unica volontà negoziale giuridicamente rilevante e che può essere unipersonale o pluripersonale, a seconda che sia formata da una sola persona fisica o da più persone fisiche diverse. Nell’ambito dei negozi bilaterali si configura un’ulteriore classificazione basata sulla natura giuridica dell’interesse sotteso all’atto di autonomia privata e che distingue i negozi familiari (riscontrabili, ad esempio, nel diritto di famiglia, come il matrimonio, che disciplina rapporti personali e familiari) dai negozi patrimoniali, che mirano a regolare rapporti suscettibili di valutazione economica. Tra questi vi è il contratto, secondo la definizione datane dall’art. 1321 c.c.: il rapporto oggetto di regolamentazione contrattuale deve avere natura giuridica (ovvero deve essere rilevante per l’ordinamento) e natura patrimoniale, secondo la definizione che l’art. 1174 c.c. riferisce alla prestazione oggetto dell’obbligazione (e che si attaglia ai contratti ad effetti obbligatori) ma che gli interpreti estendono anche ai diritti reali (e, quindi, ai contratti ad effetti reali). In questo senso, il bene oggetto del diritto reale deve essere economicamente valutabile, il che avviene con il concorso di tre requisiti: utilità, ovvero attitudine a soddisfare i bisogni umani; concreta accessibilità per l’uomo; disponibilità in quantità limitata. Si tratta degli indici della sua attitudine ad essere scambiato con una somma di denaro.
    Quanto alla promessa, si tratta comunque di un atto volontario, con cui l’autore assume un’obbligazione nei confronti del promissario e può avere natura di atto unilaterale o di contratto, qualora sia previsto il pagamento di un corrispettivo o l’esecuzione di altra prestazione a favore del promittente.
    Se, dunque, tutta l’elaborazione dottrinale cui sopra si è fatto cenno segue una logica deduttiva, dal generale al particolare, ponendo al centro dell’attenzione la categoria del negozio giuridico e riservando a quella del contratto una posizione più residuale, il legislatore del 1942 segue una logica induttiva: normativizza la definizione di contratto all’art. 1321 c.c. e rimane silente rispetto a quella di negozio giuridico. Nondimeno, esso sembra presupporre l’esistenza di una categoria più generale rispetto al contratto (e proprio quella di negozio giuridico), alla quale ricondurre gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale i quali, pur non avendo natura contrattuale, possono essere regolati attraverso un’estensione della disciplina prevista per i contratti, ex art. 1324 c.c.
    Alla luce di quanto sin qui osservato, appare decisiva la rilevanza avuta dal dibattito dottrinale cui si è fatto cenno sull’evoluzione del ruolo sia dell’autonomia privata sia del contratto nel nostro ordinamento. Infatti, da strumento finalizzato all’acquisto e al trasferimento del diritto di proprietà, secondo l’impianto del codice civile del 1865, il contratto si è staccato dal concetto statico di proprietà ponendosi progressivamente al centro di una ricostruzione (quella sopra menzionata) in cui fatti, atti, negozi, promesse e contratti si distinguono proprio per il ruolo svolto in ciascuno di essi dall’autonomia privata. E ciò è avvenuto, in un primo momento, grazie al rilievo che la teoria soggettiva ha attribuito al soggetto e alla signoria del volere rispetto all’ordinamento. L’ulteriore evoluzione ha attribuito al contratto il ruolo di strumento centrale dell’impresa, il che ha imposto un’oggettivizzazione dello stesso come autoregolamento in cui, in caso di contrasto, il dichiarato prevale sul voluto a tutela della certezza della circolazione dei diritti e dell’affidamento dei terzi di buona fede.
    Traslando gli esiti di queste elaborazioni nella disciplina positiva, per aversi contratto è necessario il concorso di tre requisiti: il rispetto di uno degli schemi di conclusione del contratto previsti dalla legge; la volontà interna delle parti, che rileva come dato psicologico; che tale volontà sia percepibile all’esterno come volontà contrattuale. Si vede bene come la volontà negoziale del singolo contraente confluisce con quella dell’altro, nell’insieme degli elementi essenziali e accidentali, nel caso concreto ritenuti idonei a realizzare l’assetto di interessi perseguito, in quel consenso, in quell’accordo delle parti che è l’essenza stessa del regolamento contrattuale (ex art. 1321 c.c., che definisce il contratto come un particolare tipo di accordo) ma anche uno degli elementi che costituiscono la sua struttura fondamentale, ex art. 1325 c.c.
    In questo senso, si è affermato che il vincolo contrattuale è figlio dell’autonomia privata, intesa come potere, riconosciuto dall’ordinamento ai consociati, di darsi delle regole capaci di incidere sulla propria sfera giuridica, modificabile per realizzare l’assetto di interessi di volta in volta confacente agli scopi concreti delle parti. E, infatti, l’art. 1322 c.c. attribuisce alle parti il potere di determinare il contenuto del contratto, nei limiti di legge, e di concludere contratti atipici, purchè siano volti a perseguire interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento, ovvero interessi socialmente utili e apprezzabili e non meramente utilitaristici.
