temi luglio 2013

tracce e migliori elaborati

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  1. saffo87
     
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    Anche io sarei interessata al corso temi on line laddove dovesse essere attivato :-)
     
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  2. uskebasi
     
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    Togasana, pubblichi i migliori per favore?????????????????????????

    Muchas grazias
     
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  3. Gio8777
     
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    Ciao Togasana!anche io, come ti ho scritto in pvt, sarei interessato al corso dei temi privati!grazie e resto in attesa di informazioni! Complimenti per l'organizzazione e per il servizio che presti!
     
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    over the rainbow

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    per le iscrizioni, come avevo scritto già, non mandatemi per ora privati perché stiamo definendo la cosa...
    portate pazienza, i neomot avranno anche diritto ad un po' di vita! :)
     
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    Tema diritto penale
    Traccia 1)


    Premessi cenni sul procedimento analogico, tratti il candidato del divieto di analogia in materia penale nonché della distinzione tra applicazione analogica ed interpretazione estensiva della legge penale.



    Il procedimento analogico è un tecnica di interpretazione delle norme prevista dal nostro ordinamento al fine di integrare gli ordinari criteri interpretativi.
    La disciplina dell’istituto è individuata all’art. 12 delle c.d. disposizioni preliminari al Codice Civile (Disposizioni sulla legge in generale). Il capo secondo di tale normativa è intitolato “Dell’applicazione della legge in generale” e al suo articolo dodici prevede le disposizioni sulla “Interpretazione della legge”.
    Il primo criterio che si individua è quello basilare dell’interpretazione letterale, ossia la ricerca del significato della norma attraverso il significato proprio delle parole. Può comunque essere d’ausilio, come prevede lo stesso primo comma, la ricerca dell’intenzione del legislatore che, come spesso si constata, oltre che nei contributi dottrinari altresì nelle principali pronunce giurisprudenziali, viene spesso desunto dalle relazioni che il legislatore redige contestualmente all’emanazione di una normativa.
    L’intenzione del legislatore può anche essere desunta dalle norme preesistenti e abrogate, decidendo ad esempio sul significato da dare ad un termine caratterizzato da ambiguità rapportandolo magari ad un inciso previgente e successivamente abrogato.
    Fra i criteri interpretativi volti a ricostruire l’intenzione del legislatore, ne rappresentano un chiaro esempio quelli rinvenibili nei brocardi latini “ubi tacuit noluit” ovvero “minus dixit quam voluit”, che rispettivamente esprimono, il primo, la volontà del legislatore di escludere un determinato caso concreto dalla sfera di applicazione di un norma giuridica, lasciando dunque spazio ad una interpretazione definibile come restrittiva, la quale non lascia spazio ad ampliamenti di sorta, dando rilievo al solo significato delle parole così come espresse dal legislatore; il secondo, al contrario, rappresenta la volontà di includere una serie di casi che dal testo letterale non sono desumibili, estendendo così il raggio d’azione della norma. Tale tipologia di interpretazione è detta estensiva.
    Il secondo comma della disposizione di cui all’art.12 delle disposizioni preliminari al Codice Civile individua il procedimento di interpretazione analogica.
    Si individuano due tipologie di criteri interpretativi, i quali, sostanzialmente, sono volti ad evitare che nell’ordinamento permangano situazioni non disciplinate dalla legge in grado di far nascere delle lacune giuridiche.
    La prima tipologia di analogia è quella definita “legis” ossia che consiste nell’applicare una norma, che è volta a disciplinare determinati casi, ad altri e diversi casi simili che altrimenti rimarrebbero privi di una disciplina specifica.
    Naturale conseguenza di tale procedimento interpretativo è che si pongano dei parametri cui ancorare la sua possibilità di applicazione.
    E’ dunque necessario che i due casi siano analoghi, cioè “simili”, e che nei loro confronti sia riscontrabile una aedem ratio di disciplina, ossia la stessa finalità da perseguire e la stessa logica giuridica (parametri inevitabilmente lasciati alla discrezionalità del giudice). In tal modo potrà ritenersi applicabile il brocardo “ubi eadem ratio, ibi eadem dispositio”.
    Al secondo periodo del secondo comma dell’art. 12 richiamato, viene prevista invece l’analogia iuris, ossia, sempre con la finalità di colmare delle lacune del diritto, si ricorre all’ultimo espediente per dare una disciplina a casi che ne sono privi. La disciplina viene così ricercata nei principi generali dell’Ordinamento giuridico dello Stato.
    In tale secondo caso, la sfera applicativa dei principi generali, in primis quelli contenuti nella Costituzione, si estende al massimo, ampliando conseguentemente anche i poteri dell’organo giudicante che, dunque, si trova ad utilizzare un procedimento interpretativo con amplissimo margine di discrezionalità.
    Proprio per tale motivo, il ricorso all’analogia iuris risulta di rara applicazione ed è, anzi, radicalmente escluso dalle materie che incidono in maniera rilevante sui diritti dell’individuo e che dunque necessitano di maggiori garanzie ricercate nella tassatività delle fattispecie.
    Il diritto penale è la materia per eccellenza in cui si esclude l’applicabilità del procedimento analogico. Difatti, le norme di diritto penale hanno la capacità di incidere sulla libertà personale e dunque, ai fini della loro applicazione, richiedono la presenza di una serie di garanzie forti finalizzate, essenzialmente, ad ancorare l’inflizione della pena a parametri il più possibile oggettivi che siano cioè fondati esclusivamente sulla legge intesa in senso formale, ossia come atto conoscibile da tutti i consociati che, pertanto, potranno valutare liberamente se porsi contro l’ordinamento giuridico, ponendo in essere un fatto penalmente rilevante o meno.
    La base di questa forma di garanzia è rinvenibile nell’art. 25 Costituzione, che sancisce il fondamentale principio di legalità. Al suo secondo comma, difatti, si afferma chiaramente che nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
    Tale principio-cardine del diritto penale si suddivide a sua volta in numerosi corollari che rappresentano tutti delle sue declinazioni, come il principio della riserva di legge, il principio di offensività, di materialità, il principio di irretroattività della norma penale di sfavore, il principio di colpevolezza, quelli di tassatività e determinatezza della norma penale.
    E’ opportuno soffermarsi sugli ultimi due principi richiamati, determinatezza e tassatività della norma penale, e chiarire come, sebbene parte della dottrina li consideri alla stregua di principi sovrapponibili, aventi cioè lo stesso significato, rinvenibile nel richiamato divieto di analogia, sembrerebbe più corretto seguire il diverso orientamento che li differenzia.
    Il primo, principio di determinatezza, sarebbe espressione della necessità che le norme penali siano caratterizzate da sufficiente chiarezza e non pecchino di eccessiva genericità. Dunque, la determinatezza sarebbe una caratteristica attinente alla struttura formale della norma.
    Al contrario, la tassatività riguarda più strettamente la fase applicativa della norma che non potrebbe applicarsi al di là delle ipotesi tassativamente individuate da essa.
    Una ipotesi di fattispecie che è stata a lungo al centro di rilevanti discussioni proprio in relazione al principio di determinatezza è ad esempio quella individuata all’art. 650 c.p. la quale, nell’individuazione del precetto fa riferimento ad un “provvedimento dato dall’autorità per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene”. In relazione a tale fattispecie si è posto il problema della effettiva tenuta costituzionale della norma in ragione della ipotizzata carenza di determinatezza, nel momento in cui si ammetteva che il contenuto del precetto penale si individuasse di volta in volta da parte di una diversa Autorità. Tuttavia, il Giudice delle Leggi ha ritenuto la conformità a costituzione della norma in parola ritenendo un sufficiente parametro di determinatezza il riferimento più stretto alle materie della sicurezza pubblica, d’ordine pubblico, di igiene e giustizia.
    E’ in ogni caso da chiarire che i due principi, tassatività e determinatezza, al di là di una netta distinzione in astratto, sono in concreto strettamente connessi fra loro e vengono pertanto analizzati parallelamente.
    Si può asserire che il loro fondamento costituzionale, con particolare riferimento a quello di tassatività, è rinvenibile nell’art 25 Costituzione, laddove con l’utilizzo del termine “legge” fa riferimento necessariamente a fattispecie astratte sufficientemente determinate e tassative, ed altresì nell’art. 13, laddove afferma che la libertà personale è inviolabile e la sua restrizione non può avvenire che nei soli casi e modi previsti dalla legge; nei casi di particolare urgenze e necessità possono essere adottati da parte dell’autorità di pubblica sicurezza dei provvedimenti provvisori, purché siano “indicati tassativamente dalla legge” (art. 13, co. 3, Cost.).
    Inoltre, potrebbe individuarsi il fondamento dei principi di determinatezza e tassatività altresì nella libertà di autodeterminazione dell’individuo e nella certezza del diritto, sulla base del rilievo per cui dovrebbe essere consentita, ad un individuo che decida di porre in essere un determinato comportamento, la possibilità di valutare a priori e chiaramente le potenziali conseguenze, in termini penali, derivanti dal suo gesto.
