Tracce corso 2013/2014

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    QUAGLIA

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    Dall'isola dei bimbi sperduti. Qualcuno ha visto mt?

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    Ragazzi scusate, questo mese sono un po' indietro domani posto e nuovi temi e in settimana finisco i temi sul condominio,promesso! Per pollodigomma, sicuro di non aver ricevuto il tema sul trust? Puoi rinviarlo?
     
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    QUAGLIA

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    Dall'isola dei bimbi sperduti. Qualcuno ha visto mt?

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    Tracce per Dicembre.
    1. Le sopravvenienze contrattuali: la rinegoziazione del contratto e il ruolo della presupposizione, anche alla luce della teoria della causa in concreto.
    2. Premessi brevi cenni sulla condizione, tratti il candidato della condizione di inadempimento e del rapporto con la clausola risolutiva espressa.
    3. Adempimento traslativo e contratto preliminare, con particolare riferimento alla possibilità di azione revocatoria.
     
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  3. RaveRod80
     
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    TEMA DIRITTO AMMINISTRATIVO

    "Diritti fondamentali e riparto di giurisdizione"

    Questo mese propongo anche una seconda traccia visto che il 25 novembre è stata pubblicata una sentenza molto interessante (Cass. SS.UU. 26283/2013) in tema di responsabilità degli amministratori delle società partecipate.

    "Profili di responsabilità degli amministratori delle società partecipate e riparto di giurisdizione"
     
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  4. Vica83
     
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    Posto questa mia domanda/perplessità su autorizzazione di Togasana.

    Nel tema da Lei assegnato "rilevanza dei comportamenti nel diritto civile" io avrei preso in considerazione (oltre i rifermenti posti dal collega) la norme sul comportamento secondo buona fede e correttezza ex art. 1175 c.c..
    Avrei distinto i comportamenti cui il legislatore ha attribuito rilevanza tacita (a volte equivoca) ed i comportamenti che, invece, sono previsti esplicitamente; in merito a questi ultimi avrei parlato del campo delle obbligazione e contratti in generale e della rilevanza del comportamento ex art. 1175 c.c..

    Avrei accennato anche alla rilevanza del comportamento in sede di interpretazione contrattuale; spiego meglio la mia idea.
    Allorquando sorge dubbio circa l' interpretazione di un accordo e del significato che le parti hanno inteso attribuire allo stesso, il giudice non può non tenere conto del comportamento che queste hanno assunto (art. 1362 c.c. e 1369 c.c.).

    Se una parte utilizza un' espressione che si presta ad essere equivocata ed al contempo il comportamento che la medesima tiene chiarisce l'equivocabilità della dichiarazione espressa, non si può trascurarne la rilevanza.

    Il rappresentante pone in essere un affare che eccede i limiti della procura (1389 c.c.); il rappresentato dapprima, nel valutare la convenienza e l' utilità dell'affare concluso in eccesso dei limiti suddetti, dichiara di non voler ratificare. Il rappresentante ed il terzo sviluppano delle trattative per sciogliere l' accordo (1399, 2° comma c.c.). In seguito, però, il rappresentato cambia idea e ratifica il contratto (dando ad esempio esecuzione senza previa comunicazione).

    Le due ipotesi sulla buona fede e sull' interpretazione, poste in questi termini, sono fuori logica??

    Non so se ho reso l' idea e se l' idea è un po' contorta...ma se non l' avessi comunicata, di sicuro, non avrei ottenuto un chiarimento!!
     
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  5. RaveRod80
     
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    Ciao a tutti, solo per scusarmi del ritardo nella correzione degli elaborati di amministrativo di novembre. Sto provvedendo in questi giorni. Non disperate :-)
     
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    QUAGLIA

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    Tema migliore sul condominio (traccia numero 3 di ottobre) Il Condominio. Il candidato tratti in particolare della natura delle obbligazioni dei condomini, della disciplina del lastrico solare e dell'impugnazione delle delibere assembleari.

    Il condominio costituisce una delle forme più complesse di comunione. Esso ha luogo quando gli appartamenti di un edificio appartengono a persone che, oltre ad esserne proprietarie esclusive, sono titolari pro quota di alcune parti dell'edificio tra cui il suolo, le fondazioni, le scale etc. (art.1117 c.c.) che appartengono loro in comunione.
    La comunione condominiale possiede una particolarità, essa infatti non è soggetta a scioglimento, poiché le parti comuni sono in rapporto di stretta dipendenza con l'unità dell'edificio (art.1119 c.c.). Tale comunione forzosa è suscettibile di deroga solo ove la divisione possa rendere più comodo l'uso della cosa a ciascun condomino che, in ogni caso, può alienare la sua proprietà esclusiva, cui risulta connessa la quota di partecipazione alle parti comuni dell'edificio.
    Si tratta, in sostanza, di un'ulteriore ipotesi di contitolarità di un medesimo diritto su un bene da parte da parte di più persone. A differenza della comunione, però, nel condominio la quota rappresenta solo la misura della partecipazione alla comunione e non anche la misura del bene comune che spetta al singolo comunista in caso di scioglimento della comunione.
    La dottrina, in particolare, per lungo tempo ha accostato il condominio alla figura giuridica della multiproprietà che, pur non essendo prevista in modo espresso dal codice civile, è stata definita come contitolarità di concorrenti diritti di proprietà. Secondo tale interpretazione la multiproprietà sarebbe, in sostanza, un condominio non avente carattere assoluto, in quanto oggetto di autolimitazione reciproca e preventiva da parte dei multiproprietari.
    Il diritto di ciascun condomino e il relativo obbligo di partecipazione alle spese per la manutenzione delle parti comuni sono stabiliti nel titolo, in mancanza essi corrispondono al valore del piano o della porzione di piano (art.1118 e 1123 c.c.).
    Gli organi propri del condominio sono l'assemblea dei condomini con funzioni deliberative, e l'amministratore con funzioni esecutive. Il funzionamento dell'assemblea è regolato dalla disciplina propria degli organi collegiali e cioè dalle regole per la regolarità della costituzione dell'assemblea (c.d. quorum costitutivo) e da quelle per la validità della deliberazione, basate sul principio maggioritario, calcolato in relazione al numero delle persone e al valore delle rispettive quote di appartenenza.
    All'assemblea è attribuito il compito di nominare e revocare l'amministratore, di decidere le innovazioni e le opere di manutenzione straordinaria, di stabilire il regolamento di condominio, di approvare il preventivo delle spese e la relativa ripartizione interna tra i condomini, nonché il rendiconto della gestione. All'amministratore, invece, compete l'esecuzione delle deliberazioni assembleari, la riscossione dei tributi, il compimento degli atti conservativi, la manutenzione ordinaria, il funzionamento dei servizi comuni e l'osservanza del regolamento di condominio anche da parte dei condomini. L'amministratore, infine, ha la rappresentanza anche processuale dei condomini (art. 1131 e 1130 c.c.).
    La giurisprudenza si è a lungo divisa sulla natura giuridica del condominio, se da intendersi come ente di gestione dotato di personalità giuridica o come soggetto privo di personalità giuridica e, dunque, inesistente giuridicamente. L'orientamento prevalente sostiene che il condominio sia configurabile come un ente di gestione delle parti comuni, fornito di personalità giuridica distinta da quella dei condomini, operante nell'interesse e in rappresentanza di questi ultimi.
    Le parti comuni del condominio sono indivisibili ma, in difetto di un'espressa disposizione di legge, tale indivisibilità non comporta anche l'indivisibilità della prestazione pecuniaria relativa alle spese deliberate dall'assemblea dei condomini, potendo presupporsi l'intrinseca parziarietà dell'obbligazione. L’orientamento giurisprudenziale più datato, invece, riteneva che l’obbligazione condominiale fosse indivisibile . A favore di quest’ultima tesi vi erano non soltanto la pluralità di debitori e l’identica causa di obbligazione ma anche l’indivisibilità della prestazione. Stante la solidarietà, quindi, anche il condomino adempiente avrebbe potuto essere escusso per la restante parte, anche se solo in ragione della sua agiatezza economica.
    La Cassazione civile è intervenuta nel 2008 per dirimere il contrasto interpretativo, stabilendo che l'obbligazione pecuniaria ascritta a tutti i condomini, anche se comune, è da ritenersi comunque divisibile, trattandosi di somma di danaro in relazione alla quale la solidarietà nel condominio non è contemplata da nessuna disposizione di legge. L'art. 1123 c.c., che disciplina la ripartizione delle spese condominiali, dunque, secondo il suddetto orientamento giurisprudenziale, doveva essere interpretato secondo il significato letterale ad esso attribuibile anche grazie al sistema in cui risulta inserito, non potendo distinguersi tra profilo esterno e interno al condominio. La natura parziaria dell'obbligazione risulta avvalorata anche dal difetto di struttura unitaria del condominio, la cui organizzazione non incide sulla titolarità individuale dei diritti, delle obbligazioni e della relativa responsabilità, e dal fatto che l'amministratore vincola i singoli condomini nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote. Secondo tale orientamento, pertanto, ai condomini dovevano essere imputate in proporzione alle rispettive quote le obbligazioni assunte nel cosiddetto "interesse del condominio" in relazione alle spese per la conservazione e per il godimento delle cose comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza. Ne conseguiva che le obbligazioni dei condomini erano regolate da criteri simili a quelli contenuti negli artt.752 e 1295 c.c. per le obbligazioni ereditarie, secondo cui i coeredi concorrono al pagamento dei debiti ereditari in proporzione alle rispettive quote. L'adempimento dell'obbligazione contratta dall’amministratore quale rappresentante del condominio, in base al suddetto orientamento,comporta la responsabilità dei singoli condomini limitatamente alla loro quota parte e l'eventuale creditore potrebbe agire solo nei confronti degli inadempienti ma non anche per la totalità del suo credito contro uno qualsiasi dei condomini.
    Le obbligazioni condominiali, dunque, non sarebbero qualificabili come obbligazioni solidali ma come obbligazioni parziarie. L’obbligazione solidale è quella in cui più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione. L’obbligazione parziaria, invece, è quella in cui ogni debitore è obbligato solamente in relazione alla sua quota parte.
    L'orientamento giurisprudenziale appena delineato ha subito forti critiche da parte della dottrina e della successiva giurisprudenza, creandosi così non poca incertezza negli operatori del diritto in relazione al modo di procedere esecutivamente, se contro uno solo per l'intero o contro ciascuno pro quota. A tale proposito si è profilata anche un'ulteriore problematica, e cioè se l'amministratore inadempiente al pagamento delle obbligazioni comuni sia tenuto o meno a comunicare al creditore i nominativi dei condomini morosi, riportando altresì le somme dovute da ciascuno pro quota millesimale, sulla base di quanto previsto dagli artt.1130, co.1, n.3 e 1131, co.1 e 1135 n.2 c.c., nonché dall'art. 1175 c.c. che pone in capo al creditore e al debitore il dovere di comportarsi secondo le regole della correttezza. A fondare tale dovere di comunicazione in capo all'amministratore vi sarebbe anche il suo dovere di mandatario di usare la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1710 c.c.) verso i condomini che hanno correttamente adempiuto i loro obblighi e che potrebbero trovarsi costretti, loro malgrado, ad intraprendere giudizi di opposizione a precetto. La riforma del condominio ha sostanzialmente disatteso il precedente orientamento della giurisprudenza con il disposto del secondo comma del nuovo art. 63 disp. att. c.c. che prevede che: “i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l'escussione degli altri condomini”.
    L'inversione di tendenza operata dal legislatore appare orientata verso il ritorno al criterio della solidarietà passiva mitigata dal beneficio di escussione del condomino moroso.
    La legge n.220/2012 non chiarisce però se eventuali azioni contro i beni comuni (ad esempio il conto corrente condominiale) possano essere portate avanti comunque o se, invece, esse debbano essere precedute dall’escussione del condomino moroso.
    Ove si condividesse la tesi che il condominio è inesistente a livello giuridico, si potrebbe dedurre che l’azione di pignoramento del conto corrente condominiale non potrebbe essere eseguita prima di quella contro i morosi, innanzitutto perché sul conto potrebbero essere rinvenute difficilmente somme di denaro appartenenti al condomino moroso, ma più facilmente denaro versato dagli adempienti. Un pignoramento diretto sulle somme già riscosse, pertanto, comporterebbe la violazione del secondo comma dell’art. 63 disp. att. c.c.. I principi dell'indivisibilità e quello ulteriore del pari utilizzo delle parti comuni sono stati confermati anche nella nuova formulazione dell'art.1118 c.c., come modificata dalla legge n.220/12, che mira ad impedire che il singolo condomino si sottragga al contributo obbligatorio per le spese relative ai beni e ai servizi comuni rinunciando al relativo diritto di utilizzo.
    Le obbligazioni condominali, ossia le prestazioni consistenti nel versamento delle somme di denaro necessarie alla conservazione delle parti comuni e all’erogazione dei relativi servizi, infatti, sono considerate dalla giurisprudenza e dalla dottrina come obbligazioni propter rem derivanti dalla contitolarità del diritto reale sulle cose, sugli impianti e sui servizi comuni cui il singolo condomino non può rinunciare. In generale l’art.1173 c.c. prevede che le obbligazioni possano derivare da contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico. In base all'art.1174 c.c. la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve avere contenuto patrimoniale, deve cioè essere suscettibile di valutazione economica e può corrispondere ad un interesse anche non patrimoniale del creditore. Nello specifico della materia condominiale la disciplina del lastrico solare (art.1126 c.c.) dà luogo ad un'obbligazione propter rem che ha origine nella natura comune (art.117 c.c.) di quel bene sul quale tutti i condomini hanno diritto di pari utilizzo. Il lastrico solare può essere di proprietà comune (art. 1117 c.c.) o di proprietà o uso esclusivo di un singolo condomino (art. 1126 c.c.). Tale differenziazione rileva ai fini dell’imputazione delle spese di conservazione in quanto, nel primo caso, le spese sono ripartite proporzionalmente tra tutti i condomini in base alle tabelle millesimali, mentre nel secondo caso le spese di riparazione o ricostruzione sono per un terzo a carico del proprietario esclusivo e per due terzi a carico dei restanti condomini, in quanto costoro godono della funzione di copertura dell’edificio svolta dal lastrico solare. L'orientamento giurisprudenziale di legittimità in passato riteneva, ove il lastrico solare fosse di proprietà condominiale, che la responsabilità e l'onere delle relative spese per i danni derivati da infiltrazioni, indipendentemente dalle cause che avessero portato alla loro verificazione, dovesse gravare unicamente sulla compagine condominiale. Il lastrico solare, infatti, in quanto parte comune e indivisibile dell'edificio (art.1117 e 1126 c.c.), anche se attribuito in uso esclusivo o di proprietà esclusiva di uno dei condomini, svolge funzione di copertura del fabbricato. L'obbligo di provvedere alla sua riparazione o ricostruzione, quindi, deve gravare su tutti i condomini ripartendo le relative spese secondo i criteri di cui all'art.1126 c.c.. (ossia per due terzi sui condomini ai quali il lastrico serve da copertura e per un terzo sul titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo). L'azione giudiziale volta ad ottenere la manutenzione o il ripristino del lastrico solare, pertanto, si propone contro il condominio, in persona dell'amministratore quale rappresentante di tutti i condomini obbligati, e non già del proprietario o del titolare dell'uso esclusivo del lastrico, il quale può essere chiamato in giudizio a titolo personale soltanto al fine di ottenere l'inibitoria di suoi eventuali comportamenti ostruzionistici nei confronti dell'esecuzione dei lavori. La disciplina relativa al lastrico solare, in sostanza, rispecchia e conferma come l'obbligo del singolo condomino di contribuire in misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare alle spese necessarie per la manutenzione e riparazione delle parti comuni abbia natura di obbligazione propter rem, poiché il condominio risponde quale custode ex art.2051 c.c. dei danni che siano derivati al singolo condomino nel caso di difetto di manutenzione del lastrico solare. Non rileva a tale fine neppure che i necessari interventi riparatori non siano consistiti nel mero ripristino delle strutture preesistenti, ma esigano una specifica modifica o integrazione in conseguenza di vizi o carenze costruttive originarie. Tale responsabilità, infatti, ha carattere oggettivo e per la sua configurabilità è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia (il lastrico) e il danno che ne deriva. Non è da escludere neppure l’eventuale concorso di responsabilità dell’amministratore di condominio che, anche se non dedotto nel medesimo giudizio, può essere accertato in via di rivalsa, qualora sia ravvisabile una responsabilità del professionista per negligenza (ad esempio colpevole ritardo) nell'adozione delle necessarie riparazioni.
    Più di recente la Suprema Corte di Cassazione ha ulteriormente specificato che l’art. 1126 c.c. si riferisce alle riparazioni dovute a vetustà e non a quelle riconducibili a difetti originari di progettazione o esecuzione dell’opera indebitamente tollerati dal proprietario esclusivo. In quest'ultima ipotesi, infatti, l’onere economico grava solo sul proprietario del lastrico ed è esclusa la compartecipazione del condominio. E' pacifico che l'obbligo del singolo condomino di contribuire in misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare alle spese necessarie per la manutenzione e riparazione delle parti comuni, trovi la propria fonte nella comproprietà delle parti comuni dell'edificio. Si tratta di obbligazione in cui l'individuazione delle persone del debitore e del creditore non avviene solo sulla base di quanto previsto nell'art.1173 c.c., ma anche per relationem, nel senso che i soggetti del rapporto obbligatorio sono di volta in volta coloro i quali progressivamente si trovano ad essere titolari del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento. Questa caratteristica viene indicata con il termine di ambulatorietà. Essa, però, non connota direttamente l'obbligazione, ma definisce la possibilità che quest'ultima possa sorgere a carico di chiunque sia divenuto titolare del diritto nel momento in cui si verifica la circostanza prevista dalla legge per il suo sorgere. In sostanza, una volta sorta l'obbligazione può dirsi cessata la sua natura ambulatoria. Per quanto concerne le obbligazioni condominiali l'ambulatorietà risulta mitigata dal disposto degli ultimi due commi dell’art. 63 disp. att. c.c. (nella formulazione vigente) i quali stabiliscono che coloro che subentrano nei diritti di un condomino sono obbligati solidalmente con questi al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e a quello precedente.
    Chi cede diritti su unità immobiliari in condominio, quindi, resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto. Fa eccezione ai principi dell'indivisibilità, del pari utilizzo delle parti comuni dell'edificio e a quello di ambulatorietà delle obbligazioni condominiali la disciplina relativa all'impianto di riscaldamento (e a quello di condizionamento) centralizzato, rispetto al quale la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto anche in passato che il comproprietario potesse operare il distacco, restando però obbligato al pagamento delle spese relative alla conservazione di quel bene comune. La legge di riforma 11 dicembre 2012 n.220, asseverando tale orientamento giurisprudenziale, ha previsto espressamente il diritto al distacco del singolo condomino, subordinandolo però alla prova rigorosa della mancanza di conseguenti notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini che non si siano distaccati. Alla luce di quanto sinora esposto può ulteriormente concludersi che le obbligazioni condominiali risultano attualmente regolate dal principio dell'ambulatorietà mitigato da quello della solidarietà anche in relazione al riparto degli oneri tra nudo proprietario e usufruttuario.
    A tale proposito la Cassazione aveva affermato che la qualità di debitore dipendesse da quella di proprietario o di titolare di altro diritto reale sulla cosa, e che le norme relative alla ripartizione delle spese tra usufruttuario e nudo proprietario fossero opponibili al condominio che era tenuto ad osservarle anche in sede di approvazione dei bilanci, dovendo distinguere tra quelle a carico del proprietario e quelle a carico dell'usufruttuario. Contrariamente a tale consolidato orientamento, nella legge di riforma della disciplina del condominio, il nudo proprietario e l'usufruttuario rispondono ora solidalmente per il pagamento dei contributi dovuti all'amministrazione condominiale, in base al disposto dell'art. 67, ultimo comma, disp. att. c.c.. In sostanza, la ripartizione degli obblighi continua ad esistere ma con mera rilevanza interna ai rapporti tra nudo proprietario e usufruttuario. L'art.67, ultimo comma c.c., infatti, ha dato attuazione al quarto comma dell'art. 63 disp. att. c.c., contenente la deroga alla cosiddetta ambulatorietà, estendendo all'usufruttuario l’obbligo di pagamento delle obbligazioni sorte nel periodo in cui egli non è ancora divenuto pieno proprietario.
    In questo contesto s’inserisce anche il quinto comma dell'art.63 disp. att. c.c. che, nell’ambito generale di una rinforzata collaborazione tra amministratore e condomini (ad esempio in materia di anagrafe condominiale), enuncia un’altra deroga alla regola dell’ambulatorietà, nel caso di omessa comunicazione all’amministratore della cessione.
    Sulla base della norma appena indicata il venditore rimane obbligato solidamente con il compratore verso il condominio fino a quando non vi sia stata formale comunicazione dell’atto di cessione, in mancanza della quale l'amministratore potrebbe ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo anche nei confronti del venditore. Le nuove regole appena illustrate introdotte dalla legge n.220/12, dunque, hanno dato luogo al definitivo superamento dell'orientamento giurisprudenziale di legittimità che, anche a Sezioni Unite, aveva stabilito che il principio dell’apparentia iuris non fosse applicabile in materia condominiale. Si sosteneva, infatti, che in caso di azione giudiziale dell'amministratore del condominio per il recupero della quota di spesa di competenza di un'unità immobiliare di proprietà esclusiva, fosse passivamente legittimato il vero proprietario di detta unità e non anche chi potesse apparire tale, ad esempio il venditore il quale, pur dopo il trasferimento della proprietà (non comunicato all'amministratore), avesse continuato a comportarsi da proprietario. La giurisprudenza riteneva, infatti, che nei rapporti tra il condominio, che è un ente di gestione, e i singoli partecipanti ad esso, non sussistessero le condizioni per l'operatività del principio dell'apparenza del diritto, strumentale ad esigenze di tutela dell'affidamento del terzo in buona fede. Non vi poteva essere spazio per l'apparenza del diritto posta a tutela del terzo, secondo la Corte Suprema, perché il condominio, nei rapporti relativi al pagamento degli oneri condominiali non assume la veste giuridica di terzo, ma di parte del rapporto sostanziale. Inoltre, il collegamento della legittimazione passiva all'effettiva titolarità della proprietà doveva essere considerato funzionale al rafforzamento e soddisfacimento del credito della gestione condominiale. Da tale premessa, e cioè che il condominio non è terzo ma parte del rapporto, secondo la giurisprudenza, conseguiva che né l'apparente titolarità del diritto di proprietà potesse essere convertita nell'effettiva titolarità, né l'inesistente legittimazione potesse tradursi in un'effettiva legittimazione passiva nascente dalla situazione di apparenza. Inoltre, ai fini della tutela della buona fede del condominio, si escludeva la necessità di collegare effetti giuridici alla situazione apparente, poiché, in mancanza di tale collegamento, solo nelle ipotesi di applicazione del principio dell'apparenza del diritto il terzo incolpevole non vedrebbe sorgere il rapporto sulla cui esistenza e validità aveva senza sua colpa confidato. Nel rapporto giuridico tra il condominio e il singolo condomino, invece, il proprietario esclusivo di unità immobiliari esiste in ogni caso nella realtà. Il rapporto giuridico tra condominio e singolo condomino risulta disciplinato, già da epoca anteriore all'entrata in vigore della riforma del 2012, dagli artt.1123 c.c. e 63 disp. att. c.c.. Il primo stabilisce che le spese per la conservazione e il godimento delle parti comuni dell'edificio siano sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salva diversa convenzione, e il secondo, oltre alla solidarietà passiva tra venditore e acquirente in relazione alla riscossione dei contributi sulla base dello stato di ripartizione approvato dall'assemblea, che l'amministratore possa ottenere decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, nonostante opposizione.
    Con la riforma del 2012 il legislatore non è intervenuto a modificare tale disciplina e tantomeno la solidarietà tra venditore e compratore e la titolarità dell’obbligo di pagamento nel caso di compravendita, ad esempio in relazione a lavori di ristrutturazione deliberati prima dell'alienazione. In assenza di specifici riferimenti normativi, pertanto, la problematica è stata risolta alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza.
    Da un lato è stato affermato che l'obbligo del condomino di pagare i contributi per le spese di conservazione delle parti comuni abbia origine dalla concreta attuazione dell'attività di conservazione e non dalla preventiva approvazione della spesa (e della relativa ripartizione) che ha carattere meramente autorizzativo dell'opera. L'obbligazione, quindi, sorge in quanto essa è espressione di un atto di gestione concretamente compiuto, da cui può derivare un incremento di valore sia delle parti comuni sia dell'unità immobiliare di proprietà esclusiva.
    Più di recente la giurisprudenza di legittimità ha affermato che in caso di vendita di un’unità immobiliare in condominio, dove siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione o di ristrutturazione o innovazioni, in mancanza di accordo tra le parti, nei rapporti interni tra alienante ed acquirente, è tenuto a sopportarne i relativi costi chi risultava essere proprietario al momento della delibera dell’assemblea. Ove, quindi, le spese fossero state deliberate antecedentemente alla stipulazione dell’atto di trasferimento dell’unità immobiliare, dovrebbe risponderne il venditore, a nulla rilevando che tali opere siano state eseguite successivamente. Inoltre, l’acquirente avrebbe diritto a rivalersi, nei confronti del proprio dante causa, per quanto pagato al condominio in forza del principio di solidarietà passiva di cui all’art. 63 disp. att. c.c. Bisogna sottolineare, però, che il suddetto orientamento giurisprudenziale non risulta essere pienamente compatibile con la nuova ipotesi di solidarietà contemplata nella vigente disposizione del quinto comma dell’art.63 disp. att. c.c.. Se, infatti, un condomino vendesse l'appartamento senza darne comunicazione all’amministratore, accadrebbe che il venditore resterebbe solidamente obbligato con l'acquirente. L'amministratore, inoltre, potrebbe agire contro il venditore il quale, a sua volta, dopo l'esercizio dell’azione nei suoi confronti, potrebbe rivolgersi al compratore per rivalersi delle spese a lui imputabili.
    Ad avvalorare la tesi che l'obbligo del condomino di pagare i contributi per le spese di conservazione delle parti comuni abbia origine dalla concreta attuazione dell'attività di conservazione e non dalla preventiva approvazione della spesa (e della relativa ripartizione), che ha carattere meramente autorizzativo dell'opera, vi è anche la disciplina in materia di impugnazione delle deliberazioni assembleari. L’art. 1137, primo comma, c.c. stabilisce che "le deliberazioni prese dall'assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini", siano essi astenuti, assenti o dissenzienti. Neppure l'invalidità delle deliberazioni assembleari può costituire nel nostro ordinamento giustificato motivo di mancata esecuzione del deliberato assembleare. Il testo previgente dell'art. 1137 c.c. disponeva, infatti, che il ricorso non sospendeva di per sé l'esecuzione della deliberazione e che era comunque necessario uno specifico provvedimento dell'autorità giudiziaria.
    Ora, l'ultimo comma del nuovo art. 1137 c.c., come modificato dalla legge n.220/12, occupandosi specificamente di disciplinare, sebbene in via analogica, il procedimento da seguire per richiedere al giudice di pronunciarsi sulla sussistenza o meno delle condizioni per ottenere la sospensione dell'efficacia dell'atto impugnato, stabilisce che l'istanza di sospensione dell'efficacia di una delibera condominiale proposta autonomamente e anteriormente all'avvio della causa di merito non sospende il termine di decadenza di trenta giorni di cui al medesimo art. 1137 c.c.. In sostanza, le obbligazioni conseguenti alla deliberazione assembleare, in mancanza di un provvedimento sospensivo da parte del giudice, continuano a gravare sui condomini sino a quando l'autorità giudiziaria non abbia disposto l'annullamento. Il tema dell'invalidità delle deliberazioni assembleari ha costituito un tema particolarmente delicato nell'ambito del diritto condominiale. La tradizionale distinzione fra ipotesi di nullità e annullabilità delle deliberazioni assembleari, in mancanza di precise indicazioni da parte del legislatore, era stata elaborata dalla giurisprudenza. I casi di nullità risultavano connessi alle violazioni di legge macroscopiche, mentre quelli di annullabilità ad ipotesi legate alla gestione condominiale. La labilità del confine tra nullità e annullabilità però comportava incertezza nei rapporti giuridici non solo tra i condomini ma anche tra condominio e terzi. La questione fu parzialmente risolta nel 2005 dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che affermò che potevano qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume) o non rientranti nella competenza dell'assemblea, le delibere incidenti sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva dei condomini e quelle comunque invalide in relazione all'oggetto. Erano annullabili, invece, le delibere affette da vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle poste in violazione delle regole che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto. Eventuali ragioni di nullità potevano essere contestate, in base alle regole generali, da chiunque avesse interesse con un ordinario procedimento giurisdizionale di accertamento negli ordinari termini di prescrizione del diritto. La distinzione tra nullità e annullabilità delle deliberazioni assembleari è divenuta oggetto di chiarimenti da parte del legislatore nell'art.1137 c.c., come novellato dalla legge n.220/12. La norma ha fatto propri i più recenti sviluppi giurisprudenziali, così tentando di eliminare alla radice i dubbi sull'applicabilità della procedura di impugnazione ivi disciplinata anche ai casi di nullità delle delibere condominiali. Nella nuova formulazione della norma, infatti, si fa espresso riferimento all'annullamento delle deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio da promuovere dinanzi alla competente autorità giudiziaria nel termine perentorio di trenta giorni.
    Mentre in precedenza, quindi, si poteva equivocare se l'azione diretta a fare accertare in giudizio l'invalidità delle delibere comprendesse o meno anche i casi di nullità, la nuova versione dell'art. 1137 c.c. sembra avere chiarito che l'impugnazione è finalizzata esclusivamente all'accertamento dell'annullabilità della volontà assembleare. Tuttavia, la nuova legge n. 220/2012 non ha aggiunto elementi di decisivo rilievo per risolvere la questione relativa alla qualificazione giuridica dei vizi propri delle deliberazioni assembleari. Il nuovo art. 1137 c.c., infatti, si limita a stabilire che le delibere assembleari possono essere impugnate giudizialmente dai condomini dissenzienti e da quelli astenuti, nonché da quelli che non abbiano partecipato all'assemblea nel termine di decadenza di trenta giorni, decorrente per i primi dalla data dell'assemblea e per questi ultimi dalla data di comunicazione del relativo verbale. Nella versione antecedente all'entrata in vigore della legge n.220/12, l'art.1137 c.c. qualificava come ricorso l'atto introduttivo del giudizio di impugnazione delle delibere assembleari. Tale definizione implicava una deroga al sistema ordinario per cui il giudizio civile si introduce mediante citazione a udienza fissa. Il legislatore della riforma ha risolto la questione recependo l'orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità che riteneva che la parola ricorso dovesse essere intesa in senso atecnico e cioè che l'impugnazione delle deliberazioni assembleari dovesse avvenire con atto di citazione e non con ricorso. Nel silenzio del nuovo art.1137 c.c., dal quale è stato cancellato il termine ricorso, ora deve ritenersi che il mezzo tecnicamente appropriato per svolgere la suddetta impugnazione in sede giudiziaria sia quello ordinario e cioè l'atto di citazione. Nella prassi, tuttavia, l'impugnazione della delibera assembleare potrebbe avvenire indifferentemente con ricorso o con atto di citazione, e in quest'ultima ipotesi, ai fini del rispetto del termine di cui all'art. 1137 c.c., occorrerebbe tenere conto della data di notificazione dell'atto introduttivo del giudizio invece di quella del successivo deposito in cancelleria che attiene, invece, al momento della iscrizione a ruolo del ricorso.

