Tracce temi giugno 2013

tracce e migliori elaborati del mese

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  1. robsss
     
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    scusa togasana...ma non ci rimane che rimetterci a te... quando hai tempo, ci fai sapere qualcosa di questo mistero dei temi di giugno?grazie
     
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    CITAZIONE (robsss @ 18/7/2013, 23:21) 
    scusa togasana...ma non ci rimane che rimetterci a te... quando hai tempo, ci fai sapere qualcosa di questo mistero dei temi di giugno?grazie

    il mistero è che chi ha fatto dono del proprio tempo e della propria pazienza,lavora anche,ergo c'è da aspettare per civile.

    di penale mi trovo con 3 utenti senza correzione,ma con un tema vorretto che non so di chi sia e dal vellulare faccio fatica a risalire alla paternità del tema. i 3 mi inviino il loro tema cosi vedo quale ho ricevuto corretto e quali sono i due saltati.

    grazie :)
     
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  3. robsss
     
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    ciao togasana, non intendevo metterti fretta. ti ho riinviato il tema sulla mail del corsotemi... grazie ancora!
     
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    per penale :i temi mancanti sono stati reinviati,oraattendo notizie dal correttore.
     
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    inviati anchw di civile,quindi controllate le email.

    mi manca solo un tema di penale.
     
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  6. uskebasi
     
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    togasana ho ricevuto la correzione di diritto civile.
    Ora vediamo però anche la pubblicazione del miglior tema, quella è la cosa più importante...
     
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  7. uskebasi
     
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    io ho ricevuto anche penale, ora sono ok... ho preso insufficiente :cry:

    ma 12 è insufficiente giusto???

    credo di essermi sbagliato, forse 12 è il minimo.
    In ogni caso anche qui spero venga pubblicato il tema migliore, è la cosa più importante in assoluto :)
    E DAI DAI
     
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    La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza.

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    La votazione degli scritti del concorso in magistratura, ricalcata dal questo corso di temi, è espressa in ventesimi. La sufficienza va da 12 a 20. In sede concorsuale, inoltre, i voti al di sotto della sufficienza non sono esplicitati, venendo apposta esclusivamente la sigla N.I. (non idoneo).
     
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    CITAZIONE (uskebasi @ 24/7/2013, 11:06) 
    io ho ricevuto anche penale, ora sono ok... ho preso insufficiente :cry:

    ma 12 è insufficiente giusto???

    credo di essermi sbagliato, forse 12 è il minimo.
    In ogni caso anche qui spero venga pubblicato il tema migliore, è la cosa più importante in assoluto :)
    E DAI DAI

    dal cellulare non riesco a pubblicare,nel we avrò co.nessione da pc e perciò riuscirò a pubblicare anche quelli dei mesi precedenti che sono ancora da pubblicare.
     
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  10. uskebasi
     
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    ok grazie mille
     
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    Miglior tema in penale Il principio di legalità nella Cedu e le sue implicazioni di diritto interno.