    Per questo, la volontà delle parti è la fonte principale del regolamento contrattuale, che è quello da cui derivano il contenuto e gli effetti del contratto. Peraltro, tale fonte, ai sensi dell’art. 1374 c.c., subisce il concorso di fonti esterne (in primis, non a caso, la legge, intesa come norme imperative e, solo in via suppletiva, gli usi normativi e l’equità), attraverso il processo di integrazione eteronoma del regolamento contrattuale. Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, tuttavia, tali fonti esterne possono intervenire solo in presenza di una lacuna nella regolamentazione delle parti e sussista nell’ordinamento una fonte dispositiva applicabile alla fattispecie (è minoritaria la posizione che ammette l’integrazione allo scopo di plasmare dall’esterno il contenuto del contratto per renderlo aderente ai principi fondamentali dell’ordinamento). Questo perché, normalmente, l’integrazione eteronoma del contenuto del contratto ha carattere suppletivo e solo in via eccezionale, ove espressamente previsto dalla legge, ha carattere imperativo (artt. 1339 e 1419, 2, c.c.).
    Da ciò emerge che il contratto vincola le parti agli effetti dalle stesse programmati ma anche a quanto inderogabilmente previsto dalla legge.
    Ferma restando la generica accezione di effetto quale risvolto dinamico del fatto, gli effetti del contratto possono essere intesi come l’influenza del contratto stesso sul rapporto, fonte di diritti e di doveri e come modifica della situazione esistente. Dunque, quanto agli effetti che derivano dal contratto per volontà delle parti, nel rispetto delle previsioni ordinamentali, essi sono esplicazione del potere costitutivo, regolatorio o estintivo di cui all’art. 1321 c.c. Il primo fa riferimento al potere di dare origine a situazioni giuridiche soggettive tutelate dall’ordinamento ed è ammesso con riferimento ai diritti reali e ai diritti di credito. Il potere regolatorio si esplica attraverso una modifica della situazione o del rapporto preesistente, che può consistere in una variazione soggettiva (può mutare il titolare del diritto, reale o di credito, o il titolare della situazione di obbligo) o in una variazione oggettiva (possono mutare l’oggetto del diritto o le sue modalità di esercizio). Quanto alla funzione estintiva, essa è generalmente ammessa per i rapporti obbligatori ma negata con riferimento ai diritti reali, perché la legge riconduce l’estinzione di questi ultimi a vicende di natura perlopiù fattuale e non contrattuale.
    Per concludere, fermo questo potere riconosciuto in generale all’autonomia privata, di incidere sul contenuto e sugli effetti del contratto, non va negato il ruolo della norma giuridica nella sua capacità di incidere e sul primo aspetto e sul secondo, considerato anche l’art. 1372, 1, c.c. che sancisce il principio della forza di legge del contratto tra le parti. Tale principio ha una ratio etica, fondata su quello del pacta sunt servanda (una volta assunto un impegno, vi si deve prestare fede e sopportarne le conseguenze) ma ha anche una ratio giuridica, fondata sulla funzione sociale di organizzazione e regolazione dei rapporti economici e sociali. Da ciò deriva che il vincolo contrattuale sopravvive all’eventuale ripensamento sopravenuto di una delle parti che, di norma, non può modificare unilateralmente il contenuto del regolamento contrattuale, se non nei limiti in cui tale facoltà gli sia concessa dal contratto stesso o dalla legge e salva l’irretrattabilità degli effetti già prodotti.
    Un ruolo alla legge ma anche all’autonomia privata, infine, va riconosciuto in punto di efficacia del contratto, intesa come sua attitudine a produrre effetti giuridici. Condizione necessaria dell’efficacia del contratto è la sua vincolatività ma essa non è sufficiente, dal momento che, una volta che le parti abbiano validamente concluso un contratto, sono ad esso vincolate ma non necessariamente esso è idoneo ad esplicare effetti (come nel caso di contratto sottoposto a condizione sospensiva o concluso dal falsus procurator). Allo stesso modo, l’inefficacia del contratto non esclude la sua vincolatività, essendo le parti esposte ai possibili futuri effetti di esso. Sull’efficacia del contratto può incidere la volontà privata (che può escluderla, ancora nell’esempio del contratto condizionato o di simulazione, almeno, in quest’ultimo caso, per una ricostruzione del fenomeno simulatorio) ma anche la volontà della legge, sotto forma di prescrizione del paradigma legale del contratto che le parti devono rispettare per non incorrere in un vizio strutturale dello stesso.

