giurisprudenza sui concorsi

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    Giustizia ed incarichi dirigenziali. La sentenza della Corte Costituzionale n. 218/2002
    di Pietro Alessio Palumbo

    Sommario.

    Il fatto.

    Le deduzioni del giudice a quo.

    La difesa erariale e le parti.

    Il diritto. Le motivazioni della Suprema Corte.

    Ratio e Leitmotiv della Sentenza.







    Il fatto.


    Con ordinanza del 24 aprile 2001, il Tribunale di Siena ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art.12, comma 1, della Legge 11 maggio 1999 n°140, in riferimento all'art.97, 1° e 3° comma, della Carta Costituzionale.

    Due dipendenti della Camera di Commercio di Siena hanno chiesto di essere inquadrati nella qualifica dirigenziale ex art.12, comma 1, della citata legge, la quale prevede espressamente che il personale delle Camere di Commercio già in servizio alla data di entrata in vigore del D.L. n°547/1994 come convertito con modificazioni dalla L. n°644/1994, e che al 12 luglio del 1982 rivestiva la qualifica di capo servizio conseguita nel rispetto dell'ordinamento del personale camerale vigente alla citata data, 'può' essere inquadrato nella qualifica immediatamente superiore.

    La Camera di Commercio, non ha accolto la domanda degli istanti (due) contestando per un verso che l'organico prevede un solo posto di dirigente e per altro verso che la norma dedotta non attribuisce un 'diritto' a tale inquadramento superiore.





    Le deduzioni del giudice a quo.


    Secondo il giudice a quo la norma attribuirebbe ai capi servizi una legittima aspettativa tutelabile all'inquadramento nella qualifica dirigenziale, che non potrebbe essere negata dalla Camera di Commercio neppure per mancanza di posti nella pianta organica, bensì soltanto con riferimento a determinate circostanze 'negative' concernenti la persona ed il 'curriculum' degli aspiranti.

    La disposizione impugnata disporrebbe, in linea generale, l'inquadramento a semplice domanda, dei capi servizio nella qualifica superiore, prescindendo da procedure concorsuali e comunque indipendentemente dall'esistenza di una vacanza in pianta organica. In sostanza, la norma impugnata derogherebbe all'art.28, comma 1, del D.Lgs. n°29/1993, ai sensi del quale l'accesso alla qualifica di dirigente di ruolo nelle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo nonché negli enti pubblici non economici, avviene esclusivamente a seguito di concorso per esami. Ergo, l'unica funzione dirigenziale prevista dovrebbe essere assegnata sulla base di una scelta meritocratica discrezionale. I ricorrenti sarebbero titolari di una legittima aspettativa tutelabile all'inquadramento nella qualifica dirigenziale, costituendo l'ampliamento delle qualifiche dirigenziali ex L. n°140/1999, come tale, atto dovuto. Su quest'onda si assisterebbe ad un indiscriminato passaggio alla qualifica dirigenziale senza selezione, in violazione dei principi costituzionali di cui all'art.97, 1° e 3° comma, della Costituzione.





    La difesa erariale e le parti.


    La difesa erariale, contra, specifica che è possibile dare alla norma impugnata un'interpretazione conforme al principio costituzionale che si ritiene leso. Secondo la stessa, il verbo 'può' dimostrerebbe che il Legislatore ha fatto salvo il potere autorganizzativo delle Camere di Commercio, le quali non sarebbero obbligate né ad attuare promozioni 'generalizzate', né ad ampliare la pianta organica. Ad avviso della difesa erariale, la norma si limiterebbe ad attribuire alle Camere di Commercio la facoltà di non applicare le procedure ordinarie per la nomina dei dirigenti e non prevederebbe un avanzamento automatico alla qualifica dirigenziale, ma sarebbe giustificata dall'esigenza di permettere che gli incarichi dirigenziali siano attribuiti a dipendenti che per esperienza acquisita e professionalità, appaiono in grado di assicurare funzionalità ed efficienza del servizio al quale sono preposti.

    Secondo le parti, la disposizione impugnata si sarebbe limitata a riconoscere ai capi servizio la qualifica che loro avrebbe dovuto essere attribuita sulla base di una corretta equiparazione con i dipendenti dello Stato. Nel passaggio dal sistema per carriere a quello per qualifiche funzionali, i dipendenti delle Camere di Commercio, in prima istanza, sono stati inquadrati con il decreto interministeriale del 12 luglio 1982, secondo il nuovo criterio. L'inquadramento definitivo, attuato dall'art.3 del D.L. n°547/1994 (convertito con L. n°644/1994), sulla base delle corrispondenze stabilite per gli impiegati civili dello Stato, a causa della mancata previsione della qualifica di direttore di divisione, alla quale era equiparata quella di capo servizio, avrebbe fatto si che chi rivestiva quest'ultima qualifica fosse inquadrato nell'ottavo livello, analogamente ai capi reparto, che svolgevano mansioni di livello inferiore. La norma impugnata non prevederebbe, quindi, un avanzamento senza concorso, ma realizzerebbe la giusta equiparazione che non era stata attuata in precedenza.