    Il principio di legalità costituisce il pilastro sul quale trova fondamento il moderno Stato di diritto. Esso permea ogni settore dell’ordinamento giuridico, svolgendo un ruolo del tutto inabdicabile soprattutto nel diritto penale. L’affermazione del principio di legalità, per vero, segna la nascita stessa del moderno diritto penale.
    Con la formula ‘’nullum crimen sine lege ‘’ gli studiosi illuministi intendono, difatti, consacrare il principio per cui i cittadini sono soggetti alla legge soltanto, che diventa l’unico dato cui avere riguardo per poter definire in quanto reato un certo fatto.
    Quanto appena sopra enunciato vale, per vero, a delineare solo il nucleo essenziale del principio di legalità. Occorre, infatti, sin da subito precisare che il principio in commento si presta ad essere declinato in diversi modi, con conseguenti ricadute quanto alla portata applicativa dello stesso.
    Al fine di ricostruire la portata del principio di legalità nell’ambito della Cedu e di valutarne le implicazioni nel diritto interno, occorre, dunque, svolgere talune considerazioni quanto alla diversa portata del principio nei due contesti di riferimento, dando atto delle ragioni storiche sottese alla diversa formulazione del principio nell’ambito della Convenzione, rispetto a quanto è dato trarre dalla Costituzione e dal codice penale italiani.
    Sulla scorta di tali premesse, occorrerà, inoltre, valutare la collocazione della Cedu nel sistema delle fonti, così da poter trarre le dovute conseguenze quanto, appunto, all’impatto del principio di legalità, per come consacrato all’art 7 Cedu sul diritto penale nostrano.
    Occorre avere anzitutto riguardo, da un lato, all’art 25 commi 2 e 3 della Costituzione, dall’altro all’art 7 della Convenzione edu.
    Come noto, nella disposizione recata all’art 25 comma 2 Cost. trovano espressa affermazione, quali corollari del principio in commento, il principio di riserva di legge ( nell’accezione tendenzialmente assoluta) e di irretroattività sfavorevole.
    Non trova espressa consacrazione il principio di legalità della pene, principio che, tuttavia, assume senz’altro rilievo costituzionale, risultando altrimenti del tutto svuotata la ratio garantista che informa la norma.
    Diversa la portata della disposizione recata al terzo comma dello stesso art 25 Cost., laddove, con riguardo alle misure di sicurezza, fermo restando il principio di riserva di legge, assume un diverso rilievo il principio di irretroattività sfavorevole, potendo le misure di sicurezza essere applicate anche se introdotte in seguito alla commissione del fatto, purché quest’ ultimo sia qualificabile in quanto reato ( o quasi reato ) in base ad una legge vigente al momento della condotta.
    Tale distinzione ( ribadita agli art 1 e 199 c.p.) costituisce, com’è noto, un risvolto del sistema del c.d. doppio binario, accolto dal legislatore del codice Rocco in ossequio alla teoria c.d. eclettica, avallata dalla dottrina persuasa della necessità che il fatto di reato venga valutato dall’ordinamento tanto in funzione sanzionatoria, quanto in vista dell’esigenza di neutralizzare la futura commissione di reati, in considerazione, quindi, della pericolosità sociale dell’agente o di talune cose, legate al reato da un nesso di pertinenza, in relazione all’agente, pericolo da apprezzarsi nel momento di irrogazione della misura di sicurezza stessa.
    Si tratta di una distinzione che presenta non pochi profili di tensione con l’art 7 Cedu, e ciò in con particolare riferimento alla disciplina delle confische.
    Il dato costituzionale deve, poi, essere letto alla luce dei corollari del principio stesso accolti ( talvolta implicitamente) dalla Costituzione: principio di materialità, di offensività, di tassatività, di colpevolezza, e che consentono di declinare il principio di legalità accolto nel sistema in chiave non solo e freddamente formale, non essendo libero il legislatore di qualificare in quanto reato un fatto che non risponda ai richiamati canoni.
    Né risulta, ovviamente, valorizzata la ratio garantista che informa il principio di legalità.
    L’art 25 cost. non ha invece riguardo, nemmeno per implicito, al principio di retroattività favorevole, non essendo quest’ultimo principio legato con l’esigenza di garantire la calcolabilità delle conseguenze penali della condotta, ma il cui rilievo costituzionale ed i cui rispettivi limiti vengono ancorati dalla Consulta all’art 3 cost, ovvero al principio di uguaglianza, la cui operatività richiede, tuttavia, un bilanciamento con il criterio di ragionevolezza e di stabilità dell’ordinamento penale.
    Si tratta di un aspetto che presenta profili di frizione particolarmente delicati rispetto all’art 7 Cedu.