    GIUDIZIO: 15. La traccia è svolta con spirito critico e dimostra una buona padronanza dei principi generali e delle figure dogmatiche oggetto di trattazione, nonché una notevole capacità di relazionare tra di loro le categorie. Particolarmente degno di nota è la comprensione della differenza del piano effettuale da quella della vincolatività delle fattispecie giuridiche in analisi.
    Il lessico utilizzato nella stesura della traccia è chiaro e lineare, la lettura piacevole e scorrevole, non si ravvisano particolari imprecisioni.


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    3) Premessi adeguati cenni sulla differenza intercorrente tra atti, fatti, promesse, negozi e contratti, tratti il candidato del ruolo della autonomia privata nelle fattispecie indicate con particolare riguardo al piano effettuale nonché del problema della vincolatività degli stessi.


    La realtà materiale subisce continue modificazioni che, in base al principio di causa-effetto, costituiscono la conseguenza di un fatto.
    Con il termine “fatto” si intende genericamente qualsiasi accadimento idoneo ad incidere sul reale. Tuttavia, non tutti i fatti assumono rilievo per il diritto, ma soltanto quelli che il legislatore considera meritevoli di interesse e a cui ricollega conseguenze rilevanti per il diritto stesso: tali fatti vanno sotto il nome di fatti giuridici e ricomprendono qualsiasi fatto naturale o umano cui la legge collega al loro prodursi determinati effetti.
    Se dal punto di vista materiale, da ciascun fatto deriva una conseguenza, dal punto di vista giuridico non sempre al verificarsi di un fatto la norma vi ricollega un effetto giuridico, essendo talvolta necessaria la presenza di più fatti: si distingue a tal proposito, tra fattispecie semplice, se ai fini della produzione degli effetti è sufficiente il verificarsi di un unico fatto naturalisticamente inteso e di fattispecie complessa se per la produzione degli effetti giuridici è necessaria la verificazione di più avvenimenti, come nel caso dell’usucapione abbreviata, laddove l’effetto tipico si produce solo al verificarsi di tutti i fatti contemplati dalla norma.
    Le conseguenze che la disposizione riconduce al realizzarsi dell’accadimento in essa previsto, ovvero gli effetti, sono da individuare nella nascita, modificazione o estinzione di situazioni giuridiche soggettive. Il meccanismo di produzione degli effetti giuridici non è sempre analogo in tutti i fatti giuridici, potendo in alcuni casi ricondursi alla legge, in altri all’autonomia privata, ovvero a quel potere di autodeterminazione del soggetto di decidere della propria sfera giuridica.
    In altri termini, deve indagarsi se la possibilità di incidere sulle situazioni giuridiche soggettive spetti solo ai fatti enucleati dalla legge o se tale possibilità sia riconosciuta anche all’autonomia privata; più a monte, si deve verificare se la stessa autonomia privata possa escludere la vincolatività di un dato rapporto giuridico o se tale possibilità sia riservata solo alla legge. Per compiere tale indagine, va preliminarmente detto che i concetti di vincolatività ed efficacia, sebbene per taluni fatti giuridici la differenza venga ad appiattirsi, vanno comunque tenuti distinti, indicando il primo l’obbligo per il soggetto di tenere un dato comportamento o subire le conseguenze derivanti dal fatto, mentre l’efficacia indica la produzione di conseguenze sulla sfera giuridica del soggetto.
    Tali distinzioni devono essere applicate ai fatti giuridici che possono essere suddivisi in varie sottocategorie, enucleate dalla dottrina, ciascuna delle quali rispondente a differenti caratteristiche.
    La dottrina tradizionale adotta come distinzione fondamentale quella tra fatti giuridici in senso stretto e atti giuridici, ritenendo che la distinzione tra le due categorie risieda nella mancata partecipazione dell’uomo nella realizzazione degli eventi, presente invece nei secondi.
    Tale distinzione non tiene tuttavia in considerazione che, se indubbiamente la maggior parte dei fatti giuridici in senso stretto sono costituiti da fatti naturali, come l’alluvione o il terremoto che assumono rilievo di per sé, in quanto il diritto vi ricollega determinati effetti a prescindere da qualsiasi altro accertamento, nel concetto di fatto giuridico in senso stretto sono da ricondurvi anche taluni fatti umani, laddove il comportamento rilevi come mero presupposto di effetti giuridici, come può essere la morte di un uomo, che anche laddove derivi da suicidio, quindi implicante la volontà, rimane pur sempre un fatto, da cui l’ordinamento fa derivare una serie di conseguenze che prescindono dal volere dell’uomo.
    Si impone pertanto la ricerca di un criterio che permetta di distinguere tali categorie. Esso deve ravvisarsi nella rilevanza o meno che la coscienza e la volontà dell’agente assumono ai fini della produzione degli effetti giuridici. La coscienza indica la consapevolezza che il soggetto ha di sé e del mondo esterno, necessaria al fine di poter imputare all’uomo le conseguenze dell’atto stesso, la volontà la capacità di decidere liberamente del proprio comportamento in vista di uno scopo: queste due caratteristiche compongono la capacità di intendere e di volere, che rimane irrilevante in presenza di un fatto giuridico, mentre assume importanza in presenza di un atto giuridico.
    Invero, nel fatto giuridico in senso stretto, ciò che rileva è l’accadimento, sia esso dovuto alla natura o all’uomo, rimanendo irrilevante la presenza o meno della capacità naturale, in quanto la produzione degli effetti è già predeterminata dalla legge al verificarsi del fenomeno. Da quanto detto, emerge che l’autonomia privata non entra nemmeno in gioco al cospetto di fatti giuridici in senso stretto, spettando esclusivamente alla legge stabilire in che termini un certo fatto (rectius: fatto giuridico in senso stretto) vincoli il soggetto e quali modifiche produce nella sua sfera giuridica.