    Il diritto. Le motivazioni della Suprema Corte.


    La Corte Costituzionale ritiene fondata la questione di incostituzionalità sollevata dal Tribunale. L'interpretazione delle complesse vicende normative che hanno caratterizzato il passaggio dei dipendenti delle Camere di Commercio (con particolare riguardo a coloro che rivestivano la qualifica di capo servizio) dall'ordinamento per carriere all'ordinamento per qualifiche funzionali e profili professionali ha costituito oggetto di un consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa. Per questa via, sono stati ripetutamente esplicitati i motivi che in relazione sia alle prescrizioni dell'inquadramento definitivo attuato dall'art.3, comma 8, del D.L. n°547/1994 come convertito nella L. n°644/1994, sia al criterio delle mansioni svolte, hanno giustificato l'inquadramento dei capi servizio delle Camere di Commercio nella ottava qualifica funzionale e non in una qualifica superiore (VIII bis, riservata ai vicesegretari) o nella qualifica IX non riferibile al personale delle Camere di Commercio.

    Secondo il medesimo indirizzo giurisprudenziale, soltanto una disposizione specifica come quella censurata ha potuto prevedere, come sostiene il giudice a quo, il reinquadramento automatico (e generalizzato) dei capi servizio in una qualifica superiore alla VIII, quella dirigenziale. La Corte ravvisa che nell'accesso a funzioni più elevate, ossia nel passaggio ad una fascia funzionale superiore, nella cornice di un rinnovato sistema che non prevede carriere o le prevede entro ristretti limiti, deve venire in essere una forma 'razionale' di reclutamento. Tale reclutamento deve essere soggetto alla regola del concorso pubblico, il quale, in quanto meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci è il metodo migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità, costituendo ineludibile momento di controllo, funzionale al miglior rendimento della Pubblica Amministrazione.

    Per questi motivi la Corte ravvisa l'illegittimità costituzionale della norma impugnata giacché in contrasto con l'art.97 della Costituzione ed in quanto deroga ingiustificatamente alla regola del concorso pubblico, non essendo prevista alcuna verifica del possesso dei requisiti richiesti per l'accesso alla qualifica superiore.





    Ratio e Leitmotiv della Sentenza.


    Conformandosi al proprio orientamento giurisprudenziale enunciato nelle sent. n°314/1994, n°1/1996, n°320/1997 e da ultimo nella pronuncia n°194/2002, la Corte rimarca in maniera decisa un elemento precipuo del rapporto di lavoro privato che lo distingue nettamente da quello pubblico: la progressione di carriera su volontà del datore di lavoro ovvero su domanda del prestatore di lavoro.

    La Corte evidenzia a chiare lettere la necessarietà di strumenti di selezione. La progressione in carriera è possibile, ma limitatamente. Si parla a tal riguardo delle c.d. progressioni orizzontali quale segnale della professionalità acquisita nell'esercizio delle proprie funzioni. Per altro verso, la difesa erariale sembra superare l'enunciato di cui all'art.97 della Costituzione sulla base dei rivalutati principi decentralistici di cui la potestà regolamentare è vessillo principe e di cui l'autonomia di organizzazione (con particolare riguardo agli uffici ed ai servizi) è figlia primigenia. Di contro, lo stesso art.97 della Costituzione dispone riserva (relativa) di legge riguardo all'organizzazione dei pubblici uffici, per cui è illegittima qualsivoglia forma di deroga regolamentare non prevista per legge e comunque non contraria a princìpi e disposizioni costituzionali. Sotto altra luce, la stessa giovane spinta decentralista è parallela ad altro filone legislativo che a seguito del cambio da un sistema per qualifiche ad uno per categorie, ispira il passaggio di categoria non alla mera rivalutazione economica e professionale delle funzioni già svolte, ma all'esercizio di attività novelle, per le quali deve essere dimostrata (a mezzo di selezione) l'attitudine. Secondo parte della dottrina, lo stesso istituto della progressione verticale assurgerebbe ad estensione al pubblico impiego del c.d. inquadramento unico tipico del rapporto di lavoro del dipendente privato, con annesso accesso a tutte le qualifiche di carriera. Da ciò, il concorso pubblico rappresenterebbe il sistema di selezione migliore per garantire efficienza, efficacia e trasparenza dell'agere amministrativo. L'esperienza acquisita quale elemento per la progressione di carriera non può assurgere a valore esclusivo a garanzia del possesso dei requisiti attitudinali allo svolgimento di attività e funzioni superiori e come visto diverse da quelle già svolte. Di più, ad opinione di autorevole dottrina, il concorso pubblico sarebbe volto alla constatazione delle potenzialità, non alla valutazione di quanto e come prestato il proprio lavoro in passato. La stessa disciplina delle mansioni superiori è espressa, eccezionale, deroga al disposto di cui all'art.2103 C.C.