    La disposizione di cui all’art.14, disposizioni preliminari al Codice Civile, contenuta nel già richiamato Capo II della normativa, è dedicata alla applicazione delle leggi penali ed eccezionali.
    In essa si può leggere che le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati.
    Dunque, viene esplicitamente affermato un divieto di interpretazione analogica nella materia penale e relativamente alle leggi eccezionali.
    Individuato in tali termini il sostrato normativo su cui si fonda il divieto di analogia nel diritto penale, è opportuno osservare come la tematica è stata a lungo al centro di dibattiti giuridici per ciò che attiene la distinzione fra la c.d. analogia in bonam partem e l’analogia in malam partem, problema strettamente collegato al tema delle scriminanti e alla loro natura.
    L’analogia in bonam partem consiste nell’applicazione del procedimento analogico con la conseguenza di migliorare la posizione penale del reo, come ad esempio avviene nel caso in cui una norma scriminante venga applicata ad un caso concreto che originariamente non può essere ricondotto completamente sotto la sua sfera di applicabilità poiché non rispecchia alcuni elementi tipici della fattispecie.
    La problematica involge anche il principio del favor libertatis nell’interpretazione delle norme penali, che condurrebbe a privilegiare l’ammissibilità di un’analogia in bonam partem piuttosto che un trattamento di sfavore, nell’esempio richiamato, l’alternativa sarebbe, dunque, fra ritenere il fatto alla stregua di un fatto lecito ovvero condannare, ritenendo la scriminante non applicabile al caso di specie per mancanza anche di uno solo degli elementi tipici di essa.
    Il caso di scuola, e per il quale sembra ritenersi ammissibile l’applicazione analogica della causa di giustificazione della legittima difesa, potrebbe rinvenirsi nella reazione posta in essere in assenza del un pericolo attuale, bensì in caso di un pericolo futuro.
    Anche in tal caso la dottrina più rigorosa non ammette l’operare della scriminante che potrebbe in tal modo prestarsi ad abusi nello stravolgimento della ratio della scriminante stessa, tuttavia è da precisa che, in ogni caso, ai fini della corretta applicazione della scriminante è necessario sempre e comunque la sussistenza del requisito della eadem ratio, che dovrà essere indagato dal giudice.
    Ciò vuol dire che potrebbe ammettersi un’applicazione analogica nel caso in cui comunque sussistano tutti gli ulteriori requisiti della scriminante, primo fra tutti quello della necessità, inteso come impossibilità di evitare il pericolo in altro modo.
    In tali casi il favor libertatis prevarrebbe sul principio di tassatività.
    L’analogia in malam partem, pacificamente vietata in ambito penale, consiste invece nell’applicazione del procedimento analogico a casi che sicuramente condurrebbero a risultati sfavorevoli per il reo. Si tratterebbe quindi dell’applicazione di una norma incriminatrice a situazioni concrete che non rispecchiano in pieno la tipicità del fatto come individuata dal legislatore. In tali casi il principio di tassatività non può assolutamente essere derogato poiché le ripercussioni si manifesterebbero alla stregua di violazioni della libertà personale in assenza delle dovute garanzie essenziali per il diritto penale.
    La problematica dell’applicazione del procedimento analogico nel diritto penale assume particolare rilevanza nell’ambito delle cause di giustificazione ed involge altresì il prodromico quesito, se le cause di giustificazione posano essere considerate alla stregua di vere e proprie norme incriminatrici o meno.
    Tralasciando i pur interessanti risvolti che attengono alle differenti teorie che si contrappongono in materia di scriminanti (teoria bipartita e tripartita), sembra utile chiarire come, per le teorie più vicine al formalismo, prevalga una definizione di norma penale che ricomprende qualsiasi disposizione contenuta nel Codice Penale. In tal senso rappresenterebbero delle vere e proprie norme penali altresì le cause di giustificazione. In base a tale teoria il legislatore dovrebbe mantenere saldo il monopolio della materia penale sia in relazione alle norme penali in senso stretto, ossia quelle che prevedono una pena, sia a qualsiasi altra norma che, seppur priva del tipico carattere afflittivo, sia idonea a determinare l’an del reato, delimitando l’area del penalmente rilevante.
    Altra e più recente teoria, più garantista, considera invece norme penali le sole norme c.d. incriminatrici, ossia quelle che prevedono l’applicazione di una pena, dotate cioè effettivamente del carattere afflittivo. Secondo tale ultima concezione, le cause di giustificazione, non conducendo all’applicazione di una pena, non potrebbero ritenersi delle norme penali vere e proprie, ma al contrario ripristinerebbero l’ordinaria prevalenza della favor libertatis in situazioni particolari in cui, pur sussistendo il fatto penalmente rilevante nella sua oggettività, viene meno l’antigiuridicità di esso, e, dunque, il fatto risulterebbe lecito.
    Come è stato validamente sostenuto in dottrina, la norma incriminatrice rappresenta un’eccezione al principio della inviolabilità della libertà personale e, al contrario, la scriminante si porrebbe come norma ripristinatoria del naturale valore della libertà personale inviolabile. Dunque, non potendo essere considerata alla stregua di una norma penale (incriminatrice) né eccezionale, sarebbe dunque soggetta ad una eventuale applicazione analogica.
    Ci si troverebbe così di fronte ad un’applicazione in bonam partem del procedimento analogico in quanto determinante l’assoluzione del reo perché “il fatto non costituisce reato”.
    Importanti dibattiti sono sorti soprattutto nell’ambito delle c.d. scriminanti atipiche come l’attività sportiva violenta o l’attività medica.
    In questi casi si realizza la lesione del diritto pur ponendo in essere delle attività che, almeno inizialmente nascono come lecite in quanto ammesse dall’ordinamento.
    Ebbene, in tali situazioni, le soluzioni proposte sono state diverse. I sostenitori dell’ammissibilità dell’analogia in bonam partem hanno ritenuto che a queste tipologie di attività potessero applicarsi, per analogia, le scriminanti previste dal codice penale alternativamente agli articoli 50 ovvero 51 c.p.
    Ad esempio nel caso di attività sportiva violenta si tratterebbe di un consenso prestato per eventuali lesioni dell’integrità fisica, in alcuni casi, altresì, oltre il limite dell’art. 5 c.c., ossia il limite dei diritti indisponibili (non sono rari casi di sport violenti come il pugilato, pur leciti nell’ordinamento, in cui si verificano lesioni permanenti dell’integrità fisica dell’avversario).
    Altre voci ritengono invece che tali attività possano di volta in volta essere ricondotte alle scriminanti già esistenti nel Codice Penale possedendo tutti i requisiti specifici (in tali casi potrebbe ricorrersi al caso fortuito per le ipotesi di lesioni gravi, ovvero in ogni caso, rappresentando una tesi più restrittiva, ritenere la responsabilità di colui che oltrepassa il limite del rischio consentito).
    Altre voci, diversamente, ritengono che queste tipologie di scriminanti, in particolare quella dell’attività medica che è stata al centro di recenti e ampi dibattiti, rappresentino delle vere e proprie scriminanti non codificate.
    Esse non troverebbero la loro disciplina nel codice, nemmeno facendo ricorso al procedimento analogico, ma, come è stato ritenuto per l’attività medica da una recente pronuncia della Corte di Cassazione (riguardante specificamente la distinzione fra interventi chirurgici con esito fausto e infausto con particolare riferimento al consenso informato), tale attività troverebbe fondamento direttamente nella Costituzione, all’art. 32, e, se proprio di scriminante deve parlarsi, dovrebbe parlarsi di una sorta di scriminante “costituzionale”.
    In tal senso non vi sarebbe ragione di ricercare la norma ordinaria che riesca a giustificare la lesione causata dall’attività medica, ma l’attività medica nasce come attività di per sé lecita, fisiologica all’ordinamento, che rileva penalmente solo nel momento in cui realizza tutti gli elementi tipici del reato di lesioni ovvero di omicidio, e di questo ovviamente ha senso parlare solo in caso di esito infausto dell’intervento senza che si lasci alcun valore al consenso informato come indice di rilevanza penale (la problematica, sollevata in passato, si poneva poiché si riteneva che, anche nel caso di esito fausto dell’intervento, potesse ritenersi configurabile il reato di violenza privata per via della mancanza del consenso informato).
    Dunque, concludendo il discorso sull’applicazione analogica alle scriminanti, è utile distinguere fra l’applicazione analogica delle cause di giustificazione e la sussistenza di cause di giustificazione non codificate.
    E’ da chiarire, inoltre, come ad oggi sembri prevalere la tesi dell’ammissibilità dell’applicazione analogica in bonam partem, altresì avendo riguardo alle sentenze della Corte EDU che in recenti pronunce ( ex plurimis, caso Scoppola c. Italia) ha sostenuto una concezione della norma penale c.d. autonomistica, ossia non legata a parametri formali bensì al suo reale carattere di afflittività e capacità di incidere sulla libertà personale.
    Inoltre, sempre in ossequio ai diritti inviolabili dell’uomo (così come rafforzati anche dalla CEDU), i principali interpreti dell’odierno diritto penale sembrano tendere maggiormente al garantismo e, dunque, alla prevalenza del favor libertatis.
    Ulteriore problematica che sembra utile analizzare è quella relativa alla complessa distinzione fra interpretazione analogica e interpretazione estensiva.
    Come chiarito, la prima consiste nell’applicazione di una norma a casi concreti che non rientrano nella sua sfera di disciplina, poiché non rispecchiano perfettamente i requisiti richiesti dalla norma. La ratio va ricercata nella finalità di evitare lacune nell’ordinamento giuridico attraverso il ricorso a norme diverse, che disciplinano casi simili, ovvero ai principi generali dell’ordinamento (analogia iuris).