    Giova pertanto richiamare la disciplina codicistica: il principio di retroattività favorevole viene disciplinato all’art 2 commi 2 , 4 e 3 c.p., laddove vengono distinte le ipotesi di abolitio criminis, che determinano cessazione degli effetti penali della condanna, anche a scapito dell’intervenuto giudicato, dalle ipotesi di mera riformulazione della norma incriminatrice, che determina l’applicazione della disposizione più favorevole, fermi, tuttavia i limiti del giudicato( e salva la disposizione recata al comma terzo).
    Ciò posto, in termini generali, quanto alla portata del principio nel diritto interno, occorre operare un raffronto con l’art 7 della Cedu, rubricato, appunto, ‘’ nullum crimen sine lege ‘’.
    Per vero, sulla scorta di una valutazione fondata sul mero dato letterale, la disposizione in commento parrebbe declinare il principio di legalità in termini ben più limitati rispetto a quelli fatti propri dalla Costituzione italiana.
    Ed invero, la norma europea enuncia, espressamente, solo il principio di irretroattività sfavorevole dei reati e della pene, mentre non trovano espresso riconoscimento tanto il principio di riserva di legge, quanto il principio di retroattività favorevole.
    Avendo a riguardo la lettera delle disposizione, pertanto, si dovrebbe in radice negare l’idoneità della stessa a poter promuovere un effetto estensivo circa la portata del principio.
    Si tratta di conclusioni che, tuttavia, non possono trovare accoglimento.
    Al fine di ricostruire la reale ‘’ forza ‘’ attribuita al principio di legalità nel contesto della Cedu occorre, difatti, andare ben oltre la lettera della Convenzione e considerare: da un lato le ragioni storiche sottesa alla scelta di cristallizzare una formulazione cauta del principio; dall’altro, tenere conto del ruolo di assoluta centralità assunto dalla Corte edu, nel sancire, appunto, la reale portata dell’art 7 della Convenzione.
    Sotto il primo profilo, giova evidenziare come la Cedu sia stata sottoscritta a Roma nel 1950, sotto l’egida del Consiglio d’Eupora, al fine di apprestare una tutela di portata europea ai diritti fondamentali dell’uomo, in conseguenza della carenza, al tempo, nell’ambito dei Trattati istitutivi delle Comunità europee, di alcun riguardo ai valori della persona in quanto tale.
    La Convenzione nasce, dunque, dall’intento di fissare un minimo comune denominatore quanto alla garanzia dei diritti umani, secondo una formulazione che risultasse compatibile con i sistemi dei diversi Stai, tanto se improntati al sistema di civil law, quanto di common law.
    Ciò spiega, in particolare, il mancato espresso riferimento al principio di riserva di legge, che tuttavia, lungi dal sottendere una assunta irrilevanza dello stesso.
    Sotto il secondo dei profili indicati, non può trascurarsi di evidenziare come la portata dell’art 7 Cedu non possa essere colta se non alla luce delle giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che svolge un ruolo di indiscussa centralità sul punto.
    Occorre avere riguardo, anzitutto, a due aspetti valorizzati dalla Corte Edu come idonei a scolpire la reale dimensione applicativa della disposizione in commento: l’uno connesso ai c.d. aspetti qualitativi del principio di legalità, l’altro correlato all’affermazione del c.d. principio autonomistico.
    Entrambi i criteri enunciati assumono un consistente rilievo in vista della ricostruzione dei profili di interferenza tra art 7 Cedu e ordinamento penale italiano, venuti all’attenzione dei rispettivi organi giurisdizionali.
    Giova, dunque, anzitutto, analizzare il significato ascritto dalla Corte di Strasburgo alla locuzione
    ‘’ aspetti qualitativi del principio di legalità ‘’. A tal riguardo, i giudici di Strasburgo sottolineano come la ratio garantista che informa il principio di legalità ( la calcolabilità delle conseguenze penale di una certa condotta) possa dirsi rispettata nella sostanza, solo laddove gli Stati firmatari pongano realmente i cittadini in condizione di conoscere la legge penale. Occorre, in particolare, che la legge penale risulti connotata dai requisiti dell’accessibilità e della prevedibilità.
    Più in dettaglio, il requisito dell’accessibilità risulta soddisfatto, solo se la legge penale viene pubblicizzata con mezzi idonei e viene formulata in termini chiari; il requisito della prevedibilità, invece, costituisce un monito rivolto, tanto al legislatore, quanto all’interprete: il primo, deve formulare il precetto seguendo i criteri di tassatività, determinatezza, il giudice deve interpretare la disposizione nel rispetto dei canoni di ragionevolezza- plausibilità, avuto riguardo tanto alla lettera della legge, quanto all’interpretazione storica, ovvero alla prassi consolidatasi nel tempo circa la portata di significato di una certa disposizione.