    Al contrario, quando per la produzione degli effetti giuridici si richiede la volontarietà del comportamento, si ha un atto giuridico, in cui si ricomprendono sia gli atti leciti che illeciti (cfr. artt. 428 e 2046 cc.). Nell’ambito degli atti giuridici si deve ulteriormente distinguere l’ipotesi in cui la volontarietà investe solo l’atto, mentre gli effetti giuridici possono essere solo quelli tipici, previsti dalla legge e quella in cui la volontarietà concerne anche la produzione degli effetti: si parla rispettivamente di atti giuridici in senso stretto e di negozi giuridici. Nel primo caso, il soggetto decide liberamente di vincolarsi ad un dato atto, per cui è richiesta la sola capacità di intendere e di volere, salvo diversa disciplina prevista dalla legge, mentre non ha alcun ruolo nella produzione degli effetti, rimessi alla legge. In tal senso, l’autonomia privata rileva solo nella scelta del mezzo offerto dall’ordinamento giuridico.
    E’ invece in relazione alla categoria dei negozi giuridici che l’autonomia privata assume importanza anche per la produzione degli effetti. Attraverso il negozio giuridico il soggetto ha infatti la possibilità di creare la regola per la disciplina dei propri interessi e di vincolarsi e vincolare al rispetto della stessa. Proprio in virtù della funzione riconosciuta a tale strumento, si richiede non solo che l’atto sia voluto, ma che sia posto in essere dal soggetto dotato di capacità legale di agire e che non sia stato posto in essere in presenza di un vizio del volere. Nel caso in cui la dichiarazione del soggetto non risulti conforme all’interno volere, il nostro codice sembra accogliere la teoria della volontà temperata dal criterio dell’affidamento, tale per cui la dichiarazione difforme dall’interno volere prevale se si è creato un affidamento incolpevole in capo agli altri individui, con la conseguenza che il negozio rimane vincolante.
    Si deve tuttavia precisare che l’autonomia privata, seppur gode di un ampio spazio di manovra, non esclude la presenza della legge; in primo luogo, è la norma di legge che autorizza il potere negoziale a creare l’effetto giuridico, è cioè l’ordinamento che conferisce ai privati il potere di creare la regola della fattispecie. In secondo luogo, la volontà dei privati deve pur sempre muoversi nell’ambito della struttura stabilita dalla legge, ovvero degli elementi richiesti dalla legge per poter qualificare come tale lo schema negoziale a livello di fattispecie. Pertanto, l’autonomia negoziale opera nel senso di fissare la regola che disciplina gli interessi perseguiti dalle parti, sempre che talvolta non sia lo stesso ordinamento che interviene a fissare alcune regole che possono essere imperative, quindi non derogabili dai privati, mentre in altri casi possono essere derogate dai medesimi.
    La categoria dei negozi giuridici è molto ampia ed è passibile di differenti classificazioni: dal punto di vista della natura degli interessi si distinguono negozi che perseguono interessi patrimoniali e interessi di natura personale (come ad esempio il matrimonio), mentre dal punto di vista della struttura si individuano negozi unilaterali, che si perfezionano con la dichiarazione di una sola parte e negozi bilaterali o plurilaterali, se le dichiarazioni che integrano il negozio provengono da due o più parti.
    Il negozio bilaterale o plurilaterale a contenuto patrimoniale è il contratto, atto nel quale trova massima espressione l’autonomia negoziale. Attraverso l’accordo, le parti possono disciplinare i loro interessi e realizzare lo scopo prefissato. Proprio in relazione al contratto, è possibile individuare con maggiore chiarezza la distinzione tra vincolatività ed efficacia. Invero, una volta che il contratto abbia tutti gli elementi previsti dalla legge necessari per poterlo qualificare come tale (richiesti dall’art.1325 cc.), il contratto vincola le parti a tenere il comportamento fissato nel regolamento contrattuale; tuttavia, non è detto che esso sia anche efficace, cioè sia idoneo a produrre effetti. Nello specifico, si deve distinguere tra inefficacia provvisoria, come nel caso di contratto sottoposto a condizione sospensiva, la quale sospende gli effetti del contratto ma non ne esclude la vincolatività, dall’inefficacia definitiva, la quale esclude la vincolatività, in quanto detto contratto non potrà mai essere portato ad esecuzione.
    In questo ambito l’autonomia delle parti è così ampia tanto che le stesse parti possono giungere ad escludere la giuridicità di un rapporto che, in assenza di una manifestazione di volontà in tal senso, sarebbe giuridicamente vincolante: si pensi ai gentlemen agreement’s, in cui le parti, attraverso un intento giuridico negativo, escludono che dall’atto sorgano obblighi giuridicamente vincolanti. Tali patti tra gentiluomini devono invece essere tenuti distinti dai rapporti di cortesia, per i quali, la mancata rilevanza giuridica deve essere rinvenuta non tanto nella volontà delle parti, quanto nella mancanza di una “causa contrattuale” e nella presenza di una causa solidaristica, che contrasta con la vincolatività giuridica.
    L’autonomia privata può inoltre, ai sensi dell’art. 1322 c.c., prevedere dei contratti atipici, che non appartengono ai tipi per i quali il codice accorda una disciplina particolare, con il limite del perseguimento di interessi meritevoli di tutela per l’ordinamento giuridico.
    Nell’ambito degli spazi riservati all’autonomia privata, ci si deve tuttavia chiedere se detto potere possa anche dar vita a negozi unilaterali atipici, in virtù del richiamo dell’art. 1324 c.c. alla disciplina generale del contratto, utilizzabile anche per i negozi unilaterali in quanto compatibile, e quindi, se possa applicarsi anche l’art. 1322 c.c. Per i negozi unilaterali il discorso si complica, in quanto mentre per i contratti l’ampio spazio lasciato all’autonomia privata si giustifica in virtù dell’accordo tra le parti, cosicchè le modificazioni della loro sfera giuridica costituiscono il frutto della loro volontà, nel negozio giuridico manca tale volontà, per cui si realizzerebbe una non autorizzata intromissione nella sfera giuridica del terzo, in violazione del principio di intangibilità della sfera giuridica altrui. Sul versante normativo, l’impostazione troverebbe conferma nell’art. 1987 c.c., che sancendo la nominatività delle promesse unilaterali, affermerebbe il principio della necessaria tipicità dei negozi unilaterali.