    La seconda, al contrario, ha la funzione di ricercare quali effettivamente siano le ipotesi concrete che, propriamente, possono essere ricondotte sotto la disciplina della norma.
    Mentre nell’applicazione del procedimento analogico si dà come presupposto il rilievo che il caso di specie non potrebbe essere ricondotto all’interno della disciplina e, dunque, si ricerca la diversa connessione della eadem ratio; nell’interpretazione estensiva il caso di specie potrebbe essere incluso fra i casi disciplinati direttamente dalla norma e lo sforzo dell’interprete diventerebbe principalmente quello di valutare se sia possibile ricondurlo, o meno, sotto la sua sfera di applicazione.
    Sovente tale valutazione dell’interprete riguarda gli elementi definitori della norma, come si vedrà, si valuta cioè la possibilità di ricondurre nel significato di un termine, individuato come requisito tipico della fattispecie astratta, una serie di significati più o meno estesi propri del linguaggio comune.
    Dunque, la valutazione dell’interprete tende sempre al raccordo fra i termini utilizzati dal legislatore e i termini comunemente utilizzati nella società civile, di talché qualora si ritenga che un determinato significato possa essere ricondotto allo specifico termine utilizzato dal legislatore, esso rientrerà nella fattispecie astratta come elemento tipico della norma; qualora non potrebbe essere ad esso ricondotto non si potrebbe che fare ricorso all’interpretazione analogica per vedere applicata comunque quella disciplina.
    Il discrimen fra interpretazione estensiva e analogica è sottilissimo e, non di rado, si presta altresì a valutazioni che trascendono la mera interpretazione della norma e involgono valutazioni di politica criminale o riguardanti le possibili ripercussioni che una data interpretazione potrebbe avere a livello sociale. Pertanto, nel momento in cui si percepisce come eccessivamente rischiosa l’applicazione estensiva di una fattispecie astratta a determinati casi concreti, con eventuali ripercussioni sul bene della libertà personale, si tende ad escludere gli stessi dalla sfera di applicazione della norma e si lascia al legislatore il compito di disciplinarli espressamente.
    Molti esempi possono farsi riguardo questo tipo di procedimento interpretativo, a dimostrazione altresì della sottile linea di separazione intercorrente fra interpretazione analogica (vietata) e interpretazione estensiva (ammessa), ciò che determinerebbe il “se” un soggetto possa vedersi privato della libertà personale o meno.
    Un esempio recente e al centro di importanti dibattiti, nonché oggetto di una pronuncia delle Sezioni Unite del 2013, è quello relativo al significato da attribuirsi all’avverbio “esclusivamente” nella disciplina degli stupefacenti (art. 73, co. 1 bis, D.P.R. 309/1990), termine introdotto a seguito della riforma del 2006, oggetto anch’essa di aspre critiche e discussioni che qui si tralasciano.
    La norma prevede la punibilità di chi acquista, consuma o detiene, sostanza stupefacente a fini non esclusivamente personali.
    Ebbene l’introduzione del termine “esclusivamente” è stata interpretata da una parte della giurisprudenza come sinonimo di uso “individuale”, con il fine di includere fra le ipotesi di rilevanza penale altresì le situazione di consumo di gruppo di sostanza stupefacente.
    Dunque, senz’altro un’interpretazione estensiva della norma, che estendeva così la punibilità anche ai casi di consumo personale, seppure in gruppo, in ossequio altresì alle generale politica di inasprimento della disciplina sugli stupefacenti.
    Ebbene, le Sezioni Unite hanno ritenuto di non poter ammettere una tale interpretazione estensiva del termine che, al contrario, appare alla stregua di un semplice rafforzamento linguistico, con funzione pleonastica. Sarebbe impensabile, secondo il massimo consesso della Cassazione, che attraverso l’introduzione di un semplice avverbio il legislatore avesse pensato di estendere a tal punto la fattispecie incriminatrice fino a ricomprendere ipotesi che altrimenti non sarebbero rientrate nella norma (stando alla precedente pronuncia delle Sezioni Unite, del 1997, Iacolare, la quale escludeva radicalmente che l’uso personale, di gruppo, di sostanze stupefacenti potesse considerarsi penalmente rilevante in entrambe le ipotesi di mandato collettivo all’acquisto e di acquisto in gruppo).
    Altro esempio di interpretazione estensiva è quella relativa alle norme sulla confisca e, in particolare al significato da attribuire al termine “profitto”.
    Il discorso involge il rapporto fra confisca ordinaria e confisca per equivalente. La prima può colpire il profitto del reato, oltre al prezzo e al prodotto nei termini indicati dall’art. 240 c.p. o dalle norme che di volta in volta prevedono il provvedimento ablatorio; la seconda, venendo meno il nesso c.d. di pertinenzialità fra il reato e il bene confiscato, colpisce beni di valore equivalente a quelli che costituiscono il profitto del reato, qualora non sia possibile confiscare questi ultimi direttamente.
    La confisca per equivalente deve essere specificamente prevista da una norma affinché possa ritenersi applicabile ad un’ipotesi di reato mentre, al contrario, la confisca generica prevista nella disposizione di cui all’art. 240 c.p. è un istituto generico che si applica ai casi di condanna per qualsiasi reato.
    Dunque appare di estrema rilevanza la definizione del concetto di profitto. Esso si definisce come il vantaggio economico derivante dalla commissione del fatto di reato, in capo al soggetto che lo ha commesso. Il vantaggio, dunque, deve essere valutabile economicamente, a differenza che in altre fattispecie, come quella del furto, in cui può ritenersi alla stregua di profitto individuato dalla norma altresì un vantaggio di natura morale (in alcuni casi anche il sentimento di vendetta o soddisfazione personale nel commettere la condotta di sottrazione del bene altrui).
    La definizione è dunque più ristretta per ciò che attiene il profitto in ambito di confisca. Per ciò che attiene gli ordinamenti stranieri o sovranazionali, si utilizza un termine ancora più ampio (“proceeds”) che potrebbe essere paragonato al termine italiano “provento”, inteso nel senso di qualsiasi vantaggio di natura economica derivante dalla commissione del reato, sia esso inquadrabile come prezzo, profitto o prodotto.
    La precisazione, però, riguarda una recente pronuncia che ha ricompreso nel significato del termine “profitto” altresì i beni che costituiscono il “reimpiego” del profitto originario.
    Per “beni frutto del reimpiego” si intende qualsiasi bene che sia direttamente ricollegabile al profitto originario e che dimostri l’intenzione, da parte del reo, di voler occultare all’autorità il profitto diretto del reato.
    Dunque, si estende la gamma dei beni confiscabili in quanto rientranti nel più ampio concetto di profitto, purché si dimostri il nesso di diretta derivazione dal profitto originario e l’intenzione fraudolenta di tale operazione.
    Tale affermazione sostenuta dalla Corte di Cassazione, appare utilissima ai fini dell’applicazione dell’istituto della confisca ordinaria in quanto, i beni frutto del reimpiego, in assenza di una tale interpretazione estensiva, avrebbero potuto essere oggetto di confisca esclusivamente sulla base di una norma specifica, che avesse previsto la possibilità di confisca per equivalente. Alla luce di questa interpretazione, invece, i beni frutto del reimpiego rientrano a pieno titolo nel concetto di profitto e sono soggetti alla confisca ordinaria.
    Altra ipotesi di interpretazione estensiva è quella relativa alla figura di reato prevista dall’art. 290 c.p., ossia il vilipendio della Repubblica, delle Istituzioni costituzionali e delle Forze armate.
    La norma è stata di recente al centro di discussioni per ciò che attiene in particolare, la vicenda dei commenti di natura politica, offensivi verso il Presidente della Repubblica, pubblicati su grandi piattaforme della rete internet.
    La norma, in passato, era già stata oggetto del sindacato da parte del Giudice delle Leggi che ne ha sempre dichiarato la conformità a Costituzione. Le questioni sollevate riguardavano la eccessiva indeterminatezza della norma laddove utilizza l’inciso “chiunque pubblicamente vilipende…”, con particolare riferimento al verbo “vilipende”. Difatti, l’ampio significato del termine permette di ricondurre all’interno di esso una serie pressoché indefinita di condotte, che vanno dal semplice dileggio (inteso alla stregua di derisione) fino a condotte gravemente offensive (come colui che strappa via e calpesta i gradi da un’uniforme delle forze del’ordine, condotta sicuramente più grave e meritevole di pena). Di talché sarebbe lasciato uno spazio eccessivamente ampio all’organo giudicante che si troverebbe di volta in volta nella discrezionalità di attribuire al termine “vilipende” un significato più o meno esteso.
    Dopo l’analisi dei suddetti casi, che rappresentano una piccolissima parte di tutte le problematiche che si sono sviluppate intorno al tema dell’interpretazione estensiva, risulta chiara la distinzione fra procedimento interpretativo analogico e semplice interpretazione estensiva; la prima, rappresentando un rimedio ad una lacuna dell’ordinamento, non può che essere vietata in ambito penale, sussistendo la potestà esclusiva del legislatore in ossequio al principio di legalità sancito dall’art. 25 Cost., la seconda, riconducibile alla normale applicazione di una norma giuridica, seppur in maniera estensiva, e dunque ammessa.
    In conclusione può dirsi che, seppur apparentemente chiarita nei termini tracciati in astratto, la distinzione fra analogia e interpretazione estensiva, come anche fra analogia in bonam partem e in malam parte, risulta più ardua in concreto, e, pertanto, ad oggi, con il rafforzamento dei principi della CEDU, sembra prevalere la tendenza al garantismo, mantenendo come “nord della bussola” il principio del favor libertatis.