    Voto: Ottima conoscenza, fin troppo tecnica, dell'istituto. Vi è però un' imprecisione (ATTENZIONE) sulla natura del condominio: tralasciando che la giurisprudenza ultima è nel senso del superamento della teoria dell’ente di gestione, comunque è scorretto parlare di “personalità giuridica” del condominio. Semmai ha autonomia giuridica, è un soggetto, centro di interesse, intrattiene rapporti giuridici ma MAI dire che è una persona, è un errore grave. per questo ho tolto dei punti, siamo sul 12 e 1/2. Ma il tema avrebbe meritato molto di più.
    Parlando del lastrico si poteva trattare anche il problema dell’indennizzo dovuto agli altri condomini, è stato a lungo un argomento caldo.
     
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  7. Satanspond
     
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    CITAZIONE (Vica83 @ 20/12/2013, 14:05) 
    Posto questa mia domanda/perplessità su autorizzazione di Togasana.

    Nel tema da Lei assegnato "rilevanza dei comportamenti nel diritto civile" io avrei preso in considerazione (oltre i rifermenti posti dal collega) la norme sul comportamento secondo buona fede e correttezza ex art. 1175 c.c..
    Avrei distinto i comportamenti cui il legislatore ha attribuito rilevanza tacita (a volte equivoca) ed i comportamenti che, invece, sono previsti esplicitamente; in merito a questi ultimi avrei parlato del campo delle obbligazione e contratti in generale e della rilevanza del comportamento ex art. 1175 c.c..

    Avrei accennato anche alla rilevanza del comportamento in sede di interpretazione contrattuale; spiego meglio la mia idea.
    Allorquando sorge dubbio circa l' interpretazione di un accordo e del significato che le parti hanno inteso attribuire allo stesso, il giudice non può non tenere conto del comportamento che queste hanno assunto (art. 1362 c.c. e 1369 c.c.).

    Se una parte utilizza un' espressione che si presta ad essere equivocata ed al contempo il comportamento che la medesima tiene chiarisce l'equivocabilità della dichiarazione espressa, non si può trascurarne la rilevanza.

    Il rappresentante pone in essere un affare che eccede i limiti della procura (1389 c.c.); il rappresentato dapprima, nel valutare la convenienza e l' utilità dell'affare concluso in eccesso dei limiti suddetti, dichiara di non voler ratificare. Il rappresentante ed il terzo sviluppano delle trattative per sciogliere l' accordo (1399, 2° comma c.c.). In seguito, però, il rappresentato cambia idea e ratifica il contratto (dando ad esempio esecuzione senza previa comunicazione).

    Le due ipotesi sulla buona fede e sull' interpretazione, poste in questi termini, sono fuori logica??

    Non so se ho reso l' idea e se l' idea è un po' contorta...ma se non l' avessi comunicata, di sicuro, non avrei ottenuto un chiarimento!!

    La buona fede e la correttezza non soltanto in fase di interpretazione del contratto e trattativa del vincolo negoziale, ma ,anche, in fase di esecuzione dello stesso - ai vari livelli, nelle varie forme e soprattutto a fini di tutela giustiziale - sono sicuramente in tema se si tratta di "comportamenti significativi" del contraente o dell'obbligato.

    Suggerirei, nell'ambito di quest'area tematica, di introdurre SEMPRE un excursus
    a volo d'uccello sulle c.d. obbligazioni quasi ex contractu;
    soprattutto in tema di arricchimento senza causa e di negotiorum gestio c'è giurisprudenza innovativa e significativa: ad esempio nell'ambito oggi scottante della badanza.
     
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  8. RaveRod80
     
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    Brevi considerazioni sulla correzione dei temi di amministrativo di novembre.
    I temi ricevuti erano in buona parte idonei, le principali criticità le ho riscontrate in ordine all'"equilibrio" interno dello svolgimento in quanto alcuni dei corsisti si sono, a mio avviso, dilungati eccessivamente su questioni non pertinenti rispetto al nocciolo della traccia. Nel complesso comunque ho notato un buon livello.
    A breve inoltro le tracce per gennaio.
    Con prossimo post carico il tema che ho ritenuto migliore in questa tornata. Il giudizio ampiamente positivo è stato influenzato principalmente dalla esaustività dei contenuti e soprattutto dalla chiarezza-schematicità espositiva. Un ottimo modello, al di là dei contenuti, da tenere fermo come riferimento.