    Da tanto non consegue, precisano i giudici di Strasburgo, il divieto di utilizzare formule elastiche, che consentano al sistema ‘’di respirare ‘’, ne il divieto per il giudice di accedere ad una interpretazione non conforme ai precedenti giurisprudenziali, purché, tuttavia, ciò consegua ad un mutamento del contesto sociale in cui la norma si inscrive e non ad un isolato punto di vista del giudicante.
    Altrettanto rilevanti, le ricadute applicative del citato principio autonomistico, in virtù del quale, la nozione di pena, in quanto tale soggetta al rigoroso rispetto dell’art 7 , viene valutata dai giudici europei senza fermarsi al dato formale, consistente nella quella qualificazione operata dal legislatore nazionale. In particolare, la Corte edu ha elaborato taluni criteri al fine di delimitare il concetto di pena rientrante nell’ambito applicativo dello stesso art 7 . Tali criteri risiedono: nella gravità della sanzione, nella finalità perseguita dal legislatore, nella connessione con una fattispecie di reato, nella qualificazione prevalente data ad una sanzione di quel tipo negli Stati firmatari.
    In base all’applicazione dei criteri appena enunciati, la Corte Edu ha ritenuto non conforme all’art 7 la disciplina italiana apprestata per talune ipotesi di confisca che, sebbene qualificate come misure di sicurezza ovvero sanzioni amministrative, presentano in sostanza i connotati propri delle pene, la cui irrogazione richiede, pertanto il rigoroso rispetto dei principi di colpevolezza e di irretroattività sfavorevole.
    Particolarmente discussa la disciplina della c.d. confisca urbanistica, venuto all’attenzione della Corte edu nel noto caso Punta Perotti. Nell’occasione i giudici di Strasburgo hanno evidenziato la contrarietà al principio di legalità per come scolpito nell’art 7, della disciplina che consente la confisca dell’immobile abusivamente lottizzato pur in assenza del riscontro circa la colpevolezza degli imputati, e dunque in carenza dell’elemento soggettivo del reato. Tale misura veniva applicata nell’ordinamento nostrano sulla scorta della qualificazione in termini di sanzione amministrativa della stessa. L’allineamento della giurisprudenza italiana alla dimostranze europee avviene, nel caso di specie, non negando la natura amministrativa del provvedimento, ma sulla scorta dell’affermazione per cui anche l’applicazione della sanzioni amministrative richiede, per l. 689 del 1981, il riscontro della colpevolezza dell’agente.
    Al dì là del percorso argomentativo, si è assistito, comunque ad un sostanziale mutamento di prospettiva nella giurisprudenza italiana per effetto dell’art 7 della Convenzione.
    Più di recente il problema connesso alla qualificazione delle confische si è posto con riguardo alle misure ablative previste dal codice della strada, le quali, seppur definite dal legislatore in termini di sanzione amministrativa presentano tratti essenzialmente repressivi, tant’è che la Corte Costituzionale, prima dell’intervento da ultimo operato dal legislatore del 2010, ha ritenuto l’incostituzionalità del precedente sistema che determinava l’obbligatorietà della confisca del mezzo in caso di integrazione delle fattispecie di cui agli art. 186 e 187 del c.d. codice della strada.
    L’attuale assetto del sistema ripropone non pochi dubbi di compatibilità con la Cedu, per la cui soluzione occorre attendere l’intervento chiarificatore della Corte Cost. cui è stata di recente rimessa la questione.
    Sotto altro punto di vista, anch’esso, tra l’atro, connesso con la disciplina di talune ipotesi di confisca, si è posto il problema della diversa portata applicativa, nell’ambito Cedu e nell’ordinamento italiano, del principio di retroattività favorevole.
    Come noto, difatti, nella recente sentenza Scoppola contro Italia, i Giudice di Strasburgo hanno affermato la riconducibilità del principio di retroattività favorevole all’art 7 Cedu. Ne è scaturito in accesso dibattito interno circa l’idoneità dello stesso principio , per come interpretato dalla Corte Edu, a produrre un effetto tale da travalicare anche la forza del giudicato penale, al di là delle ipotesi enucleate dall’art 2 c.p.