    Tali rilievi sono stati tuttavia superati dalla giurisprudenza, la quale osserva come il principio dell’intangibilità della sfera giuridica in primo luogo è limitato ai soli effetti favorevoli ed inoltre, è sempre prevista la possibilità di rifiutare tale ingerenza. Si osserva altresì che l’art. 1987 c.c. non è espressione di un principio generale, non essendoci perfetta coincidenza tra promesse unilaterali e negozi unilaterali, riguardando tale disposizione solo i negozi unilaterali astratti ad effetti obbligatori. Pertanto, in assenza di norme idonee a giustificare una compromissione dell’autonomia negoziale, devono ammettersi anche i negozi unilaterali atipici. Quale ulteriore fondamento di tale affermazione vi sarebbe poi anche l’art. 1333 c.c., il quale, secondo taluni (che negano la configurabilità dello stesso quale contratto), avrebbe introdotto nel nostro ordinamento un’ipotesi di negozio unilaterale atipico, ammissibile in quanto esso produca un effetto favorevole nella sfera giuridica del destinatario e facendo sempre salva la possibilità di rifiuto.
    Come sopra accennato, rientrano tra i negozi unilaterali anche le promesse unilaterali, di cui all’art. 1987 c.c., nelle quali un soggetto promette una determinata prestazione ad un altro soggetto e si vincola senza che sia necessaria l’accettazione del destinatario. Partendo da questa disposizione, la dottrina tradizionale è giunta a ritenere la tipicità delle promesse unilaterali, in ossequio alla centralità del consenso, per cui la proposta di contratto unilaterale non può essere da sola idonea a produrre effetti obbligatori al di fuori dei casi previsti dalla legge; senza considerare che ciò determinerebbe un’indebita ingerenza nella sfera giuridica del terzo.
    Tali obiezioni devono tuttavia oggi ritenersi superate dalla considerazione per cui non vi è alcun motivo per negare che una fattispecie diversa dal contratto, laddove emerga una seria volontà di obbligarsi, non possa generare un effetto obbligatorio, sempre che venga superato il vaglio di meritevolezza sancito dall’art. 1322 c.c. D’altro canto, anche l’intangibilità della sfera del terzo viene superata, purchè questo comporti degli effetti favorevoli per il terzo e fatta sempre salva la possibilità di rifiuto. In questo senso si pone lo stesso art. 1333 c.c. che, come sopra affermato, costituisce per i più, un negozio unilaterale per il quale è ammesso il rifiuto.
    Nell’ambito delle promesse tipizzate, vengono in rilievo i titoli di credito, la promessa di pagamento e la ricognizione di debito di cui all’art. 1988 c.c., il cui unico effetto è quello invertire l’onere della prova fra creditore e debitore; la promessa al pubblico, di cui all’art. 1989, che ha ad oggetto l’esecuzione, da parte del promittente, di una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una data azione. In relazione a quest’ultima promessa, si pongono dubbi circa il momento a partire dal quale il promittente può dirsi vincolato; la risposta varia a seconda della risoluzione che si dà al problema della sua natura giuridica. Se si ritiene che la promessa al pubblico configuri un negozio unilaterale, il promittente è vincolato non appena la promessa è resa pubblica e l’effetto che produce è la sua irrevocabilità, salvo giusta causa ex art. 1990 c.c. Se alla promessa si attribuisce natura contrattuale, la promessa equivarrebbe a proposta e solo con la comunicazione si avrebbe la vincolatività.
    Nell’ambito del codice civile, sono presenti ulteriori ipotesi di promessa, tra cui vanno menzionate la promessa del fatto del terzo, disciplinata dall’art. 1381c.c. e la promessa di matrimonio di cui all’art. 79 c.c. Quanto alla prima, va precisato che la promessa vincola solo le parti e non il terzo, che risulta esterno al rapporto. Quanto al momento in cui sorge la vincolatività per le parti, vi è chi rinviene natura contrattuale nella promessa, per cui l’accordo è raggiunto ed è vincolante nel momento in cui il promissario accetta la promessa, mentre altri ritengono che la promessa sia vincolante per il solo promittente che si impegna ad adoperarsi affinché il terzo si obblighi a fare ciò che il promittente stesso ha promesso.
    Quanto alla promessa di matrimonio, essa deve qualificarsi come un atto giuridico in senso stretto, in quanto l’azione umana rappresenta il presupposto per il verificarsi degli effetti stabiliti dalla legge. Essa non vincola i soggetti a contrarre matrimonio in quanto si vuole proteggere la libertà matrimoniale; la legge fa discendere come effetto derivante dal mancato adempimento della promessa l’obbligo di risarcire i danni.
    Da questo breve excursus, è possibile evincersi come la differente qualificazione che si intende dare ad un fatto giuridico comporta risvolti pratici di rilievo, sia per quanto concerne il profilo negoziale, relativamente alla vincolatività e all’efficacia dei fatti stessi, sia per quanto riguarda il profilo processuale. Premessa la non facile qualificazione di un fatto giuridico come fatto giuridico in senso stretto o come atto giuridico, si deve considerare che talvolta uno stesso fatto giuridico può talvolta configurarsi come atto giuridico, in altri come mero fatto, a seconda del diverso contesto in cui si inserisce. Si prenda ad esempio il fatto del terzo: esso può essere identificato dalla prestazione del consenso negoziale ma costituisce un mero fatto giuridico in relazione al rapporto intercorrente tra promittente o promissario. Tali diversità vanno poi a ripercuotersi in ambito processuale: si pensi ad esempio alle limitazioni previste dall’art. 2725 c.c. in materia di prova testimoniale circa l’esistenza di un negozio giuridico: la norma trova applicazione solo quando l’atto viene in rilievo come vincolo negoziale, non quando esso viene in rilievo come mero fato storico che incide sulla definizione della controversia.