    Il tema della natura sostanziale o processuale dell'art. 21 octies l. 241/90 secondo comma è argomento attualmente molto dibattuto in dottrina e giurisprudenza. La ragione è da ricercarsi nei numerosi e delicati risvolti applicativi che la propensione verso l'una o l'altra delle due soluzioni comporta. Prima di affrontare tale problematica nello specifico appare, pertanto, opportuno soffermarsi brevemente sull'analisi della norma, sulla sua portata applicativa nonchè sui rapporti tra il primo e il secondo periodo della stessa, per poter poi passare alle varie conseguenze applicative dei due opposti orientamenti.
    Fino alla riforma introdotta con la legge 15/2005 la disciplina dell'annullabilità del provvedimento amministrativo si limitava alla previsione dei vizi di legittimità. Con l'intervento normativo citato il legislatore è nuovamente intervenuto in materia, in modo da escludere l'annullabilità del provvedimento qualora la P.A. sia incorsa nella violazione di norme procedimentali o formali che non abbiano comunque influenzato il contenuto del provvedimento.
    L'attuale formulazione dell'art. 21 octies, secondo comma, dispone infatti che non è annullabile il provvedimento emanato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti quando, per la natura vincolata dello stesso, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; si stabilisce, inoltre, al secondo periodo del medesimo comma, che non è altresì annullabile il provvedimento adottato in mancanza di comunicazione di avvio del procedimento quando la P.A. dimostri in giudizio che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
    L'importanza della norma è notevole: si consente al giudice di valutare la portata del vizio in relazione al contenuto del provvedimento finale. Egli ha invero il compito di stabilire sulla base di un giudizio prognostico se, in mancanza del vizio, il provvedimento sarebbe stato diverso, con ciò sancendo un principio di prevalenza della correttezza sostanziale su quella formale.
    Già prima della positivizzazione ad opera della legge 15/2005, tuttavia, la giurisprudenza era pervenuta alla stessa conclusione. La procedimentalizzazione dell'agere amministrativo aveva infatti imposto tutta una serie di obblighi formali la cui violazione assumeva rilevanza mediante il meccanismo dell'invalidità derivata. Da più parti si era tuttavia evidenziato che, così facendo, venivano posti in pericolo valori altrettanto importanti quali la celerità e la stabilità del provvedimento amministrativo: la P.A. sarebbe infatti stata costretta a riaprire il procedimento, eliminare il vizio e riadottare il provvedimento con quel medesimo contenuto, con inutile dispendio di tempo e risorse.
    La giurisprudenza amministrativa, in particolare, si era fatta portatrice di tali istanze e, per giustificare la non annullabilità del provvedimento “sostanzialmente” corretto, aveva dato origine a due orientamenti. Da un lato vi era chi, valorizzando il principio di conservazione dell'atto amministrativo e il principio di strumentalità delle forme, forniva un'interpretazione teleologica delle norme procedimentali e formali e chi, invece, valorizzando il concetto di “interesse ad agire”, dava rilievo all'utilità pratica che l'agire in giudizio avrebbe avuto qualora il provvedimento, non essendo stato influenzato dal vizio, non avrebbe comunque avuto un contenuto diverso.
    Sul primo fronte si metteva in evidenza che le regole sul procedimento e sulla forma avrebbero dovuto essere interpretate alla luce dello scopo della norma che le pone, in tal modo, se attraverso uno strumento diverso da quello previsto dalla norma viene comunque raggiunto lo scopo della stessa, essa non può essere considerata violata (teoria del raggiungimento dello scopo). Ciò valeva ovviamente solo in caso di forma “fungibile”, ossia non posta alla base della tutela approntata dal legislatore. Si adduceva quale esempio quello della mancanza di comunicazione di avvio del procedimento e si evidenziava l'inutilità dell'annullamento qualora il privato avesse comunque avuto conoscenza dell'apertura del procedimento in altro modo o quest'ultimo avesse avuto inizio su istanza del privato.
    Sull'altro fronte vi era chi, facendo leva sul concetto di “interesse ad agire”, evidenziava l'assenza, in capo al privato, dell'interesse a ricorrere per l'annullamento qualora il provvedimento non avrebbe comunque potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Si evidenziava, in altre parole, che ove l'apporto partecipativo del privato non avrebbe influito sull'assetto di interessi fatto proprio dal provvedimento, quest'ultimo risultava insuscettibile di annullamento. Tale considerazione si poneva, ovviamente, in relazione ai provvedimenti vincolati.
    Tornando all'esempio precedente, la mancanza di comunicazione di avvio del procedimento non poteva determinare la caducazione del provvedimento (non qualora il privato avesse avuto aliunde conoscenza del procedimento ma) ove il suo apporto partecipativo fosse stato privo di efficienza causale sul contenuto dello stesso (teoria del raggiungimento del risultato).
    Tale ultima opzione ermeneutica appariva, molto più della precedentemente esposta teoria del raggiungimento dello scopo, difficilmente compatibile col principio di legalità. Si permetteva infatti all'organo giudicante, non solo di verificare l'adempimento da parte della P.A. dell'obbligo formale imposto dalla legge, ma altresì di sindacare l'assetto di interessi sottostante al provvedimento emanato.
    Per tali ragioni gli orientamenti “antiformalisti” testé illustrati furono sottoposti ad un'aspra critica da parte di coloro che evidenziavano i pericoli connessi alla “dequotazione” degli obblighi formali e procedimentali imposti dalla legge. Essi erano infatti posti a garanzia non solo degli interessi del privato ma, soprattutto, dell'interesse al buon andamento della pubblica amministrazione la quale, mediante la partecipazione del privato al procedimento, veniva costretta a effettuare una più completa ponderazione degli interessi in gioco.
    Altra controindicazione connessa all'adesione alle teorie antiformaliste consisteva poi nel trasferimento in sede processuale di quell'attività di ponderazione di interessi che aveva, quale sua sede naturale, quella procedimentale.
    Tali importanti rilievi non sono, evidentemente, stati fatti propri dal legislatore del 2005. La positivizzazione delle istanze antiformaliste avvallate dalla giuriprudenza non ha tuttavia sopito il dibattito tra formalismo e antiformalismo il quale si ripresenta, infatti, in relazione a numerose problematiche connesse all'art. 21 octies, comma secondo, della legge 241/90: natura giuridica sostanziale o processuale della norma, delimitazione del suo ambito di applicazione, natura giuridica del provvedimento non annullabile, rilievi sulla compatibilità costituzionale.
    Come precedentemente accennato, per ben comprendere la portata della norma occorre analizzare la struttura della stessa. Ed invero, notevoli questioni interpretative si pongono anche in relazione al diverso tenore letterale attribuito dal legislatore al primo ed al secondo periodo dell'art. 21 octies secondo comma. In particolare, al primo periodo, si ha riguardo alla “violazione di norme sul procedimento e sulla forma degli atti”, si fa menzione della “natura vincolata del provvedimento” e si richiede, inoltre, che “sia palese” che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Le differenze rispetto al secondo periodo della stessa norma sono quindi evidenti, posto che in quest'ultima ci si riferisce, quale vizio insuscettibile di annullamento, alla “mancata comunicazione di avvio del procedimento”, si richiede che la P.A “dimostri in giudizio” che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato ed, infine, non si fa alcuna menzione della natura discrezionale o vincolata del provvedimento.
    Quanto al primo periodo della norma, la prima problematica che si presenta è quella di stabilire quali sono i vizi formali e procedimentali rilevanti ai fini dell'applicazione dell'art. 21 oties, secondo comma. Si è evidenziato infatti, da parte di taluni, la necessità di distinguere tra forme “vincolanti” e forme “non vincolanti”, considerando solo le prime, in quanto poste a tutela di interessi specifici o diritti, inderogabili. Problemi in tal senso si sono posti, in particolare, per l'obbligo di motivazione successivamente confluito, a seguito della positivizzazione normativa, nei vizi di legittimità, nonché per il vizio di incompetenza, da alcuni inteso, nonostante l'espressa previsione normativa, quale violazione di norme formali suscettibile dell' applicazione dell'art. 21 octies, secondo comma.
    Sempre riguardo il primo periodo della norma, altro problema si è prospettato in relazione alla natura del vincolo gravante sull'agere amministrativo. La norma fa riferimento, infatti, alla “natura vincolata” del provvedimento, è pertanto opportuno comprendere cosa il legislatore abbia inteso con tale espressione. Secondo un primo orientamento, dovendo risultare “palese” che il contenuto non avrebbe potuto essere diverso, la norma farebbe riferimento a un vincolo normativo e totale, con esclusione, quindi, delle ipotesi caratterizzate da una qualche possibilità di scelta o comunque da discrezionalità tecnica. Secondo altro orientamento, invece, il fatto che l'irrilevanza del vizio debba risultare palese non impedisce che il giudice possa accertare l'assenza di alternative. In particolare, tale opzione ermeneutica fa leva sulla possibilità di utilizzare lo strumento della consulenza tecnica al fine di accertare i fatti; ciò, beninteso, limitatamente ai soli fatti “semplici”, con esclusione di qualunque tipo di attività valutativa. Ultimo orientamento propende, infine, per l'applicabilità della norma ai casi in cui, pur essendo il potere esercitato originariamente discrezionale, la P.A. abbia tuttavia “consumato” la propria discrezionalità mediante un autovincolo (es. un bando di gara) o un accordo integrativo o sostitutivo con il privato. Altri, addirittura, affermano l'estendibilità di tali considerazioni anche al caso in cui la discrezionalità venga esaurita durante l'istruttoria.
    Ulteriore problema su cui occorre interrogarsi riguardo il primo periodo dell'art. 21 octies, secondo comma, legge 241/90 attiene, infine, ai limiti del sindacato giudiziale sull'evidenza dell'irrilevanza del vizio sul contenuto del provvedimento. Secondo una prima tesi, l'applicazione della norma andrebbe riferita ai casi in cui l'irrilevanza del vizio appaia “palese” ossia evidente, “ictu oculi” dagli atti di causa. Altro orientamento, invece, ritiene ammissibile l'attivazione dei poteri istruttori officiosi del giudice, onde verificare l'esistenza del vizio “non invalidante”.
    Venendo ora all'analisi del secondo periodo del secondo comma più volte citato, in esso si pone la regola della non annullabilità del provvedimento nonostante l'assenza della comunicazione di avvio del procedimento. Si fa gravare inoltre sulla P.A. l'onere di dimostrare in giudizio l'irrilevanza del vizio rispetto al contenuto del provvedimento. A tal proposito, la giurisprudenza ha tuttavia precisato che, sebbene l'onere della prova gravi sulla P.A., il privato non possa limitarsi ad allegare l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento, dovendo piuttosto evidenziare l'importanza dell'apporto che, ovve fosse stato coinvolto, avrebbe dato al procedimento.
    Nessun riferimento viene fatto, invece, alla natura vincolata o discrezionale del provvedimento. A tal proposito si sono quindi scontrate varie opzioni ermeneutiche al fine di stabilire se il periodo in questione faccia riferimento, come il primo periodo, solo all'attività vincolata oppure, con notevoli risvolti pratici, anche all'attività discrezionale. La soluzione del problema non è di poco momento, posto che estendere la disciplina della non annullabilità del provvedimento all'attività discrezionale consentirebbe al giudice di sindacare valutazioni che attengono, più propriamente, al merito amministrativo.
    Già prima della riforma del 2005 il problema della mancanza della comunicazione di avvio del procedimento era parecchio sentita: si è già fatto cenno, a tal proposito, allo scontro tra le teorie antiformalistiche del “raggiungimento del scopo” e “del raggiungimento del risultato” rispetto a quelle che, invece, evidenziavano l'importanza delle “regole” formali e procedimentali.
    Anche ora che il legislatore della riforma non fa alcuna distinzione tra attività discrezionale e attività vincolata in relazione alla mancanza di comunicazione di avvio del procedimento, il dibattito è più forte che mai. Da un lato si afferma, infatti, e questa è la teoria attualmente prevalente, che i due periodi della norma, il primo e il secondo del secondo comma dell'art. 21 octies, stiano tra loro in rapporto di specialità a seconda del tipo del vizio dedotto: in caso di mancanza di comunicazione di avvio del procedimento non vi è alcuna distinzione da fare in base al tipo di attività amministrativa svolta. Non mancano però coloro che, evidenziando l'importanza data dal legislatore della riforma alla partecipazione procedimentale del privato, danno dei due periodi della norma una lettura unitaria. Essi, in particolare, affermano che il secondo periodo, così come il primo, andrebbe riferito ai soli casi di attività vincolata, limitandosi, a differenza del primo, alla sola disciplina dell'onere probatorio.
    Ulteriore orientamento è quello mediano, il quale afferma invece che i due periodi starebbero tra loro in rapporto di specialità concorrente in relazione al tipo di attività esercitata.
    Conclusa l'analisi della norma sotto il profilo strutturale, occorre ora soffermarsi più specificamente sul dibattito sviluppatosi intorno al tema della natura sostanziale o processuale della stessa. Come già accennato, la propensione per l'una o per l'altra delle ricostruzioni comporta rilevanti ripercussioni di carattere pratico: l'applicazione della norma ai provvedimenti emanati prima dell'entrata in vigore della legge 15/2005, la possibilità che l'atto sia annullato in sede di autotutela, la possibilità che sia disapplicato dal G.O. ai sensi dell'art. 5 della legge sull'abolizione del contenzioso amministrativo, la possibilità di disporre a favore del privato il risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 2043 c.c.
    Da un lato coloro che sostengono la natura sostanziale della norma affermano che il legislatore della riforma abbia voluto incidere sulla disciplina dell'invalidità del provvedimento, introducendo una categoria di “vizi non invalidanti”. Tale effetto sarebbe riconducibile, a seconda delle ricostruzioni, a un meccanismo di sanatoria ex lege, a un meccanismo di sanatoria processuale o, secondo un'ulteriore opzione, alla conversione di alcune illegittimità in “mere irregolarità”. L'adesione a tale tesi comporta, quale conseguenza d'immediata evidenza, la legittimità del provvedimento.
    Vari gli argomenti a sostegno della natura sostanziale della norma. Si evidenzia in primo luogo la sua collocazione all'interno della disciplina sul procedimento amministrativo e si afferma che, qualora il legislatore avesse voluto dare alla norma una valenza processuale, avrebbe certamente avuto sedi ben più appropriate. Si rileva inoltre la collocazione della stessa subito dopo il primo comma dell'art. 21 octies, disposizione avente carattere certamente sostanziale. Terzo argomento a sostegno della natura sostanziale viene rinvenuto nel rinvio operato dall'art. 21 nonies della legge 241/90 all'art. 21 octies della stessa. Si evidenzia in proposito che il rinvio relativo all'annullamento d'ufficio sarebbe riferito alla disposizione di cui al 21 octies per intero e non, come affermano i sostenitori della tesi processualistica, al solo primo comma della stessa. Si rimarca infine, quale ultimo argomento, che per costante orientamento della Corte di Cassazione le norme relative alla ripartizione dell'onere della prova hanno natura sostanziale.
    Quanto alle conseguenze applicative dell'adesione alla tesi della natura sostanziale della norma, si annoverano: la sua non applicabilità ai provvedimenti emanati prima dell'entrata in vigore della riforma del 2005 e la non annullabilità del provvedimento nemmeno in sede di autotutela, con la conseguente necessità di verificare la possibilità di forme di tutela alternative a quella di annullamento.
    Da più parti si è però criticato come la ricostruzione testè illustrata determini una “dequotazione” degli obblighi formali e procedimentali, con la conseguenza di disincentivarne il rispetto da parte della P.A., con gravi ricadute a livello di opportunità politica della riforma. Altra rilevante controindicazione è quella della difficile compatibilità costituzionale in relazione agli artt. 24, 103 e 113 Cost.: occorre infatti verificare forme di tutela alternative per il cittadino, evidentemente privato della tutela dell'annullamento.
    Su posizioni nettamente opposte coloro che sostengono la natura processuale della norma affermando che la stessa non costituisca altro se non la positivizzazione dei principi del raggiungimento dello scopo e del raggiungimento del risultato. Il legislatore quindi, mediante l'introduzione della norma, non avrebbe inteso incidere sulla disciplina dell'invalidità dell'atto ma semplicemente limitare l'annullabilità del provvedimento “sostanzialmente” corretto mediante l'introduzione di un meccanismo processuale di conservazione dell'atto: il provvedimento, seppure non annullabile, risulterebbe comunque illegittimo.
    A sostegno della tesi in esame si fa leva, in primo luogo, sul dato letterale: la necessità che l'amministrazione “dimostri in giudizio” sarebbe indizio inequivocabile della volontà del legislatore di fornire all'art. 21 octies una mera valenza processuale. Si rileva altresì che la norma dispone che il provvedimento “non é annullabile”, con ciò richiamando in negativo l'effetto tipico della sentenza di accoglimento. Da ultimo, si richiama il rinvio operato dal successivo art. 21 nonies alla norma in esame. Tale richiamo, secondo i sostenitori di questa ricostruzione, sarebbe limitato al primo comma della norma, con la conseguenza che il provvedimento è e resta illegittimo.
    Contrariamente a quanto detto per l'opzione sostanzialistica, pertanto, il provvedimento è suscettibile di essere applicato ai provvedimenti entrati in vigore prima della riforma del 2005 e si configura la possibilità di individuare forme alternative di tutela per il privato, così ponendo al riparo la norma da possibili censure di illegittimitimità costituzionale: il provvedimento può essere infatti annullato in autotutela, disapplicato dal giudice ordinario ai sensi dell'art. 5 della legge sull'abolizione del contenzioso amministrativo e fonte di risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2043 c.c.
    Occore tuttavia precisare che, sebbene la configurabilità di una tutela mediante il risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi sia dai più condivisa, non pochi sono gli ostacoli di ordine sostanziale e processuale alla sua effettiva utilizzabilità. Ed invero, da un lato, tralasciando la tesi della resposabilità da contatto, attualmente minoritaria, ai fini della configurabilità dei presupposti dell'art. 2043 c.c. occorre evidenziare che appare difficilmente ristorabile un danno derivante da un provvedimento illegittimo ma tuttavia non annullabile in ragione della non incidenza del vizio formale sul contenuto del provvedimento. Da altra parte si rileva inoltre l'ostacolo rappresentato dalla c.d. “pregiudiziale amministrativa” che, sebbene apertamente contestata dalla Corte di Cassazione, viene tutt'ora seguita dalla giurisprudenza amministrativa.
    Per questi motivi si è da più parti suggerito che a diversa conclusione si perverrebbe ove fosse ritenuta configurabile, nel processo amministrativo, una sentenza di mero accertamento dell'illegittimità del provvedimento.
    Tale considerazione consente di far cenno a un'ulteriore problematica su cui la tesi sostanzialista e quella processualistica si sono confrontate, ossia quella del tipo di pronuncia giurisprudenziale adottabile in esito ad ipotesi applicative dell'art. 21 octies, secondo comma. La soluzione favorevole all'adottabilità di una pronuncia di mero accertamento dell'illegittimità del provvedimento viene avversata da quanti, viceversa, ritengono adottabile solo una pronuncia di rigetto nel merito e da quanti, e questa è la tesi attualmente prevalente, ritengono invece più corretta una sentenza di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, in evidente applicazione del principio del raggiungimento dello scopo.
    Ultimo versante su cui le due opposte teorie citate si sono confrontate è, infine, quello della natura giuridica del provvedimento non annullabile. Secondo una prima ricostruzione esso sarebbe affetto da una “mera irregolarità. Altra ricostruzione, quella aderente alla teoria del raggiungimento dello scopo, propende invece per la qualificabilità del provvedimento come invalido. Minoritaria è invece la tesi che sostiene la validità del provvedimento sulla base di una sanatoria o convalida ex lege, con ciò evidentemente escludendo anche l'annullabilità in autotutela del provvedimento stesso. Ultima e prevalentemente seguita è, infine, la teoria del “raggiungimento del risultato”, secondo la quale il provvedimento, pur permanendo illegittimo, non sarebbe tuttavia annullabile per carenza d'interesse del privato all'annullamento. Un'eventuale sentenza di annullamento non avrebbe, invero, per quest'ultimo alcuna utilità, giacchè il provvedimento verrebbe riadottato con il medesimo contenuto. Sul rilievo che l'art. 21 octies non impone di verificare lo scopo della norma (che impone l'obbligo formale o procedimentale) ma semplicemente di valutare l'efficienza causale del vizio sul contenuto del provvedimento, quest'ultimo orientamento giunge poi a individuare nella sentenza di inammissibilità del ricorso per difetto d'interesse la pronucia adottabile in tale ipotesi, a configurare la rilevabilità d'ufficio da parte del giudice del difetto d'interesse del privato nonché, infine, a configurare forme di tutela alternativa per il privato data la permanenza dell'illegittimità del provvedimento.
     
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    Traccia numero 1 Mese novembre: " Le obbligazioni pecuniarie e la disciplina dell'anatocismo bancario".

    Considerazioni sul tema generale: ragazzi, le obbligazioni pecuniarie vanno sapute!! Prendetevi il Torrente (sia nel paragrafo sulle obbligazioni pecuniarie che su quello degli interessi e risarcimento del danno) leggetelo cento volte, se serve, con codice sotto mano. Fatevi uno schema di obbligazioni di valute da un lato e di valore dall'altro. Ho notato una generale confusione! Es. Il danno nell'art. 1224 è in genere quello delle obbligazioni di valuta! "ANCHE SE NON ERANO DOVUTI PRECEDENTEMENTE" vuol dire anche se non "liquidi ed esigibili" perchè altrimenti le obbligazioni di valuta producono interessi di pieno diritto, ex art. 1282 c.c. E poi la prova del maggior danno (su cui tanto si è discusso) dovete distinguerla dalle obbligazioni di valore, perchè qui il danno viene automaticamente rivalutato, attualizzandolo. Insomma, l'argomento è tecnicissimo e difficile, ma va fatto meglio. Ho dei post it (non ce l'ho qui) magari se mi riesce li scannerizzo appena posso, ma sono scritti a mano, non so se possono esservi utili. :)

    Considerazioni sul quesito specifico: Quasi tutti hanno fatto bene invece la parte sull'anatocismo.