    Su quest'onda, potrebbe persino ravvisarsi un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale dell'art.12, comma 1, della L. n°140/1999, questa volta per violazione dell'art.3 della Carta Costituzionale, in relazione alla difformità di regime giuridico per l'accesso ai profili professionali rispetto alle altre amministrazioni dello Stato. L'art.51 della Costituzione prescrive inoltre, che tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici, per cui in un ordinamento democratico il quale affida all'azione dell'amministrazione, separata da quella politica, il perseguimento delle finalità pubbliche, il concorso, strumento di selezione tecnica e neutrale dei più capaci, è il metodo migliore per la provvista di funzionari chiamati all'esercizio delle proprie funzioni al servizio esclusivo della nazione ex art.98 della Costituzione (ex plurimis, Corte Costituzionale: sent. n°333/1993 e sent. n°453/1990). Deroghe alla regola del concorso, da parte del solo Legislatore, sono ammissibili nei limiti delle esigenze di garantire il buon andamento dell'amministrazione (Corte Costituzionale: sent. n°477/1995) o di attuare altri princìpi di portata costituzionale. Per questa via, il passaggio diretto alla funzione dirigenziale costituisce una distorsione alla stessa privatizzazione dell'impiego pubblico che vuole garantire imparzialità ed efficienza usufruendo di strumenti di gestione che consentono di assicurare lo 'output' della prestazione nei termini che nelle teorizzazioni di Scienza dell'Amministrazione assurgono il nome di produttività e flessibilità (Corte Costituzionale: sent. n°309/1997). La 'razionalizzazione' amministrativa deve linkare assunzioni, progressioni nelle qualifiche, assetto delle piante organiche, verifica dei carichi di lavoro (Corte Costituzionale: sent. n°479/1995, sent. n°406/1995, sent. n°528/1995). L'art.12, comma 1, della L. n°140/1999 contraddice in maniera assoluta tali princìpi, determinando una sorta di globale e generalizzato 'scivolamento' verso l'alto delle posizioni funzionali dei prestatori di lavoro. E' questa chiara deviazione dalle fonti ispiratrici della nuova organizzazione della Pubblica Amministrazione. Ergo, è evidente l'incongruità della norma, la cui portata è quella di assicurare agli interessati, l'acquisizione della qualifica superiore a quella posseduta, con un automatismo che oltre a contrastare con l'art.97 della Costituzione nonché con l'art.3 della Costituzione, contrasta con i principi generali del pubblico impiego, per i quali anche lo svolgimento temporaneo delle mansioni superiori da diritto soltanto al trattamento economico corrispondente all'attività poste in essere per il periodo di espletamento delle medesime. Si badi però che la Corte non è Crociata del concorso pubblico, avendo la stessa considerato, in più riprese, legittime alcune deroghe legislativamente disposte per singoli casi e secondo criteri appartenenti alla discrezionalità del Legislatore (Corte Costituzionale: sent. n°81/1983). Tali deroghe sono applicabili anche al passaggio a funzioni superiori (per tutte, Corte Costituzionale: sent. n°313/1994, sent. n°487/1991 e sent. n°161/1990). A giudizio della Corte, quindi, non sono escluse forme diverse di reclutamento e di copertura dei posti, purché rispondano a criteri di ragionevolezza (presenza di peculiari situazioni giustificatrici senza automatismi: sent. n°314/1994; valutazione delle mansioni concretamente svolte in precedenza: sent. n°134/1995) e siano comunque in armonia con le disposizioni costituzionali e tali da non contraddire i princìpi di buon andamento e di imparzialità dell'azione amministrativa. Tali ultimi due princìpi costituiscono la base della previsione concorsual-selettiva. Nella specie in analisi mancano proprio le garanzie minime di obiettività e di buon andamento assicurate attraverso il ricorso a procedure congrue e ragionevoli, basate su elementi attitudinali (su tutte, Corte Costituzionale: sent. n°487/1991). D'altra parte il fatto che l'art.97 della Costituzione faccia salvi i casi stabiliti dalle leggi vigenti, non può che riferirsi alle disposizioni di favore stabilite per particolari categorie c.d. protette. Sarebbe, inoltre, evidente la 'arbitrarietà' del disposto di cui all'art.12, comma 1, della L. n°140/1999, non tanto perché volta a sovvertire un indirizzo ermeneutico, peraltro coerente con i principi costituzionali, ma soprattutto perché fondata su un valore giuridico negativo: far lucrare alcuni dipendenti, piuttosto che loro colleghi ovvero altri cittadini, sull'ingiusto vantaggio di un inquadramento superiore a quello dagli stessi ottenibile in base alla preparazione culturale dimostrabile con una selezione per esami. Pertanto, se da un lato, dagli atti parlamentari risulta l'intento di realizzare una forma di 'giustizia sostanziale' e di mancato aggravio degli oneri finanziari connessi all'assunzione di ulteriore personale, per di più in qualifiche elevate, quindi costose, si configura la legittimazione legislativa di un arbitrio spesso in atto, realizzando una forma di 'diseducazione civile' (Corte Costituzionale: sent. n°16/1992), violando l'essenza stessa dello Stato di diritto: l'eguaglianza dei cittadini. La norma si presenta in tal modo come negazione, non solo del buon andamento, ma anche di una razionale e coerente attività della Pubblica Amministrazione

     
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