    Non ci ho messo penna, aderente alla traccia, completo e ben strutturato. Scorrevole nella forma, ottimo livello di approfondimento
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    TEMA DI DIRITTO PENALE LUGLIO 2013 2)OPZ -
    Il candidato tratti del diritto scriminante di critica, anche in relazione al diritto di cronaca ed al rilievo della verità dei fatti riportati, dopo aver esaminato la causa di giustificazione che ne costituisce il fondamento normativo.

    Tra le cause di giustificazione previste dal diritto penale, rileva quella di cui all’art. 51 c.p. a mente del quale “l’esercizio di un diritto … esclude la punibilità”.
    L’ordinamento giuridico, pertanto, prevede, nei suoi svariati settori, norme che attribuiscono la facoltà legittima di commettere fatti penalmente rilevanti, rendendone lecita la loro realizzazione, in quanto, per ragioni di coerenza ed unità del sistema, non può essere considerato illecito un comportamento che, ancorché riconducibile in astratto ad una determinato tipo di reato, in concreto è reso facoltativo da una diversa norma giuridica.
    La nozione di “diritto” richiamata dall’art. 51 appare, pacificamente, comprensiva non solo dei diritti soggettivi in senso stretto, ma anche di ogni facoltà legittima di agire riconosciuta dall’ordinamento come libertà costituzionali, diritti potestativi previsti dal codice civile, poteri dei soggetti pubblici e mere facoltà concesse al privato.
    Tra le fonti del diritto scriminante si annoverano norme costituzionali, norme di legge ordinaria, norme comunitarie, leggi regionali (nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti con legge dello Stato) ed anche norme consuetudinarie (si pensi ad es. ad un fatto di disturbo del riposo delle persone mediante schiamazzi o rumori di cui all’art. 659 c.p. scriminato dall’esercizio di un diritto di fonte consuetudinaria in occasione di festeggiamenti notturni di successi sportivi).
    Taluno include anche regolamenti, contratti di diritto privato, provvedimenti giurisdizionali e amministrativi.
    Quanto a quest’ultimi, tuttavia, si obietta che se il provvedimento amministrativo autorizza un’attività vietata dalla legge penale, esso è illegittimo e, come tale, inidoneo ad attivare il meccanismo giustificativo di cui all’art. 51.
    Se, invece, è la stessa norma incriminatrice a sanzionare chi svolga una data attività in assenza di un provvedimento autorizzatorio (ad es. la realizzazione di opere edilizie in assenza di concessione), in tal caso l’atto amministrativo non attribuisce all’agente una facoltà legittima di agire ma bensì rileva, in sé, come elemento che esclude il perfezionamento della fattispecie di reato.
    Quanto, invece, al potere scriminante delle facoltà riconosciute contrattualmente, appare più corretto dubitare che l’autonomia privata possa spingersi sino al punto di rendere lecito ciò che, altrimenti, sarebbe illecito; anche perché alla luce degli artt. 1343, 1344. e 1418 c.c. il contratto avente una causa illecita è nullo così come nell’ipotesi di illiceità dell’oggetto.
    Infine, occorre inquadrare il profilo dei limiti del diritto scriminante.
    A tale riguardo, si suole distinguere fra limiti interni ed esterni.
    I primi attengono all’individuazione del contenuto e dell’esatto ambito di operatività della norma attributiva del diritto, in particolare al fine di accertare se fra le facoltà costitutive del diritto rientra propriamente la specifica azione o omissione realizzata dall’agente.
    I secondi vengono tratti dal complesso normativo cui fa parte la norma attributiva.
    Così, se si tratta di diritti riconosciuti da una legge ordinaria, i relativi limiti si desumono sia dalla fonte dalla quale deriva il diritto, sia dal complesso delle altre leggi contenute nell’ordinamento; mentre, quando si tratta di diritti riconosciuti a livello costituzionale, non si possono desumere limiti al loro esercizio sulla base di norme di rango inferiore, ostandovi il principio di gerarchia delle fonti.
    In tale evenienza, nell’eventuale conflitto fra diritti costituzionalmente garantiti e norme incriminatrici, prevalgono i primi atteso che un diritto riconosciuto dalla Costituzione potrà essere limitato nel suo concreto esercizio solo a fronte del soddisfacimento di altri interessi costituzionali di rango equivalente.
    OK MA IL BENE DI RILEVANZA COSTITUZIONALE NEL CONCRETO TROVA POI TUTELA IN DISPOSIZIONI DI LEGGE ORDINARIA
    La questione dei limiti acquista peculiare importanza in ordine alla valenza scriminante del diritto di cronaca e del diritto di critica.
    Anzitutto, il diritto di cronaca, inteso come narrazione di determinati fatti o divulgazione di date notizie a fini informativi, pur rientrando nell’alveo della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost., presenta una tutela privilegiata e più accentuata rispetto alla semplice ed isolata manifestazione del pensiero in ragione della rilevanza sociale dell’informazione con riferimento a fatti di interesse pubblico.
    Invero, premesso che uno dei limiti più frequentemente invocati rispetto alla libertà di pensiero è rappresentato dalla tutela dell’onore protetto dal codice penale attraverso la previsione del reato di diffamazione – peraltro aggravato dalla circostanza che l’offesa sia recata con il mezzo della stampa, della radiotelevisione o di strumenti di diffusione via web - è interessante individuare in presenza di quali condizioni l’esercizio del diritto di cronaca assume natura di esimente ex art. 51 c.p. con riguardo ad attività informative idonee a ledere l’onore e la reputazione altrui.
    A tale proposito, la giurisprudenza della Cassazione ha evidenziato tre requisiti che legittimano l’esercizio del diritto di critica (non in generale, ma) allorquando esso possa offendere diritti della personalità altrui.
    Il primo requisito risiede nell’utilità sociale dell’informazione che, al di là delle differenti terminologie utilizzate nelle correlative pronunce – ora si parla, infatti, di rilevanza sociale, ora di interesse pubblico, ora di oggettivo interesse – si può ritenere sussistente ove la divulgazione di fatti e notizie risponda all’interesse della collettività ad essere tenuta al corrente di particolari aspetti dell’organizzazione politica, sociale e economica (a cui, per di più, tutti i lavoratori sono tenuti a partecipare ex art. 3, comma 2, Cost.), di fatti di costume emblematici e in genere di ogni evento che possa concorrere alla formazione dell’opinione pubblica.
    Sicché, la giurisprudenza precisa che, quando una persona ha un ruolo socialmente rilevante, anche il suo operato come soggetto privato interessa il pubblico, nella misura in cui esso possa avere attitudine a incidere pregiudizievolmente sull’esercizio delle sue funzioni e/o sulle istituzioni che rappresenta.
    Nondimeno, l’utilità sociale deve avere come elemento integrante l’attualità delle informazioni diffuse.
    La seconda condizione in presenza della quale la divulgazione di fatti lesivi dell’altrui onore e reputazione può considerarsi espressione lecita del diritto di cronaca è rappresentata dalla verità dei fatti narrati, in linea con l’obbligo inderogabile del rispetto della verità sostanziale dei fatti che la L. n. 69/63 impone al giornalista.
    Per il corretto esercizio del diritto di cronaca si richiede, quindi, l’esistenza di una sostanziale corrispondenza tra fatti accaduti e fatti narrati.