    Posto il tema migliore, davvero ben fatto
    Tema di diritto civile del mese di novembre 2013: le obbligazioni pecuniarie e la disciplina dell'anatocismo bancario.
    Il libro IV del titolo I del codice civile non definisce che cosa sia un'obbligazione, ma l'art. 1173 c.c. stabilisce che le “obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito e da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico”.
    Per poter giungere ad una possibile definizione del concetto di obbligazione si può fare riferimento al diritto romano per il quale l'obbligazione consisteva in un vincolo giuridico contratto da una persona nei confronti di un'altra per l'esecuzione di una determinata prestazione.
    Inizialmente il vincolo veniva considerato sotto il profilo meramente personale, ad esempio quando il debitore non eseguiva la prestazione, veniva asservito al creditore e vincolato alla sua stessa persona, in seguito invece l'oggetto dell'obbligazione è stato individuato nella prestazione, cioè nel comportamento del debitore.
    La dottrina oggi fa riferimento più precisamente ad un rapporto giuridico in virtù del quale il debitore è tenuto ad una prestazione positiva o negativa, economicamente valutabile, al fine di soddisfare un interesse anche non patrimoniale del debitore (art.1174 c.c.). In sostanza, le posizioni contrapposte di prestazione e di pretesa nel rapporto obbligatorio devono tendere al soddisfacimento dell'interesse del creditore.
    Parte della dottrina, però, non concorda con questa definizione, ritenendo che sia la posizione del debitore sia quella del creditore siano fondamentali ed inscindibili e che, pertanto, il fulcro del rapporto non sia solo il debito, ma il vincolo obbligatorio la cui lesione si verifica con l'inadempimento. Sino a tale momento, infatti, il creditore non ha alcuna posizione di potere sul debitore, ma solo una legittima aspettativa tutelata al conseguimento dell'oggetto della prestazione. Tema preso un po’ troppo alla lontana, occhio!
    Il codice civile classifica le obbligazioni in pecuniarie, alternative, in solido e in obbligazioni divisibili e indivisibili.
    Le obbligazioni pecuniarie rientrano nell'ambito delle obbligazioni generiche; esse hanno ad oggetto una somma di denaro, che è un bene generico e fungibile.
    Il nostro ordinamento giuridico, come peraltro la maggior parte degli altri paesi europei, in materia di obbligazioni pecuniarie ha adottato il principio nominalistico, sancito dall'art.1227 c.c., con il quale è stabilito che quando l'obbligazione pecuniaria è a termine, cioè quando essa deve essere adempiuta in un momento successivo a quello della sua insorgenza, la somma inizialmente fissata non deve essere aggiornata in base alle fluttuazioni del valore della moneta. In sostanza, al momento della scadenza il debitore è tenuto a rendere la medesima somma di denaro dovuta al momento in cui ha contratto l'obbligazione restitutoria.
    Il principio nominalistico giova al debitore soprattutto nei periodi di forte inflazione, per cui, salvo il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, ai sensi dell'art.1467 c.c., viene imposto al creditore il rischio delle variazioni del potere di acquisto della moneta, con inevitabili inconvenienti nei rapporti di durata. Questi inconvenienti, però, sono superati spesso con rimedi di natura convenzionale, quali la pattuizione di interessi, di clausole di rinegoziazione del corrispettivo e della facoltà di recesso in presenza di determinate circostanze, oppure da rimedi di natura legale, ad esempio la rivalutazione del corrispettivo o la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, o, infine, da rimedi di origine giurisprudenziale, quali la distinzione tra debiti di valore e di valuta e la rivalutazione monetaria.
    La distinzione tra debiti di valuta e di valore, ai quali non si applica il principio nominalistico, è di origine pretoria ed è basata sulla natura dell'oggetto originario della prestazione. Le obbligazioni di valuta, infatti, hanno ad oggetto una prestazione di denaro, le obbligazioni di valore, invece, hanno ad oggetto un bene diverso dal denaro di cui la moneta rappresenta solo al momento della liquidazione un eventuale elemento sostitutivo.
    La disciplina delle obbligazioni di valore nasce, in ottemperanza al precetto costituzionale di uguaglianza sostanziale, sancito dall'art.3, comma 2, della Costituzione, dall'esigenza di assicurare tutela ai cosiddetti creditori deboli, sui quali i creditori forti, quali ad esempio gli investitori professionali, sono in grado di esercitare la forza contrattuale di imporre le clausole di indicizzazione.
    Sono concordemente individuate come obbligazioni di valore ad esempio quella risarcitoria per responsabilità contrattuale o extracontrattuale, l'obbligazione indennitaria e l'arricchimento senza causa. Sono individuate come obbligazioni di valuta, invece, i corrispettivi nei contratti sinallagmatici, i crediti da lavoro e previdenziali, la restituzione di somme indebitamente percepite ex art. 2033 c.c., la restituzione di somme di denaro in seguito a risoluzione, a rescissione, ad annullamento o a dichiarazione di nullità del contratto. Ok!!
    Tra le obbligazioni pecuniarie vi sono anche gli interessi dovuti in relazione ad un'altra prestazione pecuniaria, rispetto alla quale essi assumono natura percentuale, omogenea e accessoria. Gli interessi hanno altresì natura periodica e sono dovuti da chi utilizza un capitale altrui o ne ritarda il pagamento, ma sono ignorati nella pratica in relazione alle obbligazioni aventi ad oggetto cose generiche diverse dal denaro.
    L'obbligazione pecuniaria derivante dalla debenza di interessi è parametrata al periodo di tempo in cui il debitore gode del capitale altrui o ne ritarda il pagamento e, pertanto, essa deve essere adempiuta, in mancanza di una diversa disposizione di legge o di contratto, in corrispondenza della data di scadenza di tale periodo.
    Il diritto del creditore di ottenere la corresponsione degli interessi è distinto dal credito originario, poiché la domanda giudiziale avente ad oggetto la restituzione del capitale non comprende anche il pagamento degli interessi, essendo necessaria un'apposita domanda giudiziale, non proponibile per la prima volta in grado di appello.
    In base al disposto dell'art.1283 c.c. nel nostro ordinamento, in mancanza di usi contrari, è proibito l'anatocismo, ossia la capitalizzazione di qualunque tipo di interesse , affinché esso produca a sua volta nuovi interessi.
    La giurisprudenza ritiene applicabile il divieto di anatocismo di cui all'art.1283 c.c. tanto agli interessi primari, quanto a quelli moratori e a quelli compensativi.
    Gli interessi convenzionali sono quelli stabiliti dalle parti nel titolo costitutivo dell'obbligazione. Ove tali interessi siano pattuiti in misura superiore a quella legale in forma non scritta, l'accordo è nullo, ma il pagamento spontaneo non può dare luogo a ripetizione, trattandosi di obbligazione naturale inquadrabile nell'ambito dell'art.2034 c.c.
    Gli interessi corrispettivi, invece, sono quelli che derivano da crediti pecuniari liquidi ed esigibili (art.1282 c.c.) che producono interessi automaticamente nella misura legale, purché la legge o il titolo non stabiliscano diversamente.
    Gli interessi moratori, invece, vengono riconosciuti al creditore a titolo di risarcimento del danno (art.1224 c.c.), dopo il verificarsi della mora del debitore, anche se non erano dovuti precedentemente e senza bisogno di provare il danno.
    La mora deve essere distinta dall'esigibilità del credito, poiché la prima ha origine dal ritardo imputabile dell'adempimento e presuppone l'attualità dell'obbligo, cioè che il debitore possa eseguire la prestazione, la seconda, invece, attiene all'esercizio del diritto di richiedere la prestazione. ok Ne consegue che il credito può essere esigibile pur in assenza di mora del debitore.
    Qualora, però, il giudice conceda la rivalutazione del credito a titolo di maggior danno, tale rivalutazione si sostituisce al danno presunto costituito dagli interessi legali ed è idonea a coprire l'intera area dei danni patiti dal creditore fino alla data della liquidazione. La conseguenza è che solo da tale data spettano sulla somma rivalutata gli interessi. Altrimenti, il cumulo di interessi e rivalutazione produrrebbe una duplicazione della liquidazione dello stesso danno e consentirebbe di conseguire più di quanto si sarebbe ottenuto in caso di tempestivo adempimento. okkk
    La giurisprudenza ha elaborato anche un'ulteriore categoria di interessi, c.d. compensativi, sulla base dell'interpretazione estensiva dell'art.1499 c.c.. Essi riguardano tutti i beni fruttiferi e prescindono non solo dall'esigibilità ma anche dalla liquidità del credito dedotto nell'obbligazione. Sono dovuti, prescindono dai requisiti dell'art.1282 c.c., in ragione dell'anticipata consegna della cosa e mirano a ristabilire l'equilibrio economico tra i contraenti a causa della mancata percezione dei frutti prodotti dalla cosa venduta prima del pagamento del prezzo, a meno che dal contratto non sia desumibile una volontà contraria, ad esempio in una clausola che preveda l'anticipata consegna come componente della regolamentazione convenzionale degli interessi delle parti.
    Un'ulteriore deroga al principio nominalistico delle obbligazioni pecuniarie è contenuto nelle clausole di garanzia, volte a consentire l'adeguamento dell'entità della somma inizialmente dovuta in funzione delle modifiche di parametri prestabiliti. Ne sono stati esempi il sistema di rivalutazione automatica delle retribuzioni dei lavoratori, nota con il nome di scala mobile. L'orientamento prevalente riteneva valide le clausole di garanzia, perché il principio nominalistico non assume rilevanza propria di un principio di ordine pubblico, costituendo esso solo l'attuazione di una volontà presunta dei contraenti, derogabile da un'esplicita pattuizione di segno diverso. Inoltre, il legislatore può intervenire in determinati settori per vietare la predisposizione di clausole di garanzia, come nel caso di prezzi imposti, e può anche disciplinarne ex lege i limiti (come nel caso di dell'equo canone).
    Alla luce dei principi codicistici in materia di obbligazioni pecuniarie, deve ritenersi che l'inflazione non consente un automatico adeguamento della misura del debito, né costituisce un danno di per sé immediatamente risarcibile. In base ai recenti sviluppi giurisprudenziali, però, tale fenomeno può implicare, ai sensi dell'art.1224, co.2, c.c., il riconoscimento in favore del creditore, oltre degli interessi, del maggior danno da svalutazione monetaria causato dall'indisponibilità della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui il creditore sia in grado di dimostrare che il tempestivo pagamento gli avrebbe consentito di evitare o di ridurre gli effetti economici depauperativi che l'inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro.
    Da tutto quanto appena premesso consegue, in sintesi, che, in base al combinato disposto degli artt.1284 e 1224 c.c., ogni obbligazione pecuniaria genera legalmente per sua natura interessi e che l'inadempimento di un'obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro comporta, ai sensi dell'art.1224, co.2, c.c. un obbligo risarcitorio che comprende gli interessi moratori e il maggior danno che si riesca a provare.
    L'obbligazione pecuniaria avente ad oggetto gli interessi, quindi, è peculiare perché sfugge alle norme proprie della disciplina delle obbligazioni pecuniarie, che stabiliscono la debenza degli interessi corrispettivi e moratori, e trova la sua regolamentazione specifica nell'art.1283 c.c. che, pur partendo dal divieto generale di anatocismo, prevede tre eccezioni in cui l'ordinamento consente che gli interessi producano altri interessi.
    La prima e la seconda eccezione riguardano, la prima una pattuizione espressa, la seconda una domanda giudiziale, entrambe aventi ad oggetto il pagamento degli interessi dopo la scadenza, purché siano decorsi almeno sei mesi da tale data. Il c.d. anatocismo convenzionale può essere contenuto ad esempio nel contratto di mutuo, dove però non potrebbe essere stabilito ex ante che, in caso di mancata restituzione degli interessi, questi producano a loro volta altri interessi. Ciò in ragione del fatto che tale clausola potrebbe venire accettata incondizionatamente dal mutuatario, ove egli si trovasse in situazione di debolezza economico/finanziaria. Per tale motivo l'ammissibilità di tale pattuizione viene posticipata al momento della scadenza degli interessi, cioè quando il mutuatario è ormai sicuro di poter fare affidamento sul finanziamento concessogli.
    La terza eccezione riguarda l'anatocismo c.d. usuario, ricavabile dall'art.1283 c.c. “in mancanza di usi contrari”, avente natura normativa. L'anatocismo usuario costituisce una particolare tipologia di anatocismo atipico, poiché esso può derogare ai limiti che la legge impone per le altre due forme di anatocismo, infatti, esso può essere convenuto anche in epoca anteriore alla scadenza degli interessi originariamente pattuiti e pure se essi sono dovuti per meno di sei mesi.
    In giurisprudenza e in dottrina si è posto il problema se quest'ultimo tipo di anatocismo, anche ove praticato dalle banche e recepito nelle norme bancarie uniformi, abbia carattere normativo e possa legittimante derogare al disposto dell'art.1283 (art.8 delle preleggi).
    Le banche, infatti, prevedono la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi attraverso una convenzione accettata a monte dal cliente, a fronte invece di una capitalizzazione annuale degli interessi attivi, ossia dovuti dalla banca al cliente.
    Una parte della giurisprudenza e della dottrina aveva affermato che l'anatocismo bancario avrebbe potuto essere ritenuto legittimo sulla base, non dell'art.1283 c.c., bensì delle norme civilistiche in materia di conto corrente ordinario. In base a questa tesi, il combinato disposto degli artt.1823, 1825 e 1831 c.c. consentirebbe di ritenere, in mancanza di un diverso termine convenzionale o usuale, che il conto corrente abbia chiusura semestrale e che gli interessi non riscossi, maturati prima della chiusura, si assommerebbero al capitale preesistente, andando così a costituire il nuovo capitale posto come fondo economico della successiva apertura di conto. In sostanza, nella riapertura del conto dopo la scadenza non si potrebbe riscontrare un fenomeno di anatocismo ovvero di moltiplicazione dell'interesse sull'interesse, ma di conversione dell'interesse in capitale.
    Questa tesi è stata però osteggiata da quella parte della dottrina che ritiene che, nell'ambito della disciplina in materia di conto corrente ordinario richiamata dall'art.1857 c.c. in materia di conto corrente bancario, non rientri affatto anche quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 1823, 1825 e 1831, in materia di conto corrente ordinario. Quest'ultimo, infatti, a differenza del conto corrente bancario, è caratterizzato dall'inesigibilità delle poste, mentre nel conto corrente bancario i saldi sono sempre riscuotibili in pendenza del rapporto. La clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi nel conto corrente bancario, pertanto, sarebbe volta solo all'elusione del divieto di anatocismo e, quindi, conseguentemente nulla, in quanto disposta in frode alla legge (art.1344 c.c.).
    I più recenti arresti giurisprudenziali hanno definitivamente chiarito che l'uso recepito dalle norme bancarie uniformi non ha carattere normativo, ma negoziale e costituisce quindi una prassi negoziale. Mancano, in effetti, sia il requisito della ripetizione costante e continua del medesimo comportamento da parte di una collettività determinata o indeterminata, consolidatasi prima del recepimento all'interno delle norme bancarie uniformi, sia quello dell'opinio iuris ac necessitatis, ossia la convinzione della collettività di osservare un precetto giuridicamente vincolante.
    L'inciso “in mancanza di usi” contenuto nella norma imperativa di cui all'art.1283 del vigente c.c., infatti, ha riguardo al passato e cioè agli usi esistenti sotto il codice del 1865 e non si riferisce, invece, al periodo successivo all'entrata in vigore del codice civile del 1942, e tantomeno ammette l'esistenza di deroghe affermatesi in via consuetudinaria.
    Il risultato che ne consegue è che le banche pongono come condizioni per l'accesso al mutuo o al conto corrente l'accettazione di condizioni contrattuali uniformi che prevedono che il cliente sia sottoposto alla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e a quella annuale degli interessi attivi. La condizione soggettiva di colui che vi aderisce è quella corrispondente ad uno stato di soggezione, conseguente ad un'imposizione da parte del contraente più forte economicamente, considerata pertanto vincolante dalla controparte debole.
    Questi usi, utilizzati nelle relazioni commerciali bancarie anche dopo l'entrata in vigore del codice civile e, quindi, in deroga al divieto contenuto nell'art.1283 c.c., sono stati ritenuti dalla giurisprudenza e dalla dottrina contra legem, stante la contrarietà sia al termine semestrale di capitalizzazione sia alla prescrizione che subordina la produzione degli interessi ad una domanda giudiziale ovvero ad una convenzione posteriore alla scadenza della relativa obbligazione.
    Il legislatore italiano è intervenuto in materia di interessi anatocistici praticati dalle banche con il dlgs. n.342/99 che, modificando l'art.120 del dlgs. n.385/93, cosiddetto T.U. delle leggi in materia creditizia e bancaria, ha introdotto una nuova tipologia di anatocismo c.d. bancario. La norma affermava che sono possibili anche anatocismi in deroga all'art.1283 c.c., quindi anche trimestrali, purché la capitalizzazione degli interessi attivi sia uguale a quella degli interessi passivi, ossia che la banca applichi la stessa periodicità nel calcolo di entrambe le categorie di interessi.
    Le clausole relative alla produzione degli interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente all'entrata in vigore, in data 22/4/00, della delibera del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio, avrebbero dovuto adeguarsi alle nuove disposizioni contenute nell'art.25 del dlgs. n.342/99 entro il 30/6/00, al fine di tamponare la situazione venutasi a creare con il mutato orientamento giurisprudenziale sfavorevole al riconoscimento della natura normativa degli interessi bancari anatocistici, ma la norma è stata successivamente dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale per eccesso dalla legge delega n.128/98 con la sentenza n.425/00.
    Nell'occasione la Corte Costituzionale ha ritenuto illegittima la disposizione contenuta nel comma 5 dell'art.25 del dlgs. n.342/99, perchè la legge delega non aveva affatto autorizzato il legislatore delegato ad introdurre una disciplina validante in via retroattiva l'uso di capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari passivi. La norma, dunque, avrebbe sancito un'indiscriminata validità temporale delle clausole anatocistiche bancarie, prescindendo dal tipo di vizio da cui esse sarebbero state colpite e da ogni collegamento con il Testo Unico bancario.
    Sulla base di questa impostazione parte della giurisprudenza successiva ha ritenuto di poter negare validità sole alle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi contenute in contratti stipulati prima dell'entrata in vigore della delibera CICR ed ha applicato in via sostitutiva il meccanismo di integrazione ex lege previsto dall'art.1374 c.c. per consentire la capitalizzazione annuale degli interessi sia attivi sia passivi. Secondo questo orientamento tale cadenza temporale sarebbe apparsa maggiormente conforme alla previsione generale contenuta nell'art.1284, comma 1, c.c., del saggio annuale degli interessi, e al contenuto della clausola generale uniforme riportata nei contratti bancari, di chiusura annuale del conto al 31 dicembre.
    La tesi prevalente però si è compattata nel ritenere nulla la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, tesi avvalorata anche dalla dichiarazione di incostituzionalità del citato art.25, co.3, del dlgs.n.342/99 che, invece, aveva qualificato come inefficaci le clausole relative alla produzione di interessi non adeguate alla delibera del CICR, con la precisazione che si trattava di inefficacia relativa, eccepibile solo dal cliente.
    La giurisprudenza ha specificato che l'approvazione tacita, ai sensi dell'art.1832 c.c., degli estratti conto da parte del cliente rende inoppugnabile gli addebiti e gli accrediti solo sotto il profilo contabile, ma non anche in relazione alla validità e all'efficacia dei rapporti obbligatori e delle partite inserite nell'estratto. Sulla base di queste premesse, l'orientamento giurisprudenziale e dottrinale oggi prevalente sostiene che l'azione tendente a far valere la nullità della clausola che prevede l'anatocismo in relazione agli usi applicati al rapporto bancario sia imprescrittibile, ai sensi dell'art.1422 c.c., e che essa non sia assoggettabile alla prescrizione decennale (art.2946 c.c.) cui, invece, è da ritenersi sottoposta, ai sensi degli artt.2948 e 2033 c.c., la conseguente azione di ripetizione delle somme indebitamente trattenute a titolo di interessi passivi.
    La giurisprudenza, infatti, ritiene dovuta dalle banche la restituzione integrale delle somme indebitamente percepite dagli istituti bancari che hanno applicato l'anatocismo trimestrale passivo senza possibilità di dare luogo a ricalcoli arbitrari basati su meccanismi di conversione. Il termine di prescrizione decennale dell'azione di restituzione decorre, qualora i versamenti effettuati dal correntista in pendenza dell'apertura di credito abbiano funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi passivi sono stati registrati.
    E' tuttavia da segnalare anche quella parte della dottrina che, esponendo una tesi favorevole alle banche, ha ritenuto possibile l'estensione della nullità della clausola anatocistica relativa agli interessi debitori anche a quella speculare relativa agli interessi creditori, e addirittura fino anche all'intera pattuizione, essendo quelle due clausole parte della stessa causa del contratto di mutuo e di conto corrente. La giurisprudenza di legittimità, però, non ha dato applicazione a questa tesi minoritaria, ritenendo che l'anatocismo annuale della banca verso il cliente sia perfettamente in linea con il disposto normativo di cui all'art.1283 c.c., in quanto ampiamente avallato da un uso normativo pluriennale esistente, a differenza di quello del cliente verso la banca, da epoca anteriore all'entrata in vigore del codice civile.
    A tale tesi, però, è stato obiettato che l'art.36 del dlgs.206/05 potrebbe consentire l'estensione della nullità della clausola all'intera pattuizione solo su iniziativa del consumatore, non potendo, altrimenti, quest'ultimo subire le conseguenze di un'azione posta in essere dalla parte (ossia la banca in questo caso) che abbia tentato di avvantaggiarsi di una clausola imposta su un soggetto in condizioni di debolezza economica.
    Altra tesi ancora ha ritenuto ammissibile, sulla base del principio di normale fertilità del denaro di cui all'art.1284 c.c., la conversione della clausola di capitalizzazione degli interessi debitori da trimestrale ad annuale, al fine di evitare la restituzione di tutti gli importi indebitamente trattenuti trimestralmente.
    Un'ulteriore problematica apertasi al dibattito giurisprudenziale è stata quella relativa all'applicazione del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione dell'indebito nascente da operazioni bancarie regolate in conto corrente, se esso debba intendersi decorrente dall'annotazione dell'addebito in conto o dalla chiusura del conto. Una tesi minoritaria ha ritenuto che il computo del termine dovesse operare a partire dalla data dell'annotazione, poiché il contratto di conto corrente bancario, sebbene costituisca un rapporto unitario, ha natura di durata in cui rilevano i singoli atti di esecuzione.
    La giurisprudenza di legittimità e di merito hanno però disatteso detto orientamento, in particolare in seguito alla sentenza n.78/12 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art.2, comma 61, del D.L. n.225/10, convertito nella legge n.10/11, nella parte in cui stabiliva che “in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente” il termine di di decorrenza della prescrizione, previsto dall'art.2935 c.c., “dei diritti nascenti dall'annotazione in conto” dovesse avere inizio “dal giorno dell'annotazione stessa”. La pronuncia di illegittimità è stata motivata sulla base del riscontro nella fattispecie di un indebito meccanismo di validazione retroattiva delle riscossioni degli interessi anatocistici già operate dalle banche, in palese violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza (art.3 Cost.), nonché dell'art.117, primo comma, Cost., in relazione all'art.6 della CEDU che vieta indebite ingerenze del potere legislativo nell'amministrazione al fine di influenzare l'esito giudiziario di controversie. In conclusione, in base al prevalente orientamento della giurisprudenza e della dottrina più recenti, è da escludersi qualsiasi forma di capitalizzazione degli interessi, a debito o a credito, proprio in virtù del divieto di anatocismo (art.1283 c.c.). La capitalizzazione é ammissibile, invece, solo ove ricorrano gli specifici presupposti previsti dalla norma, ossia una necessaria periodicità almeno semestrale degli interessi e la sussistenza di un uso normativo consolidato, in quanto avente origine in una prassi anteriore all'entrata in vigore del codice o perché oggetto di un'apposita pattuizione o domanda giudiziale successive alla scadenza degli interessi precedentemente stabiliti. In mancanza delle suddette condizioni gli interessi non sono dovuti e, ove trattenuti, sono soggetti a restituzione entro l'ordinario termine di prescrizione decennale.
    Sulla base delle suddette argomentazioni sono state considerate nulle dalla giurisprudenza anche le c.d. clausole per relationem, cioè quelle che fanno rinvio, per la fissazione degli interessi dovuti dal cliente alla banca, alle condizioni praticate nella piazza. Le clausole per relationem violano il principio di trasparenza contenuto nelle norme del T.U. bancario, non essendo il relativo oggetto sufficientemente chiaro, univoco e accessibile. Tale tipologia di accordi, infatti, potrebbe ritenersi valida solo ove sussistano vincolanti discipline del saggio di interesse, fissate su scala nazionale con accordi di cartello, e non già quando vi sono generici riferimenti a diverse tipologie di tassi, non costituenti un parametro centralizzato e vincolante.
    A simili conclusioni è giunta la giurisprudenza anche a proposito delle commissioni di massimo scoperto, applicate periodicamente dalle banche come corrispettivo dell'offerta di disponibilità in caso di mancata copertura del conto. Si tratterebbe, in sostanza, di forme velate di capitalizzazione che comportano l'accrescimento dell'esposizione debitoria del correntista nei confronti della banca e, dunque, sarebbe ad esse estensibile il divieto di anatocismo (art.1283 c.c.).
    Con l'art.2bis del decreto legge n.185/08, convertito nella legge n2/09, il legislatore ha recepito il suddetto orientamento giurisprudenziale, abolendo le commissioni di massimo scoperto. Sono state espressamente qualificate nulle le commissioni applicate dalle banche quando il saldo del cliente risulti a debito per un periodo continuativo inferiore a trenta giorni o in caso di utilizzi in assenza di fido e le commissioni siano previste come mera remunerazione per la tenuta a disposizione di fondi a favore del cliente titolare di un conto corrente, indipendentemente dall'effettivo prelevamento e dall'effettiva durata dell'utilizzo dei fondi.