    Il problema si è posto all’attenzione dell’interprete in considerazione del significato che il termine ‘’legge ‘’ assume nel linguaggio dei giudici di Strasburgo, idoneo a ricomprendere non solo la legge scritta ma, più in generale, il diritto vivente. E’ venuto, pertanto, in rilievo il profilo inerente il rapporto tra il principio di retroattività favorevole e la tenuta del giudicato penale, nelle ipotesi in cui ad essere sopravvenuta non sia la legge abolitrice del reato, ne la dichiarazione di incostituzionalità della stessa, bensì un diverso orientamento giurisprudenziale circa la portata della norma incriminatrice tale da non ricomprendere più un certo fatto nell’ambito della norma, ed in specie laddove il mutato orientamento sia stato fatto proprio dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, cui, come noto, è rimessa nel nostro ordinamento la funzione nomofilattica.
    La questione è stata sottoposta al vaglio della Consulta, al fine di valutare la legittimità costituzionale dell’art 673 c.p.p., nella parte in cui non consente di revocare il giudicato penale in ipotesi siffatte.
    L’ordinanza di rimessone ha rappresentato l’occasione per chiarire le implicazioni dell’art 7 Cedu nel diritto interno, con particolare riferimento al principio di retroattività favorevole, compresi i limiti che nel nostro sistema si frappongono all’applicazione dello stesso.
    La Corte cost. prende le mosse da una ricognizione circa la collocazione dell’art 7 Cedu nel nostro sistema delle fonti, ribadendone la valenza di principio costituzionale interposto, per il tramite dell’art 117 comma 1 Cost, secondo quanto affermato dalle note sentenze gemelle della Consula del 2007, collocazione non mutata per effetto del Trattato di Lisbona che, a parere della Consulta non ha determinato la ‘’ comunitazittazione ‘’ della Cedu.
    Ciò posto, la Corte ricostruisce la portata del principio di retroattività favorevole nell’ordinamento interno, precisando le diversa valenza che lo stesso assume rispetto al principio di irretroattività sfavorevole: quest’ultimo, volto a garantire la calcolabilità della conseguenze penali della condotta, è un principio assolutamente inderogabile, in quanto legato a doppio filo con il principio di colpevolezza; il primo, volto a garantire il principio di eguaglianza, presenta dei limiti connessi con le esigenze di ragionevolezza e di certezza del diritto. La Consulta afferma, in particolare, che il mutamento circa l’interpretazione di una norma non può determinare la caduta del giudicato, pena la tenuta del sistema. Ed invero, il principio di eguaglianza impone di trattare in modo uguale situazioni uguali, ma non può dirsi omogeneo la posizione di chi abbia agito allorquando, vigente il divieto penale, quel fatto costituiva reato, rispetto alla posizione di chi abbia agito allorquando quel divieto sia venuto meno. Ne deriva l’esigenza di porre dei limiti all’applicazione retroattiva della norma favorevole. Tali limiti sono quelli individuati all’art 2 c.p., da interpretarsi alla luce dell’art 3 Cost., e delle esigenze inderogabili del sistema.
    La Corte nega, peraltro, che con pronuncia Scoppola la Corte edu abbia intesi affermare in ogni caso la primazia del principio in commento rispetto alla forza del giudicato. Si tratterebbe, precisa la Consulta, di un risvolto dell’art 7 incompatibile con la tenuta del sistema penale.
    Ciò posto, giova, da ultimo precisare come, sebbene in altra contesto, la Cedu abbia comunque impattato sul principio di intangibilità del giudicato penale.
    Si vuol fare riferimento alla recente pronuncia additiva nr. 113 del 2011. con cui la Consulta ha incluso nell’art 630 c.p.p., quale ulteriore caso di revisione delle sentenze coperte da giudicato, l’ipotesi in cui la revisione si renda necessaria per dare seguito ad una pronuncia della Corte di Strasburgo che abbia ritenuto violati i principi sanciti nella Convenzione nel corro dell’iter processuale.
    Si tratta di un arresto del tutto rilevante nel percorso teso a garantire l’effettiva applicazione della Cedu, secondo quanto stabilito nell’art 46 della stessa, in quanto fornisce un nuovo strumento , idoneo ad implementare l’impatto della Convenzione sul diritto penale italiano, strumento che, ver vero, sarebbe stato compito del legislatore introdurre.
    Da quanto sin ora esposto è possibile tracciare le seguenti conclusioni: l’art 7 Cedu, nell’interpretazione fatta propria dalla Corte di Strasburgo, impatta sul diritto penale anzitutto condizionando l’interpretazione delle norme interne che il giudice deve leggere in chiave convenzionalmente orientare; ove ciò non sia possibile, il giudice dovrà rimettere la questione alla Consulta, per assunta violazione dell’art 117 Cost., per il tramite della norma convenzionale.
    Da ultimo, laddove la Corte di Strasburgo accerti la violazione dei principi Cedu, per come dalla stessa interpretati, nel procedimento penale, occorrerà dare luogo revisione del processo, al fine di garantire il rispetto dei principi del giusto processo.