    E’ compito del giornalista non solo l’approfondimento della verità della notizia acquisita attraverso l’esame, il controllo, la verifica dei fatti a cui essa si riferisce, ma anche e soprattutto la dimostrazione e la prova della cura e delle cautele poste negli accertamenti svolti per vincere ogni dubbio e ogni incertezza prospettabili in ordine alla verità sostanziale dei fatti.
    La Cassazione precisa al riguardo che il punto nodale per accertare la verità della notizia ruota attorno all’impiego che il giornalista opera delle fonti e al loro attento e rigoroso controllo, in quanto questi è tenuto ad un puntuale accertamento del fatto che non dovrà mai essere omesso né per il convincimento proprio o della pubblica opinione della verità della notizia né per esigenza di speditezza dell’informazione.
    Inoltre, una questione ampiamente dibattuta in giurisprudenza riguarda l’esistenza di fonti informative privilegiate che eventualmente dispensino il giornalista dall’onere dell’esame, del controllo e della verifica dei fatti cui si è accennato.
    La casistica sul punto è estremamente ampia e non sempre coerente.
    Se in generale è riconosciuta speciale autorevolezza alle informazioni derivanti da atti dell’autorità giudiziaria o da documenti ufficiali provenienti da Stati esteri, svariate perplessità sono state sollevate rispetto all’attendibilità dei dispacci delle agenzie giornalistiche, rispetto a cui si registrano decisioni che richiedono in ogni caso la loro diligente verifica specialmente se non sussistono ragioni particolari di urgenza.
    Tuttavia, va dato atto anche della presenza di indirizzi più elastici secondo i quali i dispacci di agenzia giornalistica, se notoriamente qualificata, costituiscono fonti di particolare autorevolezza, a cui va imputata una presunzione di verità ove non sia possibile al giornalista o al direttore responsabile controllarne la fondatezza in tempi compatibili con l’esigenza di rapidità dell’informazione.
    Quanto, inoltre, alla completezza dell’informazione, la giurisprudenza sottolinea come la verità dei fatti non è rispettata se, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o colposamente, taciuti altri fatti, così strettamente collegati a quelli riferiti da mutare radicalmente il significato del racconto complessivo in quanto una verità incompleta è equiparabile ad una notizia falsa.
    Infine il terzo requisito che legittima l’esercizio del diritto di cronaca è costituito dalla c.d. continenza ossia dalla forma “civile” dell’esposizione che è tale ove non si ecceda lo scopo informativo che si vuole conseguire evitando forme di offesa indiretta, sottintesa o insinuante, nonché un tono sproporzionatamente scandalizzato o sdegnato o ancora accostamenti suggestionanti di fatti resi allo scopo di mettere in cattiva luce il soggetto in questione.
    Un’ultima notazione fa fatta in ordine al diritto di critica che, secondo un consolidato orientamento della Cassazione, si differenzia da quello di cronaca in quanto esso non si sostanzia nella mera narrazione di fatti, ma bensì nell’espressione di un giudizio o di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva né può essere valutata in base al parametro della verità oggettiva, fermo restando il tratto comune a cronaca e critica rappresentato dal fondamento costituzionale del loro esercizio rinvenibile nell’art. 21 Cost.
    Ciò non toglie che altre norme costituzionali implicitamente presuppongono il diritto di critica come gli artt. 18 e 49 i quali riconoscono alle associazioni la titolarità di un diritto di critica coessenziale all’attività di propaganda del gruppo associativo, l’art. 19 poiché la libertà di propaganda e di proselitismo costituiscono aspetti della libertà di coscienza e di culto e l’art. 33 in quanto la libertà dell’arte e della ricerca scientifica necessariamente contengono in sé la facoltà di raffrontare in chiave critica le altrui creazioni, elaborazioni o teorie.
    Tuttavia, la critica, per le sue dichiarate finalità di fustigazione dei costumi dell’epoca, perseguite anche attraverso l’arma dell’irrisione, si pone, frequentemente, in aperta collisione con altri valori fondamentali della persona, costituzionalmente tutelati, quali l’onore e la dignità.
    Sicché, in ragione della cennata funzione della critica, ciò che l’interprete deve domandarsi attiene all’estensibilità rispetto al diritto in esame dei requisiti di liceità già esposti con riferimento al diritto di cronaca.
    Orbene, mentre appare pacifica l’applicabilità della condizione dell’interesse pubblico e sociale della critica, il requisito della verità dei fatti pone problemi più complessi.
    Infatti, fermo restando che la critica non debba essere necessariamente veritiera in quanto fondata su una interpretazione soggettiva dei fatti, è pur vero che dovrebbe per lo meno avere un contenuto di veridicità nel senso di riferirsi ad un fatto storicamente vero o a un evento realmente accaduto.
    Tant’è che la giurisprudenza della Cassazione ritiene che l’argomentazione critica non possa prescindere dalla verità dei fatti che ne costituiscono il logico presupposto, in rapporto ai quali la critica assume una funzione strumentale in una duplice prospettiva: da un lato il fatto può costituire il presupposto obiettivo sul quale viene formulato il giudizio critico sulle persone coinvolte assumendo, per tale via, un valore sintomatico; dall’altro lato esso può costituire il destro per una speculazione critica di più ampio respiro, assumendo così un valore esemplificativo.
    In tempi recenti, la Suprema Corte ha operato un interessante specificazione in merito al limite della verità il quale – con riferimento al diritto di critica- deve essere di volta in volta valutato ed adeguato al caso concreto, affinché siano più agevolmente individuabili i criteri che consentono la liceità della critica.
    Secondo tale assunto, il requisito della verità assume carattere recessivo sino ad essere del tutto ininfluente tutte le volte in cui la critica si atteggi nella sua forma concettualmente più autentica, ossia priva di contenuti informativi, riemergendo ogni qual volta essa, invece, assolva anche ad una funzione di informazione.
    Allo stesso modo, il diritto di critica presenta profili di problematicità anche con riguardo all’elemento della cd. continenza.
    La giurisprudenza, pur avendo sostenuto la necessità del rispetto del limite della continenza espositiva, intesa come uso di modalità espressive corrette e misurate, ha altresì consentito che dello stesso criterio sia fatta una interpretazione più elastica in particolari circostanze, per esempio in tema di critica politica durante una competizione elettorale.
    Di talché, il limite della continenza del linguaggio va comunque inteso in senso dinamico ed aggiornato in funzione della diffusa devalorizzazione, nel contesto sociale, dell’uso di espressioni dai toni oggettivamente marcati o coloriti che ha ampliato il limite della tollerabilità segnato dalla coscienza sociale.
    Ciò non vuol dire, però, che la critica politica si possa risolvere esclusivamente in attacchi gratuiti di natura personale, diretti a colpire la sfera morale del soggetto e a screditarlo.
    Di certo va valutato il contesto in cui le frasi sono pronunciate, come specifica la Suprema Corte quando afferma che il contesto nel quale la condotta diffamatoria si colloca deve essere valutato seppure ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, non potendo in alcun modo scriminare l'uso di espressioni che si risolvano nella mera denigrazione dell’offeso, poiché anche l'efficacia scriminante dell'esercizio del diritto di critica è soggetta, come detto, al limite della continenza del linguaggio utilizzato.
    OTTIMI CONTENUTI, PASSAGGI LOGICI CHIARI E BEN EVIDENZIATI. COMPLETO E LINEARE. 13