    Voto Invidiabile conoscenza dell'istituto. 17


    Posto anche un tema più "normale", comunque ben fatto

    Le obbligazioni pecuniarie sono quelle che hanno come oggetto della prestazione dovuta una somma di denaro. Ad esse il legislatore ha dedicato una disciplina specifica agli artt. 1277 e ss. del codice civile.
    E′ opportuno premettere che la concezione tradizionale del denaro, inteso come denaro contante sotto forma di “pezzi monetari” (monete o banconote) è in costante ed irreversibile declino. Secondo la concezione moderna, il denaro è sempre meno una entità materiale e sempre più una “ideal unit”. Le forme di pagamento e, dunque, di adempimento delle prestazioni oggetto di obbligazioni pecuniarie, si sono rapidamente evolute in forma di moneta elettronica, moneta contabile e moneta bancaria.
    Tutto ciò è noto come processo di “smaterializzazione” del denaro ed è importante tener conto di tutte le conseguenze di questa nuova idea della “pecunia”. Basti pensare alla problematica della ammissibilità di forme di pagamento alternative al denaro contante. Tradizionalmente, ad esempio, il pagamento effettuato dal debitore tramite assegno circolare è sempre stato considerato come una forma di datio in solutum (più precisamente, come una forma di datio pro solvendo) e, come tale, necessitante del consenso del creditore. Secondo l’attuale concezione, invece, proprio perché oggetto della prestazione pecuniaria non è tanto la disponibilità monetaria in sé, quanto la sua disponibilità giuridica, anche le forme di pagamento alternative al contante hanno l’attitudine ad estinguere l’obbligazione, senza necessità del consenso del creditore. Tanto più che strumenti di pagamento come l’assegno circolare o il bonifico bancario, sono mezzi di sicuro ed immediato realizzo del credito.
    Si è dibattuto a lungo sulla natura giuridica delle obbligazioni pecuniarie. Secondo un vecchio (ma ancora sostenuto) orientamento, esse rientrerebbero senz’altro nella categoria delle obbligazioni generiche, sull’assunto che il denaro è il bene generico e fungibile per eccellenza. Secondo altra impostazione, che parte dal presupposto che il legislatore ha dedicato alla materia una disciplina specifica, si tratterebbe invece di una categoria autonoma di obbligazioni. A seconda della ricostruzione accolta, diverse sono le ricadute applicative. Si pensi, ad esempio, all’applicabilità dell’art. 1256 c.c. in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione. Se l’obbligazione pecuniaria viene fatta rientrare nel novero di quelle generiche, l’art. 1256 c.c. non potrà essere applicato: l’obbligazione avente ad oggetto il denaro, infatti, sottostarebbe al principio genus numquam perit.
    I principi fondamentali che governano l’intera materia delle obbligazioni pecuniarie sono fondamentalmente tre: il c.d. principio nominalistico, il principio della “naturale fecondità del denaro” e la disciplina degli interessi moratori.
    Il principio nominalistico è sancito dall’art. 1277 c.c., il quale dispone che “i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale”. In forza di tale norma, pertanto, chi contrae un’obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro pari a cento, al tempo stabilito per il pagamento sarà tenuto alla restituzione di una somma sempre pari a cento (a parte gli eventuali interessi dovuti). E′ di palmare evidenza che l’applicazione rigorosa di tale principio va a detrimento degli interessi del creditore: egli potrebbe trovarsi nella condizione di incassare, al tempo dell’adempimento, una somma con valore nettamente inferiore rispetto a quello che aveva al momento in cui era sorta l’obbligazione (dato il fenomeno della svalutazione monetaria e, soprattutto, quello dell’inflazione, che fa diminuire notevolmente il potere di acquisto del denaro).
    In virtù dell’autonomia contrattuale, le parti possono tuttavia prevedere dei correttivi. Possono ad esempio “indicizzare” la somma oggetto dell’obbligazione stabilendo che al tempo della restituzione essa dovrà essere “conguagliata” a certi “indici” (in genere si prendono a parametro di riferimento gli indici ISTAT dei prezzi al consumo o del costo della vita). Oppure possono decidere di “agganciare” l’importo dovuto al valore che hanno certi beni al tempo previsto per il pagamento (di solito si ricorre alle “clausole oro” o alle “clausole merci” (cotone, rame, etc.). Sempre in omaggio all’autonomia contrattuale, le parti potrebbero anche pattuire la possibilità di rinegoziazione dell’importo oggetto dell’obbligazione.
    A parte i correttivi negoziali appena visti, vi sono anche quelli di natura legislativa. Il più importante è quello della previsione degli interessi c.d. corrispettivi. Il parametro normativo di riferimento è l’art. 1282 c.c., il quale dispone che “i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto …”. Questa è una disposizione davvero centrale in materia di obbligazioni pecuniarie, perché fondata su un antico ed ancora valido principio: quello poc’anzi accennato della naturale fecondità del denaro. Esso è infatti bene normalmente fruttifero, “salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente” (art. 1282 c.c., 1° comma, ultima parte). Gli interessi naturalmente prodotti dal denaro sono definiti dal codice civile come frutti civili ex art. 820, 2° comma c.c. Tale norma, infatti, dopo aver definito i frutti civili come “quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia”, annovera tra essi anche gli “interessi dei capitali”. Non è un caso che vengano definiti, appunto, “corrispettivi”: la loro funzione è essenzialmente quella di ristabilire l’equilibrio economico venuto meno per il fatto che il creditore ha prestato una somma di denaro della quale non ne ha la disponibilità fino al momento della restituzione (mentre nel frattempo è il debitore ad averne il godimento potendola sfruttare per gli usi che intende farne).
    Diversi dagli interessi corrispettivi sono quelli moratori. Come si evince dallo stesso termine, questi ultimi sono dovuti per il ritardo nell’adempimento. La loro funzione è molto diversa ed è fondamentalmente di natura risarcitoria. Il nostro legislatore ha dedicato una disposizione piuttosto rigorosa ai danni da obbligazioni pecuniarie, a riprova della forte tutela garantita al credito dal nostro ordinamento giuridico (sull’assunto che in un sistema dove il credito è ben protetto, la ricchezza circola meglio). Si tratta dell’art. 1224 c.c., posto al di fuori della parte del codice disciplinante le obbligazioni pecuniarie e significativamente collocato in quella riguardante le conseguenze dell’inadempimento delle obbligazioni.
    La norma dispone che sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente. Per stabilirne il tasso, occorre fare riferimento all’art. 1284 c.c. (che in sostanza prevede che il Ministero del Tesoro possa modificare il saggio degli interessi ogni anno tramite decreto da pubblicarsi in Gazzetta Ufficiale). La particolarità degli interessi moratori è che il creditore non è tenuto a provare di aver sofferto un danno. Nel caso in cui dimostri di aver subito un danno maggiore, gli spetta l’ulteriore risarcimento (tranne nel caso in cui sia stata pattuita la misura degli interessi moratori). Se prima della mora, inoltre, erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura.
    Da quanto appena esposto, emerge l’esistenza di una terza categoria di interessi: quelli c.d. negoziali. Quelli, cioè, la cui misura è stata preventivamente concordata tra le parti. Ai sensi dell’art. 1284 c.c., gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto. La forma scritta è qui richiesta ad substantiam: in mancanza di essa, infatti, gli interessi sono dovuti nella misura legale.
    Infine, un cenno ad una particolare tipologia di interessi. Quelli c.d. compensativi. Essi sono previsti dal codice civile all’art. 1499 in tema di compravendita e sono quelli che decorrono sul prezzo, anche se questo non è ancora esigibile, qualora la cosa venduta e consegnata al compratore sia fruttifera. La loro funzione è evidente, ed è appunto quella di “compensare” il venditore per il fatto di aver già consegnato materialmente al compratore un bene che produce frutti o altri proventi, pur non avendo ancora ricevuto la controprestazione del pagamento del prezzo. In giurisprudenza la locuzione “interessi compensativi” viene utilizzata in tema di responsabilità aquiliana per indicare gli interessi calcolati su una somma dovuta a titolo di risarcimento. Essi decorrerebbero dal giorno dell’illecito e “compenserebbero” il danneggiato del fatto che sino all’emanazione della sentenza non potrebbe disporre della detta somma.
    La dottrina è in genere contraria all’inquadramento di questo tipo di interessi tra quelli compensativi e li ritiene semplicemente come una particolare categoria di interessi moratori. A proposito, poi, di responsabilità aquiliana, è soprattutto in relazione ad essa che è possibile rintracciare un ulteriore correttivo (stavolta di matrice giurisprudenziale) al principio nominalistico. Sono stati prevalentemente i giudici di merito ad introdurre la differenza tra debiti di valuta e debiti di valore. I primi si riferiscono alle obbligazioni pecuniarie che sottostanno al principio nominalistico, i secondi soprattutto a quelle derivanti da illecito di natura extra-contrattuale. Il discrimen tra le due tipologie di debiti è dato dall’oggetto originario della prestazione: nei debiti di valuta la prestazione dedotta in obbligazione è, sin dall’inizio, una somma di denaro. Nei debiti di valore, invece, oggetto originario della prestazione è un bene diverso dal denaro. Qui si tratta di “ragguagliare” il valore di un bene (perduto o danneggiato) ad un determinato valore monetario. Nel momento in cui il giudice ne stabilisce la misura attraverso la liquidazione in sentenza, il debito di valore si tramuta in debito di valuta (con tutte le conseguenti ricadute applicative (sarà dunque applicabile, a titolo di esempio, l’art. 1224 c.c. in caso di ritardo nell’adempimento).
    Tanto premesso in tema di principi generali in materia di obbligazioni pecuniarie, merita particolare attenzione, a proposito della disciplina degli interessi, il fenomeno del c.d. anatocismo. Il termine deriva dal greco “anà” (di nuovo) e “tokòs” (interesse) e sta infatti ad indicare il meccanismo attraverso il quale interessi già maturati e scaduti producono a loro volta interessi. Si tratta di istituto considerato in genere con particolare disfavore in qualunque ordinamento giuridico, dal momento che provoca un graduale e progressivo aggravamento della posizione del debitore. Si tenga presente, infatti, che gli interessi hanno la caratteristica della “proporzionalità”. Vengono cioè calcolati in ragione dell’importo del capitale. Maggiore è il capitale, maggiori sono gli interessi. Con l’anatocismo gli interessi già maturati vengono “capitalizzati” periodicamente, così da rendere più oneroso l’adempimento a carico del debitore. E′ per tale ragione che il nostro sistema giuridico prevede, all’art. 1283 c.c., un divieto generale di anatocismo (si ricordi che il termine, dal greco, viene anche significativamente tradotto come “usura”).
    Ad un’attenta lettura della norma appena citata, emerge però la sua particolare formulazione, più incentrata sulle eccezioni che sulla regola generale che vieta l’anatocismo. La disposizione, dopo l’esordio con la clausola “in mancanza di usi contrari”, dispone che gli interessi scaduti possono produrre a loro volta interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. La norma prevede, dunque, tre tipi di anatocismo. Quello c.d. negoziale, quello giudiziale e quello c.d. usuale. Mentre i primi due non pongono particolari problematiche, quello usuale è stato invece oggetto di aspri dibattiti e di contrasti giurisprudenziali, addirittura sfociati alla fine in un intervento a Sezioni Unite della Cassazione ed in una sentenza della Corte Costituzionale.
    Si fa riferimento, in modo particolare, al c.d. anatocismo bancario che (salvo qualche minoritario orientamento) viene pacificamente annoverato nell’anatocismo usuale. Il Testo Unico Bancario del 1951 prevede che le banche, nei rapporti coi propri clienti, possono stipulare contratti bancari (quali, soprattutto, il conto corrente, ma anche deposito e fido) contenenti clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista e di capitalizzazione annuale per quelli a suo credito. Tale normativa è sempre stata oggetto di doglianze da parte dei clienti delle banche. Sin dall’emanazione del T.U.B., numerose sono state le cause dagli stessi incardinate per disparità di trattamento e per impossibilità di negoziazione della misura degli interessi (decisa unilateralmente dagli istituti id credito).
    Fino alla fine degli anni novanta, tuttavia, sia la dottrina che la giurisprudenza maggioritarie erano orientate nel ritenere legittima la prassi delle banche di capitalizzare trimestralmente gli interessi a debito dei clienti. Ciò sull’assunto della natura di uso normativo dell’anatocismo bancario, come tale rientrante nelle deroghe previste dalla clausola con cui si apre l’art. 1283 c.c. E′ infatti da sempre opinione pacifica che gli usi cui fa riferimento la norma non sono quelli negoziali ex art. 1340 c.c., ma quelli normativi ex artt. 1 ed 8 delle disposizioni sulla legge in generale. Questi ultimi sono in grado di derogare al divieto generale di anatocismo, proprio in virtù delle loro caratteristiche: essi derivano, infatti, dalla ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (la c.d. diuturnitas) accompagnata dalla convinzione della sua generale vincolatività (opinio iuris ac necessitatis). E′ di palmare evidenza che se l’anatocismo bancario avesse davvero queste caratteristiche, avrebbe l’attitudine a derogare all’imperatività dell’art. 1283 c.c.
    La Corte di Cassazione, con due importanti sentenze del 1999, con un clamoroso revirement hanno smentito la collocazione, fino ad allora data per scontata, dell’anatocismo bancario nel novero degli usi normativi. Ciò che è stato messo in rilievo dai giudici della Suprema Corte è la mancata prova dell’esistenza di un uso normativo - anteriore all’entrata in vigore del codice civile - di capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista. Ulteriore aspetto su cui è stato posto l’accento, è l’evidente assenza della “opinio iuris ac necessitatis”: i clienti delle banche, lungi da una spontanea e convinta adesione alle clausole di capitalizzazione trimestrale, si trovano da sempre nella condizione di dover firmare contratti in cui le condizioni sono stabilite unilateralmente dalle banche. L’accettazione delle clausole anatocistiche è infatti presupposto indispensabile per accedere ai vari servizi bancari.
    Dopo le pronunce degli ermellini, le banche hanno dovuto difendersi in giudizio dalle innumerevoli richieste dei clienti che pretendevano la riscossione delle somme indebitamente percepite. Si è reso a quel punto necessario l’intervento del legislatore. Questi, con D. Lgs. n. 342/1999 ha tentato un riordino della materia ma, nell’intento di dare soluzione alle problematiche create dall’anatocismo bancario, ne ha creato di nuove e più gravi. La maggiore criticità del decreto sta nel fatto di aver previsto un meccanismo di sanatoria retroattiva delle clausole di capitalizzazione trimestrale contenute nei contratti stipulati prima dell’entrata in vigore del decreto. Inevitabile la sollevazione della questione di legittimità costituzionale e il suo accoglimento da parte della Corte Costituzionale.
    Con sentenza dell’anno duemila, i giudici delle leggi hanno sancito l’incostituzionalità del D. Lgs. 342/1999 in relazione all’art. 77 Cost. per eccesso di delega. Nella legge delega, infatti, non è in alcun modo rintracciabile l’intento di introdurre un meccanismo di retroattività delle clausole di capitalizzazione trimestrale a favore delle banche. Anche perché, se lo avesse previsto, anche la stessa legge delega si sarebbe posta in contrasto con un principio primario del nostro ordinamento giuridico: quello sancito dall’art. 11 delle preleggi, secondo il quale “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. All’indomani della declaratoria di incostituzionalità, il problema era di stabilire la sorte dei contratti stipulati sotto la vigenza del decreto. Anche in tal caso le soluzioni sono state contrastanti. Secondo una certa impostazione, le clausole di capitalizzazione trimestrale per gli interessi a debito del correntista devono tramutarsi in clausole di capitalizzazione annuale (come per gli interessi a credito) così da garantire la parità di trattamento tra la banca e il suo cliente. Secondo altra soluzione, largamente condivisa sia da dottrina che da giurisprudenza, lo strumento è quello della nullità parziale ex art. 1419 c.c. : se risulta che i contraenti avrebbero comunque stipulato il contratto bancario anche in presenza della clausola anatocistica, ciò importa la nullità di tale singola clausola, lasciando in piedi il resto del contratto. Infine, una soluzione che rappresenta un ritorno al passato: una parte (per vero minoritaria) della dottrina, continua a ritenere l’anatocismo bancario come uso normativo e quindi legittimo ex art. 1283 c.c. Tale posizione è da considerarsi non accoglibile. Tanto più che la Cassazione, con una sentenza a Sezioni Unite del 2004, ha ribadito che la prassi bancaria di capitalizzare trimestralmente gli interessi a debito è uso di natura negoziale, come tale carente dell’attitudine a derogare all’art. 1283 c.c.

    Voto Come capacità logica e discorsiva, questo tema scorre meglio di quello che ho postato sopra. Ha preso 13 e 1/2 perché manca la parte sul termine prescrizionale per l'azione di ripetizione.:)
     
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    Tema migliore Novembre, traccia due: "L'autotutela nel diritto civile: l'eccezione di inadempimento e il suo onere probatorio".

    Considerazioni generali sui temi corretti: quasi tutte sufficienze. Bravi!