    Giudizio: 15++

    La trattazione della traccia è nettamente superiore alla sufficienza, il ragionamento giuridico e la combinazione tra le diverse categorie appare eccellente.
    Degno di nota è lo sforzo del candidato di scindere il binomio efficacia e vincolatività come implicitamente richiedeva la traccia. Nonché nell'individuare la fonte degli effetti della fattispecie oggetto del tema.
    Per una votazione maggiore sarebbe stato opportuno sviluppare maggiormente la tematica delle promesse, nonché un accenno al ruolo del giudice nella categorie in esame; tale ultima capacità è di solito molto gradita dalla Commissione.
    Sotto il profilo lessicale non si ravvisano particolari irregolarità, il linguaggio giuridico è correttamente impiegato. Semmai sarebbe stato utile una maggiore chiarezza espositiva circa la differenza tra fatti e atti.

     
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    presto arriveranno anche le correzioni per amministrativo
     
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    dovreste aver ricevuto tutti le correzioni.

    per amministrativo non ci sono state sufficienze, ho chiesto al commissario se, però, può pubblicare almeno uno schema dee temi, per far caomprendere come andava svolto.
    alcuni hanno chiesto una valutazione motivata...ho girato la vostra richiesta al magistrato che ha corretto i compiti.
    il problema non sorge per pttobre, dato che qualcuno ha già preso più della sufficienza.

    buono studio,
    togas
     
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    CITAZIONE (togasana @ 12/10/2012, 16:46) 
    dovreste aver ricevuto tutti le correzioni.

    per amministrativo non ci sono state sufficienze, ho chiesto al commissario se, però, può pubblicare almeno uno schema dee temi, per far caomprendere come andava svolto.
    alcuni hanno chiesto una valutazione motivata...ho girato la vostra richiesta al magistrato che ha corretto i compiti.
    il problema non sorge per pttobre, dato che qualcuno ha già preso più della sufficienza.

    buono studio,
    togas

    mi correggo...
    c'era sfuggito un tema. lo pubblico in quanto è stato il solo a prendere al sufficienza.
    per il resto rinvio al messaggio quotato :)

    Tema in diritto amministrativo

    I comportamenti amministrativi ed i comportamenti meri. Il candidato si soffermi, in perticolare, sui profili inerenti il riparto di giurisdizione.