    TEMA OPZIONALE DI DIRITTO PENALE – LUGLIO 2013

    3)OPZ – Premessi cenni sull’imputazione della responsabilità penale per colpa, il candidato tratti in particolare della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria alla luce del cd “decreto Balduzzi”.


    La realizzazione per colpa di un reato determina una responsabilità penale assai meno grave rispetto alla realizzazione dolosa del medesimo fatto, fermo restando che la colpa non rappresenta soltanto un minus rispetto al dolo, ma assume una sua autonomia strutturale che si ricava dalla definizione legislativa contenuta nell’art. 43, comma 1, c.p. indicativa della sussistenza di un requisito negativo e di un requisito positivo.
    Il primo è tratto dalla formula normativa a detta della quale“il delitto è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente”, così indicandosi la necessità dell’assenza di dolo, a fronte di un fatto involontario, ancorché l’evento sia eventualmente previsto sì da integrare, in tale ipotesi, la figura aggravata della c.d. “colpa cosciente”.
    Il secondo requisito – quello positivo – è descritto come “negligenza, imprudenza o imperizia”, costitutivo della c.d. “colpa generica”, ovvero come “inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline”, costitutivo della c.d. “colpa specifica”.
    Da quanto esposto, si può affermare che le varie forme di colpa si fondano su un giudizio interamente normativo, cioè sul contrasto fra la condotta concretamente tenuta dall’agente e il modello di condotta imposto da regole di diligenza, prudenza o perizia, siano esse contenute o meno in leggi, regolamenti, ordini o discipline.
    Non vi è dubbio, allora, che, con riferimento alla categoria più problematica, quella dei reati colposi di evento, il nucleo basilare dell’indagine sulla responsabilità colposa vada reperito nella ricerca di ben precise connessioni fra condotta ed evento, ovvero nell’individuazione della congruenza fra il rischio cautelato dalla regola di comportamento e ciò che si è realizzato in concreto nell’evento.
    D’altronde, nel diritto penale moderno, si richiede che ogni aspetto dell’imputazione colposa sia concepito nel segno dei valori costituzionali e, quindi, della rimproverabilità del fatto, dell’esigibilità della condotta e della colpevolezza.
    Il che sospinge l’indagine sul piano dell’evitabilità dell’evento e dell’attitudine della prescrizione disattesa ad evitare in concreto il verificarsi del rischio.
    Detto altrimenti, il concetto di causalità da applicare implica una duplice valutazione.
    In primis, l’evento concreto deve risiedere nella realizzazione di quello specifico pericolo che la regola violata mirava a prevenire, ovverosia deve concretare il risultato di una delle serie di sviluppi causali il cui prevedibile avveramento rendeva colposa la condotta dell’agente.
    In secundis, ci si deve domandare se il compimento della condotta imposta dalla regola avrebbe evitato, nel caso concreto, il verificarsi dell’evento.
    Ciò vale anche con riguardo ai c.d. reati omissivi impropri in cui l’evento non può essere addebitato a colpa se il soggetto non avrebbe potuto evitarlo neppure compiendo l’azione doverosa che la diligenza o la perizia gli imponeva di compiere.
    E’ chiaro che questo genere di valutazioni non trova sbocco con riguardo alle varie figure di reati colposi di mera condotta in cui il fatto si esaurisce nella realizzazione di una condotta in presenza di dati presupposti senza che si debba verificare un evento.
    In questo tipo di reati, le regole di diligenza che l’agente è tenuto a rispettare non sono finalizzate a prevenire eventi futuri, bensì ad assicurare che questi assuma le informazioni necessarie o compia i controlli dovuti nello stesso momento in cui esegue l’azione.
    Quelli appena accennati sono temi di grande rilievo, atteso che i campi di applicazione della colpa, dall’adozione del Codice Rocco ad oggi, si sono enormemente estesi a settori prima impensabili come gli infortuni sul lavoro, l’infortunistica stradale, i disastri ambientali e la colpa professionale, della quale, una sottocategoria di grande rilievo per le sue implicazioni umane e sociali, è quella della c.d. responsabilità medica.
    In passato, un certo orientamento giurisprudenziale in tema di colpa professionale, e medica in specie, affermava che, quando la prestazione comportava la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, era rilevante, ai fini della responsabilità penale, la sola colpa grave conformemente a quanto previsto, in materia di responsabilità civile, dall’art. 2236 c.c. relativo alla responsabilità del prestatore d’opera.
    In questa direzione, si sosteneva che quando il medico fosse chiamato a risolvere problemi diagnostici e terapeutici in presenza di un quadro patologico complesso e passibile di diversificati esiti, nonché della necessità di agire con urgenza, l'eventuale errore nel quale il sanitario fosse incorso, cagionando la morte o la lesione personale del paziente, dovesse esser valutato sulla base del parametro della colpa grava individuato dall'art. 2236 cod. civ.
    Viceversa, laddove non si presentasse una situazione emergenziale, ovvero quando il caso non implicasse problemi di particolare difficoltà, i canoni valutativi della condotta colposa non potevano che essere quelli ordinariamente adottati nel campo della responsabilità penale per la causazione di danni alla vita o all'integrità fisica delle persone, con la particolarità che il medico avrebbe dovuto sempre attenersi alla regola della massima diligenza e prudenza.
    Più di recente la giurisprudenza prevalente ha sconfessato questo indirizzo, sostenendo che la colpa professionale del medico va sempre valutata nell'ambito dei criteri generali dettati dal sistema penale, e non di quelli limitati al dolo ed alla colpa grave previsti dal codice civile, che, in quanto eccezionali, non sono estensibili per analogia, così pervenendo alla conclusione che la distinzione fra culpa levis e culpa lata in materia di responsabilità medica vale in ambito civilistico ai fini risarcitori di cui all’art. 2236 c.c. ed in ambito penale ai soli fini della graduazione della pena ma non anche come criterio discretivo di imputazione della responsabilità penale che resta ancorata, invece, ai principi generali dettati dall’art. 43 c.p.
    Sullo sfondo di queste tematiche e delle differenti soluzioni rese dagli arresti pretori dianzi citati, nel 2012 venne emanato il decreto legge n. 158, denominato decreto “Balduzzi”, convertito nella Legge n. 189/2012, il cui art. 3 sembra, invero, prestare ascolto all’interpretazione giurisprudenziale più risalente.
    Recita, infatti, la norma: “l’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
    La portata dirompente della disposizione in commento si spiega solo ove si pensi all’esclusione della rilevanza penale della condotta del medico connotata da colpa lieve, che si collochi all'interno dell'area segnata da linee guida o da virtuose pratiche mediche, accreditate dalla comunità scientifica.
    Viene reintrodotto, in sostanza, quel concetto di colpa lieve che, secondo la più recente quanto consolidata giurisprudenza, non dovrebbe trovare applicazione nelle ipotesi di colpa professionale neppure limitatamente ai casi in cui “la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà” di cui all’art. 2236.
    Il che apre la strada ad una serie di problematiche, la prima delle quali attiene alle difficoltà di coordinamento della norma in commento con l’art. 2, comma 2, c.p. a mente del quale “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.”
    Si tratta di un questione di diritto intertemporale che si inquadra nella più ampia problematica della successione di norme “integratrici” della legge penale e sulla quale già la Corte di Cassazione si è pronunciata asserendo che il decreto Balduzzi abbia determinato la parziale abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti la professione sanitaria con conseguente applicazione dell’art. 2, comma 2, c.p.
    Si può quindi ritenere che ci trovi in presenza di un’ipotesi speciale di “abolitio criminis”, la cui specialità discende, per l’appunto, dalla circostanza che la revocabilità delle decisioni risalenti nel tempo sia condizionata dai poteri riconosciuti dal sistema al giudice dell'esecuzione, i quali sono ben diversi da quelli attribuiti al giudice di cognizione.
    E infatti, con specifico riferimento ai casi previsti dal decreto Balduzzi, dato che - secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione - al giudice dell’esecuzione è preclusa la rivalutazione nel merito del compendio probatorio, il giudicato non potrebbe essere revocato ove dalla sentenza di condanna ormai definitiva non emerga espressamente che il medico, nello svolgimento della propria attività, si è attenuto a linee guida e a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e che ha agito con colpa lieve.
    Una seconda questione è legata alla esatta definizione della limitazione della responsabilità penale del medico.
    Secondo i primi commenti di una parte della dottrina, l’interpretazione dell’art. 3 imporrebbe la responsabilità penale per i reati di omicidio e di lesioni personali a carico del medico che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, mentre avrebbe dovuto discostarsene in ragione della peculiare situazione clinica del malato, fermo restando che in tal caso l’imputabilità sussisterebbe soltanto in caso di colpa grave per imperizia ovvero quando la necessità di discostarsi dalle linee guida era macroscopica e immediatamente riconoscibile da qualunque altro medico al posto dell'imputato.
    Si nega inoltre che la colpa lieve possa avere rilievo anche nelle ipotesi di negligenza e di imprudenza collegate ad una errata applicazione delle linee guida e delle buone pratiche.
    Su tale questione, tuttavia, è di recente intervenuta la Suprema Corte la quale – contrariamente all’assunto dottrinale precitato - ha chiarito che, in tema di reato caratterizzato da colpa professionale medica, la disposizione normativa di cui all'art. 3 del D.L. n. 158 del 2012, attenendo unicamente a regole di perizia, non può trovare applicazione nelle ipotesi di colpa caratterizzata da negligenza o imprudenza per la quale continuano, quindi, ad applicarsi i principi generali.
    Un altro complesso problema interpretativo è quello posto dal richiamo alle “linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”.
    Nel diritto penale, tali linee guida vengono concordemente riconosciute come importanti criteri di valutazione della colpa del sanitario; ma nello stesso tempo è stato in più occasioni affermato che, per un verso, l’osservanza rigorosa delle linee guida non è in ogni caso ragione sufficiente per un esonero di responsabilità (potendo venire in gioco situazioni concrete caratterizzate da circostanze peculiari e specifiche tali da suggerire la necessità di discostarsi dalle linee guida codificate per ipotesi simili) e, per altro verso, che il mancato rispetto delle linee guida non è prova automatica di una condotta colposa (ben potendo essere, come già accennato, il migliore modo per assicurare un’ efficace tutela della salute del paziente alla luce delle particolarità del concreto quadro clinico).
    In ogni caso va, comunque, riconosciuto che l’ingresso delle linee guida nel dibattito sui criteri ai quali ancorare la valutazione della condotta colposa ha determinato un progressivo ridimensionamento dei margini di discrezionalità nell’accertamento dell’imperizia (e del parametro dell’agente modello) a tutto vantaggio della certezza del diritto e della determinatezza della fattispecie.
    I comandi e divieti di natura cautelare vengono infatti cristallizzati in testi normativi codificati, ritenuti fonti di completamento della fattispecie colposa sottratti agli spazi di discrezionalità del giudice e più rispettosi della riserva di legge.
    Peraltro, poco dopo la modifica legislativa in esame, la Suprema Corte ha affermato che le linee guida accreditate operano come direttiva scientifica per l’esercente le professioni sanitarie e la loro osservanza costituisce un elemento di protezione contro istanze punitive che non trovano le loro giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente errori gravi commessi nel processo di adeguamento del sapere codificato alle peculiarità del caso clinico concreto.
    Un’ulteriore questione problematica attiene al richiamo contenuto nel succitato art. 3 del decreto alla responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c. in quanto è pacifico nella giurisprudenza civile che la responsabilità del medico per inesatto adempimento della sua prestazione ha natura contrattuale, con la conseguenza che deve trovare applicazione, in siffatte ipotesi, il regime proprio di questo tipo di responsabilità, con particolare riferimento alla ripartizione dell’onere della prova, ai principi delle obbligazioni da contratto d’opera intellettuale relativamente alla diligenza e al grado della colpa e alla prescrizione ordinaria.
    A tale riguardo, si sostiene in dottrina che l’espressione in esame non sia, però, sufficiente, di per sé, ad escludere l’applicazione della più onerosa responsabilità contrattuale ex art. 1176 cod. civ., nell’ipotesi di colpa lieve del sanitario.
    Di talché, anche se potrebbe trovare applicazione la disciplina dell’art. 2043 cod. civ., non pare che i giudici siano vincolati ad applicarla nei casi in cui la prestazione professionale derivi da contratto, o anche da semplice “contatto sociale”, come è pacificamente sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità.
    Un’ultima notazione attiene infine alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 sollevata di recente dal Tribunale di Milano il quale evidenzia alcuni profili di incostituzionalità non indifferenti.
    Il primo di tali profili è conseguente al fatto che la sfera operativa dell’intervento di riforma è limitata alla categoria degli operatori sanitari, sicché la limitazione di responsabilità per l’ipotesi di colpa lieve prevista dall’art. 3 è destinata ad operare in via esclusiva nei loro confronti con il conseguente rischio di violazione del principio di uguaglianza sostanziale, dal momento che la peculiarità dell’attività medica non sembra costituire di per sé sola una ragione sufficiente a legittimare una eccezione in tema di responsabilità colposa.
    Non si può, infatti, negare che vi sono molte altre attività sicuramente pericolose, ma certamente utili, il cui svolgimento comporta rischi altrettanto gravi per la vita o l’incolumità delle persone e che richiederebbero pertanto - in tema di colpa - un trattamento simile a quello previsto per i sanitari dal decreto Balduzzi.
    Il secondo profilo è costituito dall’elevato tasso di indeterminatezza della norma che, da un canto, non fornisce i parametri di giudizio in base a cui valutare i crismi di “scientificità” delle linee guida e delle buone pratiche, e dall’altro, non fa il minimo cenno ai criteri valutativi secondo cui ricostruire il concetto di colpa grave, che rimane indefinito e, come tale, suscettibile di oscillare tra la sua dimensione soggettiva e quella oggettiva, nonché tra negligenza, imprudenza ed imperizia.
    Non resta che attendere la pronuncia della Consulta.
    Elaborato completo e aderente alla traccia. Approfondimento sufficiente. Passaggi logici chiari. Buono a livello di forma, non presenta errori 12 ½