    Tema migliore:
    Il tema dell’autotutela in diritto civile è stato oggetto di una grandissima attenzione da parte sia della dottrina che della giurisprudenza ed ha visto la contrapposizione tra chi ne nega la sussistenza e chi, invece, l’ammette.
    Il primo degli orientamenti citati ritiene che, nel nostro ordinamento, in linea generale, non è contemplata la possibilità di farsi giustizia da sé in quanto solo allo Stato è attribuito, in via esclusiva, il compito di amministrare la giustizia. Si afferma che tale principio trovi il proprio fondamento, anche a livello costituzionale, ex art. 101 e 102 Cost.
    La sfiducia nei confronti dell’autotutela deriva probabilmente da una visione della stessa quale tecnica giuridica del “diritto primitivo” e come manifestazione di vendetta che, non solo non si deve ammettere, ma si deve proibire e sanzionare, anche penalmente. La condotta di chi si fa giustizia da sé può, infatti, addirittura assumere i connotati dell’illecito penale: si fa riferimento al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle cose e sulle persone (artt. 392 e 393 c.p.).
    Il secondo orientamento, invece, ammette il ricorso all’autotutela ma all’interno dello stesso si deve distinguere tra chi vede la stessa come regola di carattere generale e chi, opinione prevalente, guarda ad essa come una ipotesi eccezionale, la cui attivazione è condizionata all’esistenza di una fattispecie disciplinata da apposita norma di legge.
    La dottrina minoritaria ritiene che l’argomento che fa leva sulle norme su richiamate non sia insuperabile. Gli artt. 392 e 393 c.p., infatti, riguardano solo ipotesi di violenza su cose o persone, e quindi non puniscono in via generale l’esercizio delle proprie ragioni ma la violenza sulle cose o la violenza o minaccia sulle persone al fine di affermare arbitrariamente le proprie ragioni. Secondo tale orientamento, non solo le norme predette si riferiscono a fattispecie diverse ma l’esercizio delle proprie ragioni deve essere arbitrario. Ritengono, pertanto, in conclusione che gli artt. 392 e 393 c.p. non introducano un divieto generale di autotutela privata ma anzi, a contrario, tale autotutela riconoscono in via generale laddove vietano l’esercizio delle proprie ragioni solo nei casi in cui esso sia arbitrario e violento.
    La dottrina maggioritaria ritiene, invece, che nonostante la mancanza nel nostro ordinamento di una disposizione generale, come è presente in quello tedesco, vi sono comunque alcune ipotesi in cui, tenuto conto di determinate condizioni, risulta eccezionalmente consentito ad un soggetto agire proteggendo la propria sfera giuridica minacciata o lesa da un comportamento altrui: si tratta di ipotesi tassativamente previste dalla legge, dunque insuscettibili di interpretazione analogica.
    In dottrina non c’è, però, una visione univoca circa i casi rientranti tra le ipotesi di autotutela tanto che, secondo un autorevole studioso, per esempio, non ne farebbe parte la confessione stragiudiziale, l’arbitrato, ne’ tantomeno lo stato di necessità.
    Nonostante le forti discussioni in argomento, si è giunti ad una definizione il più possibile condivisa di autotutela in base a cui essa consiste nel potere generale di difendere direttamente il proprio interesse legalmente riconosciuto e protetto, mantenendo inalterata la situazione esistente e consolidata ovvero ripristinando, nei casi previsti dalla legge, quella anteriore alla costituzione di un determinato rapporto obbligatorio.
    Le più varie definizioni e classificazioni del fenomeno dell’autotutela paiono, in ogni caso, convergere sull’esatta considerazione secondo cui essa è espressione dei principi di correttezza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio o nell’esecuzione del contratto, finalizzata, principalmente ed empiricamente, ad evitare una inaccettabile iniquità determinata dal dovere di esecuzione a fronte di un atteggiamento in certi casi addirittura programmaticamente inadempiente della controparte. E’, dunque, da respingere ogni deriva ideologica che connota negativamente il fenomeno dell’autotutela in diritto civile, al contrario di quanto accade in amministrativo, dove è invece accolta con grande favore.
    Per quanto concerne le classificazioni, l’autotutela in diritto civile può assumere natura “unilaterale” o “consensuale”.
    In quest’ultimo caso, nell’ambito di un precedente accordo, le parti convengono di istituire meccanismi predeterminati di protezione di determinate posizioni soggettive, idonei ad essere attivati senza che si palesi indispensabile il ricorso all’autorità giudiziaria.
    E’ possibile distinguere l’autotutela consensuale in base alle funzioni svolte: finalità ricognitiva, satisfattiva e cautelativa.
    Esempi della prima tra le citate funzioni sono: l’arbitrato, il negozio di accertamento, la transazione, la confessione stragiudiziale e l’inventario. Rientrano, invece, nell’ambito dell’autotutela consensuale con funzione satisfattiva: la cessione dei beni ai creditori, l’anticresi, il divieto di patto commissorio. Sono, infine, esempi dell’autotutela consensuale con funzione cautelare: le figure di sequestro convenzionale e garanzie reali (pegno e ipoteca).
    Per quanto concerne l’ autotutela unilaterale, si tratta di quelle ipotesi, eccezionalmente consentite, nelle quali è possibile per il soggetto titolare del diritto di porre in essere autonomamente una condotta idonea a proteggere la propria posizione giuridica, pur senza l’intervento di alcuno. Si può, a tal proposito, rammentare, oltre ai casi piuttosto evidenti di legittima difesa e stato di necessità, quelli di eccezione di inadempimento, la vendita e la compera per conto di chi spetta, la possibilità di alienare le quote del socio moroso, il diritto riservato al mandatario dall’art. 1721 c.c., le numerose norme attributive del diritto di ritenzione, il diritto di sciopero.
    L’autotutela unilaterale può essere ulteriormente distinta a seconda del carattere “attivo” o “passivo” che la contraddistingue.
    Nel primo caso, l’autotutela ha, per contenuto, una condotta positiva e, per risultato, un mutamento protettivo dell’ attuale stato di fatto.
    L’autotutela unilaterale attiva viene anche distinta in preventiva e reattiva, rientrando nel primo ambito, per esempio, la chiusura del fondo, l’accesso al fondo altrui e lo stato di necessità mentre, nel secondo, la legittima difesa, l’azione surrogatoria, la diffida ad adempiere e l’esecuzione coattiva per inadempimento del compratore e del venditore.
    L’autotutela unilaterale passiva, invece, ha, per contenuto, una omissione e, per risultato, il mantenimento dello stato di fatto esistente contro l’altrui pretesa di mutarlo. Vi rientrano il diritto di ritenzione, l’eccezione di inadempimento, l’eccezione di mutamento delle condizioni patrimoniali dell’altro contraente e la facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto. Ok!! Bravo/a!!
    Nell’ambito dell’autotutela in diritto civile, assume una particolare rilevanza l’eccezione di inadempimento.
    Il diritto romano non conobbe tale figura generale ma ravvisò l’operatività del rimedio con riguardo a specifiche ipotesi di inadempimento inerenti la vendita. In un passo di Ulpiano è chiaramente affermato che il venditore può trattenere la cosa “quasi come un pegno” fino a quando il debitore non abbia pagato il prezzo.
    Per quanto ampia potesse essere l’operatività del rimedio, la formulazione del principio in termini generali ebbe luogo solo nel diritto intermedio, ad opera dei Postglossatori. L’espressione latina exceptio non adimplenti contractus, ancora oggi usuale, compare nel XVI secolo, in una sentenza del parlamento di Grenoble.
    Neppure il codice francese enunciò il principio generale dell’eccezione di inadempimento, pur se era ormai di comune applicazione. Solo in tema di vendita fu sancito che il venditore non è tenuto alla consegna della cosa se il compratore non ha pagato il prezzo (art. 1612). In termini analoghi si espresse il nostro codice civile del 1865 (art. 1469 comma 1). Spettava alla dottrina e alla giurisprudenza il compito di riconoscere in tali formule l’attribuzione di una eccezione in favore del venditore e l’espressione di un principio applicabile a tutti i contratti sinallagmatici.
    Il codice del 1942 prevede espressamente all’art. 1460 c.c. l’eccezione di inadempimento.
    In particolare, nei contratti a prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione se l’altro non adempie o non si offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. L’ultimo comma è poi teso ad evitare possibili abusi laddove prevede che tuttavia non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario a buona fede.
    La difesa mediante il ricorso all’eccezione di inadempimento avviene attraverso un comportamento negativo e da ciò deriva la sua collocazione nell’ambito dell’autotutela c.d. passiva, consistente nel rifiuto di adempiere la propria obbligazione. Si tratta, inoltre, di un comportamento negativo che prescinde da un preventivo consenso o comportamento della parte o di un terzo o da una preventiva autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, circostanza che ne afferma la collocazione nell’ambito dell’autotutela unilaterale.
    L’eccezione di inadempimento è, pertanto, un potere di autotutela che ha l’effetto di legittimare la sospensione dell’esecuzione della prestazione da parte del contraente non inadempiente fino a quando l’altro contraente non adempia la sua obbligazione.
    Si parla anche di eccezione dilatoria in quanto non è diretta a contestare definitivamente la pretesa dell’attore che potrebbe riproporre nuova domanda, adempiendo o offrendo di adempiere la prestazione da esso dovuta. Alcuni ritengono sia una potestà, con l’intenzione di limitarla al piano processuale in considerazione del generale divieto di autotutela. Alcuni hanno avvicinato l’eccezione al diritto di ritenzione, considerando la prima una sottocategoria della seconda. Secondo diversi autori si tratta, invece, di rimedi nettamente diversi, essendo quest’ultima una garanzia su un bene che il creditore ha l’obbligo di restituire.
    I presupposti necessari affinché possa operare l’istituto sono due: la corrispettività della prestazione e l’inadempimento o la mancata offerta della controprestazione.
    In merito al primo presupposto, numerosi sono stati i criteri adottati nel corso degli ultimi anni dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Alcuni hanno adottato dei criteri di carattere prettamente formali, che inducono a ravvisare la sussistenza della corrispettività solo in presenza di contratti a prestazioni corrispettive. Altra parte di dottrina si è fatta portatrice di soluzioni di carattere più estensivo, che portano ad ammettere l’applicabilità dell’eccezione anche in contesti in cui non si può strettamente parlare di sussistenza della corrispettività tra le prestazioni. Proprio i fautori di orientamento hanno fatto ricorso al concetto di interdipendenza al fine di ampliare l’ambito di applicazione dell’eccezione. Secondo parte della dottrina, può essere sollevata tale eccezione anche nei contratti plurilaterali con comunione di scopo a fronte dell’inadempimento di una prestazione che, secondo le circostanze, debba considerarsi essenziale. In tema di contratti associativi, la giurisprudenza di legittimità è sostanzialmente conforme nel ritenere improponibile l’eccezione di inadempimento nei contratti plurilaterali, come ad esempio può essere il contratto di società in quanto l’eccezione di inadempimento è finalizzata alla tutela degli interessi contrapposti tra le parti.
    La dottrina si è anche interrogata in ordine alla proponibilità dell’eccezione di inadempimento nell’ambito dei contratti bilaterali imperfetti, come il mandato o il deposito. Si tratta di tipologie contrattuali che, pur presentando un contenuto ed una struttura bilaterali, sono altresì caratterizzati da alcuni elementi di particolarità che possono incidere sul carattere sinallagmatico. La difficoltà sta nell’immaginare o prospettarsi casi nei quali l’inadempimento del mutuante o del comodante sia in grado di giustificare l’opponibilità dell’eccezione ex art. 1460 c.c. da parte del mutuatario o del comodatario. Parte della dottrina ritiene che, anche se a titolo gratuito, può rilevarsi l’eccezione di cui si discorre quando l’obbligato principale abbia diritto alla corresponsione dei mezzi necessari per l’esecuzione del contratto e degli impegni connessi a tale esecuzione. Tale orientamento si basa sulla ratio del rimedio che è di prevenire una situazione di squilibrio economico a danno di una parte a causa dell’inadempimento dell’altra.
    Si mette, inoltre, in evidenza che non impedisce il ricorso all’eccezione, l’accessorietà dell’obbligazione inadempiuta purché questa abbia una importanza rilevante nell’economia dell’affare.
    Parte della dottrina ritiene, altresì, che l’eccezione è opponibile anche quando le contrapposte obbligazioni hanno titolo in contratti diversi ma collegati.
    Anche la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere applicabile l’eccezione in oggetto ai contratti collegati che, pur distinti tra loro, sono collegati in quanto preordinati alla realizzazione di un unico interesse e si inseriscono nell’ambito di una unitaria operazione economica.
    Ulteriore presupposto è la mancata offerta della controprestazione o che controparte sia inadempiente.
    Si premette che l’esercizio del rimedio prescinde dalla responsabilità della controparte in quanto l’interesse della parte a non eseguire la prestazione senza ricevere la controprestazione è ugualmente meritevole di tutela pur se il mancato adempimento della controprestazione dipenda da causa non imputabile.
    L’inadempimento della controparte implica che la sua prestazione sia attualmente dovuta, che cioè la controparte non abbia adempiuto alla sua scadenza del termine o non adempia a seguito delle richieste del creditore.
    La riserva del codice di cui al I comma dell’art. 1460 c.c. va intesa nel senso che l’eccezione è inopponibile alla controparte se la sua prestazione non sia ancora esigibile.
    Nei contratti di esecuzione continuata o periodica, ciascuna parte può rifiutarsi di eseguire la propria prestazione se l’altra parte non esegue tutte le singole prestazioni già anteriormente scadute in quanto la pluralità delle prestazioni non esclude l’unitarietà dell’obbligazione.
    Nei contratti a prestazioni corrispettive, la contestualità degli adempimenti costituisce la regola ma quando si tratta di prestazioni che richiedono un certo tempo di esecuzione, è normale che le parti o gli usi prevedano la corresponsione di anticipi del corrispettivo. Gli anticipi che devono essere corrisposti nel corso della prestazione o nello svolgimento della stessa possono essere sospesi se la controparte non ha iniziato l’attività preparatoria o esecutiva o non ne rispetta i tempi. A sua volta, il mancato versamento degli anticipi legittima la controparte a sospendere la propria attività.
    La parte che si avvale dell’eccezione di inadempimento si rifiuta di eseguire una prestazione attualmente dovuta, ponendosi in una situazione di inadempimento che però è giustificato in quanto imputabile al creditore, non perdendo quindi diritto alla controprestazione.
    Tale eccezione consiste in uno strumento di carattere autonomo in quanto si tratta di un potere che la parte può esercitare, autonomamente, al fine di tutelarsi di fronte all’inadempimento di controparte, indipendentemente dal ricorso ad altri rimedi. Non interferisce, per esempio, con il rimedio della risoluzione del contratto che l’eccipiente può comunque esercitare se ne ricorrono le condizioni. In quanto legittima reazione all’inadempimento di controparte, l’eccezione vale a contrastare le azioni di adempimento, di esecuzione in forma specifica, di risoluzione del contratto e in genere tutte le azioni esercitate contro l’eccipiente sul presupposto del suo inadempimento.
    Da quanto sopra, emerge che la funzione dell’eccezione di inadempimento è, quindi, quella di garantire l’eguaglianza tra le posizioni delle parti nella fase dell’esecuzione del contratto. Questa funzione è implicitamente riconosciuta dalla dottrina che fa richiamo alla buona fede e all’equità o che vede senz’altro nell’eccezione l’espressione del principio sinallagmatico.
    Una dottrina ha ravvisato nell’eccezione una funzione strumentale rispetto alla risoluzione del contratto: l’eccezione garantirebbe la fruttuosità della risoluzione del contratto, evitando che il creditore esegua una prestazione di cui potrebbe essere incerto il recupero. Questa dottrina dà peraltro eccessivo rilievo ad una vicenda ulteriore che è solo eventuale e che si distingue nettamente dall’eccezione di inadempimento: è una vicenda estintiva del contratto mentre l’eccezione ne sospende l’esecuzione lasciando aperta la possibilità che il debitore adempia esattamente la sua obbligazione.
    Altra dottrina ravvisa nell’eccezione di inadempimento una funzione strumentale rispetto all’adempimento: l’eccezione esprimerebbe la pretesa del creditore all’esatta esecuzione della prestazione. Nelle ipotesi di inesatto adempimento l’eccezione sarebbe volta ad ottenere la sostituzione o la riparazione del bene e sarebbe, quindi ammissibile solo nei limiti in cui il creditore possa far valere tali rimedi, ossia entro un ambito notevolmente ridotto, posto che in generale il diritto del creditore alla sostituzione della prestazione non è ammesso nel nostro ordinamento e il diritto di riparazione è largamente contestato.
    L’eccezione di inadempimento in realtà, come non è strumentale alla risoluzione del contratto, così non lo è neppure rispetto ad altri rimedi contro l’inadempimento. Con l’esercizio dell’eccezione, il creditore si limita a sospendere la propria prestazione senza esercitare o vincolarsi alla scelta di altri rimedi. Proprio in quando non implica l’esercizio di altri rimedi definitivi contro l’inadempimento, consente che il contratto abbia una esecuzione volontaria che prescinde dal diritto del creditore al compimento di determinati atti di regolarizzazione della prestazione. A seguito dell’eccezione il debitore potrà provvedere a sostituire la cosa o a ripararla o a rimuovere comunque la situazione di inadempimento. Si conferma pertanto che l’eccezione di inadempimento è un rimedio autonomo, il cui esperimento non può essere subordinato alla presenza dei presupposti necessari per l’esercizio di altri rimedi.
    Altra questione che ha suscitato riflessioni è relativa alla necessità o meno della presenza del requisito della gravità dell’inadempimento. Dottrina maggioritaria ha sostenuto che il creditore può valersi dell’eccezione nel caso di breve ritardo e nel caso di inesattezza quantitativa o qualitativa della prestazione pur se l’inesattezza non sia tale da giustificare la risoluzione del contratto.
    La gravità dell’inadempimento è, infatti, un presupposto della risoluzione e trova giustificazione nella radicalità e definitività di tale rimedio, mente l’eccezione di inadempimento non estingue il contratto ma ne sospende l’esecuzione, permettendo al debitore di eliminare l’inesattezza della prestazione che, per quanto di lieve entità, lo esporrebbe comunque al risarcimento del danno.
    In giurisprudenza si è, però, affermato che la mancanza di gravità dell’inadempimento renderebbe l’eccezione contraria a buona fede. Parte della dottrina contrasta tale affermazione in quanto si ritiene non accettabile in termini assoluti poiché si verrebbe in tal modo a limitare la funzione del rimedio. Si precisa che è, tuttavia, possibile che la non gravità dell’inadempimento costituisca una delle circostanze che integrano la contrarietà a buona fede.
    Il codice esclude espressamente che il creditore possa rifiutarsi di eseguire la sua prestazione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede. Si fa riferimento alla buona fede in senso oggettivo o correttezza, intesa come canone di condotta corrispondente a regole di lealtà e correttezza, alla cui stregua si deve ricostruire la volontà delle parti. Secondo autorevole dottrina quanto stabilito dall’art. 1460 comma 2 c.c. deve ritenersi applicabile a tutti i casi di autotutela.
    L’aspetto problematico relativo alla conformità a buona fede risiede nel fatto che la disposizione normativa dell’art. 1460 c.c. si limita a fare riferimento al principio di buona fede ma non indica in concreto quale sia il rifiuto che possa essere qualificato come contrario al principio indicato.
    Come canone di salvaguardia, il rifiuto del creditore di eseguire la propria prestazione risulta contrario a buona fede se l’eccezione comporta per il debitore conseguenze eccessivamente onerose; se l’inadempimento è di lieve entità e l’eccezione comporta l’estinzione dell’obbligazione dell’eccipiente; se l’eccezione pregiudica un diritto fondamentale della persona.
    Con riguardo alla prima ipotesi, si mette in evidenza che la stessa ricorre quando l’eccezione comporta per il debitore costi sensibilmente maggiori del semplbice pregiudizio derivante dalla sospensione dell’esecuzione del contratto. La seconda ipotesi di eccezione abusiva ricorre quando questa è sollevata a fronte di un inadempimento di scarsa importanza e la sospensione del contratto porta al risultato dell’estinzione dell’obbligazione dell’una o dell’altra parte(es. l’eccezione, sollevata per contestare un inadempimento di lieve entità, si protrae oltre la scadenza del termine essenziale).
    La terza ipotesi è quella in cui il rifiuto del creditore di eseguire la propria prestazione può pregiudicare la persona del debitore o di terzi (un esempio è il somministrante che sospende l’erogazione dell’acqua potabile).
    Ulteriore questione riguarda la proponibilità di una eccezione parziale di inadempimento relativa ad una inesattezza qualitativa o quantitativa della prestazione
    L’eccezione parziale di inadempimento è proporzionale all’inadempimento del debitore in quanto con la stessa il creditore rifiuta di eseguire una parte della propria prestazione in corrispondenza all’inesattezza della controprestazione.
    Se si tratta di inesattezza quantitativa, la parte della prestazione rifiutata è determinata direttamente dalla percentuale della riduzione della controprestazione. Se si tratta di prestazione qualitativamente inesatta, la parte della prestazione rifiutata è determinata secondo il criterio della riduzione del prezzo, ossia calcolando l’incidenza percentuale del vizio sul valore del bene e riducendo la prestazione nella stessa percentuale.
    Orbene, l’eccezione parziale di inadempimento è ammessa da una parte della dottrina mentre non manca chi si esprime negativamente sulla sua ammissibilità. L’eccezione parziale non è prevista dalla legge ma trae giustificazione dal fondamento dell’eccezione di inadempimento e dal principio di buona fede. Essa infatti consente la tutela della parte non inadempiente senza sacrificare l’altra parte e quindi nel rispetto della buona fede.
    Eccezioni reciproche sono, invece, quelle sollevate da entrambe le parti, ognuna delle quali contesta l’inadempimento dell’altra. La reciprocità delle eccezioni richiede di accertare quale delle due parti con il proprio comportamento abbia giustificato l’altra a sospendere l’esecuzione del contratto.
    Entrambe le eccezioni potrebbero risultare infondate.
    L’accertamento della legittimità dell’eccezione è rilevante ai fini della risoluzione del contratto poiché la parte che si autotutela mediante l’eccezione non è responsabile del ritardo. In tal caso, la controparte che abbia sollevato una eccezione infondata non potrebbe avvalersi della risoluzione del contratto per inadempimento. Piuttosto, la parte che solleva legittimamente l’eccezione potrà essa stessa risolvere il contratto sempreché l’inadempimento di controparte sia di non scarsa importanza.
    Per quanto concerne l’onere probatorio, si premette che in tema di responsabilità contrattuale, in via generale, il creditore deve dare prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte. Sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento.
    In passato, dottrina e giurisprudenza ritenevano che tale riparto dell’onere probatorio non fosse valido qualora fosse dedotto in giudizio un inesatto adempimento: in tale ipotesi, si affermava che il creditore non può limitarsi ad allegarlo ma deve fornirne la prova. Tale tesi è stata superata da una sentenza delle Sezioni Unite del 2001 in cui la Suprema Corte estende anche alle ipotesi di inesatto adempimento il principio della sufficienza dell’allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando anche in tal caso sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento.
    Tale arresto delle Sezioni Unite affronta nello specifico anche il tema della prova dell' eccezione di inadempimento. E’ stato osservato che il medesimo criterio di riparto dell' onus probandi, affermato in tema di azione di inadempimento,risoluzione,e risarcimento,deve essere applicato anche nel caso in cui il debitore convenuto si avvalga dell' eccezione per bloccare l' azione dell' attore. L' unica differenza é che in tale frangente, i ruoli saranno invertiti e cioè chi formula l' eccezione, pur essendo processualmente debitore contenuto, si troverà ad agire come se fosse l' attore e si limiterà ad allegare l' altrui inadempimento. La controparte, l' attore- creditore dell' azione primaria (che ai fini dell' eccezione é convenuto) dovrà dimostrare, per neutralizzare l' eccezione, il proprio adempimento o fornire la prova circa la non scadenza del termine della prestazione posta a suo carico.
    A ciò si aggiunga che nei contratti a prestazioni corrispettive, quando una delle parti giustifica il proprio inadempimento con l' inadempimento dell' altra, occorre procedure alla valutazione comparativa del comportamento dei contraenti con riferimento non solo all' elemento cronologico delle rispettive inadempienza ma altresì ai rapporti di causalità e di proporzionalità delle stesse rispetto alla funzione economico sociale del contratto al fine di stabilire se effettivamente il comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell' altra di eseguire la prestazione dovuta,tenendo presente il principio che quando l' inadempimento di una parte non sia grave,il rifiuto dell' altra non é di buona fede e non è giustificato.
    L' eccezione non é rilevabile d' ufficio dal giudice ma può essere proposta senza oneri di forma e anche stragiudizialmente.
    L’esercizio stragiudiziale del rimedio dell’eccezione deve essere rilevato d’ufficio dal giudice qualora la controparte faccia valere in giudizio il suo credito.
    In questo caso, il giudice non si sostituisce alla parte dell’esercizio del rimedio ma rileva che il convenuto si è già avvalso dell’eccezione giustificando il proprio inadempimento. Trova allora applicazione il principio secondo il quale il giudice deve tenere conto di tutti i fatti che giustificano l’inadempimento e impediscono la condanna del debitore, sempreché la prova di essi sia acquisita agli atti.
    Da quanto sopra, emerge la rilevanza dell’eccezione di inadempimento che costituisce certamente uno dei principali strumenti di autotutela ammessi in ambito di diritto civile dal nostro ordinamento.