    Centra la traccia, elaborato completo, lineare e con passaggi logici chiari – bella la struttura parallela su cui si regge; forma corretta e approfondimento adeguato alle esigenze espositive dell’elaborato. 12 ½
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    diritto civile
    La rilevanza dei comportamenti nel diritto civile


    Per tradizionale insegnamento, gli atti giuridici, ossia gli atti umani consapevoli e volontari, si distinguono in atti leciti, perché conformi alle prescrizioni dell’ordinamento giuridico, e atti illeciti, in quanto posti in essere in violazione di doveri giuridici.
    Gli atti leciti, a loro volta, sono distinti in dichiarazioni e comportamenti.
    Con le prime, si comunica all’esterno il proprio pensiero, il proprio stato d’animo o la propria volontà, con i secondi si realizza un contegno oggettivamente orientato verso una determinata direzione.
    Opportunamente, però, si osserva che tale distinzione non è così netta, o per meglio dire, non coincide con quella sussistente fra parole e fatti, dato che possono esistere dichiarazioni che si esprimono rebus e comportamenti che si manifestano verbis.
    Di talché, la prospettiva più adeguata non è rappresentata da una rigida catalogazione concettuale delle due figure ma bensì dall’analisi delle modalità concrete, da valutare caso per caso, di manifestazione all’esterno della volontà soggettiva potenzialmente idonea alla produzione di effetti giuridici.
    E’ più pertinente, allora, distinguere fra dichiarazione espressa, ovverosia resa con qualsiasi mezzo idoneo a far palese a terzi il proprio pensiero e le proprie intenzioni in modo diretto, e manifestazione tacita consistente in un comportamento che, secondo il comune modo di pensare e di agire, risulti incompatibile con una volontà contraria.
    Quest’ultima modalità racchiude il c.d. comportamento concludente il quale può, comunque, coincidere anche con una dichiarazione ove sia desumibile criticamente una volontà diversa ed ulteriore rispetto a quella immediatamente rappresentata.
    In linea di massima, il legislatore non si accontenta della manifestazione indiretta della volontà ma richiede, il più della volte, l’esternazione espressa della dichiarazione anche al solo fine di evitare ogni incertezza al riguardo.
    Non sono, tuttavia, infrequenti le ipotesi in cui il diritto civile attribuisce rilevanza ai comportamenti, quali atti materiali idonei a determinare modificazioni del mondo esterno, tenendo presente, però, che sulla specifica individuazione di tali fattispecie non vi è concordia né in dottrina né in giurisprudenza.
    Taluni, ad esempio, ne rinvengono un’ipotesi nella previsione contenuta nell’art. 1237 c.c. a mente della quale la restituzione volontaria del titolo originale del credito operata dal creditore al debitore implicherebbe la dichiarazione tacita di remissione del debito.
    Si obietta, tuttavia, che tale disposizione sembra operare più sul piano probatorio che su quello sostanziale – non a caso, il legislatore utilizza l’espressione “la restituzione volontaria del titolo … costituisce prova della liberazione”- impostazione quest’ultima che pare preferibile alla luce delle interpretazioni giurisprudenziali secondo cui il possesso da parte del debitore del titolo originale del credito costituisce fonte di una presunzione legale iuris tantum di estinzione dell’obbligazione superabile con la prova contraria di cui è onerato il creditore che voglia dimostrare che il possesso del titolo è dovuto ad altra causa.
    Senza dubbio, invece, la fattispecie descritta dall’art. 476 c.c. dà rilevanza ad un comportamento concludente, quello del chiamato all’eredità il quale compie un atto che presuppone la sua volontà di accettare l’eredità e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede.
    Così, a titolo esemplificativo, costituiscono accettazione tacita un pagamento transattivo del debito del de cuius, non potendosi transigere un debito ereditario se non da colui che agisce quale erede, oppure il pagamento del debito con danaro prelevato dall’asse o ancora la proposizione di domande giudiziali che presuppongono l’accettazione dell’eredità.