    ps. in questi giorni riordinerò la sezione e per la prossima settimana dovremmo partire col corso.
    nel mentre, vi prego, NON invadetemi la casella di posta per adesioni come corsisti. grazie :)
     
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  6. uskebasi
     
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    grazie mille, chiedo sempre la pubblicazione dei temi perché credo sia importante capire i nostri errori confrontandoli con quelli migliori, a mio avviso è fondamentale..
    grazie ancora
     
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  7. davil84
     
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    sono ancora in tempo per l'iscrizione al corso on line dei temi ?
     
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  8. Per aspera ad astra
     
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    Toga, ma le correzioni di civile?
     
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    CITAZIONE (Per aspera ad astra @ 21/9/2013, 09:20) 
    Toga, ma le correzioni di civile?

    vi faccio sapere domani
     
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    tra stasera e domani vi invio il civile di luglio :)
     
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    Premessi adeguati cenni sulla tutela risarcitoria per la lesione di legami affettivi ed in particolare sui suoi limiti, si soffermi il candidato sulla ammissibilità del risarcimento del danno in caso di lesione di beni di affezione.


    La tutela risarcitoria per la lesione di legami affettivi costituisce il naturale predicato del convergere delle linee evolutive che segnano il diritto di famiglia e la responsabilità civile.
    Ed invero, in seguito alle riforme degli anni ’70, la famiglia non viene più vista come istituzione, ma come “formazione sociale”, nella prospettiva segnata dall’art. 2 Cost. Si esprime, in tal modo, una mutata concezione della famiglia dove la garanzia dei diritti individuali e il rispetto della personalità dei suoi membri divengono preminenti nella considerazione del legislatore, che guarda alla famiglia sempre meno come al fondamento dell’ordine sociale e sempre più come al luogo dove le persone realizzano insieme una insostituibile esperienza di vita. La famiglia, pertanto, appare il luogo dove si promuovono e si tutelano i diritti delle persone e non l’istituzione che ne giustifica il sacrificio in nome della sua unità e di interessi di ordine superiore.
    Il processo di “privatizzazione” del diritto di famiglia ha portato con sé una ampia permeabilità di siffatto settore del diritto civile alle regole del diritto comune, del contratto e della responsabilità civile.
    Quest’ultima, dal canto suo, ha subito una profonda trasformazione: non più esclusivamente strumento di tutela dei diritti di natura patrimoniale, ma anche efficace tecnica di protezione dei diritti fondamentali della persona.
    La tutela dei diritti della persona costituisce, dunque, il punto d’incontro tra il nuovo diritto di famiglia e della responsabilità civile.
    In una prospettiva di massima sintesi delle molteplici questioni che a tal proposito vengono in rilievo, occorre preliminarmente osservare come, nella concezione tradizionale, la famiglia godeva di una sorta di immunità rispetto alle regole del diritto comune.
    Ancora negli anni ’90 la Suprema Corte negava la risarcibilità dei danni in ambito familiare: il diritto di famiglia – si motivava- è un’isola con regole proprie, impermeabile alle regole del diritto comune e, in special modo, della responsabilità civile. L’esistenza di uno specifico ed efficace apparato inibitorio e reintegratorio rendeva, infatti, difficilmente ipotizzabile la configurazione di un danno economico causato dall’inadempimento delle obbligazioni familiari. Si è stati per molto tempo concordi nel ritenere che l’abbandono morale e materiale, l’inadempimento degli obblighi di mantenimento, i maltrattamenti, il disinteresse palesato da un coniuge nei confronti dell’altro potessero tradursi in un pregiudizio esclusivamente patrimoniale.
    Tuttavia, alcune situazioni inerenti la lesione di legami affettivi avevano già da tempo ottenuto un riconoscimento sulla scorta della previsione dell’art. 2043 cod. civ. come nei casi di uccisione o ferimento del familiare, ponendo a carico del responsabile i danni economici derivanti ai congiunti dalla perdita del mantenimento e quelli cd. da rimbalzo, che colpivano i familiari della vittima, quali vittime secondarie attinte dall’illecito.
    Si era, quindi, ampliato l’ambito risarcitorio dell’art. 2043 cod. civ. fino a ricomprendere nella nozione di danno ingiusto la lesione o la perdita dello status familiaris come conseguenza di un fatto illecito altrui: la giurisprudenza di legittimità aveva, infatti, riconosciuto ai prossimi congiunti, nei casi di uccisione del familiare, il risarcimento del danno morale derivante dalla perdita di quelle situazioni affettive connesse alla appartenenza alla famiglia.
    La svolta è avvenuta in anni recenti, in cui, superando orientamenti in passato indiscussi, gli Ermellini hanno riconosciuto il diritto del figlio ad ottenere il risarcimento del danno in caso di violazione dei doveri del genitore (ex multis art. 147, cod.civ.).
    Non è un caso che il “danno esistenziale” sia giunto al Palazzaccio proprio in relazione alla lesione del rapporto parentale, affermandosi così, per la prima volta, che la violazione dei doveri familiari determina non solo l’applicazione dei rimedi giusfamiliari – nel caso di specie, dichiarazione giudiziale di paternità ed obbligo di contribuire al mantenimento del figlio sin dalla nascita – ma anche del rimedio risarcitorio, ove ne sussistano i presupposti.
    Poiché la famiglia assume rilievo costituzionale ex art. 29 Cost., a mente del quale la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, allora, anche l’uccisione di un soggetto inserito in un contesto familiare è idonea a cagionare un danno di tipo esistenziale.
    Il quesito di fondo consiste, pertanto, nello stabilire se siano risarcibili anche gli affetti ex se, indipendentemente dal contesto formale in cui si manifestano. Con maggiore impegno, ci si chiede se sia possibile ritenere che gli affetti rivestano una rilevanza giuridica propria, cosicché sarebbe risarcibile anche il danno affettivo causato dall’uccisione dell’animale domestico o la sottrazione di una cosa alla quale si è particolarmente legati.
    Il problema posto è di ardua soluzione, tanto più che il legislatore non risolve, espressis verbis, la questione de qua, la quale storicamente è stata risolta in termini negativi.
    Alla stregua della originaria opzione ermeneutica, non esisterebbe una categoria generale degli affetti, cosi che la perdita illecita di un bene oggetto di affezione non giustifica un risarcimento del danno non patrimoniale, ma esclusivamente il risarcimento del danno di tipo patrimoniale, commisurato al valore socio-economico del bene perduto nei termini sia di danno emergente che di lucro cessante di cui all’art. 1223 cod. civ.
    In questo senso sembrerebbero deporre le note decisioni di San Martino, le quali, svolgendo una revisione del danno non patrimoniale, si sono, altresì, pronunciate sul danno riconducibile alla sofferenza umana patita a seguito della perdita dell’animale di affezione, giungendo alla negazione totale di tale forma di danno, ritenuta di natura cd. bagatellare.
    Le Sezioni Unite, in tale noto arresto, hanno individuato le ipotesi nelle quali il danno non patrimoniale può trovare ingresso nell’ordinamento, vale a dire in ipotesi di fatto costituente reato, atteso il collegamento della norma di cui all’art. 2059 cod. civ. con quella di cui all’art. 185 cod. pen., in caso di riconoscimento espresso da parte del legislatore di un danno non patrimoniale e, infine, in presenza di lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.
    In tale ultima ipotesi, peraltro, la selezione del danno risarcibile viene ad essere svolta dal giudice, con valutazione che non può prescindere dalla individuazione della sussistenza degli elementi strutturali dell’art. 2043 cod.civ., vale a dire condotta, danno e nesso causale.
    Proprio nella consapevolezza del potere discrezionale del giudice nella individuazione di tali diritti, ed, in particolare, nella consapevolezza della capacità dilatatoria delle previsioni di cui all’art. 2 della Costituzione, la Corte ha precisato quali debbano essere i confini entro i quali il giudice, nell’esercizio del detto potere, debba attenersi.
    Si è affermato, così, che il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, come tale in grado di cagionare un serio pregiudizio e che la lesione debba eccedere una soglia minima di offensività.
    Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.
    Si precisa, pertanto, che ogni pregiudizio di tipo non patrimoniale risulta risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno, mentre non risulta possibile riconoscere tutela risarcitoria se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona.
    Anche in successive pronunce è ancora la Suprema Corte, seppur a sezioni semplici, a porre in dubbio il principio, affermato dal Supremo Collegio, della irrisarcibilità di siffatta tipologia danno.
    La Corte, adita in un caso di errore veterinario che aveva provocato la morte dell’animale d’affezione, ha affermato che in caso di danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale debbano essere applicati i principi faticosamente raggiunti dalla giurisprudenza in materia di responsabilità medica.