    Voto Ottima conoscenza dell'istituto. 16. Personalmente non amo le digressioni storiche e soprattutto comparatistiche (diritto francese) che sanno più di un articolo dottrinale che di un tema per la magistratura. So che alcuni commissari la apprezzano, personalmente le ridurrei a brevissimi cenni.


    Altro tema Vi posto anche questo tema. Ha preso 12, un bel 12 pieno. Vorrei farvi vedere come un tema semplice, logico, lineare, di appena 4 facciate possa comunque essere apprezzato e sufficiente.

    L’ordinamento giuridico complessivamente considerato si propone l’obiettivo di rendere possibile la convivenza di consociati generalmente animati da interessi e scopi individualistici, potenzialmente contrastanti, attraverso la predisposizione di un apposito corpo normativo e di un relativo sistema applicativo. L’esigenza che esso tenta di perseguire, dunque, è quella significativamente espressa dal brocardo latino “ne cives ad arma ruant”. Tale premessa ha quale corollario funzionale l’esigenza che il sistema delle tutele cui il singolo consociato può ricorrere sia il più possibile efficiente ed effettivo. A tal fine, il funzionamento dell’impianto rimediale nella disponibilità dei consociati è normalmente affidato ad appositi organi pubblici, contraddistinti dai caratteri della terzietà, della imparzialità e della indipendenza: si allude, chiaramente, alle autorità giudiziarie.
    Ne consegue che l’ordinamento giuridico, di norma, non offre cittadinanza alle forme di giustizia privata, come significativamente riprovato dall’incriminazione dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ai sensi degli artt. 392 e 393 c.p.
    Ciononostante, sussistono circostanze, specifiche ed eccezionali, in quanto tali di stretta interpretazione ed applicazione ex art. 14 disp. prel. c.c., in cui il consociato è legittimato a difendere da sé gli interessi afferenti alla propria sfera giuridica, minacciati dall’altrui invasione. Ipotesi siffatte, dunque, vengono dunque catalogate nella categoria della c.d. autotutela, giustificandosi alla luce di un’urgente e non differibile esigenza di difesa, dalla cui mancata attivazione discenderebbe un danno irreparabile. Circostanza, questa, che non permetterebbe di attendere i tempi degli ordinari canali della tutela giurisdizionale, innanzi agli organi a ciò preposti.
    Se quanto finora rilevato vale generalmente per l’ordinamento giuridico, le stesse coordinate ricostruttive, laddove applicate al ramo giuscivilistico, necessitano di precipue specificazioni. In tale ambito ordinamentale, infatti, l’autotutela si traduce in una forma di reazione da parte del soggetto privato a un altrui fatto illecito, tanto di natura extracontrattuale quanto integrante un inadempimento contrattualmente rilevante. L’attività di autotutela, pertanto, può concretamente tradursi in un atto materiale, in un atto giuridico in senso stretto o anche in un negozio giuridico.
    In questa prospettiva ricostruttiva, giova richiamare la classificazione, invalsa nella scienza giuridica, tra autotutela bilaterale o convenzionale e autotutela unilaterale. La prima si basa su forme di accordi anticipatamente posti in essere tra le parti di un rapporto giuridico, in chiave preventiva rispetto alle successive possibili evoluzioni di esso. La seconda, invece, contempla quelle forme di reazione che il singolo soggetto può porre in essere a tutela della propria sfera giuridica, in modo autonomo e giuridicamente indipendente da un previo patto in tal senso con il destinatario della sua condotta.
    A ben vedere, quindi, l’autotutela bilaterale o convenzionale consiste in una precipua declinazione della stessa autonomia negoziale, che l’ordinamento riconosce in capo ai privati per la cura e il perseguimento dei propri interessi. Detta autonomia, laddove finalisticamente orientata all’autotutela, può condurre alla pattuizione di specifiche clausole in seno al regolamento contrattuale, come quella penale a mente dell’art. 1382 c.c., ovvero alla costituzione di peculiari garanzie reali, come il pegno o l’ipoteca ai sensi degli artt. 2784 e 2808 c.c., o, ancora, alla conclusione di specifici accordi, come il sequestro convenzionale ex art. 1798 c.c. In tutte queste ipotesi, la libertà negoziale delle parti è strumentale al perseguimento di una finalità cautelare e prudenziale, che mira a proteggere “ex ante”, quindi a monte, gli interessi giuridici coinvolti.
    Sulla scorta del dato da ultimo rilevato, alcuni interpreti hanno tratto argomento per sostenere, nelle fattispecie riferite, l’assenza del “proprium” dell’autotutela, cioè l’urgenza di fronteggiare in modo tempestivo un’invasione della propria sfera giuridica. Il che condurrebbe a qualificare i citati istituti come di autotutela solamente in un’accezione lata della nozione.
    Viceversa, il cennato tratto caratteristico è pacificamente rinvenuto nelle ipotesi di autotutela unilaterale, la quale, peraltro, ha base giuridica direttamente nella legge, a differenza dell’autotutela convenzionale, che rinviene la propria fonte nella volontà delle parti. ok
    Con specifico riferimento all’autodifesa unilaterale, tradizionalmente si è soliti distinguere un’autotutela unilaterale attiva, avente per contenuto una condotta positiva e per risultato un mutamento protettivo della situazione di fatto e di diritto, e un’autotutela unilaterale passiva, avente per contenuto un’omissione e per risultato il mantenimento dello stato di fatto contro la pretesa altrui di mutarlo.
    Nel primo novero si iscrivono, quali fattispecie paradigmatiche, la legittima difesa civilistica ex art. 2044 c.c., lo stato di necessità ex art. 2045 c.c., la diffida ad adempiere ai sensi dell’art. 1454 c.c. e l’alienazione di quote del socio moroso a mente dell’art. 2466 c.c.
    Nel secondo gruppo, invece, si annoverano il diritto di ritenzione, nelle sue molteplici declinazioni note all’ordinamento, l’eccezione di mutamento delle condizioni economiche dell’altro contraente e la connessa facoltà di sospendere l’esecuzione della prestazione ex art. 1461 c.c., nonché l’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c.
    Particolare interesse suscita proprio questo ultimo istituto, espressione del principio “inadimplenti non est adimplendum“, il quale si sostanzia nella riconosciuta facoltà della parte di un contratto a prestazioni corrispettive di sospendere l’adempimento della propria prestazione, nel caso in cui l’altra parte, contestualmente, non esegua o non offra di adempiere la propria. Ciò, peraltro, nel limite in cui termini diversi per l’adempimento non siano dedotti dalle stesse parti in seno al regolamento contrattuale o non risultino dalla natura del contratto.
    Risulta agevole scorgere la “ratio” dell’istituto nell’esigenza di tutelare ciascun contraente dal rischio cui si espone fisiologicamente con il perfezionamento del contratto, quello dell’inadempimento della controparte, il quale si collega a doppio filo alla salvaguardia dell’equilibrio sinallagmatico del contratto. L’art. 1460 c.c., infatti, solo da un lato si offre al contraente come rimedio attributivo di un potere di autotutela, perché, dall’altro lato, costituisce un mezzo di conversazione degli stessi equilibri del sistema giuscivilistico, il quale protegge con estrema attenzione il nesso di reciprocità che lega le prestazioni in un contratto a prestazioni corrispettive.
    La qualificazione in termini di strumento di autotutela dell’“exceptio inadimplenti contractus” si deve alla possibilità di scorgere, nella sua struttura, tutti gli elementi genetici che caratterizzano il fenomeno in questione. Innanzitutto, il carattere provvisorio del rifiuto di adempiere, il quale non rende a sua volta inadempiente l’eccipiente, né rende inesigibile la controprestazione, poiché il diritto al suo conseguimento rimane fermo. In secondo luogo, l’incidenza sulla sfera giuridica della controparte inadempiente, a fronte della persistenza della sua inadempienza. Ancora, l’assenza di un preventivo controllo dell’autorità giudiziaria sui presupposti e sulle condizioni di operatività dell’eccezione. Infine, il carattere autonomo, trattandosi di un potere che la parte può esercitare indipendentemente, al fine di proteggere la propria sfera giuridica dall’inadempimento altrui, nella prospettiva egalitaria delle posizioni delle parti nella fase di esecuzione del contratto, ossequiosa del principio di buona fede.
    L’eccezione di inadempimento, alla luce di quanto rilevato, viene descritta non già in termini di generico diritto del debitore a non adempiere, bensì quale vero e proprio diritto potestativo, riconosciuto dalla legge al privato e finalizzato alla tutela della sua posizione giuridica nell’ambito di uno schema negoziale caratterizzato da reciprocità di posizioni creditorie e debitorie. In questa prospettiva, dunque, si ritiene che l’effetto sortito dall’eccezione sia quello di rendere temporaneamente inesigibile la prestazione della parte non inadempiente. Effetto, questo, nel quale si rinviene il nucleo centrale del potere di autotutela, teso alla conservazione dell’equilibrio delle rispettive posizioni di diritto e di obbligo delle parti in un contratto a prestazioni corrispettive.
    Giova, a questo punto, individuare i presupposti e le condizioni dell’eccezione di inadempimento a mente dell’art. 1460 c.c. Così, da una parte, il presupposto viene pacificamente identificato nella corrispettività delle prestazioni pattuite nel contratto, che la stessa lettera della disposizione richiede. Dall’altra parte, le condizioni sono individuate nell’inadempimento in cui è incorsa una delle parti, nella contemporaneità tra le prestazioni e nella conformità a buona fede del comportamento tenuto dall’eccipiente.
    Come maggiore impegno esplicativo, va ribadito che a prestazioni corrispettive si intendono i contratti connotati da uno schema causale in cui le attribuzioni patrimoniali, rispettivamente poste a vantaggio ed carico di ciascuna delle parti, siano avvinte da un nesso di reciprocità (il c.d. nesso sinallagmatico). L'idea di corrispettività, pertanto, evoca propriamente lo scambio, nella misura in cui, a fronte di una delle parti che si obbliga ad effettuare una prestazione, l'altra, a propria volta, si obbliga ad effettuare un'ulteriore diversa prestazione a vantaggio della prima.
    L’inadempimento, invece, ricorre nell’ipotesi in cui il debitore non esegue la prestazione dovuta, la esegue in modo tardivo oppure in modo inesatto. Risalente e dibattuta è la connotazione da attribuire all’inadempimento così delineato nei suoi tratti essenziali e, cioè, se esso debba configurarsi come oggettivo ovvero come soggettivo. Nel primo caso, esso sarà integrato per il solo fatto della mancata, tardiva o inesatta esecuzione della prestazione. Nel secondo caso, invece, esso ricorrerà solo laddove sussista, altresì, un coefficiente psicologico, la c.d. imputabilità al debitore. Sebbene la prevalente giurisprudenza e dottrina accolgano una concezione soggettivistica di inadempimento, occorre interrogarsi se tali conclusioni valgano anche rispetto all’eccezione ex art. 1460 c.c. OKK
    Sul punto, parte della dottrina ritiene che l’esercizio del rimedio possa prescindere dalla responsabilità della parte in relazione all’inadempimento, poiché le istanze di autotutela e la loro meritevolezza permangono anche laddove il mancato adempimento della controprestazione dipenda da causa non imputabile.
    Di contrario avviso è la giurisprudenza di legittimità, la quale è addivenuta a una concezione unitaria di inadempimento, accogliendone un’accezione eminentemente soggettivistica. Di talché, l’inadempimento legittimante l’opposizione dell’eccezione ex art. 1460 c.c. è quello addebitabile al debitore sotto il profilo psicologico, a titolo di dolo o colpa.
    Ulteriore profilo dibattuto concerne la necessità o meno che l’inadempimento sia grave. Infatti, secondo certa dottrina, l’eccezione non esigerebbe la gravità dell’inadempimento, elemento postulato solo ai fini della diversa azione di risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c. Ciò sulla scorta dell’argomento per cui, mentre la risoluzione sortisce l’effetto definitivo di caducazione del contratto, l’eccezione si limita a sospenderne l’esecuzione. Sicché, in forza di un canone di proporzionalità e ragionevolezza, il rimedio meno incisivo dell’eccezione postula un inadempimento meno grave. ok
    A conclusioni opposte addiviene la giurisprudenza di legittimità, la quale pretende il carattere della gravità a qualificare specificamente l’inadempimento affinché possa legittimarsi il ricorso all’“exceptio”. In particolare, un’inesattezza di lieve entità non si ritiene idonea a legittimare l’opposizione dell’eccezione, in quanto ciò contrasterebbe con il requisito di buona fede e con l’obbligo di correttezza imposto dall’art. 1175 c.c. alle parti. In altri termini, il rifiuto di eseguire la prestazione dell’eccipiente a fronte di un inadempimento di scarsa importanza, dovrebbe ritenersi contrario a buona fede.
    L’eccezione di inadempimento come tratteggiata, in quanto manifestazione del potere di autotutela civilistica, dovrebbe rinvenire il proprio terreno di applicazione elettivo nella sede stragiudiziale. Ciò, in particolare, attraverso una sua applicazione sul piano sostanziale, consistente nella manifestazione di volontà di chi si avvale dell’eccezione stessa.
    Tuttavia, ciò non ha impedito all’art. 1460 c.c. di trovare applicazione anche in sede giudiziaria e, anzi, proprio in tale sede va rinvenuta la scaturigine di tale rimedio. Come la tradizione romanistica insegna, infatti, le eccezioni costituivano i rimedi attraverso cui i pretori, in seno ai giudizi, riconducevano il diritto civile, la cui applicazione rigoristica e letterale rischiasse di risultare ingiusta, ad equità sostanziale. Sicché, “mutatis mutandis”, oggi come allora, il convenuto in giudizio per l’adempimento del contratto ha la possibilità di difendersi dalla domanda attorea opponendo l’“exceptio inadimplenti contractus”.
    Non sembrano rinvenirsi ragioni che ostino alla deduzione dell’eccezione per la prima volta in giudizio, non subordinando la normativa di riferimento la sospensione dell’esecuzione del contratto a fronte dell’inadempimento della controparte alla previa intimazione d’una diffida né ad alcuna generica previa contestazione dell’inadempimento.
    Alla luce di quanto evidenziato, particolare interesse suscita la questione della ripartizione dell’onere della prova, la quale, a sua volta, rinvia al più ampio tema probatorio dell’inadempimento dell’obbligazione ai sensi dell’art. 1218 c.c. A tale ultimo riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito, con il sigillo delle Sezioni Unite, che il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento o per l’esatto adempimento, deve limitarsi a provare il titolo costitutivo del suo diritto, mentre può limitarsi alla mera allegazione dell’inadempimento della controparte. Viceversa, il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo della pretesa altrui.
    Se questo vale per la normalità dei casi, laddove, invece, il contraente convenuto ricorra all’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., i ruoli delle parti si invertono. Ne deriva che il debitore eccipiente, a sua volta, può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento, spettando al creditore attore l’onere probatorio di dimostrare il proprio adempimento o la scadenza non ancora intervenuta dell’obbligazione.
    Parte della dottrina e della giurisprudenza, inoltre, aveva ritenuto che la regola riferita non valesse qualora sia dedotto, a fondamento della domanda, un inesatto adempimento, in tal caso il creditore non potendosi limitarsi ad allegare l'inesatto adempimento, ma dovendone fornire la prova. Ciononostante, la tesi è stata superata dalla giurisprudenza di legittimità più recente, la quale, in forza di condivisibili esigenze di omogeneità del regime probatorio, ha esteso anche all'ipotesi dell'inesatto adempimento il principio della sufficienza dell'allegazione dell'inesattezza dell'adempimento, gravando anche in tale eventualità sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento o sul creditore a seguito di eccezione ex art. 1460 c.c.
    Tali conclusioni in merito all’“onus probandi” si giustificano alla luce dell’intersezione di due principi, quello di vicinanza della prova da un lato, quello di presunzione di persistenza del diritto ex art. 2697 c.c. dall’altro. Il primo, infatti, impone che il relativo onere sia addossato al soggetto per il quale esso risulta meno gravoso, il debitore. Ed è di tutta evidenza che risulta molto più agevole per il debitore dimostrare il fatto positivo dell'adempimento che non per il creditore dimostrare il fatto negativo dell'inadempimento altrui. Il secondo, invece, postula che chi agisce a tutela di un diritto deve dimostrare i fatti costitutivi dello stesso, non già quelli estintivi. Sicché, muovendo dalla qualificazione dell’adempimento quale mezzo di estinzione dell’obbligazione, ne deriva che al creditore compete la sola prova del titolo costitutivo del rapporto, non quella della sua mancata estinzione, la quale è, per l’appunto, presunta.
    Alla luce dell’articolato iter ricostruttivo sin qui condotto, è possibile rilevare come l’ordinamento giuridico, nel tentativo di essere esaustivo e di predisporre una tutela efficace dei consociati che al suo interno operano, talvolta si avvale eccezionalmente dell’istituto dell’autotutela. Tuttavia, in quanto eccezionali, i casi ad essa riconducibili vanno individuati e applicati tassativamente, in stretta aderenze ai principi solidaristici della buona fede e della corretta, senza cedere a distorsioni egoistiche né divenire strumenti di un giustizialismo facile, privo di adeguate basi giuridiche e contrario ai canoni informatori dell’ordinamento. Questo ultimo, infatti, riservando all’autotutela il rango di eccezione, conferma la regola generale dell’affidamento della tutela dei privati ai pubblici poteri.
    Voto 12

    P.S. HO UN TEMA SULL'ECCEZIONE DI INADEMPIMENTO SENZA NICK O NOME. CHI NON SI TROVA LA CORREZIONE NELLA CASELLA MAIL LANCI UN URLO :)
     
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    Tema migliore novembre, traccia n. 3: "Azione revocatoria, con particolare riferimento ai rapporti all'interno della famiglia".
    E' stato l'unico tema sulla traccia n.3. Pur non avendo quindi altri temi che potessero aiutarmi come riferimento per il voto, ho ritenuto il tema sufficiente e quindi pubblicabile.