    Si pensi inoltre alla disposizione contenuta nell’art. 2937, comma 3, c.c. a tenore della quale “la rinunzia alla prescrizione può risultare da un fatto incompatibile con la volontà di valersi della prescrizione” : così, se essendo caduto in prescrizione un debito, il debitore chiede una dilazione del pagamento, rinuncia tacitamente alla prescrizione.
    Un altro ambito nel quale la categoria in esame acquisisce rilevanza è rappresentato da quello negoziale sia con riferimento alla disciplina di carattere generale sia in relazione alla normativa delle singole figure contrattuali.
    Una previsione normativa – estremamente controversa – è quella contenuta nell’art. 1327 c.c. secondo la quale se, su richiesta del proponente o in ragione della natura dell’affare o in virtù degli usi, la prestazione dedotta in contratto debba essere eseguita senza una preventiva risposta, il contratto sarà concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione.
    Si è in presenza certamente di una disposizione di deroga rispetto a quella di cui all’art. 1326 c.c. regolatrice delle ordinarie modalità di perfezionamento dell’accordo contrattuale, legate al rapporto fra proposta e accettazione.
    Senza volere entrare nell’annoso dibattito dottrinario circa la natura giuridica della conclusione del contratto mediante l’inizio di esecuzione, si può solo accennare a quella corrente di pensiero che ravvisa nel caso de quo un’ipotesi di accettazione della proposta contrattuale per comportamento concludente ammettendosi, peraltro, che alla tutela della volontà dell’esecutore presiedono le regole generali.
    Ci si chiede inoltre se, con riferimento a tale ipotesi e ad ipotesi consimili, possa trovare applicazione la c.d. protestatio che ricorre allorquando l’agente, consapevole di tenere un certo comportamento di per sé oggettivamente concludente, manifesti una volontà contraria così da paralizzare gli effetti giuridici della valenza riconosciuta al suo contegno.
    La risposta è generalmente affermativa (soprattutto in ambito negoziale) a condizione che la protestatio sia inequivoca e precedente o contestuale al comportamento e non mai successiva, non potendosi ammettere l’esercizio di una sorta di jus poenitendi quando gli effetti giuridici riconducibili alla concludenza si siano già prodotti.
    Sicché, se si consegna la res indicata nella proposta di acquisto facendo però presente che essa è data in visione, non possono prodursi gli effetti perfezionativi di cui all’art. 1327 c.c.
    Si ritiene altresì che l’ipotesi descritta dall’art. 1444, comma 2, c.c. integri una fattispecie in cui il legislatore attribuisca rilevanza ad un comportamento attuativo.
    Com’è noto, infatti, il primo comma della norma in esame consente la convalida espressa del contratto annullabile, mentre il secondo comma attribuisce al contraente legittimato ad esperire l’azione di annullamento la facoltà di convalidare tacitamente il contratto, dandovi volontaria esecuzione sempreché questi fosse a conoscenza del motivo di annullabilità.
    Si pensi all’accettazione dell’altrui prestazione contrattuale e, più in generale, al compimento di un negozio incompatibile con l’intenzione di esercitare l’azione di annullamento.
    Un altro settore nel quale assumono importanza i comportamenti è rappresentato dai c.d. “contratti di fatto” fra cui spiccano i rapporti derivanti da un contatto sociale qualificato (come quelli fra insegnante ed allievo, fra chirurgo e paziente …)
    In tali casi, se viene eseguita una prestazione in favore di un soggetto senza che via sia stata una preventiva proposta si è in presenza di un’ipotesi diversa da quella contemplata dall’art. 1327 c.c. ancorché sussista un comportamento esecutivo che si sostituisce ad una dichiarazione.
    A ben vedere, però, - si obietta - la misura dell’esecuzione non è fissata da una preventiva proposta, cosicché taluno ha perplessità a ravvisare persino la mera esistenza di qualsivoglia accordo negoziale.
    Talora il comportamento assume rilevanza nella sua veste omissiva o anche nella mancata osservanza di un onere di reazione a cui la legge ricollega il prodursi di una decadenza.