    La norma di riferimento, pertanto, deve essere ricercata nell’art. 1174 cod.civ., a tenore del quale la prestazione oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.
    Ebbene, il riferimento a siffatto interesse non patrimoniale consente di ritenere suscettibile di risarcimento anche tale danno, conseguente all’inadempimento dell’obbligazione del veterinario adeguatamente provato.
    Tuttavia, tale inadempimento non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile per l’animale, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e trova applicazione il parametro della diligenza professionale fissato dall’art 1176, comma 2, cod.civ., da commisurarsi alla natura dell’attività esercitata; ne consegue che il mancato raggiungimento del risultato può soltanto costituire danno consequenziale alla non diligente prestazione o alla colpevole omissione dell’attività veterinaria.
    Dalla natura contrattuale della responsabilità del veterinario discendono conseguenze con riguardo ai parametri che egli deve osservare nell’esecuzione della prestazione; trova, al riguardo, applicazione il combinato disposto degli artt. 1176, comma 2, e 2236 cod.civ. e il veterinario è tenuto a ad osservare non già la diligenza del buon padre di famiglia , bensì quella, di più intenso grado, del buon professionista e il giudizio sull’osservanza del parametro di diligenza richiesto va commisurato in funzione delle caratteristiche del professionista e della struttura entro la quale egli opera.
    È, inoltre, riconosciuta la ammissibilità della tutela della perdita dell’animale d’affezione, quale situazione soggettiva costituzionalmente o legislativamente protetta come figura tipica di danno non patrimoniale, rientrante sotto l’ambito dell’art. 2059 cod.civ., ove si dimostri che vi sia stata, a seguito della perdita dell’animale, una alterazione rilevante del valore della persona.
    La privazione di tale rapporto affettivo, interrelazionale con l’animale, che va adeguatamente provato, costituisce, pertanto, una privazione di un valore della persona che va reintegrato col risarcimento del danno non patrimoniale, liquidato in via equitativa.
    Naturalmente, la perdita di qualità della persona a seguito della privazione dell’animale potrà non essere sempre presente, essendovi delle situazioni in cui l’animale è sfruttato o vessato da parte dello stesso proprietario come nel caso di violenze o torture nei confronti degli animali, di tentativi di abbandono, di privazione di libertà.
    In tali ipotesi, così come nel caso di sostanziale indifferenza alla presenza dell’animale, non potrà dirsi raggiunta la soglia di rilevanza di valori costituzionali della persona nel caso di perdita dello stesso con conseguente esclusione del danno non patrimoniale.
    L’incidenza del danno, quale che sia la voce sotto cui riconoscerlo, sarà diversa a seconda che l’animale costituisse l’unica compagnia del proprietario rispetto a quella per colui che ha, comunque, ulteriori opportunità di compagnia o affettive.
    La legittimazione attiva a richiedere il risarcimento spetta non solo al proprietario dell’animale ma va riconosciuta anche a favore di coloro che a titolo diverso si occupino dell’animale, accudendolo.
    Dal punto di vista probatorio, inoltre, la parte che domanda la tutela di tale danno ha l’onere della prova sia per l’an che per il quantum debatur, non apparendo sufficiente la deduzione di un danno in re ipsa, con il generico riferimento alla perdita delle qualità della vita.
    Infatti, anche se vi sia prova dell’illecito, potrebbe non esservi un danno, essendo una conseguenza meramente eventuale dell’evento lesivo, potendo anche configurarsi illeciti non produttivi di danni.
    Al fine di superare le difficoltà di prova di un danno, quale quello relativo alla perdita dell’animale d’affezione, che non ha un substrato materiale ma psicologico, occorre, similmente per quanto richiesto per il danno parentale, la prova del danno esistenziale, che, peraltro, può essere data anche a mezzo di presunzioni.
    Non è necessario, al fine di accertare presuntivamente il fatto ignoto (il danno non patrimoniale) che questi appaia come l’unica conseguenza possibile dell’illecito, essendo sufficiente un margine accettabile di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile di accadimenti secondo regole di comune esperienza.
    E`, pertanto, anche possibile far riferimento alle presunzioni c.d. semplici (art. 2729 cod.civ.) che per essere rilevanti devono essere gravi, precise e concordanti, anche se è possibile che il convincimento del giudice possa formarsi anche su una sola presunzione, purché grave e precisa.
    Sarà sufficiente provare l’attaccamento del padrone all’animale, la sua costante presenza nella vita quotidiana del proprietario per farne discendere la prova presuntiva del danno non patrimoniale, similmente per quanto accade per il danno da lutto.
    Nel caso di obbligazione contrattuale relativa al rapporto proprietario dell’animale veterinario non vi è ragione, in relazione all’onere della prova, per discostarsi dai principi vigenti in tema di responsabilità medica e sul piano probatorio si applicheranno naturalmente le regole della responsabilità contrattuale, con la specificazione, in parziale deroga della limitazione della responsabilità professionale del veterinario ai soli casi di dolo o colpa grave, ex art. 2236 cod.civ., si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà e, in ogni caso, tale limitazione di responsabilità attiene esclusivamente all’imperizia, non all’imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell’esecuzione di un intervento o di una terapia veterinaria, provochi un danno per omissione di diligenza.
    Il proprietario dell’animale è tenuto a provare il contratto e ad allegare la difformità della prestazione ricevuta rispetto al modello normalmente realizzato da una condotta improntata alla dovuta diligenza. Mentre al veterinario, presunta la colpa, incombe l’onere di provare che l’inesattezza della prestazione dipende da causa a lui non imputabile, e cioè la prova del fatto impeditivi.
    Grava, quindi, sul professionista la dimostrazione dell’adempimento o dell’esatto adempimento della prestazione, sia sotto il profilo dell’obbligo di diligenza e perizia, sia della conformità quantitativa o qualitativa dei risultati che ne sono derivati, mentre sono a carico del committente l’onere di allegazione dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento e la dimostrazione del pregiudizio subito dall’animale ed il nesso causale tra tale pregiudizio e l’attività del professionista.
    Spetta, quindi, al veterinario provare la mancanza di colpa nel suo comportamento in quanto l’esecuzione della prestazione implica l’applicazione di regole tecniche sconosciute al proprietario dell’animale, e, di regola, estranee al suo bagaglio di conoscenza.
    La delineata ricostruzione delle norme in materia in senso critico è, pertanto, atta a supportare la tesi volta alla individuazione di un referente normativo di rango superiore.
    Inoltre, la recente introduzione, all’interno del codice penale, di norme espressamente volte a sanzionare i c.d. delitti contro il sentimento per gli animali (artt. 544 da bis a sexies, cod.pen.) sembra essere un chiaro indice della consapevolezza del legislatore di non poter equiparare, ai fini anche risarcitori, gli animali, ed in particolare, gli animali c.d. di affezione, agli altri beni della vita quotidiana.
    Con maggiore impegno esplicativo, è ben vero che gli animali, per il nostro codice civile, sono cose ex art. 810 cod. civ. (e come tali, analoghe ad ogni altro bene della vita quotidiana), ma è anche vero che, quanto meno per il codice penale, si tratta di beni aventi un disvalore diverso e superiore rispetto ad altri.
    Sempre le predette norme penali si palesano quale ulteriore elemento di non condivisibilità, sul punto, delle conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite le quali, da un lato, ammettono il risarcimento del danno non patrimoniale in presenza di fatto reato e, dall’altro, negano il medesimo risarcimento per la ipotesi di maltrattamento di animali, anch’esso fatto di reato.
    Dagli elementi sopra evidenziati sembra che il rapporto fra animale e padrone debba necessariamente inserirsi in una di quelle attività realizzatrici della persona cui la stessa Carta Costituzionale, con la previsione dell’art. 2 Cost., mostra di dare adeguata e particolare tutela.
    Ne deriva, pertanto, la risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita dell’animale di affezione, sia sotto il profilo del danno derivante da condotta costituente reato, sia sotto il profilo, più frequente, in cui la perdita dell’animale sia riconducibile a mero fatto colposo ovvero ad inadempimento contrattuale, poiché, diversamente, si individuerebbe un vulnus di tutela difficilmente giustificabile, portando l’ordinamento giuridico a svuotarsi di significato, perdendo portata applicativa.
    In ossequio alle decisioni di San Martino, infatti, nonostante la specifica pressa di posizione sul punto, deve, infatti, ritenersi il danno in esame come rientrante nei diritti a rilievo costituzionale che si è inteso, con le dette decisioni, affermare.

    16/17 Ottimo tema, il candidato sviluppa correttamente la traccia, dimostrando una elevata padronanza di tutte le tematiche connesse con l ‘illecito civile.
     
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