    Brava l'autrice, che si è cimentata nella traccia! :)

    Nel nostro ordinamento, il creditore, nei suoi rapporti col debitore, è tutelato in generale dal principio della responsabilità patrimoniale generica di cui all’art. 2740 c.c.: infatti, tale norma, letta unitamente all’art. 1218 c.c., stabilisce che il debitore risponde dell’adempimento con tutti i suoi beni presenti e futuri. A differenza di quanto avveniva nel diritto romano, ove il creditore poteva ridurre in vinculiis il debitore inadempiente, attualmente la legge prevede che la garanzia dell’adempimento sia in generale rappresentata dal patrimonio di colui che è tenuto ad eseguire una prestazione, salve le limitazioni previste dalla legge.
    Nonostante esistano casi in cui è consentito circoscrivere la responsabilità patrimoniale per esigenze ritenute meritevoli di tutela dal legislatore (si pensi all’utilizzo della società di capitali unipersonali per l’esercizio dell’impresa o alla costituzione del fondo patrimoniale per destinare taluni beni al soddisfacimento dei bisogni della famiglia), il creditore che non veda realizzato il suo interesse alla prestazione può soddisfarsi esecutivamente su tutti i beni rientranti nella sfera patrimoniale del debitore, secondo le modalità e nelle forme previste dall’espropriazione forzata.
    Tuttavia, l’ordinamento prende in considerazione l’eventualità che il debitore, onde evitare di essere esposto alle azioni del creditore, ponga in essere tutta una serie di attività che limitino sotto il profilo fattuale il patrimonio aggredibile sia attraverso il mancato esercizio di diritti sia attraverso il compimento di atti di disposizione.
    Al fine di fronteggiare tali comportamenti, pertanto, il codice civile pone i cd. mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale generica: l’azione surrogatoria (art. 2900 c.c.), la quale consente al creditore di esercitare diritti e azioni a contenuto patrimoniale e non personali in luogo del debitore che rimanga inerte; l’azione revocatoria che invece consente di rendere inefficaci gli atti dispositivi pregiudizievoli compiuti dal debitore; infine, il sequestro conservativo, rimedio cautelare esperibile riguardo ad uno o più beni del debitore, quando vi sia fondato motivo di ritenere che il creditore stia perdendo la garanzia del proprio credito.
    Fra dette azioni, assume particolare rilievo l’azione revocatoria: infatti, la forma più frequente utilizzata dal debitore per sottrarre beni ad un’eventuale azione esecutiva del creditore è rappresentata dal compimento di attività di dismissione del proprio patrimonio, mediante atti dispositivi a favore di altri soggetti, con conseguente pregiudizio delle ragioni creditorie.
    A fronte di tale constatazione, il legislatore contempera due opposti interessi: da un lato, infatti, occorre tutelare il credito per evitare che la garanzia patrimoniale generica sia svuotata di contenuto, dall’altro, invece, è necessario tutelare l’affidamento di colui che contragga col debitore, ignaro dell’intento che questi persegue.
    Tale bilanciamento conduce a due discipline diverse in tema di azione revocatoria: infatti, nella revocatoria ordinaria o actio pauliana, disciplinata dall’art. 2901 e ss. c.c., il creditore, in presenza di determinati presupposti, può ottenere l’inefficacia relativa dell’atto (cioè solo nei suoi confronti), senza pregiudizio delle ragioni dei terzi di buona fede che hanno acquistato a titolo oneroso (salvi gli effetti della trascrizione se si tratta di beni immobili o mobili registrati); nella revocatoria fallimentare, invece, l’azione nei confronti dell’imprenditore fallito, soggetta a condizioni diverse, tutela tutti i creditori (inefficacia assoluta) ed è esclusa solo per gli atti espressamente menzionati nell’art. 67 L.F comma 2. Mentre cioè nella revocatoria ordinaria si attribuisce maggiore rilievo all’iniziativa del creditore e si tutelano in maniera abbastanza pregnante i terzi, nella revocatoria fallimentare, il fatto che si svolga un’attività imprenditoriale di particolari dimensioni (cfr. art. 1 L.F.) giustifica un’attenzione più rilevante alla massa dei creditori.
    Pertanto, quando il soggetto debitore non ha particolari requisiti soggettivi (imprenditore) e dimensionali (art. 1 L.F. comma 2), la tutela creditoria contro gli atti dispositivi resta circoscritta ai casi in cui siano riscontrabili i requisiti individuati nell’art. 2901 c.c., cioè il periculum damni e la scientia fraudis se l’atto è gratuito nonché, unitamente a questi, la cd. partecipatio fraudis del terzo, se l’atto è oneroso.
    Affinché si possa agire in revocatoria, innanzitutto, si richiede che l’atto dispositivo rechi pregiudizio alle ragioni creditorie. Sotto tale profilo vi è stata una sensibile evoluzione: mentre infatti la dottrina più tradizionale riteneva che si dovesse riscontrare un vero e proprio danno (eventus damni) cioè una menomazione effettiva al patrimonio del debitore; la giurisprudenza, anche valorizzando il testo dell’art. 2901 c.c. n.1, ritiene che sia sufficiente che l’atto in via effettiva o potenziale renda più difficile il soddisfacimento del creditore.
    Così si è ritenuto che possa integrare il requisito suddetto anche l’atto con cui un bene del debitore venga alienato seppur al giusto prezzo, in quanto il denaro è più facilmente occultabile e quindi più difficilmente aggredibile dal creditore.
    Strettamente collegato a tale presupposto, è quello della scientia damni: si tratta, infatti, di un requisito soggettivo che si ritiene ricorra in tutte le ipotesi in cui il debitore conosca il carattere pregiudizievole dell’atto posto in essere.
    Invero, nonostante la formula legislativa faccia riferimento alla conoscenza, l’accertamento di consueto operato in giurisprudenza tende a valutare più che altro la conoscibilità in capo al debitore della lesione arrecata alla garanzia patrimoniale generica. Tale elemento si riduce pertanto ad un’indagine di tipo presuntivo sull’astratta capacità del debitore (di livello medio) di avvedersi che, con l’atto, egli rende più complicata un’ eventuale azione esecutiva del creditore.
    I criteri di verifica del presupposto divengono più rigorosi, invece, quando l’atto dispositivo pregiudizievole è stato posto in essere anteriormente al sorgere del credito che si intende tutelare: nonostante tale atto possa essere comunque revocato, il legislatore richiede necessariamente che vi sia la dolosa preordinazione del debitore.
    Si deve dimostrare cioè (e tale dimostrazione compete al creditore) che il debitore abbia voluto precostituire l’atto dispositivo per contrarre poi successive obbligazioni senza esporre taluni beni o diritti alle pretese creditorie per il caso dell’inadempimento.
    Laddove l’atto sia gratuito, la sussistenza dei suddetti presupposti è di per sé sufficiente a fondare l’azione revocatoria, in quanto la gratuità giustifica una più pregnante tutela del/i creditore/i rispetto ai terzi coinvolti; se l’atto, invece, è stato compiuto a titolo oneroso, l’esigenza di affidamento dell’altro contraente giustifica la necessaria previsione di un requisito ulteriore cioè della partecipazione fraudolenta del terzo. ok
    La norma richiede cioè di dimostrare che vi sia stata frode, non nei confronti della legge, ma nei confronti del/i creditore/i, cioè i contraenti devono essersi accordati per porre in essere un negozio a titolo oneroso, consapevoli di danneggiare le ragioni creditorie o, se l’atto è anteriore al sorgere del credito, proprio al fine di sottrarre i beni all’eventuale esecuzione.
    Deve sussistere cioè una collusione fra i contraenti, la quale può essere dimostrata anche in via presuntiva purché gli indizi siano gravi precisi e concordanti.
    Tale onere probatorio, gravante sul creditore attore in revocatoria, è del tutto coerente con l’ulteriore regola di cui all’art. 2901 c.c., laddove si prevede che l’azione non possa pregiudicare i diritti dei terzi acquistati in buona fede e a titolo oneroso: è chiaro, infatti, che il rapporto fra la partecipazione al disegno fraudolento del creditore e la buona fede si pongono in termini antitetici, così da confermare che la buona fede come di consueto si presume e, invece, la partecipazione fraudolenta necessita di prova.
    Quale parziale deroga alla regola si prevede però che sono fatti salvi gli effetti della trascrizione della domanda di revocazione: infatti, la trascrizione della domanda, avente normalmente effetto prenotativo (degli effetti della successiva sentenza) è tale da escludere, per gli atti relativi a beni mobili registrati o immobili, lo stato di buona fede del terzo che trascriva l’acquisto successivamente alla stessa.
    Invero, con riguardo all’atto a titolo oneroso, si pongono ulteriori problematiche, con riguardo da un lato all’individuazione del concetto di onerosità e dall’altro con riferimento ai rapporti della revocatoria con l’azione di simulazione.
    Tradizionalmente, infatti, l’onerosità di un atto si trae dal fatto che esso implica sacrifici a carico di entrambe le parti del negozio, con la conseguenza che le obbligazioni assunte unilateralmente da un soggetto a vantaggio di un altro potrebbero risultarne escluse; al fine di evitare che la nozione di onerosità potesse prestarsi ad ambiguità interpretative, si è specificato che le prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono da considerarsi onerose, se contestuali al sorgere del debito garantito. ok
    In tal modo si chiarisce che se il creditore vuole revocare un atto del suo debitore con cui egli è divenuto garante di altri (fideiussore o terzo datore di pegno o ipoteca) o ha concesso una garanzia contestuale all’assunzione di un’obbligazione (si pensi al mutuo fondiario con ipoteca di primo grado) si dovrà soggiacere all’onere probatorio più gravoso; ciò anche in ragione dell’esigenza di tutelare un altro credito cui l’atto si presenta strettamente connesso.
    Altro profilo specifico è quello dell’ onerosità simulata di un atto: infatti, in ragione del diverso atteggiarsi dell’onere probatorio per l’attore in revocatoria, il debitore potrebbe simulare una vendita di un bene di fronte ad un terzo compiacente, pur realizzando in fatto una donazione (simulazione relativa); si potrebbe ipotizzare però un utilizzo ancor più ampio del congegno simulatorio, cosicché l’intero atto sia simulato (simulazione assoluta).
    Invero, l’atteggiarsi dei rapporti fra revocatoria e simulazione è mutevole, in ragione alla diversità di effetti, di presupposti, di tempi e modi dell’azione.
    In linea generale, infatti, con l’azione di simulazione si fa prevalere la realtà sull’apparenza e si accerta che un bene è solo “fittiziamente” uscito dal patrimonio di un soggetto, a vantaggio di tutti i creditori. Sussistono però dei limiti e delle regole anche riguardo ai rapporti coi terzi, con la conseguenza che il creditore dovrà valutare la convenienza del rimedio.
    Pur essendo vero, infatti, che il creditore del debitore che ha alienato simulatamente può far valere la simulazione nei confronti delle parti (e non soggiace a limitazioni probatorie) è chiaro che se il bene è stato oggetto di un successivo acquisto di buona fede, egli non potrà prevalere sui terzi di buona fede acquirenti dal titolare apparente. In tal caso sarà favorito agendo in revocatoria, in modo tale da aggredire l’atto a monte. ok
    Questa, però, è solo una delle valutazioni da fare: infatti, il creditore del debitore simulato alienante potrebbe trovarsi di fronte al fatto che l’azione revocatoria non sia più esperibile (per prescrizione ad esempio) e a quel punto avrebbe la possibilità di agire per la simulazione: l’azione di simulazione, infatti, se la simulazione è assoluta è imprescrittibile, mentre si discute per quella relativa (per taluni l’azione è imprescrittibile, per altri invece soggetta a prescrizione ordinaria decennale).
    Invero, queste considerazioni possono venire in rilievo anche quando il debitore è un imprenditore sottoposto alla disciplina del fallimento.
    La revocatoria fallimentare, come già chiarito, è in generale più vantaggiosa per la massa dei creditori ma soggiace a limitazioni diverse rispetto all’actio pauliana, soprattutto sotto il profilo temporale.
    Mentre, infatti, per la revocatoria ordinaria l’unica limitazione temporale è il termine di prescrizione quinquennale che decorre ex art. 2903 dalla data dell’atto, quella fallimentare consente di aggredire, entro tre anni dalla dichiarazione di fallimento e non oltre cinque anni dalla data dell’atto, gli atti gratuiti o i pagamenti (non ancora scaduti) compiuti nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento nonché gli atti onerosi, i pagamenti e le garanzie indicate nell’art. 67 L.F. comma 1 se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione suddetta.
    Questo spiega perché l’art. 66 della L.F. abbia cura di precisare che comunque il curatore possa sempre esperire l’azione revocatoria ordinaria, ove comporti un risultato più favorevole.
    Premessa questa disamina sull’azione revocatoria, con riferimento alla ratio e ai presupposti richiesti dalla legge, occorre soffermarsi su quali siano in astratto gli atti revocabili e su quali siano le ipotesi di maggiore verificazione del fenomeno.
    In generale, infatti, l’art. 2901 c.c. si riferisce agli atti revocabili come a tutti quegli atti con cui si dispone del patrimonio: tale formulazione, che potrebbe apparire chiara, necessita però di alcune precisazioni.
    Anzitutto si considera atto dispositivo (ai fini della revocatoria) solo l’atto con cui si dispone di un diritto o di un bene inter vivos: gli atti mortis causa (e quindi, tipicamente, il testamento) infatti, sono destinati ad avere effetti solo dal momento della morte, con la conseguenza che essi non incidono in alcun modo sulla garanzia generica del creditore.
    Un dubbio può porsi per il cd. patto di famiglia, la cui natura giuridica è discussa: per la tesi maggioritaria, infatti, esso sarebbe un negozio inter vivos, con la conseguenza che esso sarebbe revocabile.
    Non si considera, invece, atto dispositivo l’adempimento di un’obbligazione: infatti, conformemente alla teoria maggiormente seguita, l’adempimento sarebbe un atto dovuto. Si potrebbe pertanto sottoporre a revocatoria il contratto o la promessa unilaterale da cui sorge l’obbligazione ma non l’adempimento della stessa.
    A conferma della bontà di questo orientamento millanta il dato testuale di cui all’art. 2901 c.c. comma 1 che fa riferimento alla non revocabilità del debito scaduto: la precisazione circa la scadenza del debito è importante perché consente di chiarire che solo da quel momento nasce l’obbligo di adempiere, sussistendo prima un atto effettivamente non coercibile e quindi dispositivo in senso proprio.
    Invero, si è discusso anche se nella nozione di atto dispositivo possa inquadrarsi l’atto abdicativo, cioè l’atto con cui si dismettano diritti. Si pensi al caso tipico della rinuncia all’eredità.
    Sotto questo profilo, occorre operare una distinzione: infatti, esistono rinunce a favore solo di uno o più chiamati o a titolo oneroso che valgono accettazione (art. 478 c.c.), con la conseguenza che si tratta di atti dispositivi; vi sono anche però rinunce vere e proprie, il cui carattere è propriamente abdicativo. Per far fronte a tale seconda ipotesi, però, il legislatore predispone a favore dei creditori un rimedio apposito, disciplinato nell’art. 524 c.c., esperibile anche in assenza di frode, così da consentire l’impugnazione della rinuncia e la soddisfazione sui beni ereditari. ok
    Caso più problematico è quello affrontato recentemente dalla Suprema Corte relativamente all’esperibilità dell’azione revocatoria da parte dei creditori nei confronti dell’atto con cui un legittimario accetta un legato in sostituzione di legittima previsto dal testatore, rinunciando all’ esperimento dell’azione di riduzione.
    Invero, la Cassazione ha escluso la possibilità del creditore di agire ex art. 2901 c.c. in ragione del fatto che l’atto è sì abdicativo ma non comporta una diretta incidenza sul patrimonio del debitore: egli acquista infatti un diritto immediatamente (come legatario), mentre ove rinunciasse al legato, dovrebbe esperire l’azione di riduzione e otterrebbe la legittima solo all’esito di essa; con la conseguenza che, se il creditore rende inefficace la scelta del legato, questo non comporta ex sé l’incremento del patrimonio del debitore (essendo necessario il vittorioso esperimento dell’azione di riduzione).
    Ulteriore atto che può considerarsi lato sensu dispositivo è l’atto di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela a favore di persone con disabilità, pubbliche amministrazioni, altri enti o persone fisiche, previsto dall’art. 2645 ter. La norma consente, infatti, di destinare determinati beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri per un periodo di tempo determinato (durata della vita del beneficiario o massimo novanta anni se si tratta di ente) alla realizzazione delle finalità meritevoli di tutela, limitando contestualmente la possibilità dei creditori di escutere tali beni ai debiti contratti in vista di tale scopo.
    Anche tale strumento, pertanto, pur sorto per finalità altruistiche, può piegarsi alle esigenze di sottrazioni di beni alla garanzia patrimoniale, soprattutto in ragione della genericità della formula utilizzata dal legislatore (interessi meritevoli di tutela).
    Dal punto di vista concreto, è chiaro che se il debitore intende diminuire la propria esposizione patrimoniale ad un’eventuale azione creditoria, egli potrà porre in essere anche atti dispositivi all’interno della propria famiglia, ponendo in essere un duplice risultato: da un lato, dismettere i beni o i diritti di cui è titolare, dall’altro continuarne a godere o fruire in ragione della vicinanza e dell’affectio che lo lega a colui che ne diviene titolare (coniuge, figlio, nipote ect.).
    Invero, occorre tener presente che il meccanismo più semplice utilizzabile è quello della donazione nei confronti di un familiare, in particolare del coniuge.
    Non è un caso che nell’originario disegno del codice civile l’art. 781 c.c. vietasse la donazione fra i coniugi, con la sola esclusione delle liberalità d’uso. Tale norma, però, mossa dall’intento di evitare usi fraudolenti dello strumento (così come avveniva ex art. 622 c.p.c. per l’opposizione della moglie del debitore relativamente ai beni pignorati), non ha superato indenne il vaglio di costituzionalità: se si può donare, infatti, a chiunque per mero spirito di liberalità a fortiori si può donare al coniuge, prima dopo e durante il matrimonio.
    È chiaro, dunque, che anche laddove si operi una donazione al coniuge e questa sia pregiudizievole per il creditore, lo strumento di tutela sarà sempre quello dell’azione revocatoria ordinaria, secondo le regole dell’art. 2901 c.c. Così se in luogo di una donazione si porrà in essere una vendita, si dovrà verificare in capo al coniuge una partecipazione al disegno fraudolento del debitore, come se si trattasse di un qualsiasi terzo.
    Invero, delle considerazioni diverse possono svolgersi laddove il negozio traslativo a favore del coniuge sia operato nell’adempimento di un obbligo pregresso (pagamento traslativo) o comunque previsto dalla legge: in tal caso infatti, così come rilevato in generale per l’adempimento, l’atto sarebbe sottratto alla revocatoria.
    Pensiamo ad esempio al coniuge che, in sede di separazione, decida di cedere all’altro l’immobile di sua proprietà per adempiere l’obbligo di mantenimento su di esso gravante, con prestazione una tantum.
    Ancorché sia ipotizzabile, infatti, che i coniugi si separino e pongano in essere di comune accordo tale situazione di apparenza, le ragioni profonde di siffatte pattuizioni potrebbero essere autentiche e bisognose di protezione.
    Se da un lato, infatti, è indubbio che la comunione di vita fra i coniugi possa facilitare meccanismi di sottrazione dei beni ai creditori, dall’altro è pur sempre vero che la famiglia è una formazione sociale di rilievo costituzionale, all’interno della quale i vincoli solidaristici prevalgono anche sulle ragioni squisitamente economiche.
    Pertanto, spetterà al creditore che agisca in revocatoria dimostrare in maniera rigorosa la preordinazione dell’atto solo ed unicamente in suo danno.
    Una regola probatoria più favorevole si rintraccia però nell’art. 69 L.F.: la norma prevede, infatti, che l’atto sia gratuito sia oneroso compiuto fra coniugi anche prima dei due anni antecedenti la dichiarazione di fallimento sia comunque revocato se al tempo dell’atto il fallito esercitava un’impresa commerciale e il coniuge non prova che ignorava lo stato di insolvenza.
    Si determina cioè in favore dei creditori del fallito una presunzione di partecipazione del coniuge alla fraudolenza dell’atto, con conseguente inversione dell’onere probatorio: è infatti il coniuge che deve dimostrare la sua ignoranza circa la situazione di insolvenza del debitore poi fallito.
    In realtà, gli atti fra i coniugi non sono l’unico istituto di diritto familiare utilizzabile per perseguire in via indiretta una sottrazione di cespiti alle pretese creditorie.
    Un’ulteriore possibilità si trae dalle disposizioni di cui agli artt. 167 e ss. c.c., relative alla costituzione del fondo patrimoniale.
    Come noto, infatti, parallelamente al regime patrimoniale scelto dai coniugi o disposto ex lege per regolare i rapporti economici (separazione dei beni, comunione convenzionale e comunione legale), è possibile che i coniugi stessi, uno dei coniugi o un terzo costituiscano un fondo patrimoniale, comprensivo di beni immobili, mobili registrati o titoli di credito, al fine di far fronte ai bisogni della famiglia.
    La peculiarità di tale istituto si rintraccia senza dubbio nell’art. 170 c.c.: infatti, i beni del fondo non sono aggredibili da quei creditori che conoscevano che il debito fosse stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia.
    L’istituto nasce, pertanto, per garantire alla famiglia una tutela massima, superiore persino a quella che deriva dal fatto che i rapporti fra i coniugi siano regolati dalla comunione legale: infatti, mentre i beni della comunione rispondono anche per obbligazioni estranee ai bisogni della famiglia, ciò è espressamente escluso se sussiste il fondo patrimoniale. Esso, addirittura, permane in vita nonostante lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio fra i coniugi, allorché vi siano figli minori.
    Tale strumento, tuttavia, può prestarsi ad abusi: è possibile, infatti, che il fondo patrimoniale sia costituito col solo e unico fine di proteggere determinati beni o diritti dall’altrui azione esecutiva, utilizzando l’espediente dei bisogni della famiglia.
    Anche con riferimento a tale ipotesi la giurisprudenza ha ammesso la possibilità che il creditore agisca per ottenere l’inefficacia nei suoi confronti dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale sia che provenga da uno o entrambi i coniugi sia che venga posto in essere da un terzo: l’atto si considera infatti a titolo gratuito e la revocabilità segue la disciplina generale già illustrata; per la revocatoria fallimentare, invece, si richiede soltanto che l’atto sia posto in essere non prima dei due anni dalla dichiarazione di fallimento.

    VotoNon avendo corretto altri temi su questa traccia, temo di essere rimasta "bassa". Comunque le ho dato un 13. Il tema è chiaro, completo, scorrevole.
    :)
     
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    QUAGLIA

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    Dall'isola dei bimbi sperduti. Qualcuno ha visto mt?

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    Tracce per gennaio (scusate il ritardo). Nel caso, se avete bisogno, potete prendervi qualche giorno in più per inviare gli elaborati; li correggerò comunque.

    1. Premessi adeguati cenni sul contratto con obbligazioni del solo proponente, tratti il candidato della atipicità delle promesse unilaterali.
    2. Il divieto di patto commissorio, con particolare riferimento alle alienazioni a scopo di garanzia e al sale and lease back. Si dica inoltre dei suoi rapporti con negozi in frode ai diritti dei terzi.
    3. Negozi fiduciari e negozi indiretti, con particolare attenzione alla donazione indiretta.
     
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  13. RaveRod80
     
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    Temi di gennaio.
    due tracce...

    1) Il ricorso straordinario al presidente della repubblica: natura e profili applicativi alla luce del nuovo CPA.
    2) Premessi brevi cenni sul procedimento espropriativo tratti il candidato dell'indennità alla luce della giurisprudenza interna e della CEDU.
     
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  14. jugly
     
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    Visto che le tracce di amministrativo sono state assegnate il 23, possiamo eventualmente inviarne lo svolgimento anche nei primi giorni di febbraio, per favore?
    Grazie
     
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    CITAZIONE (jugly @ 30/1/2014, 20:46) 
    Visto che le tracce di amministrativo sono state assegnate il 23, possiamo eventualmente inviarne lo svolgimento anche nei primi giorni di febbraio, per favore?
    Grazie

    Si, fino a fine febbraio :)
     
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