    Si vede a titolo di esempio il disposto di cui all’art. 481 c.c. che prevede che il decorso del termine fissato per l’accettazione dell’eredità senza che il chiamato abbia dichiarato la propria volontà comporta la perdita del diritto di accettare l’eredità ed ancora il disposto di cui all’art. 1333, comma 2, relativo alla conclusione del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente in mancanza di un rifiuto espresso della proposta da parte del destinatario.
    La lunga carrellata (tutt’altro che esaustiva) delle ipotesi in cui il diritto civile attribuisce effetti giuridici al mero comportamento umano non può esaurirsi senza alcun accenno all’istituto della negotiorum gestio ed alle conseguenze di carattere obbligatorio (in primis l’obbligo di continuare e condurre a termine la gestione) che ne derivano in capo al gestore ed al complesso degli atti reali o operazioni (l’impossessamento di una res, la coltivazione di un fondo, la recinzione di un’area, la raccolta dei frutti e così via) che acquisiscono rilevanza diretta ed immediata in seno ai diritti reali ed ad agli istituto ad essi ricollegate, come il possesso e l’usucapione.
    In ultima analisi, occorre domandarsi se possano avere applicazione le norme generali che danno rilievo all’elemento soggettivo dell’agire con riferimento ai comportamenti (in specie ove essi confluiscano e si confondano con vere e proprie dichiarazioni tacite)
    Se, quindi, il comportamento assume la veste di manifestazione tacita di volontà non può sfuggire l’opportunità di valutare l’ammissibilità dell’errore sul contegno, ove, a fronte di un atto esteriore e volontario, non corrisponda da parte dell’agente l’intento che, secondo il contesto sociale (prima ancora che secondo il quadro normativo), si riconduce a quella data condotta.
    La dottrina è incline ad escludere tale ammissibilità in quanto il comportamento è in sé voluto e, quindi impegnativo di fronte ai terzi, salvo comunque il diritto dell’agente di fare valere la totale assenza di volontà (di certo non agevole sul piano probatorio).
    Mentre diversa è la soluzione alla quale si perviene quando l’agente tiene volontariamente un determinato comportamento ma non vi riconnette alcun ulteriore significato concludente per mera ignoranza.
    Vi è unanimità di vedute, infatti, tutte le volte in cui la norma medesima impone la conoscenza dei presupposti di fatto dell’azione ai fini dell’efficacia giuridica della condotta.
    Valga per tutte l’ipotesi di cui al già citato art. 1444 c.c., comma 2, il quale esplicita che la volontaria esecuzione del contratto annullabile ne comporta convalida, solo se il contraente era a conoscenza del motivo di annullabilità.
    Detto altrimenti, l’ignoranza del fatto presupposto impedisce al comportamento, benché oggettivamente concludente, di sortire i propri effetti.
    Diversamente, se l’agente dichiara che il comportamento che sta per tenere non vuole avere quel dato significato, si verte in tema di protestatio (della quale si è già discusso): così l’esecutore del contratto annullabile dichiara che l’esecuzione che egli sta per intraprendere non vale come convalida ai sensi dell’art. 1444, comma 2.
    Se invece la norma non prevede espressamente la conoscenza dei detti presupposti, è preferibile la tesi secondo cui occorre scandagliare il significato della disposizione normativa.
    Sicché se tale conoscenza è implicitamente richiesta dal contesto normativo, la soluzione da adottare sarà la medesima che sì è riportata dianzi, mentre in caso contrario sembra valere il fatto oggettivo in sé della condotta tenuta, a nulla rilevando l’indagine sui presupposti psicologici dell’azione con conseguente vincolatività del comportamento e degli effetti che esso produce.


    Giudizio14++
    Tema più che sufficiente, ottima la modalità di trattazione, sarebbe stato opportuno anche una trattazione sul silenzio come species del comportamento tacito e del suo ruolo nell’ambito contrattuale.
     
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40 replies since 3/6/2013, 21:32   2106 views
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