    La differenziazione nel nostro ordinamento tra comportamenti meri e comportamenti amministrativi riveste una particolare importanza ai fini del riparto della giurisdizione tra G.A. e G.O.
    È definibile comportamento amministrativo quello che intercetta l’esercizio del potere pubblico e che quindi si svolge in virtù di tale potere, mentre il mero comportamento è quello che la P.A. tiene nei rapporti paritetici, dunque quando la stessa agisce come un qualsiasi soggetto di diritto.
    Come sappiamo il dlgs 80/1998 ha avuto il pregio di potenziare la figura del G.A., concedendogli non solo la facoltà di occuparsi anche dei diritti patrimoniali consequenziali quando esercita la GE, materia prima sottratta alla sua competenza, ma attribuendogli anche G.E. in determinate materie piuttosto corpose (edilizia, servizi pubblici e urbanistica); in tal modo la giuridizione esclusiva è divenuta una giurisdizione piena, potendo il giudice dispensare ogni forma di tutela, ivi compresa quella risarcitoria, un tempo spettante al solo G.O.
    Gli art 33, 34 e 35 del suddetto dlgs hanno avuto una storia piuttosto travagliata, infatti sugli stessi si sono espressi in più occasione diversi organi giurisdizionali.
    Il Consiglio di Stato, con pronuncia Ad.Pl. 1/2000, ha ritenuto che queste disposizioni fossero pienamente rispettose delle indicazioni fornite dall’art. 103 Cost, ai sensi del quale: “il Consiglio di stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della PA degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi”. Quindi si sosteneva che il legislatore fosse libero di individuare le materie da sottoporre alla G.E. del G.A.
    Viceversa la questione è stata risolta in modo completamente diverso dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 204/2004, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli sopracitati ed ha provveduto alla loro riformulazione.
    Si è infatti sostenuto che un riparto di giurisdizione basato su blocchi di materie non può avere cittadinanza all’interno del nostro ordinamento giuridico che si basa invece sul criterio delimitativo della causa petendi e cioè la tutela viene erogata dall’uno o dall’altro plesso giurisdizionale, sulla base della tipologia di posizione giuridica configurabile nella richiesta della parte e laddove vi sia la presenza di un potere pubblico autoritativo: è necessario che nella controversia conosciuta dal G.A. sia in discussione l’esercizio del potere, le modalità con cui l’amministrazione esercita il potere.
    Tale sentenza pone all’attenzione del dibattito dottrinale e giurisprudenziale la non agevole problematica della identificazione della nozione di comportamento e sostiene che mai il G.A. possa conoscere controversie nelle quali non sia in discussione il potere, ma il mero comportamento dell’amministrazione.
    Con riferimento poi all’art. 34, tale norma è stata tacciata di incompletezza laddove non provvedeva a differenziare i comportamenti amministrativi dai meri comportamenti, si affermava che il G.A. possa conoscere solo delle modalità con cui sia stato esercitato il potere, mentre le controversie involgenti comportamenti dovevano essere conosciute dal G.O.
    Quindi la sentenza 204/2004 esclude i comportamenti dall’ambito cognitorio del G.A. e conseguentemente esclude anche le domande risarcitorie aventi ad oggetto i danni da comportamento, ma non spiega cosa sia il comportamento.
    Successivamente dottrina e giurisprudenza iniziano a delineare la differenza tra meri comportamenti e comportamenti amministrativi.
    Sulla stessa scia si colloca un’altra sentenza della Corte Costituzionale, la 191/2006 che, con riferimento all’art. 53 T.U.E., che riproponeva il riferimento ai comportamenti nella materia espropriativa, chiarisce che nelle ipotesi in cui i comportamenti che causano un danno, siano esercizio, anche se viziato da illegittimità, della funzione pubblica, la previsione di una giurisdizione del G.A. risulta pienamente legittima, ciò poiché il comportamento è strettamente connesso e riconducibile al potere.
    Tale sentenza chiarisce che non tutti i comportamenti vanno sottratti al vaglio del G.A., ma solo quei comportamenti che con il potere non hanno nulla a che fare, non invece i comportamenti “mediatamente” legati all’esercizio del potere.
    La Consulta ha dunque eliminato dagli art 34 e 53 il riferimento ai “comportamenti” tout court, poiché ciò comportava la devoluzione alla G.E. del G.A. di questioni prive di collegamenti con l’agere pubblicistico, lasciando invece fermo il riferimento ai comportamenti amministrativi, che costituiscono espressione del potere pubblico.
    Dunque il G.A. dovrà conoscere i comportamenti esercizio di potere pubblico, come per es. in caso di scorretta gestione del procedimento, ritardo nella definizione del procedimento, cattivo o mancato esercizio del potere di vigilanza, etc.
    Entrambe le sentenze hanno dunque il merito di fornire una nuova visione secondo la quale l’atto amministrativo non è l’unica forma di espressione del potere, quest’ultimo infatti può esercitarsi anche attraverso i comportamenti amministrativi, infatti è essenziale che la P.A. eserciti il potere, non che lo faccia con l’adozione di provvedimenti formali.
    È quindi necessario distinguere tra comportamenti meri che la P.A. tiene come soggetto di diritto comune di pertinenza del G.O. e comportamenti amministrativi con cui la P.A. esercita il potere con comportamenti riconducibili alla sua veste di autorità pubblica, attratti al G.A. specie in sede esclusiva.
    L’importanza della differenziazione tra meri comportamenti e comportamenti amministrativi viene rimarcata anche da una pronuncia SS.UU. 2010 laddove viene sottolineato che addirittura tale differenziazione potrebbe dirsi che costituisca il discrimen per radicare la giurisdizione, prendendo il posto del criterio che si basa sulla differenza tra diritti soggettivi ed interessi legittimi.
    Dobbiamo quindi distinguere i tipi di comportamento: in primo luogo vanno escluse dal novero dei comportamenti amministrativi le condotte che la P.A. tenga nell’esercizio di poteri privatistici che le competono come datore di lavoro, creditore, contraente e socio.
    In questi casi, infatti, la P.A. agisce come un soggetto di diritto comune, nel caso in cui abusi di poteri privatistici si configurerà una posizione di diritto soggettivo al rispetto dei canoni di buona fede e di tutela dell’affidamento.
    Invece il provvedimento nullo ex 21 septies L.241/90 deve reputarsi esercizio del potere, ancorchè gravemente malato, quindi rientrano nella G.E. del G.A. sia gli atti nulli che i comportamenti finalizzati alla relativa esecuzione.
    Per quanto concerne l’atto adottato in carenza di potere in astratto, cioè laddove manchi una norma attributiva del potere, questo deve considerarsi inesistente e quindi il comportamento che ne da esecuzione o il comportamento sottostante non è riconducibile all’esercizio di un potere amministrativo, dunque è classificabile come mero comportamento.
    Con riferimento all’atto adottato in carenza di potere in concreto non c’è unanimità di vedute tra Cassazione e Consiglio di Stato: secondo la prima si tratterebbe di un provvedimento non riconducibile all’esercizio di un potere amministrativo, secondo il Consiglio di Stato l’atto sarebbe riconducibile all’esercizio di un potere amministrativo e quindi ben potrebbe configurare la G.E. del G.A.
    Tuttavia per superare le difficoltà relative all’individuazione dei comportamenti, si è detto che non è sufficiente una visione atomistica cioè limitata al singolo provvedimento o al singolo atto, ma occorre una visione sintetica, così come sostenuto dal Consiglio di Stato, dunque secondo tale impostazione costituiscono comportamenti amministrativi, non solo quelli scaturenti dall’atto nullo, ma anche dall’atto annullato, quando l’annullamento da parte del G.A. ha effetto ex tunc, cioè quando l’atto viene eliminato dal mondo giuridico con efficacia retroattiva.
    Inoltre è attratta alla G.E. del G.A. anche la cognizione dei diritti fondamentali o inaffievolibili, infatti il fatto che, a fronte di tali diritti, la P.A. non abbia il potere di degradazione, non toglie che i relativi atti siano adottati dalla P.A. nella veste di autorità in un rapporto di diritto pubblico.
    Il problema della giurisdizione relativamente all’esercizio del potere, emerge in particolare con riferimento all’occupazione appropriativa ed usurpativa soprattutto per quanto attiene ai profili risarcitori.
    Il procedimento di esproprio si sviluppa in questi termini: l’amministrazione appone il vincolo preordinato all’esproprio, adotta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e poi adotta il provvedimento d’esproprio.
    L’occupazione usurpativa si caratterizza per il fatto che l’amministrazione non adotta la dichiarazione di pubblica utilità, ma occupa direttamente il suolo e lo trasforma, accampando la pretesa dell’acquisizione dello stesso. Questo accade sulla base del fenomeno della cd.occupazione acquisitiva così come delineata dalle SS.UU. del 1983: quando l’amministrazione occupa il suolo del privato e sullo stesso inizia la realizzazione dell’opera pubblica, determinando la cd. trasformazione irreversibile del fondo stesso,anche laddove l’amministrazione non porti a compimento la procedura di esproprio, il privato avrà comunque perso il suolo a causa dell’avvenuta trasformazione irreversibile dello stesso.
    L’occupazione usurpativa si distingue poi in pura e spuria: nella prima mancano sia la dichiarazione di pubblica utilità che il provvedimento a valle, nella seconda la dichiarazione di pubblica utilità è adottata dall’amministrazione, ma il privato la impugna e ne ottiene l’annullamento giurisdizionale.
    Nelle more però l’amministrazione occupa il suolo e lo trasforma irreversibilmente realizzando l’opera, dopo di che interviene l’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità.
    La domanda sulla controversia risarcitoria avente ad oggetto il danno nel caso di usurpativa pura andrà indirizzata al G.O.,poiché in tal caso si è sostenuto che il danno scaturisca da un comportamento che non è legato all’esercizio del potere. Infatti l’esercizio del potere in tal caso non c’è mai stato, non essendosi mai quel comportamento manifestato nella dichiarazione di pubblica utilità.
    Nell’ipotesi dell’occupazione spuria invece il potere c’è stato perché l’amministrazione ha adottato la dichiarazione di pubblica utilità, sicchè il comportamento che cagiona il danno al privato è mediatamente legato all’esercizio del potere. Tuttavia il provvedimento che radica l’esercizio del potere, è annullato con sentenza del G.A. che produce effetti ex tunc, che lo cancella dal mondo giuridico, come se non ci fosse mai stato.
    La giurisprudenza, in tal caso, tendenzialmente conclude nel senso dell’appartenenza della giurisdizione al G.A. sostenendo che il dato formale della successiva caducazione con efficacia ex tunc, non fa venir meno il dato sostanziale dell’esistenza del provvedimento nel momento in cui il comportamento è stato posto in essere.
    Nell’occupazione appropriativa, invece accade che l’amministrazione, dopo aver adottato la dichiarazione di pubblica utilità, non adotta il provvedimento di esproprio nel termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità che quindi perde efficacia ex tunc. In questa fattispecie si registra uno scontro interpretativo tra consiglio di Stato e Sezioni Unite.
    Il Consiglio di Stato, cogliendo una analogia profonda con l’ipotesi dell’occupazione usurpativa spuria, sostiene che venga anche in tale fattispecie in rilievo un comportamento mediatamente legato all’esercizio del potere e quindi la competenza spetterebbe al G.A. perché prevarrebbe il dato sostanziale del legame tra comportamento e provvedimento, sul dato formale dell’inefficacia retroattiva di quel provvedimento in conseguenza della mancata adozione del decreto di esproprio.
    Invece le SS.UU. ritengono che laddove il provvedimento dichiarativo di pubblica utilità perda efficacia ex tunc è come se lo stesso non ci fosse mai stato e quindi il comportamento tenuto dall’amministrazione sarebbe slegato dall’esercizio del potere e quindi conoscibile dal G.O.
    La conclusione delle SS.UU. in realtà non convince soprattutto per la incomprensibile diversità degli esiti rispetto a quanto detto per l’occupazione usurpativa spuria.
    Il criterio di riparto quale si evince dalle norme richiamate e dalla giurisprudenza costituzionale, risulta oggi recepito dal codice del processo amministrativo che all’art. 7 primo comma statuisce che: “sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e nelle particolari materie indicate dalla legge di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni.”
    Va sottolineato come i comportamenti siano stati menzionati nel primo comma relativo alla giurisdizione esclusiva del G.A., ma non nel quarto comma concernente l’area della giurisdizione generale di legittimità, ciò probabilmente è indice della volontà del legislatore di disciplinare in modo esplicito i soli comportamenti che presentano una correlazione più marcata con il potere amministrativo.
    Valutazione complessiva: 12

    Singole voci:

    a) aderenza alla traccia: sufficiente

    b) completezza contenutistica: sufficiente

    c) livello di approfondimento: sufficiente

    d) forma: sufficiente


    ********
    per qualsiasi richiesta potete scrivere anche qui, così i commissari potranno leggere direttamente le vostre richieste :)
    (io le giro così come me le inviate, però se le chiedete direttamente -magari anche via pvt -vi rispndono ;) ).
    buona serata
    togas
     
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7 replies since 3/9/2012, 11:17   1984 views
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